domenica 14 luglio 2013

Vladimir Nabokov: "Pnin"


Ho riletto, dopo tanti anni, in un sorso, in un'unica giornata, “Pnin” di Vladimir Nabokov. Di questo grande, noto ai più solo per Lolita, ho già parlato in in altro post dedicato, se non ricordo male a “l'originale di Laura”. Se quest'ultimo testo citato mi commosse alla prima lettura e non esitai a regalarne immediatamente, appena uscito, sia al caro Tonino Guerra e ad altri, “Pnin”, ha richiesto una dose di tempo più forte. I motivi possono essere due; forse quella prima lettura era contaminata da qualche frammento sgradevole di quotidianità e quindi, potrei aver letto, diciamo, con un frammento irrisorio della mente. Se i problemi ci assillano, anche un capolavoro diventa inerte. A me capita anche un'altra situazione che non so spiegare e in fondo non mi interessa farlo. Vado a periodi per tante cose della vita. Questo è il secondo aspetto che potrebbe avermi deviato dal cogliere lo splendore delicato e al contempo monolitico, notevole, di “Pnin”. Vado a periodi per il cibo. Per anni non ho toccato l'anguria. Mi è sempre piaciuta, ma non mi attirava. Tutto qui. La sua aura di freschezza che in certe estati torride vale quanto un salto in piscina, mi era totalmente indifferente. E la catena di indifferenze approda all'arte se penso alle fette di anguria di Mattia Moreni che comprendevo e mi rendevo conto del loro valore, ma non ne ero attirato, e se avevo davanti anche un originale, reagivo con indifferenza. Così è stato per il gelato, che per una decina di anni non ho nemmeno sfiorato, e per la musica classica che in certi periodi mi salva ed è uno specchio salvifico, e in altri quasi mi indispone e tendo a spegnere lo stereo e cercare le parole nei libri. Potrei aggiungere un terzo motivo, forse più veritiero e che oltre il resto si può sommare ai precedenti; leggo tanto e vivo, quindi evolvo o involvo, questo non posso comprenderlo, ma comunque cambio. Il libro è sempre uguale, ma io no. Questo è il punto, e oggi, “Pnin” mi si è rivelato forse non ancora in tutta la sua pienezza. Serviranno altre letture.

Pnin è un esule russo. Cosa accadde in una certa epoca agli esuli, Nabokov, esule egli stesso, lo racconta in un passo che riporto qui:

...il nucleo e significante di una società in esilio che durante il terzo di secolo in cui fiorì e rimase praticamente sconosciuta agli intellettuali americani per i quali, grazie all'astuta propaganda comunista, il concetto di emigrazione russa corrispondeva a una massa indistinta e assolutamente fasulla di cosiddetti trockisti (qualunque cosa fossero), reazionari in rovina,agenti della Ceka convertiti o travestiti, dame titolate, preti di professione, proprietari di ristoranti e raggruppamenti militari di russi bianchi, tutti privi, comunque, della benché minima rilevanza culturale.”

Devo premettere, prima di proseguire, che il libro, ho la versione Adelphi, purtroppo manca di note e almeno due le avrei messe …

Mi sembra sia il caso di spiegare cosa sia un Vecchio Credente, e credo che meriti la maiuscola proprio perché vecchio credente, scritto così sembra riferirsi ad una persona anziana che ha come caratteristica più evidente, la sua fede.

Anche “russo bianco” merita di essere spiegato. Non comprendo o faccio finta di non comprendere, che chi gestisce le case editrici non sia consapevole che, oltre all'ignoranza, che non considero tipica di questa epoca, esista una generazione nuova che non nasce “saputa”. Si ricorda Calasso che da piccolo portava il pannolone esattamente come Einstein e il papa? Sembra di no. Nella vita si parte da zero e un sedicenne, un ventenne eccetera, merita un rispetto che in questo caso consiste nel non far “cadere dall'alto” il prodotto artistico, complicarlo con piccole assenze che, come nel caso del vecchio credente, scritto minuscolo, porta fuori strada. Se nel contenitore della nostra cultura, un dato indossa perfettamente gli abiti di un altro, solo l'aiuto esterno può salvarci …

Torniamo a “Pnin”. Con la Rivoluzione russa, l'elite cercò la fuga per salvare la pelle. Penso che non lo si possa dire in modo più chiaro. Pnin fu uno di quelli che per un poco divenne Guardia Bianca, ovvero cercò di opporsi all'ondata comunista, e bello su questo argomento è l'omonimo romanzo di Bulgakov intitolato proprio “La guardia bianca”. Ebbene, i russi scappano, e per me il riferimento più bello è nel racconto “Lo spirito dei boschi” presente in Italia nel volume di racconti “La veneziana”. Chi erano questi esseri fuggiti? Persone con una educazione e un modo di intendere la vita sociale che non aveva più senso a Parigi, Berlino o Wienna. Era poi tragicamente fuori luogo negli Stati uniti, luogo nel quale un docente, come ci racconta Nabokov, può avere alti incarichi anche se è ignorante come un tronista. L'importante è che sappia attirare capitali, che conosca ricconi e fondazioni e abbia amicizie ben inserite per far allentare i cordoni della borsa.

Nella narrazione siamo agli inizi degli anni cinquanta e leggiamo:

...devo dire che mi ha ricordato la figura probabilmente leggendaria di quel preside di francese secondo il quale Chateaubriand era un famoso chef!

Attento! Disse Clemens, -questa storia è stata raccontata per la prima volta a proposito di Blorenge ed è vera-...

In un altro passaggio leggiamo:

... due interessanti caratteristiche distinguevano Leonard Blorenge, preside del dipartimento di lingua e letteratura francese: non poteva soffrire la letteratura e non sapeva il francese. Questo non gli impediva di coprire enormi distanze per partecipare a congressi sulle lingue moderne, nei quali faceva sfoggio della propria inettitudine come se si fosse trattato di un nobile vezzo, e parava con sapienti affondi di pesante umorismo qualsiasi tentativo di invischiarlo nel “parlevufransè”. Stimatissimo procacciatore di soldi ...”

Penso che possa bastare. Il libro venne pubblicato nel '53. e mise a nudo una realtà ridicola nella quale Nabokov rischiò di trovarsi invischiato. Questo libro è la disavventura di una persona fine e veramente colta che viene ridicolizzata e licenziata da un ambiente che con la cultura non ha più niente a che fare. Son passati sessant'anni da quell'uscita editoriale e la piaga americana si è diffusa a tutto l'occidente. Ora anche il lecchino di partito deve cedere il passo al procacciatore di soldi. Se poi per lui Dante è un capo indiano, come una squisita biondina disse tempo fa in tivù, poco importa.

E a Pnin mi sento affine, poiché in questa situazione è esule chiunque fa sul serio. Quando, alla fine di una cena che per il protagonista, dopo anni di calvario sembra finalmente un'apoteosi, e invece sarà un crollo, sparecchiando, tiene gli avanzi per “...darli poi a un cagnetto bianco rognoso, con chiazze rosa sul dorso, che a volte veniva a trovarlo nel pomeriggio ...”.

Ecco, davanti a quelle parole in me accade quel che un lettore sano non dovrebbe fare, ovvero immedesimarsi.

Vivevo con tre cani, tutti salvati, la rogna in questo caso era il destino. Mrti loro ora ho una beagle, salvata anche lei e una levriera di undici mesi che ha viaggiato dall'Irlanda per salvare la pelle. Non era destinata a me, ma la sua salvatrice, un'anziana signora, si è rotta il femore, e Philly, vecchia di ben undici mesi da un mese e mezzo è da me e sembra che non ne voglia più sapere di andar via... Da ospite a figlia pelosa il passo è stato breve.

E penso a finali col cane; a Pnin che indignato se ne va con quello scarto dell'umanità abbaiante e bianco, dichiarando che non insegnerà più e su quella sgangherata macchinetta col berretto coi paraorecchie calati, sembra ridicolo solo a chi un'anima non sa di averla e quindi non ce l'ha! Via dalle meschinate! Penso a “Gran Torino” del Gran Eastwood, in quella scena del ragazzo nell'auto ereditata, col cane ereditato e una possibilità di serenità che è meglio di niente, data da una generazione, quella del Vietnam, che così ammette le sue colpe, il nero che ha disseminato ovunque. Penso ad un racconto che non trovo più, di Isaac B. Singer. Racconta di un vecchietto che viveva con un topolino. Anzi no. Viveva da solo e ogni tanto da un buco del muro usciva quel topolino e lui gli faceva trovare il piattino col latte e u po' di pane. Il vecchietto va in ospedale e cosa fa? Chiede ad una persona di andare a dare da mangiare alla bestiolina. In quel letto bianco, nella stanza bianca dell'edificio bianco con la croce rosso sangue che non c'è ma si vede, pensa al suo unico amico. Grande Singer, basta questo gioiello per il Nobel! Penso a Coetzee e alla scena finale di Vergogna, a quell'ultimo lavoro che, guarda caso sempre un ex docente decide di fare. Pensate all'idea capolavore che contiene la freddezza della nostra epoca. I cani devono essere preparati per l'iniezione finale. Lui va a caricarli e provvede. Non lo fa con cinismo. Vuole star loro vicino in quel momento ultimo. Traditi da tutti. Esseri della natura rigettati dall'uomo che della natura fagocita tutto. E quello che Coetzee descrive, è l'ultimo mestiere con un senso, con una morale. Essere umani almeno verso il condannato infimo, il povero cane.

Esiste poi un capitolo di Malaparte. Un cane condivise con lui il confino a Lipari e lo attese fuori dal carcere per i mesi che Mussolini gli assegnò. Un giorno sparì. Lo ritrovò con la pancia aperta in un centro sperimentale, legato a tubi e tubicini. Chiese e ottenne l'unico gesto che il cuore poteva donare. La sua fine da quel dolore immobile, da quella aberrante costruzione simbolo della civiltà umana. Guai a chi mi tocca Malaparte! “Kaputt”, “Mamma marcia” e “La pelle” sono arrese constatazioni della capacità di violenza dell'essere umano. Non era fascista e nient'altro. Era un grande scrittore che dall'esperienza umana uscì distrutto … e ridotto a vivere con un cane. E Axel Munthe! Curava gli uomini per vivere e gli animali per amore...

e io vivo con cani salvati come Pnin, come Pnin aborro le università e ogni apparato che maschera una scalata al potere anche minuscolo come un pulpito provinciale dal quale predicare incompetenti conati, e cerco sincerità. E in essa appare il cane, che ama perché ama, che da perché non può farne a meno e la sua sincerità mi ha salvato dalle medesime scoperte di Pnin e non solo. Oggi chi fa sul serio è esule ovunque. Non esiste patria se non si è corruttibili e non mi interessa essere pagato col denaro. È ben altro il prezzo di quel che faccio, e spero il suo valore.

Nabokov lo ha detto con feroce ironia, lo ha detto e descritto bene. Il suo Pnin ha almeno, ogni due anni un'isola di salvezza nella russità ricreata a casa di un amico in mezzo ai boschi. Un mese ogni ventiquattro nel quale si può essere se stessi e vediamo la goffaggine del protagonista sparire anche nel non fondamentale ma appagante gesto atletico.

Ora, attualmente, nemmeno quel mese di ferie esiste. Perdersi è più facile se non fosse che il piacere di Fare con la effe maiuscola ha il potere di nutrire se stesso.

amen


mercoledì 10 luglio 2013

Simenon: "L'ombra cinese"



(Testo commestibile a chi ha già letto il libro..."

Veniamo subito al finale. L'ossessione del denaro che distrugge irrimediabilmente due vite, quella del figlio e del marito, e gravemente quella del secondo marito. L'ossessione del denaro che rende una donna degna della clinica psichiatrica.

Abbiamo un uomo che desidera diventare ricco e le prova, onestamente tutte. Anni di gavetta e poi riesce. È il signor Couchet che viene trovato assassinato.

Quel che distrugge la naturalità dell'esistenza di molte persone è una donna, in questo caso, con l'ossessione della ricchezza che le è dovuta, non da guadagnare con impegno. Il primo marito tenta e ritenta. Le lo osteggia perché non riesce. Lo pianta per un dipendente statale che presenta un vantaggio, quando morirà lascerà a lei la dignità di una pensione. Ma accade l'imprevisto. Il primo marito diventa veramente milionario. Sposa un'altra e con rancore non vuole avere a che fare col la prima moglie. Ma c'è un figlio che vivacchia, stritolato dalla personalità della madre secondo quale certe cose son dovute e basta. Fra padre e figlio il legame non decolla. Il figlio si droga con l'etere e vive, se vita è, in un modo tristissimo, senza meta. Di lui, anzi, della sua stanza, dice Maigret: “L'Atmosfera della camera, con quel disordine, con quell'odore dolciastro, con quei due esseri senza spina dorsale, era come la quintessenza di un mondo ormai privo di illusioni.”

una descrizione semplice, perfetta, terribile.

Che squallore! Uno squallore tale da far passare la voglia di vivere su questa terra, dove nondimeno il sole brilla per diverse ore al giorno e gli uccelli volano liberi!”

La sensorialità con la quale Maigret/Simenon studia gli ambienti è eccellente. L'odore della resa, della sconfitta, dell'esistenza senza senso di questo figlio che si droga con la fidanzatina che vive di espedienti.

C'era un'atmosfera indefinibile. Non un'atmosfera da tragedia. Era qualcosa di diverso, qualcosa che stringeva il cuore. Forse per via di quella sregolatezza senza poesia...”

Dove non c'è poesia, io vedo morte … e dopo poco quel figlio di una “casa scoppiata”, come direbbe Enzo Siciliano, si getterà dalla finestra. Maigret ha intuito e gli ha chiesto l'arma. L'ha avuta con un sorriso, perchè chi non ha poesia, chi non ha speranza, o uccide o si uccide, due forme di morte che in fondo non sono così differenti come può sembrare, poiché ambedue sanciscono l'uscita dalla società. È vero che esiste anche l'uccidere come concretizzazione di un potere bestiale, ma non è il caso di questo Martin senior che ha compreso che il padre è stato ucciso dalla madre e che, a causa della sua vita, senza poesia, senza meta, lui è il primo indiziato.

La lezione di Maigret/Simenon è forte. Un pugno nello stomaco. Una famiglia distrutta dalla mania della ricchezza di uno dei suoi componenti. La sua ossessione riversata sul secondo marito. Dipendente all'anagrafe da trentadue anni. Semplice, tranquillo, onesto. Un uomo che ha passato gli anni di quel disgraziato matrimonio a calmare una moglie incontentabile che ora criticava perché lui non faceva carriera. Sempre gli altri che devono devono e devono. E quel povero marito spinto da lei al furto, ma perdonato dal sommo dio della giustizia naturale.

Siamo alle solite. La giustizia umana lo condannerebbe, il signor Martin, per furto, ma per Maigret, che vede più lontano di un codice, quella persona martoriata da anni di insulti, è una vittima e rimarrà a casa, nella casa ormai e finalmente vuota di quella donna che è impazzita dietro al suo delirio costellato di cadaveri.

È curioso quel finale. Sento due destini sospesi, quello della amante di Couchet, la sua terza donna, Nine Moinard, e questo signor martin così provato dal delirio vessatorio della moglie.

Io penso che, davanti al dramma del suicidio di quel figlio, Maigret si sia bruciato le ali come una farfalla bellissima che si è trovata disorientata dal tunnel della notte e ha confuso il sole caldo per una candela di fiamma.

C'è tutto il suo destino. La seconda moglie stronzissima e probabilmente malata come quella di questo libretto, la figlia di Simenon, tristemente suicida. Il crollo di un uomo, perché Simenon era un uomo, e la disperazione. Si leggano le “Memorie intime”. Io spesso interrompevo e andavo a passeggiare col cuore stritolato in mano, il suo, e lo guardavo allibito. Quel libro, le “Memorie intime”, è tremendo, tremendo perché non c'è invenzione, sai che è vero. Sai che veramente le ceneri di quella figlia erano nel giardino, oltre la finestra di un padre angosciato che si sentiva in colpa per non aver capito che razza di assurdità era quella seconda moglie.

Dicevo che Simenon si è bruciato davanti al fatto che la trama sia deragliata in un suicidio. Lui non progettava questi gialli che servivano per fare tornare c conti della serva. Iniziava da uno spunto e poi si lasciava andare. Ma quell'argomento, che la storia del Mondo già sapeva che avrebbe toccato il suo destino, quell'argomento, ha deragliato secondo me la trama, che immagino attenta ad un incontro fra la amante Nine e il signor Martin, perché per la prima volta i due sani della storia son lasciati a se stessi dalla divinità famigliare che l'inconscio di Simenon ha creato. Inconscio che sa più di noi e era consapevole di avere toccato un futuro dolore? È possibile, poiché la vita è un mistero che non si spegne in un grumo di intelligenza governata da cinque incertissimi sensi …

E ora osserviamo questa frase. Una delle donne della trama sta osservando Maigret.

Quell'uomo robusto dalle spalle larghe e dal collo tozzo che la guardava con occhi ingenui, quasi inespressivi, la intimoriva.”

Non “sentite” qualcosa della divinità? Socrate era uno strano essere. Su una cosa si è certi. Era bello dentro, ma fuori faceva concorrenza a Mastella.

Questa descrizione, se l'immagine corrispondente la si dovesse inventare, senza pensare agli attori che hanno interpretato quei ruoli … mi sembra un Buddha sornione. Spesso leggiamo di Maigret che sembra che abbia gli occhi chiusi, immerso in una immobilità che ha molto dell'assenza, almeno con la mente.

Se dovessi fare una regia, immaginerei un essere con un corpo sgraziato, goffo, grosso, che acquisisce fascino solo con lo sguardo e la parola.

La sua impenetrabilità, la sua capacità di comprendere della vita, delle situazioni, sempre più di chiunque altro, rappresenta una situazione simile, ma questa volta positiva, di quella creata da Robert Harris per il suo “Silenzio degli innocenti”.

Il dialogo con la dottoressa/poliziotta, quando si parla di agnelli sgozzati. L'abilità di questo essere cannibale, superiore a quella di qualsiasi altro umano … qualcosa, un'aura di divinità. Non viene ucciso. È vivo e temuto, nella sua stanza in galera, super controllata. Ferocia pura. Intelligenza in negativo. E Maigret? Un essere che va oltre gli uomini e che spesso si incarica di plasmare destini e non solo di sbattere qualcuno in galera. In un certo senso il super eroe normale. Non ha poteri come la forza o il volo. Apparentemente ti somiglia e in più è grosso e tozzo, ed è infinitamente positivo, nel suo tentativo di portare il destino dell'uomo alla legge di natura e non a quella del codice.

Sera del due giugno 1932. A Cleveland tre uomini entrano in un negozio di abbigliamento dell'ebreo Mitchell Siegel e portano via dei vestiti. Lui si accascia e le versioni sono due. Infarto per lo spavento oppure un colpo di pistola che qualcuno dice di aver sentito. Nel gennaio del '33, il figlio di questo signore, Jerry Siegel, sul giornaletto della scuola, “il regno di Super Man”, la storia di un cattivo tremendo. Nel 1938 Superman diventa l'eroe positivo che conosciamo, baciato dalla fama negli anni quaranta.

Vedete cosa fa il destino? Il dolore è vicino, troppo vicino, si vede nero ed ecco che l'assassino del padre diventa il mostro universale. Si cresce, la vita cerca di riguadagnare la stima e può accadere che il mostro subisca una metamorfosi...

Ecco, io penso che Maigret sia il super eroe di Simenon. Quell'essere che riscatta ciò che è giusto secondo una legge non solo umana, quella legge che aveva condannato il nonno al tracollo economico. Curioso è che, una volta famoso, Simenon, in una cena ufficiale alla sua città natale, si ritrovò a tavola con gli eredi di colui che aveva attuato quella rovinosa giustizia che ridusse la sua infanzia all'osso.

Potrebbe essere solo una mia fantasia, ma penso a Maigret come un supereroe dotato del solo potere di comprendere le situazioni. Non è poco. Non sarebbe poco nemmeno oggi e così questa lettura si fa positiva, accogliente, con l'unico fuoco nero del suicidio al quale la vitale mente di Simenon, non sa opporre resistenza.

Mi permetto un ultimo omaggio, negativo, al signor Antonio Scurati. In un suo articolo uscito su “La stampa” il 18 giugno del 2013, corrente anno, campeggia il seguente titolo: “Simenon, L'enciclopedia della gente modesta”.

Niente di più sbagliato. Nell'opera di Simenon ci sono tutti, i milionari, i nobili e i poveretti. Non bastasse che l'articolo è una lieta farcitura dell'ovvio che indubbiamente può far colpo dalla parrucchiera o al Bar Sport, ma far passare per populista Un autore che guarda tutti indistintamente negli occhi....!

Ricordo tanti anni fa, una professoressa che insisteva col dirmi che fra' Cristoforo era un populista! Ero piccolo ma indignato. Mi consegnò uno scritto di un certo Carlo Salinari che lo dichiarava e ci misi poco a dar del cretino a lei e a questo figlio di operai del sale. Anni dopo a Fano, casualmente, in libreria, incontro due persone canute che avevano conosciuto La Capria, Soldati, e nel mazzo mettono anche questo Carlo Salinari. Racconto il fatto e sorridono, confabulano e poi mi confidano che lo scrisse e lo disse nel secondo dopoguerra per tener buoni coloro che assegnavano le cattedre, ma quando la ebbe si rimangiò quell'assurdità spiegando che lo fece per sopravvivere … Ora. Scurati secondo me arriva a certe conclusioni non per sopravvivenza. Lui non ha tempo per fare sul serio. Troppi impegni, come ho già narrato per Daverio, che è arrivato al punto di definire “ideale femminile” una donna-mostro di Balthus.

Ci vuole tempo. Si legge, si lascia depositare, si rilegge, e si fa portare via il superfluo dalla corrente della quotidianità. Quel che rimane, filtrato così dal tempo, è oro. Con la fretta …. stavo per dire una bella volgarità .... Scurati. Ci siam capiti? Rallenta. Così avrai il successo e non la fama.....


















Simenon: "Il crocevia delle Tre Vedove"




(testo comprensibile per chi ha letto il libro...)

Perché mi sto concentrando sui Gialli di Simenon. Questo mi è stato chiesto, e la risposta è leggera e pesante nello stesso tempo. Quei libretti amano la vita e nell'arco di una giornatina pigra si lasciano divorare senza troppo sforzo. È estate. Siamo al picco e immagino qualcuno arenato in spiaggia, e anche qualcun altro che, oppresso dalla crisi, ha tempo e non sa che farsene. A me non è mai accaduto ma so che c'è troppa gente che soffre di questa tremenda malattia. Immagino che si legga volentieri un giallo. Si cerca il colpevole, ci si potrebbe forse anche divertire e forse, barando spesso un poco con se stessi, sentirsi furbi come il celebre commissario. Bene, prendete il libretto, vi avventurate e pensate di agire in modo consapevole, ma quel che esiste di inconscio in quei libretti, e che è stato versato inconsapevolmente anche dai suo autore, non a voi si rivolgerà, ma all'inconscio appunto. Potrebbe accadere che ne leggiate più d'uno ed ecco che una piccola involontaria terapia di questo dio delle famiglia, vi porterà, con vostro stupore, a sorridere ad un bambino al parco, a dire pensare che quella donna è bella non solo ai sensi ma anche perché …. e non sapete dirlo, ma iniziate a capire, capire col corpo, col cuore … inizia una lenta modificazione, che come un'ipnosi leggera vi farà vedere un senso dell'esistenza che potrebbe forse anche non essere il vostro, ma solo il fatto di poter immaginare un senso …. è un sollievo non da poco.

Il crocevia delle Tre Vedove” presenta la “storia” di tre coppie. In ognuna di esse troviamo la persona sgangherata, e la persona con un'idea semplice, appunto di famiglia come Simenon involontariamente pretende per dare un senso all'esistenza. Due uomini sono fuori rotta. Uno sarebbe a posto, l'assicuratore, ma è tentato da un malaffare e precipita. L'altro, il meccanico, sembra incallito nell'agire in modo fortemente illegale. Ambedue hanno come caratteristica malata l'idea del guadagno facile. All'epoca della stesura, nel 1931, quindi freschi freschi dal tracollo di Wall Street, che si pensava fosse causata da questo forsennato desiderio del tutto subito da ottenere con qualsiasi mezzo, nel 1931, dicevo, questa piaga era stigmatizzata al massimo. Ne troviamo echi esemplari ancora vent'anni dopo nel film capolavoro di Antonioni “I Vinti”.

Il ricco perdutamente innamorato della malvivente, Carl Andersen che con un cognome così ovviamente non può non essere danese, cercherà di farla recedere dalla tentazione del male e, si ricordi, che qui per male s'intende tutto ciò che porta alla impossibilità di generare nuova vita. Questa ragazza, che ha fatto perdere la testa ad un rampollo che frequenta la casa reale, sembra incallita non per necessità, ma per gusto della trasgressione e, una volta che abbiamo compreso la sua vera natura abbiamo l'impressione che sarà assai impegnativo per il “favoloso” Andersen invaghirla solo, se solo si può dire, dell'amore.

Anche in questo caso il termine del libro non coincide con la fine degli eventi. In questo caso il finale da favola va lievemente corretto come segue. “...E vivranno felici e contenti quando usciranno dalla galera ...”

Di uno siamo certi, ed è l'assicuratore. Del meccanico abbiamo buona speranza perchè la bontà della sua partner sembra sufficientemente forte. Abbiamo appunto il dubbio per la futura signora Andersen che ha un caratterino che decisamente estremo, ma in quel periodo della sua vita, nonostante tutto, Simenon era ottimista e quindi, mentre vi rosolate al sole col libro già letto messo a cappannuccia sul naso per non abbrustolirlo, vi invito a proseguire quelle visite in carcere ai rispettivi indomabili. Immaginate che usciranno. La vedete la situazione? Troveranno solo una persona, una persona che ama talmente da non giudicarli, da conoscere le loro debolezze e accettarle come parte della vita. Non tutti i giorni hanno il sole, ma comunque valgono la pena di essere vissuti.....

Vi invito ad ammirare la trama che è veramente notevole. Quel che sempre mi ha stupito positivamente di Simenon, è questo talento di mettersi davanti alla macchina per scrivere, iniziare da un brandello vago di idea e pian piano costruire un intreccio che di solito è ammirevole. In questa struttura il suo io cerca la dimensione della giustizia, cerca i perché di un delitto e li trova spesso in un'atmosfera, nei limiti spesso sofferti di un ambiente, di una personalità e quasi sempre si pensa che solo questa sia la novità del Maigret di Simenon. E invece, l'inconscio va oltre e ci prende nella sua rete. Anche Simenon viene pescato e, pensate un po', da se stesso. Non so ancora come spiegarlo. Quando un artista ha chiara e completa consapevolezza di sé e riesce a descriverla consapevolmente, raggiunge vette colossali. Come non mi stancherò mai di dire, Kafka e pochi altri, brillano in questo difficilissimi risultato, Simenon rivela il suo io anche a se stesso e anche se non è all'apice della letteratura, almeno non in questo caso, rientra per me fra i grandi che dobbiamo assolutamente conoscere per considerarci ogni giorno un po' più umani.

E ora un appunto che merita di essere letto con mente attenta. Si scopre, e non solo in questo testo, una punta di antipatia verso gli ebrei. L'assassinato si chiama Isaac Goldberg e sulla totale scorrettezza del suo modo di vivere, dal testo non abbiamo dubbi. La sensazione è che sia stato liquidato un personaggio negativissimo e che così il cerchio si chiuda. Cattivissima azione, cattivo destino. Ma Goldberg ha due figli! Uno di otto e l'altro di diciotto anni! Una moglie che non finisce bene e che sembra una socia di malaffare! Ma come si spiega la mia teoria del nume tutelare delle famiglie, dei cuccioli che devono crescere in un ambiente decente? Non esiste crepa. Simenon era figlio del suo tempo e molti erano contro gli ebrei. Mi infastidisce dire antisemita, vocabolo omologato dalla storia e che puzza di pogrom e campi di sterminio. Simenon credo che non sarebbe mai arrivato a questo e mi risulta che prove non ce ne siano, ma sicuramente li avrebbe evitati nella vita quotidiana o trattati con una diffidenza superiore a quella che offriva al resto del genere umano.

In un libro che non ha nulla a che fare col celebre commissario, “Le finestre di fronte”, abbiamo un immagine di ebreo e comunista rivoluzionario che ha un alone sorprendente. Non è misticismo, ma la sensazione che si tratti una razza d'uomini che si è messa sulla via del comunismo, di questo ideale che a Simenon è estraneo e che teme. Non li capisce quindi li evita, ed è curioso che una briciola non piccola di destino di alcune persone, in quel libro, come in un furente capopolo della Rivoluzione Francese, sia in mano a quell'ebreo che quindi, almeno in quel contesto ha un potere sulla vita altrui che potrebbe esprimersi anche in modo negativo. Ne “Le finestre di fronte”, in un mondo russo di libertà sessuale, di incontri mordi e fuggi, la famiglia, il dio di Simenon, non esiste, non riesce ad essere immaginabile, e il suo fautore, il dirigente e ideologo di quel mondo è identificato con un ebreo comunista, equazione che per anni certe ideologie estreme hanno considerato vera e pericolosa, ma comunisti furono tanti, di tutti i colori e forme. Al popolo ebreo che stimo infinitamente, non può esser data alcuna colpa. Sono idealisti? Non è una malattia. Aiuta a sognare e sognare aiuta a vivere. Anche il comunismo fu un sogno.

Pensò che riempiendo le pance gli uomini potessero essere appagati, ma chi è sazio inizia a pensare...

il capitalismo invece, pensa che sia sufficiente dare la possibilità di acquistare, infinitamente acquistare. Una scossa compulsiva come quella del giocatore d'azzardo e del maniaco. Il desiderio di fare shopping, sempre appagabile ma mai sazio.

Attendo un mondo senza comunisti e capitalisti. Sono idealista …. non sono ebreo e nel mio mondo fatto di libri, cani e musica classica, le amicizie sono elevate e gli affetti sufficienti per non squagliarmi di nostalgia.

ma è anche vero che il novecento senza la cultura ebraica si ridurrebbe quasi a un deserto. Provate a snocciolare qualche nome: Einstein, Kafka, Primo Levi, Bellow, Woody Allen, Mandel'stam, Wladimir Horowitz, Mahler e poi mi fermo perché so che riempirei la pagina di nomi che meritano la mia, la vostra, la nostra ammirazione …. per sempre.

Simenon : "Félicie"



(Questo scritto è "commestibile" solo per chi ha già letto il libro....)

Per forse più di un mese, non ho scritto per il blog. Ormai i lettori non son più una esigua schiera ma non mi sento un traditore. Nulla è dovuto, e si dona solo quando ci son le condizioni per farlo. A me serve, per scrivere cose che ambiscono alla letteratura, una condizione che non so spiegare. È un momento che matura e chiede di essere vissuto intensamente, scrivere per me non è, se non in un secondo tempo, spesso distante mesi, un'azione razionale. Una parte di me che la civiltà ha addomesticato, pian piano scioglie tutte le briglie e quando “sente” di essere nella condizione di libertà che è la sua aria, si esprime usandomi ne più ne meno di come faccio io con quell'oggetto inerte che chiamiamo penna. Potrebbe trattarsi di conati ambiziosi. Il destino di quelle parole, qualunque esso sia, eternità o oblio, non mi riguarda. Per quelle pagine non esiste la lotta della quotidianità. Esse semplicemente esistono. Non vivono ma saranno forse vissute.

A me preme dell'altro: vivere se è possibile e quando mi rimane quell'attesa che sembra oblio, che annulla il tempo, vivo le vite degli altri; lo faccio leggendo.

In questo periodo la lettura è stata piacevole e soddisfacente. Per me non si tratta, mai, di un gioco. Ricordate Fitzgerald …. non si scrive per dire qualcosa. Lo si fa solo se si ha qualcosa da dire. Non m'interessa la lettura che diverte e fa passare il tempo, in fondo come le parole crociate e i rebus che in fondo danno ai poveri di mente, la sensazione di mantenere allenato il cervello … immaginate una persona che percorre sempre lo stesso sentiero di montagna. Allena le gambe … il paesaggio cambia in grazia delle stagioni e delle nuvole, come il contenuto delle parole crociate che cambian indovinelli ma sempre a quel tipo di intelligenza, a quel sentiero, che si chiama nozione, appartengono.

Per me leggere è scoprire quel che aveva da dire chi ha scritto. Chi lo fa per vendere, quindi per arricchirsi, lo odio per questa sua disonestà verso il tempo degli altri e per la finzione che mette in atto. Ultimamente in testa a questa in grata graduatoria brilla di fetore Paolo Coelho. Ho letto “Il diavolo e la signorina Prym” e “L'alchimista”. Tanto misticismo da barbiere, diavoli, angeli custodi antichi re biblici, venti che parlano, e il sole e chi più ne ha più ne metta e accade che alla fine il premio non ha nulla di mistico. Soldi, tanti soldi. Una banalità meravigliosa. Frasi belle. Ogni personaggio dice cose celebri, che sembra meritino la nostra eterna memoria … un po' come i personaggi di Sylvester Stallone …

amen.

Ho letto poi Paul Auster, Murakami Haruki, anna Fine, riletto Simenon, Trilussa, Vecchioni, Meldini, Philip Roth, Primo Levi, Ortese, Michela Murgia e mi son fermato solo ora con due mucchi: la “roba” da eliminare e quelle che merita di essere ricordata e forse anche amata.

Il più profondo sicuramente Christopher Isherwood con “Un uomo solo”.

Ma mi piace riprendere la scrittura con Simenon e il commissario Maigret perchè mi son incarognito nel tentativo, secondo me ormai riuscito, di comprendere la sua anima. Quando dico anima intendo qualcosa di molto più semplice e possibile di quel che non si possa immaginare. Si tratta della somma di conscio e inconscio. Questo io solo pe pochissimi artisti è completamente consapevole. Kafka forse fu colui che portò il peso enorme di questa totale visione interiore di sé, meglio di ogni altro. Fitzgerald, Melville Bulgakov che stimo immensamente erano un io nel mondo. Nabokov e Kafka un io allo specchio. Niente di più difficile, poiché con se stessi si è troppo spesso, quasi sempre e inavvertittamente, indulgenti. Isherwood e Coetzee, son i due autori recenti che più hanno avuto “il coraggio dello specchio”. E i loro capolavori sono, secondo me appunto “Un uomo solo” per il primo e “Vergogna” per il secondo, raro caso di nobel recente dato a un artista meritevole e, fatemela dire una cattiveria …. essendo uno dei rarissimi azzeccati in mezzo secolo (aggiungo Singer, Bellow e Marquez ), direi che sia stato il caso ad aiutare i giurati e non l'ingegno ….

Veniamo a Simenon e quella sua ottima creatura che è il commissario Maigret. Nel blog si troveranno spiegazioni della mia teoria e l'applicazione di essa su alcuni testi. Primo riferimento “Maigret e il barbone”.

Ripeto brevemente la mia idea chiave: l'io inconscio di Simenon ha un valore fondamentale: La famiglia. Spesso quando si legge un giallo di Maigret, la sua intenzione (inconscia, insisto col ripeterlo) è quella di “rattoppare famiglie”, di spianare la strada alla coppia e ai figli. Accade così che chi è single è quasi sempre sacrificabile. Ovviamente intorno a questo nucleo centrale ruotano situazioni che contribuoscono a chiarire questo ruolo di Maigret come angelo della famiglia. Può capitare, come ne “La trappola di Maigret”, che un nucleo famigliare risulti irrimediabilmente marcio e viene annientato. In questo caso abbiamo un assassino seriale che uccide donne. In questo caso l'azione di Maigret, che mira a salvare famiglie o a fare in modo che ne nascano, e la necessità della legge coincidono. La legge non pensa. Cerca il colpevole e lo ingabbia. Maigret cerca il colpevole, vuole assolutamente capire perchè ha agito così e poi agisce, spesso oltre la legge, per rendere possibile … la vita.

Inizierò con “Félicie”, poiché si tratta di un caso affine a “Maigret e il Barbone” con un'aggiunta interessantissima.

Riepilogo velocemente “Maigret e il barbone”. Muore annegato il proprietario di un battello a Parigi. Assiste alla scena solo un barbone che quindi sa chi è stato. Questi viene malmenato per paure che parli, ma nonostante la legnata tace. Maigret ha compreso chi è il colpevole ma senza quella testimonianza non può procedere all'arresto. Perchè tace il barbone? Dopo aver lasciato passare un poco di tempo, il commissario va da lui nella sua povera postazione in riva alla Sanna e glielo chiede. Davanti a loro quel medesimo battello ed ecco che sboccia la comprensione. Una famiglia è nata da quella morte. La figlia del battelliere, che si ritrovava l'amore col mozzo di bordo, ostacolata dal padre ubriacone e non proprio angelico, ha ora un figlio, e quello che per la legge dell'uomo dovrebbe essere l'assassino, per la legge della natura è finalmente un padre.

Veniamo ora a “Félicie”. Questa ragazza di 24 anni è la domestica di Jules Lapie detto Gambadilegno.

Iniziamo a definire la figura di Félicie. Viene da famiglia povera. La sua possibilità di un futuro decente è minima. Si ritrova a lavorare da Gambadilegno, lontano dalla famiglia, causa una scorrettezza commessa al lavoro precedente. La sua vita mondana, la sua esca nel mondo, nella vita, è ridotta all'andare di rado in una balera dove si atteggia per quel che non è. Si comporta come se fosse qualcuno di importante e invece la chiamano “la cocorita” e non solo, per come si veste, si muove, e si trucca. In lei si cela la differenza sostanziale con “Maigret e il barbone”. Félicie non vive più nella realtà. Ama per esempio Jacques Petillon, nipote di Gambadilegno, ma lui non se n'è mai reso conto. È tutto un “viaggio” che accade nella mente di lei. Maigret, che ha compreso la natura genuina delle sue intenzioni, nonostante abbia aspetto e comportamento caricaturali, arriva a provarne letteralmente affetto. Per natura genuina intendo la volontà, sana, di farsi una famiglie, ed essa parte da un sentimento convinto. Maigret ha compreso che con le sue forze, Félicie, non riuscirà mai ad avviarsi verso il destino che desidera. Troppa irrealtà, troppa solitudine, troppa povertà, lo impediscono.

Come il bimbo che si trova solo, con i genitori per esempio al lavoro, e le tate che parlano cirillico o arabescato, e decide di dare un nome agli alberi del giardino fino a farne tanti amici (Piersilvio Berlusconi), oppure dai ghirigori della moquette vede prendere forma qualcosa che con lui dialoga (Elias Canetti), o il protagonista di “Kafka sulla spiaggia” che dialoga con un inesistente corvo …. così Fèlicie, nell'impossibilità di vivere il sogno … lo sogna. E quella vita fittizia, si fa così intensa da supplire a quella vera senza collidere o combaciare mai. Lui, il sognato esiste. Lui è il supporto della fantasia e per quel passo che porta alla realtà, serve un Maigret che purtroppo spesso nella vita non si ha la fortuna di incontrare.

Descriviamo ora Jacques Petillon. Qui facciamo presto poiché si tratta di una figura tipica, spesso presente nella letteratura di Simenon. Si tratta del ragazzo che vive alla giornata, ai margini di se stesso e della vita, oserei dire senza un'idea vera di cosa la vita sia. Ne “Il crocevia delle Tre Vedove”, per esempio, abbiamo due esempi maschili e un raro caso al femminile poiché tendenzialmente, in Simenon, quando la donna non è “a regime” col mito della famiglia, allora è un'entità altamente distruttiva. Félicie in fondo è a posto, ha solo il difetto che vive, come me, coi piedi per terra e la testa fra le nuvole. Questo Nipote di Gambadilegno è un sensa famiglia, che equivale a non aver avuto all'origine gli stimoli giusti, fa il saxofonista in locali discutibili e ha “amici” che evidentemente non ha selezionato nemmeno un po'

. e infatti uno di questi si è nascosto nella sua stanza in quel breve periodo nel quale il nipote è stato ospite dallo zio Gambadilegno. In questo frangente l'amico poco affidabile, ha nascosto dei soldi, frutto di una rapina, all'insaputa di tutti in quella stanza. L'amico sgradevole finirà in carcere, ma una volta uscito cercherà di recuperare il contante. È così che ci scappa il morto che è Gambadilegno, e il nipote, maldestro e senza spina dorsale, è in parte colpevole per vari motivi: amicizie deplorevoli. Aver ospitato in casa d'altri qualcuno che è marcato stretto dalla polizia, e aver assecondato il bisogno del farabutto, di tornare in quella stanza per un motivo che anche Emilio Fede avrebbe compreso essere una scusa.

Veniamo ora a Gambadilegno. Si tratta di un'altra figura tipica di Simenon. Possiamo considerarlo alla stregua del proprietario ubriacone del battello e Félicie, come la figlia di questi. Se si osserva attentamente la situazione, questo scapolo asociale infatti, litigando spesso, pretendendo di controllare la sua morale, fa un po' troppo il paparino … Gambadilegno ha avuto una vita insensata. Una delle tante forme della frigidità comportamentale che porta a non far fiorire la vita, che non porta alla famiglia, per un difetto, diciamo di fabbricazione all'origine. Un ramo secco che la natura taglia senza esitazione. La casa-battello infatti andrà alla figlia-domestica …

Come ho spesso consigliato, quando si legge Simenon, non ci si deve fermare al giallo. Anche in questo caso l'effettivo epilogo non consiste nell'aver confermato la giustizia secondo le leggi, ma quella secondo natura. In essa, la colpevolezza scapestrata, quasi indolente di Jacques Petillo, il nipote, è annullata, è come se Maigret non la vedesse e sappiamo che se un vero uomo di legge agisse così verrebbe stigmatizzato, ma Maigret, divinità tutelare della famiglia, crea una situazione che è giustizia secondo la natura. Dopo l'ultima pagina sappiamo che per Félicie la strada è spianata e in discesa, L'amato è a letto da accudire e non ha nessuno, lei ha il suo amore che deve scendere fra i vivi, e la casa-barca pronta ad accoglierla. Il vero finale è quindi quello delle favole … e vissero felici e contenti.

Silvia Larenza: "Campanelle azzurre e fischietti magici"


Una telefonata: “Te la senti di presentare un libro?”

Ma di cosa si tratta ...”

E' una favola. Immagino che prima vuoi leggere qualcosa”.

Di solito rifiuto una volta scorse alcune pagine. Troppa gente si atteggia ed è talmente abituata a farlo da non riuscire più a rendersi conto conto che, la maschera che indossarono, è ormai diventata per loro, il volto. Amo le favole ma, poiché scrivo, so per certo che è difficile, veramente difficile scriverne una vera. Servono, in una vita, delle coincidenze rare per riuscirci.

E penso a Jane Francesca Elgee che era nota per le sue, di favole, al punto che il figlio non veniva mai presentato col suo nome ma come figlio di Lady Jane … anni dopo si invertirono i ruoli e presentavano la madre come mamma di Oscar Wilde …

e lui, Oscar Wilde, è stato uno dei pochissimi a scrivere anzi, inventare, favole. Ebbe una madre che lo guidò nel difficile compito di avere fantasia. Accadde qualcosa di simile al grande poeta Esenin. Era un bambino e chiese col padre: “ma chi ha messo la luna in cielo!” E il bravo genitore gli disse. “Ti ricordi di quel tale grande e grosso che vende pentole al mercato? È stato lui. La prossima volta che andiamo te lo mostro!” Non vi fa sorridere? A me si, mi allarga il cuore; ma quel padre, nella sua bonaria comicità, forse non sapeva che così si alleva il sogno, la mente che impara ad andare oltre la concretezza. E per il profumo di favola penso a Trilussa, ormai poco letto se non nella sua Roma.

Ci fu un periodo nel quale, alla corte del re sole, poi in Germania con i Grimm e in Finlandia, per esempio, si raccolsero testimonianze orali di racconti ormai senza tempo. Li chiamano favole. Ma lo sono? Per me la favola è una conquista enorme. Le scrive chi ama la vita.

Ma dimmi qualcosa di questa persona...”

E' una donna.”

Succede e non è grave. Anche Beatrix Potter era una donna e tuttora la leggo e guardo i suoi acquerelli con piacere! Ma come mai ha deciso di scrivere una favola?”

Penso che sia perché è nonna.”

Va bene. La presento.”

Ma ti fidi anche se non hai letto niente?”

Si. È l'intenzione che mi interessa, e assai più del risultato. Maometto e Cristo la pensano allo stesso modo e penso si tratti di personaggi affidabili, non credi?”

E così, via e mail è arrivato il testo.

Devo dire qualcos'altro sulla favola. Essa esiste e “cammina” con passi nel novecento, ai più, sconosciuti. Nabokov racconta un incontro con un folletto. Un gioiellino breve, perfetto che si trova nel volume “La veneziana”. Axel Munthe, ingiustamente quasi dimenticato, ne incontra uno simile, e lo potete leggere ne “La storia di San Michele”. In ambedue le narrazioni siamo accolti dal fremito della nostalgia. Quel mondo magico, vero per l'infanzia, è distrutto, in Russia, dalla violenza della rivoluzione, in Svezia dalle esplosioni per produrre i tunnel per far viaggiare i treni. Civiltà e violenza, la prima nella sua follia, e la seconda nel suo eccesso di razionalità, non hanno più posto per questi voli sognanti… ma accade che un meccanismo antico, qualcosa di arcaico alla base del cervello più primitivo, fa riemergere un mondo. Albert Schweitzer raccontò la sua emozione quando vide l'incontro di un pigmeo con l'alba nella foresta. Questi, mentre osservava estasiato, modulò semplicemente un lungo e basso “ooooooh”. Schweitzer intuì, giustamente, che quel verso, introvabile in un vocabolario, era la nascita, continua, della poesia.

La civiltà può relegare la favola nel libro e nell'infanzia, ma ci son due momenti dell'esistenza nei quali si inventa col cuore in mano; quando si diventa genitori e quando si diventa nonni. Di solito è più la seconda tappa a permetterlo, poiché i nonni non sempre ma spesso, hanno più tempo.

E mi permetto di dire con una certa rabbia, che un assassino di favole è l'ospizio. Quegli idioti che si liberano dei loro vecchi, della loro memoria, gettandoli in una morte in vita, non sanno di defraudare i figli di una ricchezza che vale tanto, troppo e li consegnano all'età adulta senza difese contro la tristezza.

Silvia Larenza è una nonna e la sua gioia, il suo modo di promuovere la vita, ha preso la forma di una favola. Ho chiesto com'è nata l'idea e ho compreso che di fatto non è accaduto nulla di pensato, di calcolato. Il nipotino abita distante e la sera, l'appuntamento telefonico, si è trasformato in una narrazione.

A questo punto mi ha incuriosito l'argomento. Ha inventato? Ha fatto un collage di quel che le passava per la mente? E invece no. E mi racconta di una nonna che indubbiamente le voleva bene, ma non le permetteva, per paure varie, di uscire dal recinto del giardino. E come fare allora ad oltrepassare quel muro che lo cintava? Con l'aiuto di un folletto che la guidò, lei bambina, nel suo mondo incantato.

È bello e mi piace che quel ricordo sia tornato a galla così. Vi posso raccontare di un bambino che in un giardino enorme in Lombardia, troppo spesso solo, diede il nome a gli alberi e con essi parlava. Ora che è adulto, ha ancora cura di loro e sempre chiede al giardiniere come stanno. Se qualcuno di loro “soffre” cerca la cura, se uno muore, va a salutarlo per l'ultima volta. Quel bambino ora cresciuto si chiama Piersilvio, il cognome lo intuite, e io spero che con l'innocenza della sua infanzia, ai figli o nipoti, racconti dei suoi consessi con alberi saggi e birichini.

Come potere cogliere da questi due esempi, da quello di Silvia e Piersilvio, tutto parte da una sofferenza intollerabile che si chiama solitudine. Quel che è capace di fare un bambino se lasciato libero di vivere ed esplorare lo potete leggere con divertimento nel libro autobiografico di Gerald Durrell intitolato “La mia famiglia e altri animali”. Vale la pena di farlo per comprendere lo spazio enorme che quei due bambini dovettero riempire con la fantasia … e dopo anni, quel sottile dolore, in Silvia si fa favola.

E disegna anche. È stata vittima di un'accademia, ma si sa che nessuno ci dice che quel che ami non devi fartelo insegnare ma impararlo da solo … comunque, quelle immagini colorate, che invadono d'infanzia anche la copertina, sono sicuro che per i bambini funzionano.

Ora sta scrivendo qualcos'altro. Mi auguro che vi sia sempre un motivo valido poiché come scrisse Fitzgerald, “si scrive solo se si ha qualcosa da dire....”

Nel primo libro la gioia di un nipote è stata per lei il coronamento dell'esistenza. Ora essere nonna, vispa e piena di voglia di fare, prenderà forme ammiccanti, come dolci squisiti, pietanze di quella terra, la Puglia, che secondo il mio palato è la migliore d'Italia e … immagino che a sera, quando ha scritto l'ultima parola, prima di consegnarsi all'oblio del sonno, immagino che canticchia qualcosa di elementare e profondo come quell' Ohhhh del pigmeo, qualcosa di antico e vero che è alla base di tutto quanto diventerà poesia.