Osserviamo questa immagine. Di solito è
legata al capitolo terzo. Nel secondo Saint Exupery ci racconta
dell'aereo guasto e di lui che tenta di ripararlo. Sappiamo che il
fatto è accaduto “sei anni fa” quindi, tenendo conto che la
favola fu pubblicata, nel 1943, si può ipotizzare che nel 1937 o
poco prima, in pieno deserto, egli abbia “incontrato” il Piccolo
Principe.
Torniamo ora all'immagine. Essa non
corrisponde al terzo capitolo e nemmeno al secondo. Qui abbiamo un
paesaggio ben diverso dal deserto. Sembrerebbe, così, ad un primo
impatto, una alta scogliera con sotto il mare, ma a osservare meglio,
di mare non si tratta.
Nel volume “Terra degli Uomini”
troviamo la risposta e penso di non poter fare di meglio che
riportare il brano per intero.
1) “Di tratto in tratto, lungo la
costa del Sahara, tra Cap Juby e Cisneros, si sorvolano altipiani di
forma tronco-conica, d'una larghezza che varia da poche centinaia di
passi a una trentina di chilometri. L'altezza, notevolmente uniforme,
è di trecento metri. Ma oltre a questa parità di livello, essi
presentano le stesse colorazioni, la stessa grana del suolo, la
stessa sagomatura del dirupo. Come le colonne di un tempio rimaste
sole in piedi e affioranti sulle sabbie, mostrano ancora le vestigia
dell'intavolato crollato, così quei pilastri solitari sono la
testimonianza d'un vasto altipiano che un tempo li univa.
Durante i primi anni della linea
Casablanca Dakar, in un'epoca in cui il materiale era fragile, i
guasti, le ricerche, i salvataggi, ci costrinsero spesso ad atterrare
in territorio ribelle. Ora, la sabbia inganna: si crede sia solida, e
si affonda. Dal canto loro, le saline abbandonate, che sembrano
provviste d'una rigidità d'asfalto e che danno un suono duro sotto
il tacco, talvolta cedono sotto il peso delle ruote, e allora la
bianca crosta di sale si squarcia sul fetore di una palude nera.
Perciò, quando le circostanze lo consentivano, noi sceglievamo le
superfici lisce di quei pianori: non nascondevano mai insidie.
Questa garanzia derivava dalla presenza
di una rena resistente, dai granelli di sabbia pesanti. Era un cumulo
enorme di conchiglie minuscole. Ancora intatte alla superficie del
pianoro, a mano a mano che si scendeva lungo un canalone si scopriva
che esse si sminuzzavano ed agglomeravano sempre più. Nel deposito
più antico, alla base del massiccio, costituivano già un puro
calcare.
Ora, al tempo in cui Reine e Serre,
compagni catturati dai ribelli erano prigionieri, accadde che, avendo
atterrato sopra uno di quei campi di fortuna per scaricare un
messaggero mauro, cercai insieme con lui, prima di lasciarlo, se
c'era una via dalla quale potesse scendere. Ma la nostra terrazza, in
tutte le direzioni, finiva in un dirupo che cadeva verticale
nell'abisso, con pieghe da panneggio. Non vi era evasione possibile.
Tuttavia, prima di decollare per andare
a cercare altrove un altro campo, indugiai qui. Provavo un piacere
forse puerile per il fatto di lasciare l'orma dei miei passi su un
suolo che ancora nessuno, ne animale ne uomo, aveva contaminato.
Nessun mauro avrebbe potuto lanciarsi all'assalto di quella
roccaforte. Nessun europeo aveva mai esplorato quel territorio.
Misuravo col passo una sabbia infinitamente vergine. Ero il primo a
far scorrere da una mano all'altra, come oro prezioso, quella polvere
di conchiglie. Il primo a turbare quel silenzio. Su quella specie di
banchisa polare che, da un tempo immemorabile, non aveva formato un
sol filo d'erba, ero io, come un seme portato dal vento, la prima
testimonianza della vita.
Splendeva già una stella e la
contemplai. Riflettei che quella superficie bianca era rimasta
esposta solo agli astri da centinaia di migliaia di anni. Una
tovaglia immacolata stesa sotto un cielo puro. E provai un tuffo al
cuore, come alle soglie di una rivelazione, nello scoprire su quella
tovaglia, a quindici o venti metri da me, un ciottolo nero.
Io avevo sotto i piedi uno spessore di
trecento metri di conchiglie. Lo strato enorme negava tutto intero,
come una prova perentoria, la possibilità della presenza di una
pietra. Forse nelle profondità sotterranee dormivano delle selci,
nate dalle lente digestioni del globo; ma qual miracolo avrebbe
potuto farne una fino a quella superficie troppo nuova? Col cuore che
batteva, raccolsi dunque la mia scoperta: un ciottolo duro, nero,
grosso come un pugno, pesante come metallo e colato a forma di
lacrima.
Una tovaglia stesa sotto un melo non
può ricevere che mele, una tovaglia stesa sotto le stelle, non può
ricevere che polvere di stelle: mai un meteorite aveva indicato con
altrettanta evidenza la propria origine.
Fu del tutto naturale che, nell'alzare
la testa, io pensassi che altri frutti dovevano essere caduti,
dall'alto del melo celeste. Li avrei trovati nel punto stesso della
loro caduta, poiché, da centinaia di migliaia di anni, niente aveva
potuto spostarli, e non si confondevano affatto con altri materiali.
Partii subito in esplorazione, per
cercare conferma alla mia ipotesi.
Fu confermata. Feci collezione delle
mie scoperte, al ritmo di circa una pietra per ettaro. Sempre
quell'aspetto di lava intrisa, sempre quella durezza di diamante
nero. …....
…. Veramente meraviglioso era il
fatto che la, in piedi sulla schiena rotonda del pianeta, tra quel
lenzuolo calamitato e quelle stelle, ci fosse una coscienza d'uomo,
in cui tale pioggia potesse rispecchiarsi. Su uno strato di minerali
un sogno è un miracolo. E ricordo un sogno...”
Penso che non ci sia niente da dire. Il
luogo è quello. L'altipiano, tre meteoriti più scuri e … un
quarto “meteorite”, questa volta vivente, venuto da quel medesimo
cielo. Il Piccolo Principe è puro, ci dice il serpente, e la purezza
consiste nel fatto che è approdato secondo la fantasia originaria
dell'autore, su quell'altipiano. È, come i meteoriti, incontaminato,
nel senso che è puro nel confronto della terrestrità.
L'altipiano riappare nel disegno che
appartiene al capitolo XXIV. In questo caso siamo certi della
collocazione perché, come potete vedere qui sotto, c'è il pozzo che
appartiene al brano.
Penso si possa affermare che in due
momenti Saint Exupery abbia allentato il controllo razionale su
quanto stava trascrivendo dalla sua immaginazione. A differenza dei
sogni, che non sentono la necessità di essere coerenti, per esempio
nel passaggio da una scena all'altra, la scrittura presuppone un
intervento che non si limita appunto a trascrivere, ma mette anche
ordine, nel senso che tenta di rendere tutto coerente.
Facciamo due esempi semplici. Se
improvvisamente i Piccoli Principi diventassero due con l'unica
differenza che uno è vestito di chiaro e l'altro di scuro,
apparizione non spiegata, ma improvvisa e accettata come normale, noi
lettori non esiteremmo a percepire una incoerenza che porta a un
senso di fastidio. Nel sogno, se accade lo si accetta.
Se il Piccolo Principe improvvisamente,
camminasse in una metropoli, quando nella scena precedente, lo si è
visto nel deserto, di nuovo si avrebbe un senso di fastidio dovuto
alla mancanza di gradualità del salto avvenuto.
Ebbene, in due punti, la discrepanza
fra il narrato e il disegnato, può permettere di dedurre che i due
disegni rappresentano una prova diciamo archeologica della situazione
originaria che per forza di cose per la scrittura si è dovuto
elaborare. Saint Exupery era su quell'altipiano e quella sensazione
meravigliosa di essere il primo vivente che ci cammina, sommato agli
aeroliti di indubbia provenienza non terrestre, e ad un senso di
purezza notevole,hanno innescato questa celebre fantasia.
Si comprende anche che ha dovuto far
accadere l'incontro e il vissuto col Piccolo Principe, nel deserto,
diciamo al piano terra, in quel deserto che tutti conosciamo, poiché
dovrà incontrare la serpe, la volpe, il bigliettaio, il mercante che
vende pastiglie per la sete, un muro, il roseto eccetera.
Si noti come nel secondo disegno,
quello col pozzo, si abbia la sensazione che l'altipiano sia enorme,
oppure, come racconta Saint Exupery in “Terra degli uomini”, che
ve ne siano più dì uno. La descrizione corrisponde sempre al pezzo
sopra riportato e sempre, si noti, ci son pietre sull'altipiano.
Quando accadde il fatto? E dove?
Sappiamo che era “lungo la costa del Sahara tra Cap Juby e
Cisneros” e mi risulta che l'autore percorse quella tratta subito
dopo il 1926, ma non so per quanto tempo. “Terra degli uomini” fu
pubblicato nel del 1939 e la favola nel 1943. Si vede come il tempo
per rendere razionale quel sogno, non è mancato.
Come si spiega allora che
l'irrazionalità rimane evidente nell'immagine e l'autore non sente
la necessità di “correggere”?
Secondo me il motivo è legato ai
generi artistici. Lui ha immaginato quelle scene. Scriverle è un
passaggio successivo, più distante. Riprodurre un'immagine mentale
in immagine visibile è una cosa, riprodurre un'immagine in parole
un'altra, e la seconda per forza di cose è meno fedele
all'originale. Saint Exupery, non cercando il medesimo livello di
coerenza nelle figure dimostra di non essersene accorto? È
possibile. Lui parte dal sogno, noi dal testo sia scritto che
visibile. Per lui la somma di scritto e immagini si rapporta con una
realtà interna, per noi con qualcosa di esterno da scoprire. Le
immagini, ad una prima lettura non mostrano il diverso legame col
sogno, è rileggendo e rileggendo che si “sente” il salto e poi,
se si “inciampa” in qualche altro libro suo, si inizia a
“sentire” di più.
Veniamo ora al simbolo della forza. Se
ri pensiamo al “Sogno di Scipione” di Raffaello, presente nel
post precedente e alla fine di questo, ci rendiamo immediatamente
conto che il Piccolo Principe è la sensibilità, il lato destro del
quadro, e che la spada, che per l'oggi abbiamo immaginato come
pistola, si fa aereo. Una conferma di questa lettura la si può
trarre sempre da “Terra degli uomini”. Eccone qualche assaggio:
2) A proposito di un collega aviatore
giunto sano e salvo dopo un volo difficile e che se ne stava
placidamente seduto a mensa come se nulla fosse accaduto: “...
sotto la scorza ruvida s'intravvedeva l'angelo che ha sconfitto il
drago.”
3) Prima di partire in volo in un
giorno di pioggia: “Ero un guerriero in pericolo”
(non si pensi che questa frase contenga
un'esaltazione malata come quella che fa dire al tifoso che i suoi
calciatori sono degli eroi … si deve tener conto che all'epoca, per
esempio: “... col cattivo tempo, a bordo dei velivoli scoperti, ci
si sporgeva fuori del parabrezza per vedere meglio ...”
4) “...avrebbe affrontato tre ore
dopo, tra i lampi, il drago dell'Hospitalet, e che quattro ore dopo,
avendolo sconfitto, avrebbe deciso con completa libertà, investito
di pieni poteri, l'aggiramento dal mare o l'assalto diretto ai
massicci di Alcoy; colui che avrebbe negoziato da pari a pari con
l'uragano, la montagna, l'oceano.”
e ora un brano più lungo:
5) “Così Mermoz, sorvolando per la
prima volta l'Atlantico meridionale in idrovolante, affrontò, sul
calar del giorno,” la zona del barattolo della pece”. Vide,
dinnanzi a sé, le code dei cicloni chiudersi di minuto in minuto,
come quando si vede innalzare un muro, e poi la notte stendersi
stabilmente su quegli apprestamenti e celarli. Un'ora dopo,
insinuatosi sotto le nubi, egli sfociava in un regno fantastico.
Vi sorgevano trombe marine ammassate e
in apparenza immobili, come pilastri neri di un tempio. Rigonfie alle
due estremità, sostenevano la volta cupa e bassa dell'uragano; ma
lame di luce cadevano dagli squarci della volta e i raggi della luna
piena piovevano, tra i pilastri, sui lastroni freddi del mare.
Attraverso quei ruderi deserti, Mermoz seguì la rotta obliquando
dall'uno all'altro canale di luce, aggirando i pilastri giganteschi
in cui ruggiva indubbiamente il moto ascensionale del mare; per
quattro ore procedette, lungo le colate della luna, verso l'uscita
del tempio. Ed era uno spettacolo così sbalorditivo che Mermoz,
oltrepassato “il barattolo di pece” , si accorse di non aver
avuto paura.”
Fine del brano. Vi devo una
spiegazione: “il barattolo di pece” , nel linguaggio dei piloti
francesi, indicava “la zona delle bonacce equatoriali”.
Dopo questa spiegazione veniamo
all'analisi.
Siamo evidentemente alle soglie del
divino. Il tempio è composto dalle forze della natura che esprimono
qui tutta la loro potenza. Dal brano 4 scopriamo che il pilota è “in
piena libertà, investito di pieni poteri”. Questo vuol dire che i
contatti con le stazioni di terra non ci sono o sono inutili. Le
decisioni le prende il pilota, direi d'istinto.
L'affascinante potenza della natura è
lì e non basta certo, per giustificare quell'incontro, la posta
caricata in stiva e che deve arrivare a a Buenos Aires.
Domandiamocelo: perché il pilota
accetta quei rischi! Perché hanno il fascino del sublime, e il
sublime, da secoli si tenta di definirlo. In questo caso la vedo
così. Si fa parte della grandiosità. Si può anche soccombere,
morire, ma la partecipazione a quello spettacolo che anticipa il
divino, che lo prepara, l'ingresso in quel tempio di turbini, mare
arrabbiato, colate di luna, non porta alla paura, ma ad una sintonia
superiore immensa e irrinunciabile per chi almeno una volta l'ha
provata.
Leggiamo ora un brano che ci fa vedere
il perché della scelta fra una vita normale e quella ardita del
pilota:
(Il pilota, Saint Exupery in persona,
sta raggiungendo l'aeroporto ed è su un vecchio autobus in mezzo ad
altre persone).
6) “ Mi guardavo attorno: nell'ombra
brillavano punti luminosi, sigarette che punteggiavano pensieri. Gli
umili pensieri di passacarte invecchiati. A quanti di noi questi
compagni avevano fatto da ultimo corteo?
Coglievo anche certe confidenze
scambiate a bassa voce. Volgevano tutte su malattie, denaro, tristi
cure domestiche. Facevano vedere i muri dell'opaca prigione in cui
quegli uomini s'erano rinchiusi. E mi apparve d'improvviso il volto
del destino. Vecchio burocrate, compagno mio qui presente, nessuno ti
ha mai fatto evadere e non sei per niente responsabile. Ti sei
costruito la pace, a furia di accecare col cemento, come fanno le
termiti, tutti gli spiragli aperti alla luce. Ti sei raggomitolato
nella tua sicurezza borghese, nel giro delle tue occupazioni
abitudinarie, nei riti soffocanti della tua vita di provincia: contro
i venti, le maree e le stelle, hai innalzato questo umile bastione.
Non vuoi darti pensiero dei grandi problemi, hai già penato
abbastanza a scordare la tua condizione d'uomo. Non ti senti
abitatore d'un pianeta errante, non ti poni mai le domande senza
risposta: sei un piccolo borghese di Tolosa. Nessuno ti ha afferrato
per le spalle quando era ancora tempo. Adesso, la creta di cui sei
composto si è seccata, si è indurita, e nessuno potrebbe ormai
ridestare in te il musicista addormentato; o il poeta, l'astronomo
che forse c'era all'inizio.
Non mi lagno più delle raffiche di
pioggia. La magia del mestiere mi apre un mondo in cui, tra meno di
due ore, affronterò i draghi neri e i crinali incoronati da una
chioma di fulmini azzurri; un mondo in cui, a notte, liberato, io
leggo negli astri il mio cammino.”
Si noti poi che quello del pilota non è
eroismo. Del suo passaggio nel tempio della tempesta come dal brano
5, non rimane nulla nella storia degli uomini. Si tratta di una
immensa esperienza individuale. Ne è un esempio il brano 2 nel quale
i novellini chiedono com'è andato il volo al pilota maturo,
d'esperienza. Questo, seduto a mensa, prima non sente, perché è
“preso” dai suoi pensieri e poi risponde con una risata. E quella
è l'unica risposta possibile per quanto è incomunicabile e che
Saint Exupery ha cercato di rendere palpabile nel brano 5 e non solo.
La magia, il sublime, spesso non sono terribili, passibili di morte
se non in quello stadio che li introduce. Un altro esempio di sublime
consiste nell'uscire da una tempesta salendo oltre le nuvole;
equivale ad entrare in un mondo fiabesco con una tranquillità quasi
perfetta, sotto le nuvole d'argento e una luna magnifica che brilla.
E questa esperienza è descritta in “Volo di notte”.
Torniamo al simbolo della spada che
rappresenta la forza ne “Il sogno di Scipione” di Raffaello.
È evidente che quella forza non è la
medesima. Quella del quadro che si attua appunto con la spada, deve
realizzare un ordine civile, è rivolta verso una collettività da
“addomesticare”. La forza espressa dalla personalità di Saint
Exupery e dai suoi colleghi aviatori è invece profondamente
individuale, quasi primitiva, originaria e questa contrazione, questo
ritorno a sé, ha una sua ragione profonda. Si ricordi che gli dei in
origine rappresentavano le forze della natura. Thor, il dio nordico
che anticamente si chiamava Thunor, rappresentava il tuono. E il nome
stesso, di più quello antico, ne rappresenta anche il suono. Zeus
era la saetta, e in quella zeta e nel sibilo della esse finale ancora
un poco, se ci pensiamo bene, ne sentiamo il sibilo.
Ora è il caso di domandarsi perché in
quell'epoca, i primi del novecento, c'è stata gente che ha preferito
quell'incontro rischiosissimo col sublime, alla vita quotidiana …
il brano 6 ce lo spiega. Qualcuno aveva
già capito che il sistema di vita della società industriale,
rendeva minimo il ruolo del singolo. Saint Exupery ci fa anche
comprendere che la stragrande maggioranza era condannata a quella
vita mediocre perché mai aveva “assaggiato” quelle sensazioni
sublimi che oltre il resto, trovandosi oltre la paura, erano
difficili da trovare.
E ora ragioniamo sull'epoca, il
novecento .... Nel giro di poco una guerra mondiale, poi un periodo
che non fu pace con l'avvento di tante dittature nere e rosse, e il
crollo delle borse, e poi, un'altra guerra.
Quando Saint Exupery fa la sua prima
esperienza del sublime, ha appena dodici anni. Il primo volo.
Immaginate la paura del ragazzino che nel 1912, su un trabiccolo di
carta e legno si stacca dal suolo insieme ad un “eroe” del volo.
Prima la grande paura, la grande agitazione, e poi la fascinazione
della quale si avrà, da quel momento, una sete inesauribile. E poi
arriva la guerra che dissolve quel mondo. Cosa gli resta? Il ricordo
di infanzia e adolescenza e quel volo. A quello, l'unico ripetibile
dei due tesori, si aggrappa, per non essere risucchiato dalla
mediocrità. Avrà incidenti, sarà considerato inabile al volo, ma
non mirerà all'altro. Senza quel contatto col sublime non sa più
stare, e ogni volo, si badi bene, ne è in fondo solo la possibilità.
Molte volte sarà una cosa noiosa e piana che unisce due aeroporti e
in più la tecnologia che ha migliorato sempre di più i velivoli,
rende sempre più difficile che si crei quella situazione perfetta
nella quale, isolato dall'umanità, senza alcun contatto, è libero
di decidere la rotta per aggirare il tempio delle intemperie o il
drago in forma di montagna. I voli poi si innalzeranno di quota e il
drago non esisterà più, ma lui continuerà, fino alla fine, fin
quando l'aereo cadrà e di lui non si saprà più nulla.
Questa fuga dalla vita quotidiana
dell'epoca non deve sembrarci strana o malata. Aveva raggiunto
sensazioni potenti, era arrivato varie volte all'anticamera del
divino e non gli poteva bastare più la vita semplice, quella del
“passacarte”, del borghese.
Ora ampliamo l'orizzonte. Pensiamo un
attimo alla prima guerra mondiale. Uomini mandati al macello. Lo
sappiamo. Coloro che furono sradicati dalla loro mediocrità ebbero
ovviamente paura, ma coloro che poco più che adolescenti partirono,
cosa trovarono? Le sigarette venivano “spalmate” di cocaina e il
“cordiale “ non mancava mai. Si andava all'assalto in condizioni
di esaltazione artificiale e ubriachezza, quasi ridicoli, ma era la
loro esperienza, la loro esaltazione, il loro banale sublime.
Uccidere era potenza. Sopravvivere segno della sorte. Finì la
guerra. Tornarono, e le sigarette civili che erano normali, non
calmavano l'astinenza nemmeno se ne fumavi mille al giorno. E poi
c'era l'alcol che al fronte bastava chiederlo, ma qui si pagava. E la
nuova vita, la vita civile cos'era? Un incubo di astinenza, senza
gratificazioni di potenza, prove della sorte amica, sfide al limite
del folle o del ridicolo con i compagni. L'ordine della società a
loro non bastava, come poteva bastare! Se no avevano altra esperienza
che alcol droga e guerra. Ed ecco che le dittature li trasformano nei
loro “bravi”, nei loro “lanzichenecchi”. Chiedono la
continuità dell'unica esperienza che hanno vissuto e che sanno
vivere e l'otterranno. Ma, poi, una volta che la dittatura si
instaura, rimane spazio solo per le bravate, per l'olio di ricino per
qualche furbetto che non obbedisce e goliardate col manganello. Serve
dell'altro. Quando il dittatore parla di “rivoluzione permanente”
spera di chetarli con parole che mascherano una situazione tornata
effettivamente borghese. Deve allora rinverdire il sogno dell'impero
e disturbare l'Africa per placarli, ma non basta. Ed ecco che arriva
l'ultima guerra, la seconda, e quella generazione che aveva circa
diciott'anni nel 1915, se è sopravvissuta avrà cinquantanni nel
secondo dopoguerra. Quella vita … una mostruosità. Pensiamoci.
Saint Exupery nacque nel 1900. Cosa avrebbe fatto nel 1946, con aerei
che volano “al di là delle nuvole” in modo noioso e costante,
orfano di un infanzia da favola e di un brivido immenso, di un
sublime ormai estinto? Non gli sarebbe rimasto che l'inaccettabile
mediocrità.
Il dio dei fulmini e delle tempeste lo
sapeva. Lo ebbe come compagno fra le nuvole, lo stimò e gli fece
dono di quella fine che a noi sembra una disgrazia.
Niente fu più maledetto del nascere
all'inizio del ventesimo secolo, e a Saint Exupery toccò questa
croce.
Ho parlato di due disegni che rivelano
la dimensione del sogno, il momento della nascita della sua bella
favola. Il primo deve la sua origine alla forte suggestione nata
sull'altipiano del brano 6, quello dei meteoriti, l'altro, quello del
Piccolo principe vicino al pozzo, da un ricordo che è tenero e
ricorrente nell'Autore. Nel capitolo XXIV della favola, dove appunto
il disegno del pozzo si trova, scatta il ricordo della magica casa
dell'infanzia. Anche in “Terra degli uomini” troviamo quella casa
e la situazione è per molti aspetti identica. Aereo rotto,
solitudine, steso ad osservare le stelle e:
7) “ eppure scoprii d'essere colmo di
sogni. Vennero a me senza rumore, come acqua pura, e sulle prime non
capii quale fosse la dolcezza che m'invadeva. Non si trattò affatto
di voci, d'immagini, ma del sentimento d'una presenza, di un'amicizia
vicinissima, già quasi indovinata. Poi compresi e, ad occhi chiusi,
mi abbandonai agli incantesimi della memoria.”
A questo punto il mio cuore di lettore
ebbe un sobbalzo simile ma maggiore di quello che provai quella volta
che trovai quel brano nel quale Guareschi raccontò, come gli nacque
l'idea di don Camillo, ho pensato, e credo di non essere stato
l'unico, ecco che ora viene il momento dell'invenzione della celebre
favola … e invece appare la casa dell'infanzia. Scopriamo così che
in Saint Exupery è quel ricordo che costantemente affiora, è
quell'atmosfera, e solo la situazione decisamente magica
dell'altipiano e dei meteoriti, quella situazione unica, talmente
particolare da poter affermare da essere già dentro ad una favola, è
riuscita ad allontanare la casa dell'infanzia e a darci “Il Piccolo
Principe”, … che della casa dell'infanzia, mantiene comunque
tutto il sapore. Non la casa, ma il bambino che la abitava,
proiettato fra la purezza delle stelle. “...i sogni. Vennero a me
senza rumore, come acqua pura.” Alcune traduzioni al posto di
“acqua pura” mettono “acqua di fonte”. Io ho preferito
rendere più esplicita quella purezza. Anche nel brano dell'altipiano
(brano 1), che viene definito “tovaglia immacolata stesa sotto un
cielo puro”, si vede che è davanti ad una sensazione percepita
appunto come pulita, immacolata, pura, che scatta in lui il ricordo
ed è sempre quello della casa dell'infanzia.
Veniamo ora al capitolo XV della
favola. Il Piccolo Principe visita il sesto pianeta e incontra il
geografo. Ebbene, scopriremo che ne esiste uno anche in “Terra
degli uomini”. Saint Exupery ha appena ricevuto il suo primo
incarico di volo e va dall'amico più esperto per studiare la rotta:
“Ma che strana lezione di geografia
mi fu impartita! Guillaumet non stava insegnandomi la Spagna; me ne
faceva un'amica. Non mi parlava né di idrografia, né di
popolazioni, né di bestiame. Non mi parlava di Cadice, bensì di tre
aranci che, presso Cadice, sono in bordo a un campo: “diffidane,
segnateli sulla carta...”. Ed i tre aranci ormai vi occupavano più
posto della Sierra Nevada. Non mi parlava di Lorca, ma di una
semplice fattoria nei pressi di Lorca. Di una fattoria viva. Del
fattore. Di sua moglie. E perduti nello spazio, a millecinquecento
chilometri da noi, quei due assumevano un'importanza smisurata. In
buona posizione sulla pendice del loro monte, simili ai guardiani di
un faro, erano pronti, sotto le loro stelle, a recare soccorso ...”
penso non sia necessario trascrivere
tutto il brano. Già si sente il profumo del dialogo della favola
che, trasfigurata l'esperienza vera, con poche parole, quotidiane,
semplici, quasi perfette si fa lezione eterna.
Nel post precedente, ho accennato al
fatto che la “ragazza ideale”, quell'adolescente eternamente
amata prima che la casa d'infanzia sparisse definitivamente, è
rintracciabile in “Terra degli uomini”.
Essa è addirittura doppia,
rappresentata da due sorelle e penso che questo sdoppiamento sia
fittizio per allontanare la sensazione di un possibile idillio. Lui è
l'aviatore ormai trentenne, loro oscillanti fra infanzia e
adolescenza, due lolite. Quell'essere selvatiche, profondamente
naturali, lo trovo meraviglioso. Il capitolo si chiama Oasi, è il
quinto. Il fatto si svolge presso Concordia, in Argentina e accade
sempre come conseguenza di una rottura del velivolo. Sembra un
racconto a sé e come tale può essere letto. I collegamenti con la
casa d'infanzia ci sono, per esempio, nel ricordare che quando veniva
un ospite, le sorelle gli davano un voto. Si poteva sentire
improvvisamente forte un “sei!” che solo loro avrebbero compreso.
Ora lui è seduto, è lui l'ospite e teme quel voto. Ma è tornando
ragazzo che riesce ad il comportamento giusto e se riesce ad averlo è
perché in fondo, dentro, lo è. Si sente che è profondamente e
inevitabilmente attirato da quel mondo perché per alcuni aspetti
ripete la situazione dell'infanzia. Se la metamorfosi da ospite che
deve dormire li una notte, in ragazzino ha funzionato, non lo sapremo
mai. Io penso di si e che in quella notte qualcosa sia accaduto. Non
pensate per favore solo al sesso. Esiste anche dell'altro. Per
esempio uscire scalzi nella notte e scalare un albero per vedere i
nidi, oppure, se a trent'anni si è persa l'agilità, ci sta un bagno
nel lago o qualche tiro di fionda …
E penso che qualcosa sia accaduto
perché la fine del capitolo è un grido di rabbia. Una gelosia
atemporale verso una dimensione, l'adolescenza di lei, che il tempo
ovviamente porterà via. Una magia nella quale lui, Saint Exupery è
bloccato per sempre e quindi rimpiange chi ne esce e si fa adulto.
Da questo capitolo si coglie la sua
passione per le adolescenti esattamente come accadde a Humbert
Humbert in “Lolita”. La differenza è che Saint Exupery non deve
passare per l'abiezione per brillare. In “Lolita” ci serve la
lettura di più di mezzo romanzo per iniziare a “tifare” per
colui che all'inizio sembrava un mostro, e si “tifa” per lui
sorpresi di noi stessi. Ma è inevitabile, perché chi ama ha sempre
la nostra alleanza al di la del bene, del male, che son soggettivi, e
delle età e delle caste. Nel bel romanzo di Nabokov solo nel primo
capitolo “sentiamo “l'adolescente per sempre bloccato. In Saint
Exupery, l'adolescente è sempre presente, non ci lascia mai e quel
“ragazzo” ora che è solo anima nelle sue opere e non lo vediamo
o maturo o vecchio, torna totalmente ragazzino … e per sempre. È
per questo motivo che mai ritrae se stesso nella favola. E nemmeno
l'aereo, che guidarlo è roba da adulti. È la sua anima che si
relaziona col Piccolo Principe, e quelle anime sono coetanee.
Esiste un altra scena stupenda nel
libro. Si trova nel capitolo sei, intitolato “il deserto”, al
paragrafo 4. siamo sempre a Juby e Cisneros. Ogni tanto qualche mauro
veniva portato in Francia per fargli fare un bel giretto e …
accadde in Savoia, che questi si siano fermati incantati davanti a
una cascata. Non volevano venire via... :
“Andiamo via! Diceva la guida.
Ma non si muovevano.
“Lasciaci ancora...”
Tacevano muti, con gravità, allo
svolgersi di quel mistero enorme. Ciò che in tal modo sgorgava dal
ventre del monte, era la vita, era lo stesso sangue degli uomini. Un
solo secondo di quella portata d'acqua avrebbe risuscitato intere
carovane che, ubriache di sete, erano affondate per sempre
nell'infinito dei laghi di sale e dei miraggi. Qui si manifestava
Dio: non si poteva voltargli le spalle. Dio apriva le sue cateratte e
mostrava la sua potenza: i tre mauri restavano immobili:
“Che altro volete ancora? Venite...”
“Bisogna aspettare.”
“aspettare che?”
“La fine”.
Volevano aspettare il momento in cui
Dio si sarebbe stancato della propria follia. Fa presto a pentirsi, è
avaro.
“Ma quest'acqua scorre da mille anni!
...”
Perciò questa sera non si soffermano a
parlare della cascata. Val meglio passare sotto silenzio certi
miracoli. Val meglio addirittura non stare troppo a pensarci, se no
non si capisce più niente.
Se no si dubita di dio...”
Fine del brano. Senza ombra di dubbio
un capolavoro. In esso c'è un fatto vissuto che è stato compreso
fino in fondo. L'autore ha meditato tanto fino a comprendere quella
risposta finale.
“Aspettare che?”
“La fine...”
Per quanti di noi, quella battuta
finale, quell'attendere la fine della cascata sarebbe sembrata una
roba da nordafricani quasi primitivi! E invece c'era qualcosa di
grande da capire e Saint Exupery ce l'ha consegnato in potenza,
bellezza e, diciamolo … poesia.
Avrei altre cose da dire, ma mi fermo.
Sono stanco. Attualmente questo scrivere è una fatica che mi
allontana dal presente ... mi fa bene. Speriamo che faccia innamorare
alla poesia, all'arte.
Non ho più niente da chiedere. Non ho
più desideri. Ma mi metto davanti alla tastiera con il bisogno di
togliermi una specie di peso. Ogni dire ha dei limiti. Molto mancherà
nel mio scritto che qualcuno, altrove, avrà colto. Ora mi sento più
leggero. Torno me stesso, al mio cane.
Io ho, quel che ho donato.
Io sono quel che ho donato.
Io sono, perché ho donato.
Ciao
Torno per un attimo. Pensiamo al
quadro, al “Sogno di Scipione” di Raffaello.
Ho parlato della spada e del fiore.
Non ho parlato del libro....
ciao.
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