lunedì 14 gennaio 2013

James Stephens: ''La pentola dell'oro''



Di James Stephens ho scelto come primo libro da consigliare, “La pentola dell'oro”. Io ho l'edizione Adelphi. La pubblicazione ha secondo me dei difetti notevoli che non riguardano la traduzione, di Adriana Motti, che mi sembra valida. Il punto è che serviva un glossarietto datato anche di qualche immagine.

Ecco un esempio. Il personaggio principale dice: “Quando sono uscito dalla casa di Angus og nella grotta dei dormienti ...”
Angus Og appare senza esser troppo presentato. Stephens scriveva per gli irlandesi e per loro quel nome è chiaro noto. Cosa costava mettere una nota a piè di pagina e dire che si tratta del presunto dio dell'amore dell'epoca precristiana irlandese?
E la grotta dei dormienti? Questa può essere accettata così com'è perché attualmente tonnellate di prodotti del genere fantastico, film e libri prevalentemente, ci offrono citazioni altisonanti che non vengono spiegate anche perché spesso non altro intentche quello di produrre un'immagine roboante che soggettivamente rivestiremo di ciò che le sembra più affine, quasi a caso. Quando sentiamo dire per esempio: “nel rifugio del grande Rutwagruth, dove la spada del principe Serth galleggia in una vasca colma sangue dei nemici vinti...”. Indubbiamente un'immagine ce la creiamo, ma essa può avere solo delle basi recuperate dei precedenti film o libri fantasy, che abbiamo ingerito.
Ricordo per esempio di aver visto un film che era una vera miniera di citazioni, un vero mix che andava da Dracula, passando per Frankenstein e svicolando in ogni storia che potesse offrire duelli e draghi. Io, sistematicamente riconoscevo l'origine e del film capivo qualcosa in più di chi … è senza passato.
Ebbene, offrire “La pentola dell'oro” senza nemmeno le note, diventa un'operazione talmente monca e … banale che quasi quasi mi converrebbe consigliare di non leggere. Chi di voi avrà l'accortezza di andare a cercarsi i “Sette dormienti”, o “Angus Og” o gli “Shee”, o i “Leprecauni” su internet? … e purtroppo se non si agisce in questo modo il libro scade al livello di un qualsiasi Fantasy commerciale.

Quando appare la figura di un “leprecauno”, cosa possiamo pensare? Come non “dargli” qualcosa della lepre visto che il nome la contiene? Se ne esce sviati. Del legame con la tradizione irlandese ci rimane un poco di atmosfera e basta anche perché, purtroppo per la stragrande maggioranza degli umani l'equazione è Joyce- Irlanda e non certo Stephens- Irlanda, che sarebbe molto più sano.
Ebbene, cos'è un leprecauno? Una specie di folletto. Eccovi l'immagine di una statuetta.


Lo si riconosce dall'essere piccolino e vestito di solito di verde; di solito, non diversamente da come capita per i santi medievali nelle pale d'altare, ha qualche oggetto che lo identifica in modo più preciso, poiché ci son vari tipi di folletti. Ha di solito un orcio d'oro, oppure un quadrifoglio. Capita anche che lo si rappresenti mentre fa il calzolaio, attività questa, che predilige. Questa professione rappresenta la sua terrestrità, resa evidente se si tiene per esempio conto che nessun leprecauno ha le ali mentre invece altri folletti e fate si. Per portare l'esempio sul simbolo arcaico, l'essere zoppo del capitano Achab nel “Moby Dick” non serve ad altro che accentuare la terrestrità del suo ruolo. Non si vola senza ali, ma se si è zoppi diventa ancor più difficile. Teniamo poi conto che l'essere umano e gli animali istintivamente, riconoscono ciò che è vivo dal movimento e si comprenderà che lo zoppo, meno mobile della persona normale, è più vicino alla morte.
Torniamo a Stephens e al suo libro.
I leprecauni rappresentano la terrestrità che è in grado di reagire quando viene offesa. Quel che innesca di fatto la storia è la morte di un uccellino protetto dai leprecauni, causata dal gatto di una persona. La prima reazione dei folletti è di rubare l'asse per lavare i panni a sua moglie. La persona va del filosofo per capire dove questa benedetta asse può essere andata a finire e per mezzo di ragionamenti che hanno ben poco del logico, il filosofo da la risposta giusta. Consiglia il marito della donna di andare sotto il tale albero dove i folletti hanno la tana, per recuperarla, ma questi trova invece un orcio pieno d'oro e tutto contento lo porta via seppellendolo sotto una siepe di biancospino, luogo dal quale i leprecauni no possono recuperarlo perchè ha una sacralità che va difesa. Come si può vedere, lo scheletro della trama è quasi onirico. Questo è un ottimo segno quando si affronta un racconto che ha che fare con figure mitologiche e quindi con simboli. La parola Leprecauno traduce l'antico “luchorpan” che della lepre ha perso giustamente ogni riferimento, e vuol dire piccolo corpo.
Bisogna dire una cosa semplicissima sul ruolo dei folletti: essi sono sia un'emanazione delle forze naturali e della terra, che l'anello intermedio fra gli animali e l'uomo. Non è strettamente esatto immaginare la catena animali-folletti-uomo, poiché esiste la divinità che con tutte queste dimensioni è in contatto, e in modo diverso. Chi non comunica più sono gli animali e gli uomini. Questo possiamo coglierlo nel punto del libro di Stephens nel quale l'asino, decisamente maltrattato e non compreso nella sua potenzialità, dagli umano, dialoga con il ragno. È per questo che, come ho scritto nel post dedicato al “Piccolo Principe”, non ha senso distinguere le favole che hanno animali dalle fiabe che non ne hanno, poiché il dialogo fra animali e fra uomo e animale appartiene ad un flusso evolutivo che deve essere compreso e sfugge sicuramente se si agisce in modo settoriale.
Esistono figure simili ai fauni e agli Shee nella cultura greco-latina? Certo. Ed esempio la ninfa egeria, divinità delle acque, che abitava in una sorgente nei pressi del lago di Nemi e spesso dialogava con l'imperatore Augusto che non disdegnava i suoi consigli. Ne vogliamo trovare degli altri? È questione di calarsi nella realtà rurale di ogni luogo e ne troveremo tanti. Ci rimangono dei folletti colorati un po' troppo chimicamente … sarà l'inquinamento, mi riferisco ai Puffi, ma si ricordi che ogni luogo aveva i suoi … si chiamava tradizione che veniva raccontata la sera davanti al fuoco. Io ho ancora in mente il lupo Fenrir della mia infanzia e certi gnomi del bosco e se passeggiavo nel loro territorio lasciavo cadere sempre qualche briciola di pane o anche una caramella per loro.
Sempre dei Luchorpan o leprecauni si può dire che in Irlanda essi sono diventati anche un costume tipico che si indossa forse ormai anche per carnevale, ma di solito per la festa di San Patrizio che cade il 17 marzo, poiché alla sua leggenda è legato. Nella immagine che segue vedete un leprecauno che apre il corteo per la festa del santo. Il santo è Patrono anche di Boston e Montreal, zone nelle quali la presenza irlandese è molto forte e la festa è talmente sentita che si è giunti a colorare di verde, per la festa del santo, l'acqua del fiume Hudson.


le due foto seguenti vi mostrano la passione per questo travestimento che è tuttora assai diffusa sia fra adulti (in questo casi si tratta di Jo) che fra bambini.


Angus Og è una divinità irlandese precristiana. Bella la sua sfida con Pan, che ha deciso di cambiare zona d'influenza. Questa è la bella idea di James Stephens che permette alla storia delle leggende irlandesi di crescere di un volume anche nel ventesimo secolo!

Per rendere visibile qualcuno del popolo degli “shee” mi affido a Richard Dadd, pittore eccellente e dotato oltre che di un'ottima tecnica, anche di una bella fantasia.


Veniamo ora alla “grotta dei Dormienti”.
Si tratta di un luogo che si trova un po' fuori da Efeso e la storia è la seguente. L'imperatore Decio ordinò la persecuzione dei cristiani. Chi non adorava gli dei veniva condannato. Alcuni di loro rifiutarono quell'ordine, furono condannati, ma non immediatamente. Poterono, per il momento, rincasare. Si diedero alla fuga e si rifugiarono in una grotta. Quando furono trovati vennero murati vivi. Accadde che, si dice 209 anni dopo, alcuni pastori ruppero inavvertitamente il muro della grotta per allargare il loro ovile. Fu così che i dormienti si svegliarono, ma per un giorno solo. Era il regno di Teodosio secondo, il quale li fece seppellire nella medesima caverna che divenne così luogo di culto. L'evento fu considerato importantissimo poiché confermava la resurrezione della carne che era un cardine del cristianesimo.
Mi permetto di ricordare che Danilo Kis, scrittore Balcanico che ammiro, dedicò al loro sonno e al risveglio, un racconto impegnativo ma veramente ipnotico.

Ora ripetiamo la frase dell'inizio: “Quando sono uscito dalla casa di Angus Og nella grotta dei dormienti” … siete d'accordo con me che ora che se ne sa qualcosa ha un altro sapore?

Ora, sia la vostra fantasia che la vostra cultura hanno quella dotazione minima che vi permette di affrontare con decenza, questo capolavoro …

Il linguaggio di James Stephens. In questo libro si inizia con l'ironia, si passa alla saggezza e si va verso un finale che ci si rende conto di non comprendere mai completamente. Nessun timore. L'ironia ci piacerà e ve ne offro un assaggio:
Nel cuore della Pineta chiamata Coilla Doraca vivevano or non è molto due filosofi. Erano più saggi di qualunque altra cosa al mondo, eccettuato il salmone che se ne sta nello stagno di Glyn Cagny, dove il nocciolo piantato sulla riva lascia cadere i frutti della conoscenza....”

...la donna grigia di Dun Gortin e a donna magra di Inis Magrath fecero ai tre filosofi le tre domande a cui nessuno era mai stato in grado di rispondere, e loro trovarono subito le risposte. Fu così che si guadagnarono l'ostilità di queste donne che conta molto più dell'amicizia degli angeli. La Donna grigia e la Donna magra furono talmente irritate, dal sentirsi rispondere, che sposarono i due filosofi per avere la possibilità di pizzicarli a letto; ma i filosofi avevano la pelle così dura che quei pizzicotti non li sentivano nemmeno. Ricambiavano la rabbia delle due donne con un così tenero affetto che quelle pessime creature quasi morivano di crepacuore e una volta, in una vera e propria estasi di furia, dopo che i loro mariti le avevano baciate, esse scagliarono le millequattrocento maledizioni nelle quali consisteva la loro saggezza; i filosofi le impararono, e così divennero ancor più saggi di prima.”

Questi brani sono l'inizio del libro e, poche righe più sotto. Per un europeo, cartesiano, newtoniano, consumatore che vive in un presente fatto di sola logica pratica, è spiazzante … ma attraente. Si sorride sicuramente, ma si deve anche prendere atto che la ragione qui serve fino ad un certo punto. Nel corso della narrazione infatti, il pensiero si dimostra essere un livello di vita che esclude sensazioni più alte. Si noti l'influenza che il Flauto di Pan ha su chiunque tranne i bambini che ne sono esclusi perché non sono sessualmente sviluppati! Le mucche, le capre, gli animali tutti, scalpitano. Il filosofo stesso, dopo aver parlato con Pan, quando se ne va e sente quella “spifferata”, si sente carico di vitalità ed energia e tutto del paesaggio gli sembra diverso da prima quando si limitava a pensarlo.
Ci si trova a fare i conti di un vivere che non è il nostro che consideriamo civile. Si tratta di una onestà verso le sensazioni del corpo, verso una possibilità di realizzazione del sé, antica e tuttora affascinante.

Sicuramente si incontrerà qualche problema nella lettura, poiché Stephens alterna pagine assai discorsive e piacevoli, a meditazioni profonde che ci costringono a rallentare e a soppesare ogni particolare. È come se si nuotasse nell'acqua e si incontrasse una parte più densa, per esempio miele, che comunque si deve attraversare.
Accade poi che per esempio ci si rompa la testa per comprendere le frasi che il filosofo, seguendo l'ordine della divinità, consegna alle persone destinatarie. Quegli oracoli sono per loro quindi possiamo sentirli ma non capirli.

Il mio consiglio, per affrontare una lettura che va dal semplice al complesso, anche se un linguaggio quotidiano, è di leggere e non preoccuparsi di comprendere tutto. L'anno dopo poi, si riprende in mano il libro ed ecco che il “miele” si attraverserà con più disinvoltura, anche se, ancora, con qualche fatica di troppo. Arriverà poi la terza lettura e poi la quarta. Mi raccomando! Un libro vero, uno di quelli che ha veramente qualcosa da donare che ci farò crescere, non dobbiamo limitarci a leggerlo una volta sola! È fondamentale!. Si pensi che già alla seconda lettura possediamo decentemente la trama! Questo permetterà di cogliere qualche sfumatura che alla prima lettura ci è sfuggita per forza di cose. Alla terza lettura l'attenzione sulla trama sarà ormai minima e scopriremo un mondo! Si aggiunga poi che, come ripeto sempre, noi possiamo pensare non su quanto abbiamo capito, ma su quanto ricordiamo. Capire non basta se poi il compreso non lo si “fissa” nella mente!

Vi porto come esempio una cosa che mi è capitata anni fa. Mi innamorai di pochi versi di Ezra Poun e li riporto, a memoria, qui di seguito:

Phillydula è magrissima ma amorosa. Per questo gli dei le hanno concesso di ricevere, in amore, molto più di quanto possa dare.
Se questo non crede una portuna, che cambi religione”.

Mi affascinava, in queste poche parole, l'idea della ragazza che sente di non avere nulla da dare in amore e scopre che la sua qualità è di essere fatta per ricevere.
Non immaginate quante volte me la sono ripetuta e … improvvisamente, dopo molto tempo, è maturata in me una scena: la ragazza che va dall'oracolo e chiede per l'amore. Quella che Ezra Pound ha trascritto è la sentenza, il messaggio divino che deve comprendere. Ed esso è veramente chiaro e insegna la via, come vivere, per lei, per Phillydula. È geniale pensare ad un esserino che si sente inadatto all'amore, anche a quello dei sensi e sentirsi dire che il suo ruolo è quello di ricevere, non di dare, che di solito ci sembra l'unica via per soddisfare, per ringraziare, per amare.
E infatti spesso, molto spesso, si sente gratificato che lo fa il dono. Dimenticarsi questo è tipico della nostra epoca.
Pound in quei versi non ha messo scenografie, cieli tersi, Delfi e altre fantasie. È il lento impossessarsi delle parole, quel loro lento sublimarsi in anima che rivela la scena.
Quindi … anche per la grande poesia, mai leggere una volta sola.

Io l'ho fatto con la Recherche di Proust. Quattro letture complete … mi capita ogni tanto di gustarne un centinaio di pagine e ho nostalgia di un tempo futuro, che spero prossimo, nel quale ripeterò quella magnifica lettura interrompendomi solo per mangiare, andare il bagno e portare fuori il cane.
Ho letto undici volte “Il maestro e Margherita”, una decina l'opera di Kafka … e, mi raccomando, non sono matto, semplicemente mi rendo conto che ricevo talmente tanto che quando torno a me stesso sento di non essere più quello di prima. Migliore per il mondo non lo so, ma più sopportabile per me medesimo, più capace di sorridere, di essere indulgente, paziente. È comunque vero che per ottenere questi “Doni” servono volontà e tempo. Per la volontà non so che dirvi, per il tempo … se buttate via la tivù come ho fatto io, già ne scoprite tanto...

Aggiungo un particolare che caratterizza la struttura di due libri di Stephens: “LA pentola dell'oro” e “I semidei”. La lezione del viaggio. Il filosofo parte per andare da Angus Og e poi torna. Si tratta di due terzi del libro. Nell'immobilità iniziale si innesca il dramma, in quella finale se ne ha un epilogo.
Ne “I semidei”, tutto è viaggio … viaggiare equivale ad entrare in contatto col mondo, reagire, agire. Quale strano effetto per la nostra società con case di pietra e legami quasi mai del cuore con oggetti, lavoro, leggi. Qualesalto nel vuoto sembra offrire il libro, nel quale la lotta e di conseguenza la pace da ottenere, è legata ad esigenze fondamentali! La fame, la sete, e poi, dopo, si è a posto … è un altro mondo che ci parla, ma non dobbiamo mai pensare che si tratta di un gioco. Come Wilde, che stupiva con paradossi indimenticabili, ma che per vivere la nostra e la sua epoca, disattendiamo e dimentichiamo, come Wilde, Stephens è irlandese, e ha nutrito l'anima alle medesime favole, ai medesimi dei e santi e folletti, ai medesimi simboli.
Come Wilde, Stephens dice la verità, quella profonda, che la filosofia col solo pensiero, non può contaminare.

E ora due parole su James Stephens.


Nacque lo stesso anno, lo stesso mese, lo stesso giorno, la stessa ora e pure nel medesimo ospedale, di James Joyce che diceva che erano gemelli celesti. E io dico che gli sarebbe piaciuto … se a Joyce togli la moda, non rimane quasi nulla. Se a Stephens togli la moda, non cambia di un millimetro.
James Stephens è l'anima dell'Irlanda. La continuità con la sua terra non è come per Joyce, quasi completamente un fattore linguistico. È di più; è anima, tradizione.
Lo dimostra un semplice fatto che potrete constatare personalmente. Prendete un'opera di Joyce, la leggete e con grande probabilità non la cercherete più. Fa chic dire che è stato letto, ma se ne parla poco. Prendete “La pentola dell'oro”, oppure “I semidei”, e certo penserete spesso a quel che vi ha raccontato, e in più sarà difficile resistere e non consigliarlo e in una sera d'inverno, riprenderlo in mano e lasciarsi andare ...


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