Di James Stephens ho
scelto come primo libro da consigliare, “La pentola dell'oro”. Io
ho l'edizione Adelphi. La pubblicazione ha secondo me dei difetti
notevoli che non riguardano la traduzione, di Adriana Motti, che mi
sembra valida. Il punto è che serviva un glossarietto datato anche
di qualche immagine.
Ecco un esempio. Il
personaggio principale dice: “Quando sono uscito dalla casa di
Angus og nella grotta dei dormienti ...”
Angus Og appare senza
esser troppo presentato. Stephens scriveva per gli irlandesi e per
loro quel nome è chiaro noto. Cosa costava mettere una nota a piè
di pagina e dire che si tratta del presunto dio dell'amore dell'epoca
precristiana irlandese?
E la grotta dei dormienti?
Questa può essere accettata così com'è perché attualmente
tonnellate di prodotti del genere fantastico, film e libri
prevalentemente, ci offrono citazioni altisonanti che non vengono
spiegate anche perché spesso non altro intentche quello di produrre
un'immagine roboante che soggettivamente rivestiremo di ciò che le
sembra più affine, quasi a caso. Quando sentiamo dire per esempio:
“nel rifugio del grande Rutwagruth, dove la spada del principe
Serth galleggia in una vasca colma sangue dei nemici vinti...”.
Indubbiamente un'immagine ce la creiamo, ma essa può avere solo
delle basi recuperate dei precedenti film o libri fantasy, che
abbiamo ingerito.
Ricordo per esempio di
aver visto un film che era una vera miniera di citazioni, un vero mix
che andava da Dracula, passando per Frankenstein e svicolando in ogni
storia che potesse offrire duelli e draghi. Io, sistematicamente
riconoscevo l'origine e del film capivo qualcosa in più di chi … è
senza passato.
Ebbene, offrire “La
pentola dell'oro” senza nemmeno le note, diventa un'operazione
talmente monca e … banale che quasi quasi mi converrebbe
consigliare di non leggere. Chi di voi avrà l'accortezza di andare a
cercarsi i “Sette dormienti”, o “Angus Og” o gli “Shee”,
o i “Leprecauni” su internet? … e purtroppo se non si agisce
in questo modo il libro scade al livello di un qualsiasi Fantasy
commerciale.
Quando appare la figura di
un “leprecauno”, cosa possiamo pensare? Come non “dargli”
qualcosa della lepre visto che il nome la contiene? Se ne esce
sviati. Del legame con la tradizione irlandese ci rimane un poco di
atmosfera e basta anche perché, purtroppo per la stragrande
maggioranza degli umani l'equazione è Joyce- Irlanda e non certo
Stephens- Irlanda, che sarebbe molto più sano.
Ebbene, cos'è un
leprecauno? Una specie di folletto. Eccovi l'immagine di una
statuetta.
Lo si riconosce
dall'essere piccolino e vestito di solito di verde; di solito, non
diversamente da come capita per i santi medievali nelle pale
d'altare, ha qualche oggetto che lo identifica in modo più preciso,
poiché ci son vari tipi di folletti. Ha di solito un orcio d'oro,
oppure un quadrifoglio. Capita anche che lo si rappresenti mentre fa
il calzolaio, attività questa, che predilige. Questa professione
rappresenta la sua terrestrità, resa evidente se si tiene per
esempio conto che nessun leprecauno ha le ali mentre invece altri
folletti e fate si. Per portare l'esempio sul simbolo arcaico,
l'essere zoppo del capitano Achab nel “Moby Dick” non serve ad
altro che accentuare la terrestrità del suo ruolo. Non si vola senza
ali, ma se si è zoppi diventa ancor più difficile. Teniamo poi
conto che l'essere umano e gli animali istintivamente, riconoscono
ciò che è vivo dal movimento e si comprenderà che lo zoppo, meno
mobile della persona normale, è più vicino alla morte.
Torniamo a Stephens e al
suo libro.
I leprecauni rappresentano
la terrestrità che è in grado di reagire quando viene offesa. Quel
che innesca di fatto la storia è la morte di un uccellino protetto
dai leprecauni, causata dal gatto di una persona. La prima reazione
dei folletti è di rubare l'asse per lavare i panni a sua moglie. La
persona va del filosofo per capire dove questa benedetta asse può
essere andata a finire e per mezzo di ragionamenti che hanno ben poco
del logico, il filosofo da la risposta giusta. Consiglia il marito
della donna di andare sotto il tale albero dove i folletti hanno la
tana, per recuperarla, ma questi trova invece un orcio pieno d'oro e
tutto contento lo porta via seppellendolo sotto una siepe di
biancospino, luogo dal quale i leprecauni no possono recuperarlo
perchè ha una sacralità che va difesa. Come si può vedere, lo
scheletro della trama è quasi onirico. Questo è un ottimo segno
quando si affronta un racconto che ha che fare con figure mitologiche
e quindi con simboli. La parola Leprecauno traduce l'antico
“luchorpan” che della lepre ha perso giustamente ogni
riferimento, e vuol dire piccolo corpo.
Bisogna dire una cosa
semplicissima sul ruolo dei folletti: essi sono sia un'emanazione
delle forze naturali e della terra, che l'anello intermedio fra gli
animali e l'uomo. Non è strettamente esatto immaginare la catena
animali-folletti-uomo, poiché esiste la divinità che con tutte
queste dimensioni è in contatto, e in modo diverso. Chi non comunica
più sono gli animali e gli uomini. Questo possiamo coglierlo nel
punto del libro di Stephens nel quale l'asino, decisamente
maltrattato e non compreso nella sua potenzialità, dagli umano,
dialoga con il ragno. È per questo che, come ho scritto nel post
dedicato al “Piccolo Principe”, non ha senso distinguere le
favole che hanno animali dalle fiabe che non ne hanno, poiché il
dialogo fra animali e fra uomo e animale appartiene ad un flusso
evolutivo che deve essere compreso e sfugge sicuramente se si agisce
in modo settoriale.
Esistono figure simili ai
fauni e agli Shee nella cultura greco-latina? Certo. Ed esempio la
ninfa egeria, divinità delle acque, che abitava in una sorgente nei
pressi del lago di Nemi e spesso dialogava con l'imperatore Augusto
che non disdegnava i suoi consigli. Ne vogliamo trovare degli altri?
È questione di calarsi nella realtà rurale di ogni luogo e ne
troveremo tanti. Ci rimangono dei folletti colorati un po' troppo
chimicamente … sarà l'inquinamento, mi riferisco ai Puffi, ma si
ricordi che ogni luogo aveva i suoi … si chiamava tradizione che
veniva raccontata la sera davanti al fuoco. Io ho ancora in mente il
lupo Fenrir della mia infanzia e certi gnomi del bosco e se
passeggiavo nel loro territorio lasciavo cadere sempre qualche
briciola di pane o anche una caramella per loro.
Sempre dei Luchorpan o
leprecauni si può dire che in Irlanda essi sono diventati anche un
costume tipico che si indossa forse ormai anche per carnevale, ma di
solito per la festa di San Patrizio che cade il 17 marzo, poiché
alla sua leggenda è legato. Nella immagine che segue vedete un
leprecauno che apre il corteo per la festa del santo. Il santo è
Patrono anche di Boston e Montreal, zone nelle quali la presenza
irlandese è molto forte e la festa è talmente sentita che si è
giunti a colorare di verde, per la festa del santo, l'acqua del fiume
Hudson.
le due foto seguenti vi
mostrano la passione per questo travestimento che è tuttora assai
diffusa sia fra adulti (in questo casi si tratta di Jo) che fra
bambini.
Angus Og è una divinità
irlandese precristiana. Bella la sua sfida con Pan, che ha deciso di
cambiare zona d'influenza. Questa è la bella idea di James Stephens
che permette alla storia delle leggende irlandesi di crescere di un
volume anche nel ventesimo secolo!
Per rendere visibile
qualcuno del popolo degli “shee” mi affido a Richard Dadd,
pittore eccellente e dotato oltre che di un'ottima tecnica, anche di
una bella fantasia.
Veniamo ora alla “grotta
dei Dormienti”.
Si tratta di un luogo che
si trova un po' fuori da Efeso e la storia è la seguente.
L'imperatore Decio ordinò la persecuzione dei cristiani. Chi non
adorava gli dei veniva condannato. Alcuni di loro rifiutarono
quell'ordine, furono condannati, ma non immediatamente. Poterono, per
il momento, rincasare. Si diedero alla fuga e si rifugiarono in una
grotta. Quando furono trovati vennero murati vivi. Accadde che, si
dice 209 anni dopo, alcuni pastori ruppero inavvertitamente il muro
della grotta per allargare il loro ovile. Fu così che i dormienti si
svegliarono, ma per un giorno solo. Era il regno di Teodosio secondo,
il quale li fece seppellire nella medesima caverna che divenne così
luogo di culto. L'evento fu considerato importantissimo poiché
confermava la resurrezione della carne che era un cardine del
cristianesimo.
Mi permetto di ricordare
che Danilo Kis, scrittore Balcanico che ammiro, dedicò al loro sonno
e al risveglio, un racconto impegnativo ma veramente ipnotico.
Ora ripetiamo la frase
dell'inizio: “Quando sono uscito dalla casa di Angus Og nella
grotta dei dormienti” … siete d'accordo con me che ora che se ne
sa qualcosa ha un altro sapore?
Ora, sia la vostra
fantasia che la vostra cultura hanno quella dotazione minima che vi
permette di affrontare con decenza, questo capolavoro …
Il linguaggio di James
Stephens. In questo libro si inizia con l'ironia, si passa alla
saggezza e si va verso un finale che ci si rende conto di non
comprendere mai completamente. Nessun timore. L'ironia ci piacerà e
ve ne offro un assaggio:
“Nel cuore della Pineta
chiamata Coilla Doraca vivevano or non è molto due filosofi. Erano
più saggi di qualunque altra cosa al mondo, eccettuato il salmone
che se ne sta nello stagno di Glyn Cagny, dove il nocciolo piantato
sulla riva lascia cadere i frutti della conoscenza....”
“...la donna grigia di
Dun Gortin e a donna magra di Inis Magrath fecero ai tre filosofi le
tre domande a cui nessuno era mai stato in grado di rispondere, e
loro trovarono subito le risposte. Fu così che si guadagnarono
l'ostilità di queste donne che conta molto più dell'amicizia degli
angeli. La Donna grigia e la Donna magra furono talmente irritate,
dal sentirsi rispondere, che sposarono i due filosofi per avere la
possibilità di pizzicarli a letto; ma i filosofi avevano la pelle
così dura che quei pizzicotti non li sentivano nemmeno. Ricambiavano
la rabbia delle due donne con un così tenero affetto che quelle
pessime creature quasi morivano di crepacuore e una volta, in una
vera e propria estasi di furia, dopo che i loro mariti le avevano
baciate, esse scagliarono le millequattrocento maledizioni nelle
quali consisteva la loro saggezza; i filosofi le impararono, e così
divennero ancor più saggi di prima.”
Questi brani sono l'inizio
del libro e, poche righe più sotto. Per un europeo, cartesiano,
newtoniano, consumatore che vive in un presente fatto di sola logica
pratica, è spiazzante … ma attraente. Si sorride sicuramente, ma
si deve anche prendere atto che la ragione qui serve fino ad un certo
punto. Nel corso della narrazione infatti, il pensiero si dimostra
essere un livello di vita che esclude sensazioni più alte. Si noti
l'influenza che il Flauto di Pan ha su chiunque tranne i bambini che
ne sono esclusi perché non sono sessualmente sviluppati! Le mucche,
le capre, gli animali tutti, scalpitano. Il filosofo stesso, dopo
aver parlato con Pan, quando se ne va e sente quella “spifferata”,
si sente carico di vitalità ed energia e tutto del paesaggio gli
sembra diverso da prima quando si limitava a pensarlo.
Ci si trova a fare i conti
di un vivere che non è il nostro che consideriamo civile. Si tratta
di una onestà verso le sensazioni del corpo, verso una possibilità
di realizzazione del sé, antica e tuttora affascinante.
Sicuramente si incontrerà
qualche problema nella lettura, poiché Stephens alterna pagine assai
discorsive e piacevoli, a meditazioni profonde che ci costringono a
rallentare e a soppesare ogni particolare. È come se si nuotasse
nell'acqua e si incontrasse una parte più densa, per esempio miele,
che comunque si deve attraversare.
Accade poi che per esempio
ci si rompa la testa per comprendere le frasi che il filosofo,
seguendo l'ordine della divinità, consegna alle persone
destinatarie. Quegli oracoli sono per loro quindi possiamo sentirli
ma non capirli.
Il mio consiglio, per
affrontare una lettura che va dal semplice al complesso, anche se un
linguaggio quotidiano, è di leggere e non preoccuparsi di
comprendere tutto. L'anno dopo poi, si riprende in mano il libro ed
ecco che il “miele” si attraverserà con più disinvoltura, anche
se, ancora, con qualche fatica di troppo. Arriverà poi la terza
lettura e poi la quarta. Mi raccomando! Un libro vero, uno di quelli
che ha veramente qualcosa da donare che ci farò crescere, non
dobbiamo limitarci a leggerlo una volta sola! È fondamentale!. Si
pensi che già alla seconda lettura possediamo decentemente la trama!
Questo permetterà di cogliere qualche sfumatura che alla prima
lettura ci è sfuggita per forza di cose. Alla terza lettura
l'attenzione sulla trama sarà ormai minima e scopriremo un mondo! Si
aggiunga poi che, come ripeto sempre, noi possiamo pensare non su
quanto abbiamo capito, ma su quanto ricordiamo. Capire non basta se
poi il compreso non lo si “fissa” nella mente!
Vi porto come esempio una
cosa che mi è capitata anni fa. Mi innamorai di pochi versi di Ezra
Poun e li riporto, a memoria, qui di seguito:
“Phillydula è
magrissima ma amorosa. Per questo gli dei le hanno concesso di
ricevere, in amore, molto più di quanto possa dare.
Se questo non crede una
portuna, che cambi religione”.
Mi affascinava, in queste
poche parole, l'idea della ragazza che sente di non avere nulla da
dare in amore e scopre che la sua qualità è di essere fatta per
ricevere.
Non immaginate quante
volte me la sono ripetuta e … improvvisamente, dopo molto tempo, è
maturata in me una scena: la ragazza che va dall'oracolo e chiede per
l'amore. Quella che Ezra Pound ha trascritto è la sentenza, il
messaggio divino che deve comprendere. Ed esso è veramente chiaro e
insegna la via, come vivere, per lei, per Phillydula. È geniale
pensare ad un esserino che si sente inadatto all'amore, anche a
quello dei sensi e sentirsi dire che il suo ruolo è quello di
ricevere, non di dare, che di solito ci sembra l'unica via per
soddisfare, per ringraziare, per amare.
E infatti spesso, molto
spesso, si sente gratificato che lo fa il dono. Dimenticarsi questo è
tipico della nostra epoca.
Pound in quei versi non ha
messo scenografie, cieli tersi, Delfi e altre fantasie. È il lento
impossessarsi delle parole, quel loro lento sublimarsi in anima che
rivela la scena.
Quindi … anche per la
grande poesia, mai leggere una volta sola.
Io l'ho fatto con la
Recherche di Proust. Quattro letture complete … mi capita ogni
tanto di gustarne un centinaio di pagine e ho nostalgia di un tempo
futuro, che spero prossimo, nel quale ripeterò quella magnifica
lettura interrompendomi solo per mangiare, andare il bagno e portare
fuori il cane.
Ho letto undici volte “Il
maestro e Margherita”, una decina l'opera di Kafka … e, mi
raccomando, non sono matto, semplicemente mi rendo conto che ricevo
talmente tanto che quando torno a me stesso sento di non essere più
quello di prima. Migliore per il mondo non lo so, ma più
sopportabile per me medesimo, più capace di sorridere, di essere
indulgente, paziente. È comunque vero che per ottenere questi “Doni”
servono volontà e tempo. Per la volontà non so che dirvi, per il
tempo … se buttate via la tivù come ho fatto io, già ne scoprite
tanto...
Aggiungo un particolare
che caratterizza la struttura di due libri di Stephens: “LA pentola
dell'oro” e “I semidei”. La lezione del viaggio. Il filosofo
parte per andare da Angus Og e poi torna. Si tratta di due terzi del
libro. Nell'immobilità iniziale si innesca il dramma, in quella
finale se ne ha un epilogo.
Ne “I semidei”, tutto
è viaggio … viaggiare equivale ad entrare in contatto col mondo,
reagire, agire. Quale strano effetto per la nostra società con case
di pietra e legami quasi mai del cuore con oggetti, lavoro, leggi.
Qualesalto nel vuoto sembra offrire il libro, nel quale la lotta e di
conseguenza la pace da ottenere, è legata ad esigenze fondamentali!
La fame, la sete, e poi, dopo, si è a posto … è un altro mondo
che ci parla, ma non dobbiamo mai pensare che si tratta di un gioco.
Come Wilde, che stupiva con paradossi indimenticabili, ma che per
vivere la nostra e la sua epoca, disattendiamo e dimentichiamo, come
Wilde, Stephens è irlandese, e ha nutrito l'anima alle medesime
favole, ai medesimi dei e santi e folletti, ai medesimi simboli.
Come Wilde, Stephens dice
la verità, quella profonda, che la filosofia col solo pensiero, non
può contaminare.
E ora due parole su James
Stephens.
Nacque lo stesso anno, lo stesso mese, lo stesso giorno, la
stessa ora e pure nel medesimo ospedale, di James Joyce che diceva
che erano gemelli celesti. E io dico che gli sarebbe piaciuto … se
a Joyce togli la moda, non rimane quasi nulla. Se a Stephens togli la
moda, non cambia di un millimetro.
James Stephens è l'anima
dell'Irlanda. La continuità con la sua terra non è come per Joyce,
quasi completamente un fattore linguistico. È di più; è anima,
tradizione.
Lo dimostra un semplice
fatto che potrete constatare personalmente. Prendete un'opera di
Joyce, la leggete e con grande probabilità non la cercherete più.
Fa chic dire che è stato letto, ma se ne parla poco. Prendete “La
pentola dell'oro”, oppure “I semidei”, e certo penserete spesso
a quel che vi ha raccontato, e in più sarà difficile resistere e
non consigliarlo e in una sera d'inverno, riprenderlo in mano e
lasciarsi andare ...
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