sabato 29 ottobre 2011

Mario Tobino: "Le libere donne di Magliano"

Ieri, in una delle mie solite sortite in un mercatino dell'usato, ho trovato finalmente, “Le libere donne di Magliano” di Mario Tobino. Dico finalmente perché, mi sono intestardito a non comperarlo in libreria e a trasformare il desiderio di lettura, che potrebbe essere assolto da una biblioteca, in possesso appagato solo se fosse stato frutto del caso, perché non ho trovato un'edizione con le caratteristiche che mi interessavano.



Mi spiego. Poiché, tranne pochi esemplari ai quali sono particolarmente affezionato, (diciamo che mi hanno visto crescere), presto con tranquillità i libri e non soffro troppo se non tornano. Non si tratta quindi di senso del possesso di tipo rapace, accumulativo. E si badi bene che anche in amore esiste questo senso del possesso che trasforma l'altro in oggetto, a volte con la scusa della gelosia e a volte per la semplice abitudine a pensare che tutto ciò che si desidera, prima che vissuto vada acquistato con le buone o depredato. È una legge del mercato che diviene abitudine allargata su tutto l'agire, lo stile, se di stile si tratta, consumatore, che si fa prendere dall'abitudine di possedere senza “possedere” in senso più profondo l'oggetto o l'essere vivente prescelto.



Di alcuni libri ho varie copie che escono spesso di casa. Per esempio “Il dottor Fischer di Ginevra” di Graham Greene, o “L'amico ritrovato” di Fred Uhlmann. Li recupero dal purgatorio dei mercatini anche per ridare dignità ad un oggetto, il “libro”, che se contiene pensieri di valore per me si emancipa dall'essere pura e semplice materia. Non si tratta solo di carta e inchiostro, ma di un frammento o di tutta l'anima di una grande mente che ha aperto la porta del tempo e, nell'immobilità che ha conquistata, ha unito presente passato e futuro e sempre ci sarà utile. Le copie in più le presto senza scadenza oppure le regalo e spesso esagero e rimango senza.....



Considerando i libri di valore come esseri viventi, non desidero che si parli di possesso. Trovo che sia ridicolo. I cani per esempio, per me non son mai stati miei. È un abito linguistico difficile da aggirare e che porta troppo spesso alla necessità di spiegarsi trasformando qualcosa di leggero, come un dialogo davanti a un caffè in qualcosa di gravato da troppe delucidazioni. No. I “miei” animaletti e i “miei” libri, non sono effettivamente miei. C'è una relazione e ci si è scelti entrambi. Un libro può non parlarti e quindi se se ne andrà non ne sentirai la mancanza e così pure accade con gli animali. Altrove ho raccontato di Lump, il bassottino nero focato di Picasso che decise di sua iniziativa che “quel tipo strano” gli andava bene e lasciò per lui il suo precedente compagno....

E poi, oltre la relazionalità che considero essenziale fra un vivente e un libro di valore, c'è un aspetto che mi appartiene come forma mentale. Secondo me chi ha incontrato la morte, la morte dell'altro, da bambino, non la dimentica mai. Essa condiziona lo stile di vita anche nelle cose minime. Io non dimentico mai che nulla “mi seguirà” quel giorno. Mi affeziono agli oggetti, ma son consapevole della mia transitorietà e non mi lego in modo forte. Questo aspetto del mio modo di relazionarmi con cose e persone mi ha portato per esempio, non molto tempo fa, a tenere un comportamento che solo dallo stupore altrui ho compreso essere forse non normalissimo. Stavo rincasando e ho sentito dei rumori che sembravano provenire dalla parte più distante dietro casa, in fondo al giardino. Arrivo allo spigolo del muro, getto lo sguardo e vedo una persona che sta armeggiando intorno alla mia bicicletta. Ce ne sono tre e mi son detto, che ne prenda una delle altre e non proprio quella. E così gli ho proposto di fare, con voce calmissima. Lo sconosciuto, preso alla sprovvista, mi ha guardato con spavento, ha saltato la rete di recinzione con un gesto atletico ridicolo, schiantandosi malamente nel giardino del vicino e poi si è “tirato su” rapidamente e si è dileguato. Io avevo pensato che se gli serviva una bicicletta poteva ben prenderla, avevo solo obiettato tra me e me, che non scegliesse la mia. In fondo, una persona che ha tre “bici” e vive da sola, com'è nel mio caso, poteva darne tranquillamente una. Ricordo che qualche amico mi ha contestato di tutto. Che si trattava comunque di furto per esempio, ho risposto che c'è chi ha troppo e chi niente, che ha violato un “mio territorio” e devo ammettere di non averci pensato. Mi han poi fatto notare che se qualcuno entrasse in casa mia e, con me presente, prendesse qualche cosa, mi arrabbierei... e invece no. Spesso un ospite mi dice “Che bello!” e io non son tranquillo finché non glielo regalo. Non accade ovviamente con tutto. L'ho già detto. Esiste quella quantità minima di cose che ci serve e se non l'avessimo dovremmo comperarla e quelle poche cose legate ad un ricordo oppure alla insostituibilità, come può accadere appunto a qualche libro. Sì, ritengo che se si fosse meno attaccati agli oggetti, si riuscirebbe a pensare un po' di più, ad essere più rilassati. Se non si fosse sempre ossessionati dal loro possesso, indotto ormai quasi sempre non da una necessità reale ma indotta, la vita sarebbe più semplice, più viva e i soldi di uno stipendio, come per miracolo, forse inizierebbero a bastarci. A volte mi capita di sentir dire da un amico: “Mi serve questo” e io so di averla quella cosa! E se per caso non mi serve e resta lì inutilizzata gliela faccio avere... in questo caso mi hanno detto che si tratta di carenza di affetto. Non sono d'accordo. Io penso che tutti, se si è esseri pensanti, si sia un poco animisti e trovo che un oggetto che sta in fondo ad un mobile e non vive, soffra non meno di un disoccupato o di un innamorato non corrisposto. Vivere è relazionarsi anche per gli oggetti, anche quelli dell'arte. Un quadro, una Madonna per esempio, la preferisco nel suo mondo. Il museo lo vedo un po' come il luogo nel quale la loro vita è terminata. Una specie di cimitero. Spesso non si può fare diversamente, ma troppo, troppo spesso, si può dare dignità non solo alle persone, ma anche agli oggetti, che hanno poi la capacità di offrire sempre un minimo di storia di qualcuno che li ha progettati, realizzati, eccetera. E comunque ce ne andremo a mani vuote, così come siamo venuti e donare è bello.... se non fosse che m'imbarazza constatare che spesso il ricevente si sente in debito. Non lo capisco. Non sono in grado di capirlo se non raramente, perché appunto spesso la mia intenzione non consiste nel gratificare la persona, ma l'oggetto stesso. E poi, non si dà per ricevere. Quello è commercio, lavoro.



Torniamo al libro di Mario Tobino. Questa mia edizione, pagata quanto un caffè, fu edita dalla rivista “Famiglia Cristiana” nel 1997. Mentre il testo fu pubblicato per la prima volta nel 1953.

Il fatto che una testata cattolica lo pubblichi ci dimostra che è considerato conforme alla morale che rappresenta, e spesso la Chiesa è stata un po' più sveglia del secolo. Ricordo per esempio che quando de Andrè era mal criticato, la radio vaticana lo trasmetteva con una certa costanza.....



Anche questa copia presenta comunque quei difetti che mi han fatto passar la voglia di fare un acquisto in libreria, ma pagandolo un'inezia, sopporto meglio....

Mancano le note e non c'è nessuna spiegazione sulla storia delle leggi manicomiali in Italia.

Vocaboli come, catatonico, schizofrenia, paranoico e frenastenico, per esempio, non meritano di essere spiegati a piè di pagina? Essi godono di una vita a basso profilo, popolare, ma son effettivamente compresi per quel che significano? E poi l'elettroshoc (così scritto da Tobino)! Ma non sarebbe il caso di spiegare quale triste storia ebbe questa pratica? E infine e già detto, la storia delle leggi sui manicomi. È una tragedia che merita di essere spiegata con calma e nei particolari. Furono chiusi, questo lo sanno tutti, ma pochi son consapevoli di come ci si entrava e quasi nessuno, tranne le famiglie tristemente coinvolte, sa quali “nuovi” problemi e quindi danni, la nuova legge ha creato....



Mettere davanti ad una persona un libro così specifico, che si cala con precisione in un periodo storico, e non spiegare quelle cose rasenta lo stupido.

È vero che il testo si legge ugualmente, ma si capisce molto meno.



Esiste poi un altro aspetto della, chiamiamola storia, di questo libro che non viene nemmeno accennato. L'impressione che fece su Federico Fellini. Questi lo amò immediatamente, di Tobino si fece amico e pensò per molto tempo di farne un film. Il perché non accadde è presto detto. Fellini aveva capito, e lo diceva, che la bellezza di quell'opera era completa in modo così equilibrato che lui non avrebbe potuto aggiungerci niente. E io aggiungo che poteva solo caratterizzarlo, forse renderlo grottesco, doti nelle quali lui eccelleva, ma in nulla lo avrebbe migliorato. E penso che un'opera non possa ricevere miglior giudizio. Questo amore del grande regista sfociato in un nulla di fatto, ci deve portare automaticamente ad una domanda. Ha senso trarre film da opere letterarie? Secondo me no. È solo “roba” per il commercio. Conosco solo due casi nei quali il film merita quanto il libro: si tratta de “La morte a Venezia” di Thomas Mann che fu reinterpretato da un Luchino Visconti eccellente e “Solaris” di Stanislaw Lem che vide la regia di un Tarkovskij addirittura eccezionale. Per il genietto russo devo spendere due parole. Nel caso di questo film, fece tesoro dell'idea dello scrittore e poi prese una sua direzione e ci troviamo così davanti a due capolavori nutrienti per motivi diversi. Mi “attacco”, per sedurvi a lettura e visione di questi gioielli, ad una umile e splendente considerazione di Bergman. Egli disse di essere arrivato, ogni tanto, alla poesia, nei suoi film, Tarkovskij invece ci era arrivato sempre..... e da gente che l'ha conosciuto riporto un'altra considerazione. Quando feci presente che per me era prima di tutto un grande poeta che si era messo a fare cinema e mi domandavo come mai fosse accaduto, mi è stato risposto che lo fece per rispetto al padre, ottimo poeta anche lui, per non mettersi in condizione di confronto, di gara, di sfida.... quindi, deduco io, grande anche nella delicatezza, nel rispetto.



Torniamo a Tobino e non mi offendo se qualcuno mi chiamerà dottor Divago, ma le parentesi ritengo che servano per sminuzzare e gustare ogni particella di un significato che cerco di trasmettere.



In generale, edizioni attuali, da qualche anno, hanno secondo me delle pecche notevoli, delle incompletezze, ed è un male che sta diventando comune. Faccio qualche esempio che mi dà un fastidio, ma un fastidio che se potessi.....

Prendiamo “Salons” di Giorgio Manganelli. Ci viene detto che si tratta di articoli usciti sulla rivista “FMR” di Franco Maria Ricci, nel 1988. Ma spendere due parole per raccontare di quella rivista non solo bella, ma bellissima e di quel signore di Parma che riuscì anche a portare Borges in Italia e a farlo collaborare fino al punto di poter creare una collana di letteratura fantastica che è eccellente.... ma parlarne provoca un'ernia? Una forma rara di dissenteria? O semplicemente abbatte i costi di carta e di un cervello che per scrivere deve essere comunque pagato?

E datare ogni scritto mese per mese si da poter recuperare in qualche modo, se lo si desidera, la rivista, sembra brutto? Leggere un'opera innesca non solo un piacere forse intellettuale e forse artistico, ma una catena di letture, di curiosità che se ben nutrite, portano ad altre vendite...



Sempre di Manganelli, “Improvvisi per macchina da scrivere” è ancor più orrendo. I testi meritano, ma provenendo da quotidiani non era più elementarmente sano porre alla fine di ogni scritto, la data esatta della pubblicazione? Il danno che ne viene è enorme, superiore che nel caso precedente poiché la rivista FMR, essendo mensile, si distaccava almeno un po' dall'oggi. I quotidiani trattano quel tipo di presente che dura un attimo, e solo in grandi linee e per i fatti salienti, quel che narrano con emotività, viene ricordato, trattenuto. La sensazione che si trae da quell'edizione di un grande italiano, è che qualcuno incaricato di “mettere” in un libro tutti gli articoli, li abbia gettati quasi a caso. Dico quasi perché anche il più imbecille degli esseri umani uno straccio di regola ce l'ha, ma spesso, o per eccesso di banalità o chissà cos'altro, non se ne viene a capo.



Ora veniamo al testo. Tobino scrisse staccando le situazioni e i pensieri con molti “a capo”. Questo pone il lettore davanti alla sensazione che si tratti di una lettura scorrevole che ha poi il pregio di finire a pagina 132 quindi “alla svelta”. Una sorsata di ingegno e poi in palestra o a far due passi in centro o chissà dove.... e invece no. È denso, ti inchioda, e oltre a far pensare scuote dalle fondamenta. Siamo certi di noi senza esserci pensati più di tanto. Questo comprendiamo. Ci si pone la domanda sul limite della follia e sul fatto che se la mente “molla gli ormeggi” spesso si libera una sessualità animale, spudorata, senza morale. Ti vien da pensare, ma a bassa voce, che accade in fondo, in alcuni casi quel che potrebbe realizzarsi nella vita se non ci fossero troppe regole a complicare tutto. Pensi, come uomo, che quindi anche lei, la donna, se potesse vivrebbe gli istinti sessuali con la libertà che il maschio si concede sempre col pensiero e qualche volta in realtà quasi incomunicabili..... Sì. La mente che scappa, e diventare animali che si accoppiano senza problemi, ma dopo questi pensieri si è sopraffatti dagli odori animaleschi e intollerabili che Tobino descrive e che ci fanno comprendere quanto quella regressione sia tragica. È curioso che l'autore abbia messo alla fine la dicitura che nessun fatto è in sé reale. Sappiamo che lui lavorava in cliniche psichiatriche ma ci tiene a dirci che a nessun personaggio descritto appartiene un “matto” vero. Sì, ma dircelo alla fine sembra sleale! E invece no. È una delle sue grandezze. Che si tratti di fantasia pura o di un elaborato della realtà sapientemente manipolato, si deve pensare, e in questo caso lo si fa due volte in modo diverso. La prima con la consapevolezza si tratti di una realtà descritta e la seconda con la quasi certezza che Mario Tobino, da artista, ci abbia messo del suo. È vero che non ci ha convinti, con quella frasettina finale, e crediamo in fondo in fondo che abbia cambiato solo i nomi, ma ora è lì il dubbio e si deve rivalutare con o senza di esso.

E non c'è solo la sessualità sconvolta, ma il corpo che nella malattia si fa forte in un modo inspiegabile e questa vita della materia che noi siamo, che senza la guida della mente diviene enorme, ci impressiona senza necessità di elaborare. E cosa dire delle dimensioni umane delle infermiere, dei guardiani, delle suore! Queste ultime poi mi riportano alla mente Fellini che le utilizzò spesso, ma anche Giacomo Casanova. Sì. La suora per noi oggi, nel 2011 è una figura sporadica, quasi scomparsa, irreale. Il fatto stesso che si vesta tuttora in quel modo, residuo di un'epoca nella quale quando ricevevi un incarico ti davano un vestito che permetteva alla comunità di identificarti, ci sorprende come una stranezza. Si, al tempo per esempio del Magnifico Lorenzo, ovviamente in Firenze, eri in grado di comprendere la carica e la professione di ognuno mentre chiacchieravi ben profumato all'ombra rinfrescante della loggia dei Lanzi ma le facce non le riconoscevi con certezza come accade oggi. Ora giusto un poco la cravatta distingue, almeno in Europa, indocenti universitari e uomini politici. Ma per il resto potresti aver davanti un genio e un bandito senza riuscire a distinguerli. È sicuramente meglio non essere codificati, elevati o umiliati da un vestito che ora esprime erotismo o modaiolità, o ricchezza recente o altro, ma la suora fino all'epoca di Tobino, era un simbolo erotico potentissimo. Riuscire a sedurla era la prova più ardua di un donnaiolo e per questo Casanova ci raccontò in proposito alcune delle sue gesta. Ora la suora è qualcosa di non compreso, come scelta di vita intendo.

A me è capitato anni fa in treno, mentre mi recavo a Roma, di essermi trovato, unico secolare fra centinaia di loro e una, africana, bellissima, mi incantò profondamente. Avrei voluto farla volare via da quell'abito, al mio fianco, come fece una suora nel libro di Tobino con un operaio, ma non accadde. Fu un attimo, con un dialogo delicatissimo e io fui troppo lento, pieno di paure. Ora mi capita di salire in treno e di rivederla dentro me, per un attimo. Ricordo il suo sorriso. Sorrideva anche con gli occhi e si nutriva di tutto quel che vedeva fuori dal finestrino con una gioia sanamente ingorda e innocente che ho ritrovato nei cani, questi amati maestri che mi hanno aiutato a scoprire quanto io sia, come loro un essere di natura.....



Nel libro si tratta di “suor Maria Concetta, la giunonicamente rosea-bella”, che si innamora di un alluvionato del Polesine e mi vien da dire di nuovo, ma una noticina che rammenta quel fatto storico non ci stava bene?



Capita anche di incontrare un passo, quello che riguarda la signora Gabi, che sembra mettere in dubbio la validità del modo che si aveva una volta di mettere in manicomio le persone e specialmente le donne....

Per tanti si tratta di una faccenda che ha avuto notorietà con Alda Merini. Non dico ancora nulla su quel che le accadde perché è probabile che i personaggi siano ancora vivi e il fango, per non dir di peggio, che getterei loro addosso, potrebbe portare ingiuste querele a mio carico. Si sappia comunque che ne uscì rovinata. Mi ricordo che quando andai da lei, suonai il campanello al piano terra in via dei Navigli a Milano e il cancello si aprì; mi ritrovai immerso in corridoi lunghissimi e irreali e tutte le porte erano identiche, tranne una che portava un poster di padre Pio e vari santini. Vidi un occhio che scrutava dalla porta lievemente aperta. L'occhio mi chiese “Chi cerchi?”, risposi “Alda Merini”. “Ma come ha fatto a entrare?”, “Ho suonato e lei mi ha aperto”. A questo punto spalancò la porta e mi fece entrare. Mi disse che lei non aveva aperto ma era stato suo marito che lo aveva fatto perché aveva acconsentito al fatto che la vedessi. Ma in casa di mariti non ce n'erano.....



Lei stesa a letto in camicia da notte con molte collanine dozzinali di plastica. Per terra sporcizia, barattoli di birra, bottiglie. Una tivù sempre accesa in salotto. Soldi ovunque, di taglio grosso. Si sente un rumore nell'altra stanza. Mi dice di non pensarci, è il marito, ma io so che è una finestra aperta che sbatte. Sto al gioco. Ok, lui è di là. E dialogando sento la sua umanità offesa, irrimediabilmente ferita, la sua solitudine che non si colma nemmeno con la presenza di mille persone, la sua fame di amore e anche di sesso. Di vita. Ma qualcosa si è rotto. Rinchiusa che era sana, ma arrabbiata, questo lo posso dire, gelosa per le corna del marito. Non so se posso ancora dire gelosa di chi.... e lui “se la tolse di torno” semplicemente, andando dal medico e infilandola “con una carta” in manicomio e là dentro, particolarmente se non sei pazzo, impazzisci.



Per me, più della sua poesia, vale la sua storia. Si fa simbolo. E Vecchioni nella “canzone per Alda Merini”, giustamente non tocca la sua opera, ma la sua vita che, non meno di una persona gettata in un campo di concentramento e poi “liberata”, non è più vivibile.



Ho sempre pensato che dai traumi non si torna. Si può imparare a conviverci, ma si deve sapere che ogni tanto, loro, i traumi appunto, con le loro suggestioni, le loro paure, si impadroniscono della persona che hanno colonizzato. E vivere diventa un'avventura spesso impossibile....



Dei vari personaggi di Tobino, la storia di Norina mi ha colpito profondamente poiché, in un certo senso si trattava e si tratta per certi versi, di un'idea letteraria alla quale sto dedicando molto tempo. Ho sempre pensato che attualmente, per come si è strutturata l'esistenza delle persone, possa accadere che qualcuno arrivi a vent'anni e anche oltre, senza nemmeno immaginare che esista la morte. Conosco gente che non guarda un telegiornale, che sente parlare di morti, per esempio in terremoti e incidenti, ma non indaga più di tanto di cosa si tratta poiché si tratta di una notizia, roba distante, che ti sfiora per un attimo e poi è dimenticata e che spesso, coi giochi elettronici, ha ucciso i nemici, ma con la sensazione di averli semplicemente messi fuori gioco e infatti nella partita successiva ritornano tutti....anche i morti.



Tendo a immaginate un uomo di buona famiglia al quale quando è morto il cane han detto che l'han portato in campagna, che la nonna è in clinica, eccetera, e che con indolenza, viva la fetta di vita che gli costruiscono agendo da protagonista nello sport e in relazioni sociali che, un po' anche per fortuna, non si son mai resi traumatici. E poi......e poi qualcuno muore, davanti a lui. Non riesco ancora ad immaginare come, e quando si ritrova davanti a quel corpo che non reagisce più e lo vedrà messo nella cassa e consegnato alla terra..... non accetterà, in fondo è come impazzire.





E ora veniamo alla Norina di Tobino: “Questa fanciulla, di nome Norina, era orfana ed abitava, viveva, era protetta dalla nonna materna, unica superstite della famiglia.

Vivevano in alta collina, dentro una modesta casa, umida d'inverno e fresca d'estate. Il loro sostentamento era un magro poderetto dato ad opere nella stagione del bisogno, ed erano felici.

La nonna era una vecchia quercia, alacre anche nei pensieri, intatta di agilità e di forza. La fanciulla dall'età di sette anni era cresciuta con lei e per la solitudine della campagna e per le attenzioni della nonna, forse anche disposta dalla natura, era rimasta completamente innocente uguale a un fiorellino bianco che neanche il sole ha completamente colpito.

Passavano gli anni felici.

La nonna morì all'improvviso per una strada di campagna; rimase per una notte abbandonata e fredda uguale agli alberi che stecchivano le braccia nel cielo invernale.

La bambina quella sera, per la prima volta nella sua vita, non vide tornare la nonna. La cosa così contraria alla ragione giornaliera le fece nascere una inconcepibile meraviglia.

Quando portarono a casa della nipotina la nonna fredda, che non interrogava e non rispondeva, la nipotina dopo aver leggermente riso impietrò, nè valsero i più comuni consigli o quelli più sottili. Divenne come una pietra bianca caduta dalla luna, immobile pianto.....si rinchiuse, non mangiò più, non consumò più sostanza; e la mandarono in manicomio....”



Al momento del ricovero aveva quindici anni.



Immaginiamo il lupo cattivo (la morte) che mangia la nonna. Arriva qualcuno che la nonna te la ridà; sì, ma solo nelle favole, e la ragazzina scoprì la morte.



Nel caso mio l'idea intendeva stigmatizzare l'assurdità dell'esistenza che viene fatta vivere, o meglio consumare, normalmente alle persone di oggi. I nonni son lontani quasi sempre. In ricovero. Quindi vecchiaia e fine son qualcosa di irreale che, non sfiorandoci quasi mai, non indaghiamo. Ma trattandosi, anche per la vecchiaia, non di capire ma di accettare, il processo si fa lungo e necessita di esperienze. Se il fatto accade così, all'improvviso, si ammutolisce, si deraglia, si può davvero impazzire, perché è “roba” di un attimo calcolare che se tocca a tutti, prenderà anche me....

questo può accadere in una vita che agisce, come quella attuale, e che evita il pensiero.



E ora che Tobino mi ha mostrato che l'idea, o il fatto, è già stata pensata? Non mi sento deprivato di nulla. Ci si deve rassegnare al fatto che di idee nuove non ne esistono quasi. Possiamo solo utilizzare quel che crediamo opportuno per ammonire o ammirare il nostro tempo e la mia idea, se trovasse le parole, vivrebbe, ma per ora non la sento abbastanza forte.



Torniamo a Norina. Ma ci pensate? Muore la nonna, e lei reagisce male, non mangia, si chiude e la sbattono in manicomio! È folle agire così, e non lo è minimamente quel che Norina stava passando! E in altri punti del libro leggiamo di situazioni simili. C'era il comportamento normale. Se da quello deviavi eri rinchiuso, e uscirne non era facile. Non parlavi più perché ti veniva di reagire così al tradimento di tuo marito? Via. Un foglio firmato dal medico e dentro. Lontano dagli occhi, lontano non dal cuore, ma dalla coscienza. Era una società perbenista, dedita alla cura delle apparenze spesso con una maniacalità che attualmente ci sembra ridicola. E poi dei matti non si poteva parlare. Se avevi un braccio rotto potevi ripararlo, ma se era “rotta” la testa era una vergogna da nascondere. Durante e dopo il fascismo se ne fece veramente una tragedia poiché la carriera militare era ambita e non c'era speranza se anche uno zio o un cugino “dava di matto”. Si creava quindi un senso di responsabilità di gruppo. Ammattendo si ledeva la stirpe, la si segnava definitivamente, quindi i casi estremi venivano rinchiusi e forzatamente dimenticati, per ...questione di facciata.



E ora veniamo a due bei matti della storia del cinema che, venendo dalle mani di Fellini, son debitori delle esperienze che lui trasse da questo libro e dalla conoscenza con il suo autore:

la Volpina e lo zio che sta in manicomio in “Amarcord”. In ambedue si nota la rilevanza sessuale. La Volpina è ormai sensualità istintiva allo stato puro. Un animale umano, mentre lo zio, nella gita domenicale con pic nic fuori dal manicomio, ha caratteristiche di malinconico isolamento che sfocia in una scena magistrale: lui sull'albero che grida “Voglio una donna!”. Siamo ai margini, nel mondo contadino, in un'epoca che aveva comunque una sua poesia, rivelata dal connubio Fellini-Guerra, che di poesia se ne intendono.



Ecco una delle tracce lasciate dall'opera di Tobino nell'arte italiana!



Veniamo ora al fatto curioso: sappiamo che il manicomio è diviso in due ali, una maschile e l'altra femminile....ma si parla solo di donne. Ci sta tutto. Chi scrive è un uomo e la curiosità della femminilità nella sua essenza originaria fa il paio con la la percezione dell'esistenza di una più generica umanità che non ha distinzioni sessuali. Solo un'eccezione trova spazio nell'opera e sembra quasi esser sufficiente, per l'autore per definire l'uomo. Si tratta di una persona che era stata ricoverata nella sua clinica per accertamenti. Il suo cognome era Rizzi ma si faceva chiamare Eugenio Flocchi, nome rubato, insieme alla moglie, ad un malcapitato. Questi sembra incarnare la figura del malvagio puro, consapevole. Egli è entrato nella clinica poiché la legge voleva capire se era pazzo o se fingesse. Secondo il nostro, si trattava di un'abilissima recita. Ne parla perché scoprirà per caso, dal giornale che è stato ghigliottinato dalla giustizia francese per due omicidi di donne. La descrizione dei suoi ultimi momenti ci rivela tutta la sua finzione. Quando comprese che lo stavano prelevando dalla cella per portarlo all'esecuzione, la gamba che sembrava irrimediabilmente rigida o per follia o malattia e altri comportamenti, cessarono, e tentò un'ultima impossibile reazione. Si avviò al patibolo cantando una canzone contadina. Ecco l'unico uomo del libro, definito in modo non troppo consapevole, quasi con una meraviglia che non spiega il mistero di quell'essere profondamente malvagio, ma consapevolmente, e a contraltare una marea di donne, spesso aggressive, nella loro follia, ma percepite da Tobino e da noi lettori come esseri gentili resi feroci dall'impossibilità di fiorire... ed esplose per questo nel rifugio macabro della follia....



Ora, in modo forse piacevolmente arbitrario, ma in senso positivo, ottimistico...mi permetto di affiancare in questa meditazione, due testi che hanno la caratteristica di essere toscani per gli autori e anche per l'ambientazione. Testi scritti da maschi più che da uomini e che osservano la femminilità con stupore e un po' di allarme....

Mi riferisco a “Le ragazze di san Frediano” di Vasco Pratolini edito nel 1949, e a “ Sorelle Materassi” di Aldo Palazzeschi, edito nel '34. Per una questione di “età” del libro, diamo la precedenza a Palazzeschi. Ecco in breve la storia: due sorelle, ricamatrici eccellenti, “ereditano” un nipote. A lui si sacrificano. Lo adorano. Ne escono distrutte, ma non certo scontente.

E ora Pratolini: un ragazzo, del quartiere popolare oltrarno di san Frediano in Firenze, si “fidanza” con cinque ragazze contemporaneamente e cerca di reggere le sue trame. Viene scoperto e le cinque donne si alleano per una scena finale di vendetta e “sputtanamento”.



Nel 1934 in Italia siamo già da anni in pieno fascismo (e non sembri un inutile perfezionismo dire in Italia, poiché i fascismi in Europa erano ben più di una decina). Era già nato il surrealismo che nelle sue teorizzazioni non aveva ancor compreso di aver posto quasi al centro l'enigma della donna-femmina che si stava emancipando. Per comprendere quel che accadde si potrebbero leggere “Le tre ghinee” “Una stanza tutta per sè” di Virginia Woolf. Bolliva in pentola già da un po' l'emancipazione femminile e la prima grande guerra, che ha portato le donne in fabbrica, innescò un meccanismo irreversibile. Le donne non vollero rientrare nel loro ruolo di subalterne ad una società maschile. Gli undici dittatori, che non a caso eran tutti maschi, diedero un'importanza quasi angosciante alla famiglia patriarcale, ma fallirono. E questa donna finalmente padrona di se stessa come poteva non spaventare gli uomini? Ed ecco in Palazzeschi due donne adorare, nonostante tutto, l'altra parte della vita, l'uomo, e in pratolini le donne che vendicano in modo plateale e aggressivo la loro dignità di amanti. E in Tobino cosa credo di trovare? La curiosità per l'essenza dell'esser donna. È come se la malattia mentale fosse un vento possente che spazza via i pensieri e lasciasse li un corpo con gli istinti. Ecco cosa sarebbe la donna se si lasciasse andare. Un po' come Medea. E Tobino ci mostra un essere che dipende dall'appagamento sessuale, dal legame con l'uomo, che troppo spesso causa slealtà o violenza nel legame stesso crolla irreparabilmente e, ci mostra anche la donna come essere essenziale, rappresentante dell'umanità che alla radice più profonda di sè, medita e soffre esattamente come noi maschietti per esempio davanti alla morte.



Quel che ho qui riassunto l'autore non lo ha dedotto consapevolmente. In un'epoca di forti cambiamenti nel costume sessuale, la penna era guidata certamente di più da un timore inspiegabile ma ribollente. Cosa mai sarà la donna? Ora che non è più imbrigliata nella cultura patriarcale come faremo noi uomini a relazionarci? Perché era evidente che dinnanzi ad una donna libera di amare e odiare, libera di scegliere o fuggire, l'uomo, abituato a imporsi senza tante storie, col portafogli in mano anche per un matrimonio, si era trovato disorientato. Ora c'era un sentimento di lei che non si poteva ferire, perché se ne sarebbe andata e la famiglia sarebbe crollata perché, c'è poco da dire, ma la donna è madre sempre dei suoi figli e il padre troppo spesso solo in una apparenza, il che ha il sapore metallico dell'orgoglio animale.

Ecco uno dei grandi passaggi, secondo me, del '68 che sembra essere un tumulto giovanile semplicemente e banalmente utopico. Si ha la generazione che ha vinto la guerra, fatta di uomini che fanno i capifamiglia come nell'ottocento, troppo spesso col denaro e non col cuore. E si hanno quei figli, maschi e femmine, che si vivono alla pari, che non sanno viversi diversamente che così. È vero solo fino a un certo punto, come han detto molti personaggi poco-pensanti, che quei figli si sarebbero trasformati nei padri e avrebbero ricalcato esattamente le stesse orme. Questo è accaduto e accade nel ruolo di consumatore, di rapace quando non esiste il cuore, ma ora il maschio sa che, se a fine rapporto, come di solito fa con le prostitute, si è dimenticato del piacere di lei ma ha pensato solo al suo, la perderà. L'uomo per secoli, millenni si è cullato in una società che con la forza e falsi credo, gli permetteva di rimanere un eterno adolescente. Ora è finita. Ma non vuol dire che è finita la festa. Trovo che sia molto più bello sedurre un cuore e da lì un'anima, e possibilmente con le carte scoperte, senza segreti, che pagare o truffare, che in fondo si truffa solo se stessi.



Ormai si sa che godersi un corpo o un essere umano son due cose profondamente differenti. E non si tratta di riesumare il pur amatissimo Platone e la sua guida divina che si pensa tuttora fosse semplicemente un uomo e si chiamasse Socrate. Davvero amare eleva. Davvero potrebbe dare senso all'esistenza. Nella cultura indiana (dell'India) si dice che hai vissuto veramente solo quando hai amato, e non ci serve l'India per saperlo. Lo sapevano anche i nostri nonni, ma comandavano e questo non faceva crescere. È relazionarsi ora l'argomento nel quale è importante diventare esperti e per dare un senso alla vita, bastano pochissime relazioni vere, sincere e che si tratti di un cane o un gatto o un amico o un amore, non fa differenza. Io, a sera, mi rintano nel letto e sento la presenza magica di tre cani che vicino a me si accucciano. Non sono mai morti, non moriranno mai, perchè ho amato e a loro devo la mia eternità. Non so più cos'è il nulla, l'ho sconfitto. È così che accade quando si ha un corpo. Una relazione profonda, solo quella, ci eleva.



E le Paure di quella generazione, le paure di Tobino, Palazzeschi, Pratolini, dei nostri nonni, degli impressionisti, dei dittatori che ora percepiamo come caricature assurde e che inneggiavano ad una famiglia con un capo al quale obbedire, tutto questo, è passato. E la seconda, la terza generazione dopo il sessantotto, vede queste cose come scorie di un passato. Si domanda come sia stato possibile. Ora la donna è un mistero per l'uomo e l'uomo lo è per la donna. E due misteri che si uniscono non han bisogno di comprendersi ma, come davanti alla morte, di accettarsi. Il resto, quel che c'è da capire è una canzone che canti la mattina quasi inavvertitamente e che ti dice che qualcosa di grande sta accadendo, è una vecchiaia che ha imparato a temere più la solitudine della morte che quest'ultima è solo togliersi un vestito di carne, rinunciare a cinque sensi, per ottenerne uno solo, enorme, che ci mostra come il tempo, che dividiamo erroneamente in passato presente e futuro, non è altro che un attimo immenso e tu sei tu, ma anche il tutto e quest'ultima considerazione, quella che sembra più assurda è la più importante, la più irrinunciabile. Senza tempo ritroverai chi hai amato, e l'essere io e il tutto porta a compimento quel particolare angosciante dell'atto sessuale che nella spinta di due corpi mai riesce a farsi uno. E lì, infinitamente accade.









KAfka: primo elogio

Per chi ha letto qualcosa di mio, penso risulti scontata la mia stima notevole per Kafka. Ora faccio una cosa che in arte non si dovrebbe fare mai ma, per favore, si porti pazienza. Accade solo per esemplificare un'idea. Prenderò dallo sport la caratteristica che in esso è necessaria, di fare una classifica. Di solito sono fermamente contrario. Mi è sempre piaciuto immaginare un premio letterario, un festival del cinema, nei quali si definisce una rosa di eccellenti. I migliori, i veramente grandi son eccezioni talmente rare che son quasi fuori concorso. Immaginate un premio letterario al quale arriva “La metamorfosi”! Vincerebbe, se si trattasse di una giuria non italiana e un minimo seria, ma purtroppo metterebbe in ombra altri che meriterebbero la loro fettina di luce e noi lettori si finirebbe col perdere o con lo scoprire in ritardo la loro bellezza. Ebbene, Kafka vincerebbe, ma degli altri cosa ne farei? Troverei sleale proporre un secondo e un terzo posto e via dicendo. Come posso dire che Flaiano è migliore di Brancati per esempio? È come dire che è più bella una lavatrice di un tostapane. Un assurdo. Si tratta di bellezze, di ricchezze che non si superano fra di loro, ma convivono e la vita, che se si è esseri pensanti e non solo consumatori, è scandalosamente lunga, ci offrirà senza ombra di dubbio, di fruire sia dell'uno che dell'altro. E' questo quindi che mi domando, se esiste una rosa di finalisti ad un premio, tenendo conto dell'umanissimo errore umano possibile anche per la persona più corretta, e della disonestà, delle leggi ridicole di mercato eccetera, ma non sarebbe meglio premiarli tutti come dei “pari merito?”. Per quanto io consideri Kafka un fenomeno unico, non leggo certamente solo la sua opera. Ad essa ritorno con maggiore assiduità, con lui il dialogo e le scoperte sembra non finiscano mai, ma ho comunque letto undici volte, una all'anno per undici anni, “Il Maestro e Margherita”, una decina di volte “Una e una notte”, sempre una decina “Le interviste impossibili”, il “Moby Dick” tre volte, La “Recherche” quattro, Casanova tre eccetera, eccetera. Nell'arte non esiste graduatoria ma, ovviamente secondo me, qualche migliore e tanti importanti, irrinunciabili. Non riuscirei a non leggere almeno un paio di volte all'anno il breve racconto “Un folletto” contenuto ne “La veneziana” di Nabokov, trovo irrinunciabile il piacere di avere sempre a portata di mano “La storia di san Michele” e “Vagabondaggio” di Axel Munthe, oppure “Volo di notte” e “Terra degli uomini “ di Saint Exuperi tristemente ridotto come fama a scrittore di una favola famosa, indubbiamente piacevole, ma che non è assolutamente la sua “cosa” migliore!



E a nessuno di questi rinuncerei. Ricordo, nella generazione che mi è padre (o madre) una passione per la lirica che aveva in sè qualcosa di stupido. Si adorava solo Verdi e qualcuno più aperto si permetteva Puccini o Mascagni, ma era già “roba” di frontiera, al limite. Ma questi esseri nulla sapevano e, tristezza assoluta, nulla volevano sapere dell'opera di Schubert, del “Fidelio” del “Flauto Magico” e di Wagner! E non si trattava di ostacolo linguistico, ma dell'essere seduti, banalmente in una tradizione ereditata, passata di padre in figlio, un po' come quel tale al quale chiesi perché era comunista e mi rispose che essendolo stato suo padre e pure suo nonno..... è questo il punto, se non si conosce non dico molto, ma un po' di varietà, come si fa a decidere che, ad esempio, Verdi è il migliore! Allora la mia reazione fu di rigetto. Odiavo Verdi in fondo perché “ce l'avevo” con un modo di “non” pensare, di “non” crescere, che mi sembrava gretto, assurdo. Devo a Riccardo Muti e al suo Requiem se l'ho rivalutato e son giunto a pensare che Verdi era un talento per la musica senza parole o con coro e non certo ai “telefilm” dell'ottocento ai quali tanta lirica meritava di essere paragonata. Sagre popolari di gorgheggi strepitosi, di canzonette da cantare mentre le donzelle stendevano i panni (così è stata scoperta Ella Fitzgerald, ma era Jazz, il temperamento di un popolo, non l'anima come mi si vuol far credere che molta lirica sia...). Forse è disonesto dire che il Requiem sia l'opera migliore di Verdi, forse non è giusto dire che lui sarebbe stato più grande se avesse fatto quel che secondo me non ha potuto fare e che si tratti di una reazione ad un periodo della mia vita, quando ero bambino e adolescente, nel quale quello si doveva adorare e zitti! Ma questo penso. Provate ad essere verdi alla sua epoca e a proporre una sinfonia o un corale al mercato. Quasi silenzio. Provate a proporre un'opera lirica anche pacchiana ed ecco, che almeno nell' italietta, qualcosa si muove. Poco invece si muovono i Pini di Roma di Respighi, quasi dimenticati perché forse non sono cantati..... è come nel secondo dopoguerra sempre in Italia. Dovevi trattare certi argomenti altrimenti non esistevi. Certo che sotto quest'aspetto c'era ancora spazio per qualche eccezione, poiché le case editrici, legate ad un padrone che cercava di dimostrare di essere anche un essere sensibile, si lasciavano andare ogni tanto a qualcosa che aveva il vizio di essere serio, pensante, fragile, sensibile.



Ed ecco che Kafka per me risulta fuori concorso. Philip Roth la pensa come me e ne “L'animale morente” crea la figura di un docente e critico che mostra con riverenza e orgoglio un manoscritto di Kafka. Penso poi a quanto ha influenzato Marquez! Questi quando era ancora poco più che un ragazzo, in Colombia, doveva “fare” un'ora di autobus per recarsi al lavoro. Lesse un'opera del praghese e si sentì immediatamente autorizzato a liberare la sua strepitosa fantasia. Pensò: “Se lui ha scritto queste cose allora anch'io posso liberare il mondo che ho dentro”. Ricordo l'effetto che fece sull'attualmente trascurato Graham Greene, e su Elias Canetti, e potrei proseguire nell'elenco dei grati alla sua vastità che ha autorizzato menti timide o legate a troppi pudori, a troppi limiti, ad andare oltre, a superarsi.



Sì, Kafka oggi, quando scopro per la prima volta che il blog ha superato i mille utenti, amo ricordarlo per festeggiare colui che mi ha fatto capire che potevo e dovevo, ma con estrema serietà, per me stesso e non per il pubblico e onestamente, con severità, valutare con la mia mente e con quella di pochi fidati amici e conoscenti se era il caso di disturbare il mondo.



Odio l'editoria. Penso si sia capito. Ragioniamo diversamente. Penso che quasi tutti coloro che credono nella letteratura e nell'arte in generale diffidino di quei mercanti insensibili. Li si usa, se ti cercano, solo per far “tornare i conti”, per emanciparsi dalla schiavitù del lavoro quotidiano in favore dell'oro del tempo che permette di rallentare e pensare.



Ora c'è internet. Il mio desiderio di essere quasi anonimo, solo una voce, solo un pensiero, si può avverare. Non si deve leggere qualcosa perché è di qualcuno! Rarissimi sono i casi di personaggi che trasformano in tesori per la mente tutto quel che meditano! Dico spesso alle persone di non stimare quel che dico perché l'ho detto io. Si stimano le parole in sé, in grazia del loro senso!



La fiducia che ci sentiamo sgorgare dentro e che ci lega a qualche autore, è dovuta solo al fatto che il mondo è pieno di fregature e ci si rivolge a chi almeno una volta ci è sembrato onesto, nella speranza che lo sia ancora. Ed è possibile che la magia accada, ma la nostra logica, dobbiamo riconoscerlo, non è meno insensata del credere perché è sempre sorto, come ci disse Hume, che domani il sole sorgerà ancora! Basta una barba bianca, uno sguardo serio, un abbigliamento di un certo tipo ed ecco che si può costruire l'intellettuale ovviamente finto, ma in fondo, chi pensa solo non è un essere completo. Ma quel che è vero per la scrittura intellettuale non è valido per l'artista, e lo si comprende appena lo si legge perché la sua anima vibra. Il pensiero gira in tondo ponendosi domande impossibili e si affloscia, il pensiero, ordinato, o anche disordinato accuratamente, dalla sensibilità, fa tutto, fa l'artista. E Kafka, a me, ad altri grandi e piccoli, ha insegnato ad avere il coraggio anche di quel che esce da noi e ci sembra assurdo perché solo il tempo e la meditazione dimostrerà che assurdo non è, ma una forma nuova, nutriente dell'anima.




venerdì 21 ottobre 2011

Musil e Bob Hansen



“Mi permetto di sottoporre al vostro esame un mio scritto, estratto da un grande romanzo cui sto lavorando da quattro anni nelle mie ore libere”, cominciava la lettera ricevuta da 32 case editrici tedesche, austriache e svizzere, e da 14 critici letterari e scrittori. Era firmata Bob Hansen, che precisava di essere capo tecnico di reparto, abitante a Sternheim am Main (Germania) al n.46 della Ludwigstrasse. La lettera continuava chiedendo “almeno un giudizio critico, nel caso che la casa editrice non avesse avuto interesse alla pubblicazione dell'opera”.

Bob Hansen ricevette 36 risposte, tutte negative. Il tema da lui scelto era uno dei preferiti della letteratura contemporanea, il sesso, ma il suo modo di trattarlo, nelle otto pagine dattiloscritte inviate in esame, non era piaciuto a nessuno. Hansen aveva scritto, ad esempio: “Egli si piegò e coperse il suo viso con i baci più audaci, che sconvolgono la carne. Helga si alzò senza volontà e si lasciò trascinare”.

Lo scrittore Robert Beumann definì “anchilosato” lo stile di Bob Hansen. Un altro scrittore, Gerhard Zwerenz, gli rispose in questi termini: “Ciò che lei vuole esprimere può essere interessantissimo, ma lo esprime in modo tale che non sarà accettato da nessun editore”. La casa editrice Bertelsmann, la Diederichs, la Propylaen, la S. Fischer e la Walter restituirono tutte il manoscritto, definendolo “penoso” o “troppo sentimentale”, oppure dichiarando di non ritenere opportuno il lancio sul mercato letterario di una “rappresentazione dell'eros” a loro avviso “frustrante”.

Il lettore della casa editrice Biederstein giudicò che “molti passaggi erano scritti in modo elementare e confinavano col cattivo gusto”. Urs Widmer, lettore della Suhrkamp di Francoforte, che ha riunito intorno a sé la maggioranza degli scrittori del “Gruppo 47”, i migliori della nuova letteratura tedesca, fece sapere allo sconosciuto autore che la sua opera “non corrispondeva purtroppo a ciò che la casa intendeva per letteratura”.

Inesistente. Bob Hansen però non esisteva. Era un'invenzione della rivista tedesca Pardon che voleva dimostrare “con quanta attenzione le case editrici esaminino i manoscritti degli autori sconosciuti”. Per il suo esperimento la redazione di Pardon aveva adoperato due brani, appena ritoccati, di un famoso romanzo di uno dei più famosi scrittori di oggi, “L'uomo senza qualità” di Musil. Pardon concludeva osservando che i casi erano due: o Robert Musil, definito dal “Times Literary Supplement” il “il romanziere più significativo di lingua tedesca” è diventato insignificante, oppure i lettori delle case editrici leggono, ammesso che lo facciano, con troppa disattenzione.

L'accusa di Pardon -scrive der Spiegel- è diretta soprattutto alla casa editrice Rowohlt, di Amburgo (una delle case più note in Germania, che rivoluzionò nel dopoguerra il mercato librario tedesco con il lancio del Taschenbuch, il libro tascabile). La Rowohlt, ha restituito il dattiloscritto allo sconosciuto autore spiegando che “dato lo specifico programma letterario della casa, il lavoro non aveva potuto essere giudicato benevolmente”. Come ha dichiarato Pardon ai suoi lettori, la Rowohlt è l'editore tedesco dell'opera di Robert Musil.



Fine dell'articolo.



È datato 13 giugno 1968. Uscì in Italia su “Panorama”.



È necessario prima di tutto sfrondare una banalità. Non è vero che “il tema scelto (il sesso) era uno dei preferiti della letteratura contemporanea”. L'articolo non è firmato e dobbiamo saper asciugare quanto è stato scritto per riuscire, e non è detto che sia sempre possibile, a rimanere prima di tutto con la semplice notizia, il fatto accaduto. In un secondo tempo valuteremo anche le prese di posizione della testata tedesca sull'argomento.



Una cosa certa è che il sesso era ed è un argomento amato dal “mercato” e gradito da un pubblico vasto, e indubbiamente si sa che a proposito di esso può scrivere in modo interessante un Lawrence oppure in modo intrigante o totalmente spoglio e diretto, una qualsiasi persona poiché tutti, almeno mentalmente siamo partecipi di quel “gioco”. Come disse qualcuno di importante del cinema, per fare un film che garantisce incasso serve un po' di azione, un po' di sesso e...e, davvero, non mi ricordo più perché non valeva la pena di ricordarlo, e poi la penso diversamente. L'argomento sesso, non era comunque secondo me, il preferito dalla letteratura contemporanea del '68, ma da chi gestiva e condizionava il mercato editoriale.

L'anonimo autore ha “confuso” la “letteratura contemporanea col “mercato editoriale”? Secondo me si, e probabilmente ha agito inconsapevolmente.



Altro aspetto sul quale ritengo opportuno spendere qualche parola. Oggi come nel '68, quante persone saprebbero riconoscere un brano di un autore di livello eccezionale come Musil? E per essere più precisi è forse il caso di spostare l'esperimento su un altro nome poiché Musil, defunto improvvisamente nell'aprile del 1942 visse, dal punto di vista della conferma di fama, il suo periodo d'oro proprio nel '68. Ma... quale autore di oggi riveste un ruolo, una fama simile come lui in quel momento storico? Io non faccio testo. Me lo son fatto raccontare, ma risulta che Joyce, Musil e Proust fossero considerati, all'epoca i tre grandi assoluti, intoccabili, indiscutibili. Qualcuno aggiungeva Kafka, altri anche la Woolf, ma i primi tre brillavano soli e appunto indiscussi.

È per questo che quell'articolo deve far pensare. E i redattori della rivista Pardon, che misero in moto questo giochetto, non scelsero un'opera meno nota (ma non meno importante) come ad esempio il “Torless”. Scelsero otto pagine dal libro più noto e col quale si identificava, per il pubblico, Musil, ovvero “L'uomo senza qualità”. Io penso che varie persone di mia conoscenza siano in grado di riconoscere pagine di Proust o di Joyce. Non so se anche di Musil, e non vi parlo di vecchi, o di lettori esagerati come me. Persone normali e che spesso all'epoca dei fatti narrati non erano ancora nati e forse nemmeno stati progettati.



Penso se accadesse a me di dover valutare un testo per la pubblicazione o per riconoscerlo. Ho provato. Non vi dico l'esito, ma come ho ragionato per risolvere il “mistero”. Non ho cercato di ricollegare la trama a quanto avevo già letto. Mi sono affidato allo stile. E penso che agendo così sia possibile. Pochi Scrittori si confondono e mi riferisco a Scrittori con la esse maiuscola. Ritengo comunque che il “gioco” non sia riproponibile oggi a meno che non si usi un autore un po' stagionato, non per me ma per il tempo....che la “roba” di valore al palato della sensibilità riuscirà sempre gradito. Il fatto è che ci sono e ci son stati autori di pregio notevolissimo, ma quello che definirei l' “astratto mondo della cultura” non esprime più idee cosi forti, possiamo dire anche dittatoriali, come un tempo. Oggi il lettore ha più spazio e questo serve per perdersi se è sprovveduto e, per maturare e la percezione della qualità, siamo disposti si a farcela consigliare, ma non più come allora, a farcela imporre, cadere dall'alto. A me per esempio Joyce non piace. Non riesco a leggerlo. Troppa tecnica e poco “sugo”. Se è vero che la lingua è il supporto sul quale si innesta il significato, ecco che chi gioca troppo con la lingua, ma dice poco, non lo “sento”. Immaginate un balcone tirolese che si allunga per tutta la facciata e abbellito con un'unica pianta di geranio. Il geranio è il contenuto, il balcone, sul quale il geranio si regge, la lingua. Quel balcone è sprecato con una sola piantina, ci siamo abituati a ben altro in Tirolo. E la piantina da sola non sa rendere quel balcone degno di essere guardato. Se penso alla letteratura irlandese preferisco “alla grande” James Stephens che, pensate un po', nacque nel medesimo ospedale di Joyce, il medesimo anno, nel medesimo giorno e alla medesima ora. Joyce amava definire entrambi come i “gemelli celesti”, ma Stephens aggiungeva che comunque già il letto era differente ovvero che tranne quelle casualità sorprendenti, si riteneva indipendente e mooooolto diverso dall'altro. Il caso vuole che “La pentola d'oro”1, a chi l'ho prestata da leggere o consigliata, ha raccolto consensi a cuore aperto. Joyce secondo me è un autore che leggi se devi, non se ti va.



Torniamo all'articolo. Oggi secondo me l'esperimento non è più possibile. All'epoca fece, e giustamente, scalpore. Ma, cosa era accaduto nelle case editrici perché potesse accadere un simile errore? e si tenga conto che la rivista aveva cambiato solo il nome dei protagonisti.....



Semplice. Col dopoguerra era entrato in Europa il modo di concepire il mercato, tipico americano che prima aveva solo fatto capolino. Esisteva già la pubblicità, ma era simpatica, a volte ridicola o pretenziosa, ma mai troppo invadente. Era insomma educata. Presentò qualche sintomo di volgarità durante le guerre, ma rinunciò a qualsiasi educazione con la fine della seconda guerra mondiale. E così anche la casa editrice divenne una “macchina” che sfruttò tutte le leve possibili e anche le impossibili, per vendere. Qualche sintomo già si era visto. Il caso della Némirovsky ce lo dimostra. Lei mandò un dattiloscritto all'editore Grasset (che di solito viene ricordato per aver pubblicato il primo volume della Recherche ma si ama dimenticare che Proust, nonostante il talento pagò l'operazione...) e mise come recapito una casella postale. Grasset scrisse ma non ricevette risposta. Era comunque intenzionato a pubblicare. Mise un annuncio sui quotidiani francesi nel quale si invitava la persona che aveva inviato “David Golder”, a presentarsi. Era già innescata l'operazione. L'attenzione era stata così, accalappiata. A Grasset, di quel libro era piaciuta la durezza verso il mondo ebreo capitalista. Eravamo nel 1929. L'eco del caso Dreyfus non si era in fondo mai spento e uno scandalo recente aveva coinvolto banchieri israeliti. Era l'odor di carne sanguinolenta che aveva affascinato Grasset, non la qualità letteraria del testo. Vedersi poi apparire la scrittrice ventiseienne e fine, che non aveva risposto perché stava partorendo la sua prima figlia, e scoprire pure che era ebrea, lo mandò in estasi. Un'ebrea che “parlava male” di ebrei, di ebrei ricchi, con quello scandalo francesissimo ancora caldo!

Si. Non ho dubbi. Non fu la qualità. Capolavori come “Jezabel”, “Il calore del sangue” e “Come le mosche d'autunno” li dobbiamo quindi, in un certo senso, al caso. Il testo era scabroso, duro. E lo aveva scritto una “femminuccia” con i capelli alla maschietta. Avrebbe funzionato. Se poi, in aggiunta, tanto per aggiungere “sapore” si leggono le prime pagine de “Il vino della solitudine” possiamo cogliere i pensieri erotici assai azzardati della madre della piccola Hélène: “Ah Parigi.... qui ogni donna sposata aveva un'amante, che i bambini chiamavano -zio- e che giocava a carte con il marito. “Ma allora a che pro un amante?” pensava lei, e rivedeva, nelle strade di Parigi, gli sconosciuti che la seguivano....Quello si che era appassionante, pericoloso, eccitante...Stringere fra le braccia un uomo di cui non sapeva da che paese provenisse né come si chiamasse, un uomo che non l'avrebbe mai più rivista, questo soltanto le dava quell'emozione forte che cercava. Pensò.” (pag 17 ed Adelphi). Mentre pensava così, era seduta di sera con i genitori anziani, la figlia di otto anni e il marito, e si annoiava sfogliando una rivista francese. “Il vino della solitudine” venne pubblicato per la prima volta nel 1935 in Francia. Per l'epoca scrivere così liberamente di...sesso, era quasi pornografia e il fatto che l'avesse scritto una donna! Si, il fatto che questa fantasia non fosse il solito prodotto della solita fantasia maschile, era assai intrigante. Ma la Némirovsky era semplicemente sincera con se stessa e con la sua letteratura. Non scriveva con l'intento di assecondare una intuita debolezza del mercato che poteva rendere denaro. La sua opera nel complesso ce lo dimostra e ho sempre pensato, in modo ovviamente molto personale, che un artista deve essere per l'appunto sincero almeno con se stesso. Niente maschera. È questo che affascina oltre al saper scrivere e all'avere qualcosa di sensibile da dire. Tutti nella vita, sono più o meno mascherati. Alcuni l'hanno dimenticato e pensano ormai che maschera sia il volto, ed ecco che qualche artista se la toglie almeno nell'opera, oppure non se l'è mai messa. L'opera diviene quindi l'unico specchio che riporta la nostra immagine, almeno così come crediamo di percepirla. L'io è instabile. Vibra, cresce, cala, dorme, si sveglia, si rinnega, si ama, si odia, ma per un attimo del tempo può essere fedele a se stesso. Ma appunto nell'opera e non nella realtà dell'esistenza. Li no. Non è possibile, nemmeno pensabile.



Il “caso” Némirovsky può essere visto quindi come un sintomo grave della piega che stava prendendo il mercato editoriale. Il valore letterario diventava secondario. Era una pura coincidenza ininfluente. Ma.....e il pubblico? Non è invitato al pensiero, ma al pasto carnale, sanguinolento. E nemmeno coloro, i pochissimi, che sarebbero in grado di consigliare qualcosa che rispetti la qualità letteraria sono presi in considerazione. L'editore si è fatto solo mercante. Egli sta ai piedi del tempio. Non può non starci. Se lo scacciamo non potremo comperare quel che ci serve per sacrificare al dio della vita...ma le vittime sacrificali, se son di plastica no portano santità e miracoli, ma tanta tanta puzza.



Qualche esempio. Hemingway pubblicò il suo primo romanzo perché un certo Francis Scott Fitzgerald lo ritenne di valore. Anatole France capì molto presto che Proust era un talento e si offrì, lui di solito così restio, per scrivere la prefazione a “I piaceri e i giorni”.

E ora? Oggi?



Credo che per capirci qualcosa si debba partire dalla definizione di due parole. Spesso trovo che i termini, scrittore, o artista, e intellettuale, vengano usati in modo intercambiabile, come sinonimi.



Partiamo dal primo. Secondo me l'artista è colui che utilizza un linguaggio (pittorico, musicale, linguistico ecc) per esprimere un mondo interiore. Egli si serve dell'intelligenza per dare forma sensibile, trasmissibile, ad una materia che gli sgorga da dentro e che tendo a chiamare sensibilità.



L'intellettuale è invece colui che utilizza la razionalità.



Riassumendo:



artista = sensibilità ordinata dall'intelletto e resa percepibile ai sensi per mezzo di un linguaggio.



Intellettuale = persona che usa il ragionare e le sue varie regole in modo rigoroso.



Facciamo ora un esempio pratico. Pavese era un artista. Calvino un intellettuale. Uno ha creato in base alla propria sensibilità, l'altro ha scritto roba “intelligente” che sento finta, costruita quando si tratta di letteratura, ed eccezionale quando son saggi.



Ne abbiamo un esempio nelle lettere che si scambiarono in relazione alla lettura fatta da Calvino del dattiloscritto “Tra donne sole” (racconto che fu poi pubblicato nella raccolta intitolata “La bella estate”.



Eccone un assaggio:



Di Calvino, Sanremo 27 luglio 1949



-Tra donne sole- è un romanzo che ho subito deciso che non mi sarebbe piaciuto. Sono ancora di tale opinione, sebbene l'abbia letto con grande interesse e divertimento. Ho deciso che è un viaggio di Gulliver, un viaggio tra le donne, o meglio tra strani esseri tra la donna e il cavallo; è una specie di viaggio nel paese degli Hauihnhnn, i cavalli di Swift, cavalli con impreviste somiglianze umane, orribilmente schifosi come tutti i popoli incontrati da Gulliver. E' certo un modo nuovo di vedere le donne, e di trarne vendetta allegra o triste. E la cosa che scombussola di più è quella donna-cavallo pelosa, con la voce cavernosa e l'alito che sa di pipa, che parla in prima persona e fin da principio si capisce che sei tu con la parrucca e i seni finti che dici: “ecco, una donna sul serio dovrebb'esser così” …...... Ad ogni modo il racconto sta in questo girare intorno a un segreto morboso.........Poi ho scoperto che “Tra donne sole” e “Paesi tuoi”, son la stessa cosa: due viaggi di persone -civili- tra i -selvaggi-...........la scoperta dei nuovi rapporti che nascono dal lavoro (ed è la parte più bella, Clelia e Beccuccio. Questa donna che trova la sua regola di vita come scapola, e prende gli uomini come noi si prende le ragazze). Sole si salvano le comunioni d'amici, legate da non scritte regole di purezza e solitudine.................quel che non mi convince è, e già altre volte ho avuto occasione di dirtelo, la tua rappresentazione dei borghesi...”





La frase finale per me è la più “triste”. Calvino è borghese, borghesissimo, e non tollera in fondo una descrizione del mondo nel quale lui è sommerso e che con ogni evidenza non si è ancora sforzato di osservare.




Pavese risponde da Torino il 29 luglio:




non mi dispiace che -Tra donne sole- non ti piaccia. Le ragioni che ne dài sono la trascrizione fiabesca di un tema letterario; un abbozzo di novella di Italo Calvino.........Applichi due schemi, come due occhiali, al libro e ne cavi impressioni discordanti che non ti curi di comporre..........ma tu – scoiattolo della penna- calcifichi l'organismo scomponendolo in fiaba e in tranche de vie. Vergogna.”

Per la lettura integrale vi mando al volume “Tra donne sole”, Einaudi tascabili numero 553 del 1998.



Penso comunque che basti quanto ho riportato per rendere evidente quanto Calvino fosse distante dalla comprensione di quel racconto notevole. Se ne “La dolce vita” esiste un ricco e fintamente felice borghese che con sorpresa di tutti si suicida, lo dobbiamo a quel che Pavese ha dimostrato per primo di aver compreso di una profonda crisi di quella classe e che si travasò nel grande regista e in Flaiano.



E non mi meraviglia che Calvino non abbia compreso. Ha usato solo l'intelligenza e in più anche in quella lettera dimostra di scrivere bene, ma scriver bene non basta. La letteratura, e l'arte in genere, sta ad un gradino più alto. Può accadere che l'opera sia compresa anche dalla persona intelligente, ma assai di rado con immediatezza, poiché l'intelligente non sopporta di intuire uno stato d'animo, un'atmosfera, un mondo. Lo vuole capire, e se non lo capisce secondo gli schemi razionali coi quali lo hanno addestrato, rinnega. E poi, quando il tempo rende evidente quel che era stato intuito, quando l'intuizione, ormai non è più fresca, ecco che la razionalità, smonta, mastica e apprezza i pezzi smontati. Mai la magia dell'insieme.



È evidente come Calvino non avesse capito asssssolutamente niente di quel testo letterario. Invece personaggi che erano artisti come Pavese, ad esempio Michelangelo Antonioni, immediatamente ne colsero la portata epocale. Quella crisi della borghesia, ricca, appagata, annoiata e disperata, che ritroviamo poi in altre opere di Antonioni e anche di Fellini e di Elio Petri (di questo vedere per esempio “l'assassino”) è stata resa per la prima volta in quel racconto. Il finale poi, che vede la ragazza andare via da Torino rinunciando all'amore, colpì talmente Antonioni che anche anni dopo, lo ritroviamo nella scena ferrarese di “Al di là delle nuvole”. E Tonino Guerra stesso, ripropone quel finale nel racconto “Cenere”2 nel 1990. Ben quarantuno anni dopo, il seme lanciato da Pavese nella letteratura italiana, germoglia ancora....



Veniamo ora a quel che secondo me accadde in modo irreversibile nell'editoria del secondo dopoguerra e in parte si era già innescato, come dimostra il “caso” Némirovsky, nel periodo fra le due guerre. Gli scrittori vengono soppiantati dagli intellettuali, che son insensibili per costituzione o lo sono in misura troppo ridotta e solo con moglie figli e il cane (spero). Coriacei, e di solito non si sparano come purtroppo fece Pavese e non certo per un eccesso d'intelligenza.



Accadde anche all'estero. A me per esempio T. S. Eliot, annoia infinitamente. Lo trovo finto, costruito, mai sensibile. Un intellettuale quindi che ha “giocato” a far l'artista e grazie al cielo Elias Canetti in “Party sotto le bombe”3 dimostra di pensarla come me e spara a zero con una decisione deliziosa. E infatti se, per esempio, disponiamo dei bei testi del nigeriano Amos Tutuola”4 lo dobbiamo a Dylan Thomas che è un artista straordinario e che spinse la casa editrice Faber and Faber a pubblicarli.



La involuzione dell'editoria è terminata qui? No certo. Ci si è salvati per un po' tramite la categoria ora trascurata degli interpreti (traduttore è troppo freddo, non mi piace). Spesso queste persone, con un lavoro certosino, secondo me sottopagato, hanno mantenuto alta la dignità ovviamente almeno e solo per i testi stranieri. Ora anche alcune traduzioni sono impresentabili per non dire squallide e non oso dare la colpa a chi traduce. Per farlo ci vuole calma, si deve pensare, comprendere e questa “roba” non te la danno, devi fare quantità e basta.



Ed ecco che dall'articolo di giornale del 13 giugno 1968, possiamo dedurre, dopo aver meditato su quel che nel frattempo è accaduto, che siamo messi maluccio.



In fondo la colpa che quell'articolo sottolinea, risulta essere la seguente: gli addetti ai lavori non si son dimostrati in grado di comprendere il valore di un testo. Trascuriamo, almeno per pietà, il fatto che non siano riusciti a riconoscere pagine di uno dei tre santoni dell'epoca e oltre il resto mentre “giocava” in casa (era esattamente austriaco, di Klagenfurt), nel territorio della sua lingua....si, trascuriamolo. Ma la scrittura di Musil era eccellente, fine..... e negarla equivale a negare quelle caratteristiche.



Infine, la rivista Pardon propose due spiegazioni; Musil, considerato da molti l'autore più significativo della lingua tedesca, non lo era forse più; oppure i lettori delle case editrici leggono, quando lo fanno, con troppa disattenzione.



Per il nostro tempo queste deduzioni non valgono. Musil è tuttora uno degli scrittori più significativi e gli editori sanno benissimo quel che vogliono, e non si tratta se non per coincidenza, di letteratura elevata. Un tempo gli artisti influenzavano almeno qualche scelta, poi lo hanno fatto gli intellettuali e, fateci caso, non c'è “indocente” universitario che non si consideri tale. Ora a chi tocca? Al marketing puro. Ammetto di nutrire qualche speranza con internet che potrebbe eliminare tutte le figure intermedie e collegare finalmente l'autore col lettore.



Se nel sessantotto un novello Musil sarebbe stato scartato e, a quanto sembra, con infamia, oggi cosa farebbe? L'operaio. Si. E sognerebbe, nel ritmo frustrante e ripetitivo, i suoi personaggi, ma poi scriverebbe perché se è un vero artista non sa resistere alla tentazione e con internet.......

















1Edizione Adelphi, collana biblioteca n.28 prima edizione 1969

2Edito da Metrolibri nel 1990

3Edizione Adelphi, collana biblioteca n.484 prima edizione 2005

4“Il bevitore del vino di palma” e“La mia vita nel bosco degli spiriti” nel volume n.130 di adelphi, collana biblioteca

giovedì 20 ottobre 2011

contro Eugenio Scalfari

Questa mattina la mia intenzione era di dedicarmi a Paolo Toscanelli. Fiorentino del '400, ma la coscienza non mi dava tregua. Un qualcosa in me stava prendendo la forma di un dovere che potrei definire civico, ma non accettando l'etichetta riduttiva di italiano, alla quale preferisco quella di essere umano, ho compreso che si trattava di un pensiero con valore non localizzabile ma forse, permettetemi l'ambizione, universale.



La situazione critica ammetto di essermela cercata. Due giorni fa a casa di un amico, ho visto una copia de “L'uomo che non credeva in Dio” (la grafica esterna porta dio in minuscolo, quella interna il contrario....iniziamo bene mi son detto.....). Lo aveva comperato perché, appassionato di Nietsche, aveva saputo che il testo ne parlava estesamente. Me lo son fatto prestare e ieri pomeriggio l'ho letto.



A questo punto devo dare spazio ad una premessa. Non ho affrontato quella lettura col cuore sereno. In un certo senso si trattava per me di leggere il libro di un personaggio che, profondamente, non stimo e il brano che segue chiarirà. È preso dalla mia copia Einaudi (una prima edizione datata 2 giugno 1979)1 di “Nero su nero” di Sciascia.

    Su “La Repubblica” di domenica, 17 settembre, Eugenio Scalfari dedica al mio libro
    sull' -affaire Moro- quello che una volta si chiamava articolo di fondo. Libro che non ha ancora letto, poiché uscirà tra un mese: ma ritiene di poter già giudicare sulla base di due mie interviste all' “Espresso” e a “Panorama”, non ancora integralmente pubblicate. Il meno che io possa dire è che è stato un po' impaziente, un po' frettoloso. Se fosse stato più paziente, se avesse avuto meno fretta, nel libro avrebbe trovato di meglio e cioè, dal suo punto di vista di peggio.

Sulla base di quel tanto delle interviste che è stato diffuso dalle agenzie di stampa, Scalfari

ha riassunto in quattro punti quelle che chiama le mie conclusioni. I primi due sono abbastanza approssimativi; ma il terzo e il quarto non credo si possano fondatamente estrarre da quello che ho scritto nel pamphlet e da quello che ho dichiarato nelle interviste. Del resto, proprio nello stesso numero della “Repubblica”, seconda pagina, c'è un corretto resoconto delle interviste: e vien fuori chiaramente che non ho detto come invece Scalfari afferma nell'articolo di fondo, che i partiti e gli uomini che non vollero le trattative con brigate rosse sono “i veri responsabili della morte fisica” di Moro. Debbo dedurne che Scalfari non legge la “Repubblica”?

In quanto al quarto punto, non capisco perché Scalfari mi voglia così apoditticamente far dire che la grandezza di Moro “è stata quella di non volersi battere per questo stato”. Non l'ho detto. Non l'ho pensato. E mi vien un sospetto: che attribuendomi gratuitamente questo pensiero, Scalfari voglia riportare la questione ai termini in cui è stata dibattuta lo scorso anno: se bisogna o no amare lo Stato, questo Stato; se è permesso a un cittadino, che pure osserva tutte le leggi e paga tutti i balzelli, di non amare questo Stato così com'è.

Mi rendo conto che è comodo tornare ad assumere la questione nei termini di amore o disamore allo Stato; ma il fatto è che non sono più questi. Si tratta, oggi, semplicemente di amare o di non amare la verità. E Scalfari lo sa bene che la questione sta in questi termini; lo sa tanto bene che a un certo punto sente il bisogno di ricorrere a una specie di canone estetico per mettere le mani avanti a destabilizzare (parola ormai abusata, ma che qui cade in taglio) quel tanto di verità che c'è nella mia rappresentazione del caso Moro. Espressioni come “il mistero dell'arte”, “trasformazione e ricreazione della realtà”, “commuovere la fantasia e il sentimento morale”, da lui usate nei miei riguardi e in un modo che in altro momento avrei trovato lusinghiero, debbo confessare che mi allarmano e mi preoccupano. Mi viene il sospetto, insomma, voglia dire che quello che io ho scritto sul caso Moro va lasciato a cuocere nel brodo del “mistero dell'arte”, e che nulla ha a che fare con la realtà. Pericolosissimo canone, direi. Perché il vero mistero non è quello dell'arte: è quello del come e del perché Moro è morto.”



nel paragrafo successivo Sciacia aggiunge: “Il caso Moro torna a divampare, ad essere motivo di divisione tra gli italiani. Per come lo stesso Moro aveva previsto. Eppure basterebbe poco a far sì che non divida -che non divida gli onesti e i ragionevoli. Basterebbe semplicemente volere la verità.”



E un poco più sotto nel medesimo paragrafo aggiunge: “...senza considerare che il segreto istruttorio è, in una democrazia, un'incongruenza ed un anacronismo”.



Quel che comprendo dalla lettura di questo brano è che:



Scalfari sul suo giornale critica un testo che non ha letto ipotizzando quel che Sciascia potrebbe secondo lui aver scritto. Egli si è basato su due interviste e dei quatto motivi che ha estrapolati, insisto, da un libro non letto, si ha, secondo Sciascia, l'esito seguente. I primi due punti sarebbero approssimativi mentre il terzo e il quarto “non credo si possano fondatamente estrarre da quello che ho scritto del Pamphlet e da quello che ho dichiarato nelle interviste”.



Trovo che questo giornalista sia stato notevolmente scorretto. Si trattava del direttore di quella testata. Si tenga anche presente che le interviste, unico materiale dal quale Scalfari ha attinto, sono leggibili sul medesimo quotidiano alla medesima data: “ Del resto proprio nello stesso numero della “Repubblica”, seconda pagina, c'è un corretto resoconto delle interviste: e vien fuori che non ho detto, come invece Scalfari afferma nell'articolo di fondo ecc.”



Ho recuperato quel numero della “Repubblica” e ho letto. È effettivamente triviale, banale, a dir poco scemo, che un articolo di fondo di prima pagina dica una cosa e che in seconda pagina, si trovi la sua smentita.....



Cosa mi dimostra questo fatto? Che quest'uomo, direttore di giornale ed editorialista, non aveva alcuna volontà di rispetto per il pensiero espresso da una persona che oltre il resto era una punta di diamante della letteratura italiana, uomo che aveva già ampiamente dimostrato di essere degno di essere ascoltato.



Mi fa anche rabbia constatare che Sciascia non ebbe l'opportunità di controbattere. Affidò la risposta ad un libro, ma si sa che qualcuno legge i giornali e pochissimi il “libro” e poi anche che il giornale appartiene al presente, all'oggi, all'immediato e il senso della realtà che trasmette è sostanzialmente emotivo, quindi altamente manipolabile.



Il “libro” appartiene ad una visione più distante, pacata, riflessiva, e purtroppo appetita da pochi e la loro esigua quantità, anche se più consapevole, la si può emarginare semplicemente ignorandola, come accadde in generale in Italia nel novecento con i grandi della letteratura.



Non intendo dire che questi, gli artisti, dovessero abbassarsi a fare i giornalisti. Tutt'altro. Era forse il caso di fare loro delle domande e di valutare e soppesare attentamente quelle risposte. Se in Italia, più che altrove, furono completamente ignorati ci deve essere sicuramente un perché.



Veniamo ad uno striminzito elenco. Secondo me, ma anche ormai secondo qualcun altro, si può produrre una rosa di nomi della letteratura italiana del novecento che son degni di essere ricordati. Degni poiché la loro qualità forse ha fatto anche moda ma è andata ben oltre ad esse. Mi riferisco a Flaiano, Savinio, Pavese, Pirandello, Manganelli, Morselli, Sciascia, Brancati, Guerra.

Si noti che uno di essi è ancora vivo e, per conoscenza personale posso dirvi che litiga costantemente con giornalisti, politicanti e chiunque gli tiri la giacchetta, poiché e secondo me giustamente, non sopporta di essere “usato” solo come immagine del poeta ruspante oppure di colui che dice cose un po' folkloristiche. Essere artisti, nel senso profondo del termine è ben altro. Da Flaiano si attendeva la battuta, e lui ha lasciato invece opere eccezionali. Si conosce la critica severa e corretta di Brancati al dopoguerra e il suo auto esiliarsi in periferia, lontano da Roma, dal cuore di eventi che giudicava malati e riducendosi a fare l'insegnante. Per fare un parallelo per le menti più “dure” si tratterebbe di ridurre un Enzo Ferrari a fare semplicemente il meccanico e un Totti, il panettiere. Equivale ad uno sprecare talenti che, nell'emotività dell'immediato e nella lotta non solo quotidiana dell'esistenza, avendo deciso di vivere meno per pensare di più, probabilmente, ma non necessariamente possono venirci utili.



Vi racconto un aneddoto. Un fatterello vero. Un gruppo di persone stava valutando i danni subiti da un fascio di tubi facenti parte di un motore marino. Un pensionato ex meccanico navale li osservava. Questi operai volevano capire dove andavano a finire uno per uno tutti i tubi e si ingegnavano infilando dei fili di ferro e cercando di vedere dove sarebbero usciti, ma i fili si incagliavano. Il pensionato, che li aveva osservati per un bel po', si alzò. Aveva la sigaretta in mano. “tirò” una boccata di fumo e la soffiò con forza all'imboccatura di un tubo. Nel giro di pochi secondi il fumo uscì dall'incognita “altra parte”. È un po' più chiaro ora a cosa può portare il pensiero che ha rallentato la corsa della vita per farsi spazio? Per farsi coerenza?



E si badi bene che quasi tutti quegli artisti che ho elencato con infinita stima, hanno scritto su quotidiani, ma mai si è fatto in modo che le loro parole potessero diventare fondamentali e per agire così era sufficiente relegarle in pagine secondarie. All'epoca per esempio la “Repubblica” di Scalfari disponeva di trentun pagine e, per dare idea di quanto la scala di valori fosse “sballata”, l'opinion leader, volutamente e consapevolmente bugiardo per faziosità (per cosa altrimenti?) si è “preso” la prima pagina che si sa che è la più letta, e alle interviste a Sciascia si diede si spazio, ma all'interno e sappiamo tutti quanto il potenziale di attrazione cali vertiginosamente già alla seconda.



Ecco cosa avevo dentro quando ho affrontato la lettura del libro di Scalfari “L'uomo che si credeva dio”. Di lui pensavo e penso che sia stato, almeno in quell'occasione, profondamente scorretto e in fondo ero curioso di comprendere dalla lettura di quel suo libro, se si tratta di un incoerente ridicolo che nemmeno si rende conto dei “casini” che combina oppure.... ed infatti siamo davanti ad una persona intelligente e uno degli intenti del testo, oltre ad autoincensarsi abbondantemente, è quello di dimostrarlo. Egli ha una ottima opinione di sé e gli piace farcelo sapere. Ma io mi pongo un problema di fondo. Essere intelligenti? Dotati? è sufficiente per essere percepiti a testa alta? La mia risposta è un no secco, deciso. L'intelligenza è una capacità che si mette a disposizione per un agire. E la natura di questo agire?

E di essa in fondo ero in cerca. Ho dedotto che Scalfari desiderasse essere un potente e pensa di esserci riuscito. Si ricordi quest'uomo che persone come me evitano la potenza come la peste, perché solo una saggezza infinita che non penso di avere raggiunto e forse non raggiungerò mai, permette di gestire la potenza in modo benigno. E qui, questo giornalista che ama “razzolare” nella filosofia alta, ma col linguaggio che si fa maschera, atteggiamento e non nei contenuti che si fan solo giustificazioni, e questo giornalista dicevo, fa del desiderio di potere un istinto e quindi un appagamento in quel senso risulta essere un dato positivo e lecito. Quindi per eccesso, Stalin, Hitler, Pol Pot e Gheddafi (che sembra abbiano ammazzato poche ore fa), in quest'ottica di pura potenza non sono negativi!!! Inutile scantonare davanti alla scelta di una guida morale.



È evidente quella di Scalfari. All'inizio ci racconta della statua di Garibaldi che si trovava nella piazza sotto casa e della scritta che lo definiva eroe e massone. Poi ci dice che il padre era anche lui un affiliato e visto che uno più uno non fa sette..... e si badi bene che non ho nessun dente avvelenato conto la massoneria. Quando avevo vent'anni, ed è accaduto non molto tempo fa, un grande di questa, chiamiamola associazione, conosciuto tramite un'amica poetessa, mi prese a benvolere. Non aveva figli e spesso cenai a casa sua. Avevo compreso che non gli sarebbe dispiaciuto essermi “padre” in senso spirituale. Spesso mi è capitato poiché venivo percepito come un giovane senza famiglia che vagava senza una meta, studiando e meditando. Il suo nome era Pier Carpi. Il dono più grande che mi lasciò fu la scoperta di Gustav Meyrink. Con molta delicatezza nella sua casa di Sant'Ilario d'Enza piena di simboli massonici, mi propose di affiliarmi. Rifiutai. Gli spiegai che sentivo limitante qualsiasi “iscrizione” ad un gruppo. Non ne volevo sapere di tessere di partito e di niente che potesse rivelarsi in futuro limitante per il mio agire e il mio pensare che in fondo, se si è coerenti con se stessi son la medesima cosa. In quel periodo per esempio, essere di sinistra voleva dire “dover” amare autori che aborrivo e odiare Ezra Pound. L'Italia si è rivelata talmente banale, stupida in questo, che per esempio la raccolta di racconti”Scomparsa d'Angela” che è un gioiello, è stata completamente rimossa. Si da il caso che a certi grandi nomi ho fatto leggere delle fotocopie senza dire chi ne era l'autore e tutti, come un coro, hanno decantato le qualità letterarie di.........si, lo dico, di Alessandro Pavolini. Fu un fascistone? Fu ministro con Mussolini? Fu duro e forse puro? Il tempo se la ride di queste considerazioni! Se oggi si ritrovasse un testo di un generale di Alessandro il Grande che ebbe fama di ammazzatore spietato, lo si leggerebbe con attenzione e se fosse valido dal punto di vista letterario....... Si ricordi che è la nostra epoca che, per un eccesso di disonestà generale, chiede all'artista di essere esemplare anche nella vita per essere creduti, e in fondo sarebbe sufficiente, entro certi limiti, aver coerenza fra pensiero e azione.

In quel periodo, che è a noi ancora assai vicino e presenta alcuni piccoli, sgradevoli, persistenti strascichi, in quel periodo dicevo, esserne fuori, da questi gruppi, che fossero partiti, o altro era una necessità irrinunciabile se si voleva essere liberi di pensare. E Pier Carpi capì. Capì e rispettò la mia scelta senza per questo minimamente allontanarmi dal suo mondo, dalla sua casa, dalle sue ironiche e profonde osservazioni. Ricordo che prima di cena, mentre sua moglie svolazzava fra la cucina e la sala da pranzo io stavo seduto per terra su un tappeto quasi completamente distrutto dal suo enorme e giocoso pastore tedesco. Stavo seduto e accarezzavo la sua grande testa appoggiata alla coscia mentre Pier, seduto in poltrona li vicino, mi chiedeva cosa avevo compreso dalla lettura di questo o quel libro e anche dopo cena, spesso fino a cadere dal sonno, si dialogava e, si, con lui sapevo che potevo, dovevo sbagliare, perché rivelandogli quelli che credeva errori, gli davo il la per aiutarmi, raddrizzare certe interpretazioni che causa anche l'età erano spesso troppo conclusive, decise, punitive o premianti.



Tutto questo ricordare l'ho srotolato per dimostrare che non sono una di quelle persone che quando sente parlare di massoneria, si mette sulla difensiva e poi si scatena. Secondo me è un poco come la questione degli ebrei e della nuova ondata di antisemitismo. È tutto troppo stupido anche solo per parlarne ma devo. Quanti, ma quanti di voi non hanno mai visto un ebreo!!!! ne ho conosciuti molti che erano in queste condizioni. Il nemico quindi era ed è spesso, qualcosa di talmente astratto da essere insensato. E con i massoni? Uguale. Si odiano perché ci hanno insegnato ad odiarli. E invece penso che come in tutto l'agire umano, ovunque c'è il sano e il marcio, ed essendo la distinzione di natura morale e la morale ridotta a qualcosa di talmente relativo da non aver senso (e anche Scalfari la tratta così), non ha senso parlarne se appunto prima non si tenta di fondare una morale. Operazione possibile. Si tratta solo di volontà.....



e Scalfari ce l'ha una morale? mettiamola così, forse non se ne rende conto, ma dal suo libro, si comprende bene come ragiona e ora ve lo spiego: esistono due mondi, la famiglia e il resto. L'umanità, l'affetto, e tutti quei valori che di solito fanno bella una persona, si esprimeranno nella famiglia. Il resto è campo di battaglia. Come si agisce nel campo di battaglia? Senza scrupoli. Si decide da che parte stare e si agisce. Cosa è importante ottenere dal “campo di battaglia”? Denaro e potenza che fan bene a se stessi e alla famiglia.



Solo in un punto Scalfari sa essere veramente toccante, profondo. È il paragrafo che inizia a metà di pagina 145 e termina a metà di pagina 147. in esse ha tutto il mio rispetto e la mia comprensione ma....si, ma. Ma anche al di fuori della famiglia certi valori possono e secondo me devono avere un senso. Concepire il mondo esterno alla famiglia come una battaglia che deve soddisfare quello che lui chiama istinto di potenza mi sembra di una volgarità totale. E se non sbaglio anche il narcisismo secondo lui si fa istinto. Sarebbe come se un certo signore che conosco e che è affetto da flatulenza esplosiva e incontrollata, e non è disposto a considerarla né un difetto né una malattia, come lei con potenza e narcisismo, sarebbe come, dicevo, se questo personaggio flatulente decidesse, con l'aiuto di pagine impastate di filosofia, che il peto è un istinto ed è eventualmente un nostro difetto non percepirlo come musica.....



Si. penso di aver reso l'idea.



E dopo l'analisi personalissima della visione del mondo (non lo dico in tedesco perché faccio il possibile per non atteggiarmi...capito Saclfari?) di questo uomo che sa, che si crede potente, e che a suo modo, un modo che mi è indifferente, forse lo è, deduciamo perché ha stritolato senza rimorsi Leonardo Sciascia?



Certamente. Perché non faceva parte della sua famiglia (ovvero non era sua moglie o suo figlio... la mafia non centra) e anche perché nel “campo di battaglia“ lo aveva considerato come facente parte dello schieramento avverso. Niente di strano quindi nella sua azione annientante.



Ma Sciascia si era posto al di sopra delle parti. Come spiegò nel libro “Nero su nero” in quel preciso frangente, in quell'argomento che era il tristissimo caso Moro, egli si poneva al di sopra delle parti e desiderava la verità. E la verità invece andava vestita, che è un modo per nasconderla....



E ora una lezione del tempo. Scalfari si gloria nel libro delle tesi di laurea che son dedicate a quel che ha fatto nell'editoria e ritiene di aver influenzato il giornalismo europeo ed è ben possibile, ma secondo me si tratta più o meno dell'effetto di quel mio amico petomane. Quanto dura un peto? Non molto! È comunque innegabile che per quel poco tempo che è esistito, ha “influenzato” l'ambiente e forse anche alcune persone.....



Caro Scalfari. Per te è finita e lo sai. L'oblio è il destino di tutti. L'unico premio, e non so se di premio si tratti perché chi può goderlo è ormai polvere, l'unico premio elargito al vero artista è di durare qualcosa in più degli altri. Un secolo e un millennio son la medesima cosa di fronte ad un'eternità inconcepibile per esseri dotati di corpo, ma all'artista, si sa, è dato di essere ricordato di più. Una briciola. L'ho detto, ma una briciola che Scalfari ora agogna, desidera. Ma è finita. Ci sono esseri come me che non vivono solo nel presente e che non “macinano” solo quotidiani. E nel tempo vasto che mi son donato, è caduto il libro di Sciascia, l'ennesimo suo libro. Di lui mi fido. Vedo il suo cuore fino in fondo e lo apprezzo. Non si tratta solo di saper scrivere. Di lei non mi fido più. Se mai prima, di lei dubitavo, com'è giusto fare nei confronti di chiunque vive solo il presente ed è pure giornalista, dopo aver letto quel che HA FATTO a Sciascia, per me lei è il nulla. Qualcosa che va al più presto dimenticato e la lezione di giornalismo che lei ha voluto dare alla sua epoca, l'ho capita e la rifiuto.



Sembra quasi che con quel libro lei aiuti il suo se stesso a lasciare un'immagine ben calibrata, ma attualmente esiste ancora lei in persona a “dare una mano”, a guidare questa operazione. E quando lei non ci sarà più chi pensa o spera che sarà il suo promotore?



Sciascia ha vinto nel tempo. Lei nel presente. Il suo presente però sta terminando. Il tempo di Sciascia dura, e vince chi rimane nel ricordo? Secondo lei si, quindi ha perso.



A pagina 139 lei dice: “Nel presente atti e pensieri sono così fittamente intrecciati che non riesci quasi a distinguere l'uno dall'altro. Probabilmente pensare il presente, il tuo presente, non si può neppure definire con la parola pensiero”. Lei ha agito molto e se “il pensiero” come lei aggiunge, “esprime un'operazione mentale lontana dai fatti” e poco più sotto aggiunge che “il pensiero ha bisogno di distacco dall'azione per acquistare la densità necessaria” colgo un'incongruenza. Lei ha vissuto nei fatti per anni e poi ora, ha e non per sua scelta, pochi fatti e quindi pensiero.

Sembra che lei pretenda che la somma dei bicchieri di vino bevuti, possa esser divisa per gli anni vissuti. Un simile dato affrancherebbe chiunque, anche il bevitore più incallito, dall'etichetta di ubriacone. Il punto è che chi ha bevuto molto per quarant'anni e a ottanta fa quel calcolo, si nega all'evidenza dei fatti. Lei per anni è stato ubriaco di presente e se son vere le sue parole più su riportate, lei non ha pensato.......



E quegli artisti che ho elencato? Li ripeto per comodità: Pirandello, Savinio, Flaiano, Brancati, Sciascia, tonino Guerra, Manganelli, Morselli e Pavese?



Non potrebbe essere che queste menti degne di essere ricordate (metterei ora che ci penso, anche de Andrè) dimostrino che invece si può anche pensare e agire non dico contemporaneamente ma quasi? Vede, si tratta di rallentare. Fare meno cose ma farle bene fino in fondo. Profondamente bene. Se lei ha scelto di essere veloce come l'aspetto più superficiale del suo tempo che è un muoversi di corpi quasi fine a se stesso, non è forse incorso in quell'errore che descrive così bene la Yourcenar ne “Le memorie di Adriano” quando dice che il pizzicare le corde non rende conto del mistero della musica come l'attrito di due pezzi di carne non rende conto del mistero dell'amore?



Ed ecco il risultato. Lei si è adagiato alla superficie di un'epoca e il vento del tempo la soffierà via non appena le sue mani non saranno più in grado di far presa sulla sua scabra superficie. Potrebbe rimanervi impigliato per un poco ma lo spettacolo non sarebbe piacevole. Un corpo che si deteriora è sgradevole non solo all'olfatto. E alla fine vado a vedere con la mente dove sta Sciascia e cosa trovo? Un'anima impalpabile come la luce, che al vento del tempo si piega come un'alga divenendo a seconda dei casi più o meno visibile.......ma sempre presente.



Se ci fosse stata una parvenza di giustizia, dopo quell'articolo del 17 settembre, già il giorno dopo, qualcuno avrebbe dovuto licenziarla e mandarla in esilio, che un italiano lo si condanna veramente solo così. Lei ha agito male, malissimo e il fatto che la sua voce abbia la possibilità di farsi sentire ancora è una prova evidente di quanto l'Italia sia malata ora come allora.



Piccolo messaggio per Bossi.

Pirandello, Sciascia e Brancati son terroni e Manganelli pure essendo, se non erro de Roma. Flaiano poi è Pesacarese. Savinio è in un certo senso “inqualificabile” perché è nato in Grecia, Tonino Guerra poi che abita in una zona che era nelle Marche fino a due giorni fa e ora sta in Romagna, è in una situazione dubbia...

Se togliamo questi sei l'Italia del nord fa una figura un po' magra.....Pavese poi è Piemontese, zona che se non ricordo male non ama troppo la “sua” lega nord. Se proprio si vuol essere di manica larga le rimangono comunque solo Morselli e Pavese. Forse è il caso, almeno per salvare la faccia, di considerare che l'Italia inizia alle Alpi e termina in Sicilia, non crede? Ma dimenticavo, lei non legge..... e raramente (sono ottimista) pensa..... ma mentre non pensa, faccia caso che i due del nord si son suicidati..... forse che nel centro sud d'Italia la vita sia più viva? Più pensata? Equilibrata? sensata? O almeno umana? Ma lei non ha tempo per pensare come quell'altro che ha deciso che chi agisce non pensa e che le due cose non van d'accordo. Ma se loro esistono, se quei nove nomi esistono e fan dieci con de Andrè vuol forse dire che vivere è prima di tutto pensare? Ma lei non pensa, e quell'altro agisce, anche quando scrive un libro.....



















1Mi vedo costretto a specificare che si tratta di una prima edizione poiché non so come furono stampate le successive. Mi spiego. Se si osserva l'edizione Adelphi uscita successivamente, si vede in copertina un disegno di un uomo seduto con la testa probabilmente di corvo (fu la mia una visione fugace, non ne sono certissimo) che ricorda quelle opere di Clerici che furono un dichiarato omaggio a Savinio. L'edizione Einaudi che possiedo porta in copertina una incisione che mi risulta, come il titolo, sia stata scelta dall'autore e il suo significato è sottile. Un raro caso di copertina che vale la pena di meditare.