martedì 7 giugno 2011

perchè leggere?

Perché leggere. Non è così semplice trovare una motivazione a questa domanda.

La lettura ha aspetti che al primo impatto sembrano assai negativi. Per esempio non è un'attività socializzante. Attualmente lo si fa mentalmente e in solitudine. Non è stato sempre così. Avete presente i sigari Montecristo? Il nome è dovuto al fatto che le sigaraie cubane, mentre arrotolavano le foglie di tabacco sull'interno coscia, amavano farsi leggere qualcosa e il libro preferito era “Il conte di Montecristo”. Non è solo quello il problema. Anticamente si leggeva muovendo le labbra, a volte sussurrando il testo, e comunque, spesso le letture erano di gruppo. Non tutti sapevano leggere e quindi questa era una soluzione ovvia. Nei refettori dei conventi, durante il pasto, un religioso a turno leggeva qualche passo da un testo sacro o edificante. Ora che tutti sanno leggere, il suo aspetto collettivo è sparito quasi completamente. Si rende necessario quindi un dono: saper stare con se stessi. Sembra facile, ma quanta gente conosciamo che, una volta rincasata dal lavoro, frigge dalla voglia di fare e non pensa ad altro che a relazionarsi? Si ha una paura terribile di star da soli. La solitudine fa girare la mente e i pensieri possono fare paura. Allora si accendono o la tivù o la radio o il computer e si crede di entrare in contatto col mondo. I primi due oggetti ci chiedono di essere passivi. La partecipazione è ottenuta col coinvolgimento emotivo di notizie o film e con i quiz, ma di fatto siamo soli, davanti ad un idolo che ci impedisce di stare con noi stessi. Internet è invece più potente ma anche più ambiguo. Ci si può relazionare, ma non c'è completezza poiché la presenza fisica è assente. La web cam ci può far vedere l'interlocutore, ma la relazionalità vera, completa in tutte le sue sfumature può avvenire solo con la presenza fisica, condividendo i medesimi spazi, odori, suoni e leggendo la gestualità completa del corpo dell'altro. I siti di incontri e le chat, basate sulla scrittura sono ancor più finti. La tentazione di proporsi non per quel che si crede di essere (e che comunque è sempre diverso da quel che gli altri percepiscono), ma per quel che si vorrebbe....falsifica anche involontariamente il contatto.



Si può leggere un buon libro, ascoltare un brano di musica “vera”, osservare con attenzione un buon quadro o un film, solo se si trova piacere nel pensiero e pensare, è duro da ammettere ma è purtroppo vero, non è un'attività necessaria per vivere. Si può benissimo arrivare a sera, per anni, limitandosi a reagire superficialmente a degli stimoli. Mettiamo in chiaro una cosa: salire su un autobus sapendo distinguere qual'è l'entrata e saper obliterare un biglietto, per esempio, è un livello talmente basso di uso della materia grigia che lo considero facente parte del livello zero. Una volta che sappiamo muoverci nel mondo, la nostra vita non dovrebbe esaurirsi in quel muoversi che non approderà mai ad un senso. Sia Flaiano (in “Una e una notte”) che Musil (ne “L'uomo senza qualità”), descrivono in modi diversi questa situazione. Ricordo di Musil l'immagine di queste persone che girano per Wienna dopo essersi accuratamente preparate e sembra, dal passo, dallo sguardo, che abbiano tanto da fare, mentre invece tutta la loro energia si scarica in quel moto senza una direzione. Spaventoso ma vero.



Leggere e non solo, presuppone la scoperta del pensiero e questa scoperta ci rivela prima di tutto a noi stessi. Perché? Perché comprendiamo che il nostro agire deve avere un senso, deve disperatamente averlo, altrimenti la vita, la nostra vita, si ridurrà a quel punto zero che consiste nel ripetitivo sapersi muovere nella società e soddisfare i sensi.



Il libro, quello vero, è quindi portatore di un dono. Esperienze che potremo vivere vengono mentalmente vissute e comprese dal un punto di vista di un altro, di un estraneo che ci rivela le crisi, i paradossi di certe situazioni, le sfumature dei dolori e delle gioie, il fascino di un odore ecc.



Vi porto un esempio che probabilmente vi sarà difficile approvare ma, non dimenticate mai, per favore, che quel che scrivo qui è mio, altamente soggettivo e quindi spesso non condivisibile. Che noia se fossimo tutti uguali anche nel pensiero!



Dunque: l'amore. La natura ci insegna il sesso. Non abbiamo bisogno di maestri. In noi si sveglia qualcosa che ci rende attraenti ad un partner e viceversa. Ma, e l'amore? Quello secondo me s'impara. Attualmente un bambino o anche un adolescente non ha vita facile per comprendere questo sentimento. I genitori spesso son separati o mentalmente calati in una giornata concepita come sopravvivenza al lavoro, ai conti, ad un sacco di impegni. Si hanno quindi padri e madri che collaborano e ben pochi affetti diventano visibili poiché richiedono tempo. Il bambino non ha solo bisogno di riceverlo direttamente l'affetto. Deve anche vedere altri che se lo scambiano e comprendere che quello fra i genitori (o chi per loro) è di natura diversa dal quello che da loro riceve, basato su un magnetismo che non è necessario spiegare. Anche Emilio Fede forse, è in grado di distinguere il senso fra il bacio dato al figlio e quello dato al partner. Vedete, non sempre la trasformazione di un fatto in parole corrisponde al renderlo sensato. In un racconto d'amore non si fa necessariamente dire ti amo al protagonista, ma si crea una situazione che fa cantare il sentimento fra le righe, così come nella vita, un gesto, uno sguardo, una carezza parlano da soli e no hanno bisogno di sottotitoli. Anzi, ne hanno invece bisogno, se e quando si è cresciuti in un ambiente che rivela la sensualità e non la dimensione affettiva di un sentimento diverso da quello genitoriale o parentale.



Non ci credete? Ricordo una ragazza arrabbiatissima con se stessa. Le chiedo cosa le è accaduto e mi risponde candidamente che non sopporta il suo ragazzo. Le dico che se questo è il problema non le resta che “mollarlo”. E invece no!, mi fa sapere. Non è possibile. Quando è con lui vorrebbe stare con la sua compagnia e lo odia per questo e quando sta con la compagnia sente la mancanza di lui.

Le dico che forse si tratta di amore. E poi, non lo può incontrare con il suo gruppo? Mi fa presente che non è possibile. Sente l'esigenza di vederlo da sola, di stare con lui, ma poi, dopo un'oretta lo manderebbe a quel paese perché vorrebbe vivere di più, fare di più, non “fossilizzarsi” con una persona sola.

Il fatto è vero. Questa ragazza stava scoprendo da sola l'amore che è ovviamente un sentimento esclusivo, che si riversa su un solo essere ma, essendo stata abituata dall'esperienza, alla vita di gruppo, affrontava completamente disarmata qualcosa di grandioso e l'attività contemporanea di vivere e comprendere, senza disporre di tracce guida, la disorientava e innervosiva.



Quante volte, meditare su quanto ci è accaduto, ce lo rivela in tutta la sua grandezza e spesso anche nella sua abiezione! L'aver letto ci porta davanti alle nuove esperienze che ci capiterà in sorte di vivere, mai completamente sguarniti. E' vero che non si ripeterà mai la medesima situazione, ma qualcosa di simile senz'altro. Vi sarà forse capitato per esempio, durante una passeggiata, di ritrovarvi con lo sguardo attirato da una siepe di biancospini in fiore e... se avete letto Proust, essendo già consapevoli di quanto un profumo sia in grado di recuperare nella mente un ricordo che sembrava perso, annuserete con attenzione sapendo appunto che state creando un ricordo che in futuro, quando meno ve l'aspettate, forse quando siete irrimediabilmente tristi, riapparirà in tutto il suo splendore in vostro aiuto. E' ben possibile che non vi capiti in più, come al narratore, di vedere per la prima volta la piccola Gilberte, che catturerà i suoi pensieri e il suo cuore qualche tempo dopo, mentre compie un gestaccio nei suoi confronti, verso quello sconosciuto che la osserva sorpreso ed estasiato ma, sicuramente, grazie a quella lettura, s se vi capiterà qualcosa di simile, saprete che qualcosa di grazioso potete attendervelo sempre e, nel non farvi cogliere impreparati potreste esprimere quel briciolo di esperienza che la lettura vi ha dato, ed evitare che la vostra futura Gilberte, al primo incontro, vi punisca per uno sguardo, infastidito forse del vostro che gli potrebbe esser parso invadente anche se innocente.



E quanti sono gli esempi che vi posso portare! Leggere ha questi doni. Potreste aver letto di un addio affascinate fatto alla stazione e disporre così della possibilità di rendere almeno non imbranato un vostro addio in occasione di un lungo viaggio che vi separa da qualcuno che desiderate non vi dimentichi appena il treno sarà diventato uno dei tanti indistinti puntini che compongono la densissima linea dell'orizzonte.



E poi, con l'eredità di un buon libro accadrà che un gesto colto, lo si porterà a casa, lo si mediterà, ci si girerà intorno, e ci si svelerà infine forse, un senso che l'immediatezza della presenza, del dialogo, della folla, può aver diluito.



Facciamo l'esempio con un telegiornale. Ecco la prima notizia che ci scuote emotivamente. È terminata ma già appare la seconda e poi la terza ecc. Abbiamo subito una serie di emozioni senza mai avere avuto il tempo per approfondirle. Anche la vita è così. Viviamo fatti che sono concatenati e spesso ci sfugge parte del significato che potrebbe essere diretto proprio a noi. Leggere la grande letteratura, leggere veramente, sul serio, porta fermarsi e pensare su quel che accade e cercare di dargli un senso. L'emozione che in noi nasce diviene parola o gesto o sguardo. Il pensiero svela qualcosa di quell'emozione che ci rende più vincenti, che rende più possibile avvicinarci a quanto desideriamo, oppure defilarsi prima di farsi troppo male, se siamo in grado di comprendere.



Per me l'arte suprema è la musica. La grande musica, quella senza parole. Ma essa non dialoga con noi. Il suono passa dall'orecchio all'anima senza sfiorare i pensieri e dall'anima, un'emozione sottilissima ritorna, sveglia i sensi, può inumidire gli occhi, e ci fa scoprire di quale sensibilità si potrebbe essere capaci se solo ci si allenasse un poco. Quel che la musica “tira fuori” dall'anima, dopo esserci passata dentro, è il meglio di noi, è la capacità di creare e sentire infinite armonie di cui spesso non ci si credeva capaci.



La lettura è un gradino più sotto e vi spiego perché. La sensazione deve sempre essere trasformata in linguaggio non solo da chi la emana, come per esempio il compositore o il poeta, ma anche da chi la riceve e in questa “trasformazione” si perde un po' della splendore originario. Puro è quel che è nell'anima e che per me è la somma di cuore e pensiero. Quando questa curiosa somma esce da noi crea uno stato d'animo che, per poterlo comunicare, deve essere per forza trasformato in qualcosa di percepibile ai sensi.

Si può semplificare così: come reazione ad un evento, nasce nell'anima un qualcosa che ci emoziona. Questo oggetto astratto, impalpabile, per essere comunicato deve essere reso concreto. Chi lo riceve, tramite i sensi, deve scioglierlo nuovamente in astrazione, in luce, percepibile dall'anima.

Ma....vi rendete conto quanto si può perdere di quello stato inizialmente provato, con tutti questi passaggi? Vedo lei per esempio, e tutto quel che provo esce in uno sguardo e in un gesto o in parole dette o scritte. Lei coglierà quel che ho dentro in modo così chiaro e nitido come io l'ho vissuto, quel sentire interno che non era ancora visibile fuori di me? Quella purezza totale del messaggio che vogliamo trasmettere ce l'ha solo la musica, e raramente, e questo perché appunto entra in noi senza che la censura del pensiero tolga o apporti alcunché.

Immaginate ora che quel che provo sia paragonabile ad un carico che deve percorrere un sentiero tortuoso. Trasformo la sensazione dell'anima in una materia fatta di gesti, sguardi che è percepibile ai sensi (e le parole anche, son materia che rivela ai sensi un messaggio), la carico sul carro e lo spingo fuori dalla finestra del mio corpo, nel mondo. Il carro passa attraverso in sensi di un altro, bussa all'anima ed essa si incarica di trasformare quella “roba” nell'oro del suo linguaggio.

E voi pensate che in tutto quel viaggiare e trasformarsi non si perda un poco di carico? E se l'altro è pure impreparato a rivivere quell'oro, come la ragazza che odiava il suo partner quando era con lui e lo desiderava quando era col gruppo? E se il nostro codice dell'anima è dotato di una sensibilità innata o allenata più che nel ricevente? Si pensa che i gesti innamorati per esempio, siano scemi solo per chi non ama, ma anche chi non è consapevole che certe sensibilità esistano e comunque ama, potrebbe trovar ridicole certe attenzioni....



Ed ecco il mistero dell'arte. Parola che merita ora di essere ridefinita.

Arte è tutto quel che facciamo e carichiamo di un pensiero che nutre contemporaneamente anima e mente, sentimento e intelligenza, di un'esperienza che abbiamo rivestito di senso che ci si è rivelato.



Per questo un libro di storia o di fisica lo sentiamo freddo, non ci basterà mai. Vogliamo comprendere per esempio la Rivoluzione francese? Non basterà certo leggere il capitolo corrispondente di un testo di storia e nemmeno ingozzarsi di monografie enormi. È la somma di qualcos'altro che ci consegnerà quell'evento nella sua portata reale e umana. Si leggano in questo caso un libro storico, il diario di Claude Martin (pubblicato in Italia da Mario Mazzucchelli per Longanesi) e “Gli dei hanno sete” di Anatole France. Sommando un testo storico, un diario che racconta le reazioni emotive e soggettive del momento e un romanzo di valore sull'argomento ecco che si formerà in noi una visione, non più sensata, ma più umana di quel periodo.



Diversamente possono accadere fatti incresciosi, comprensioni parziali e anche peggio...

Ricordo che anni fa fui invitato ad una conferenza di Vovelle, considerato un grande studioso della rivoluzione francese. Non amo queste cose ma vi fui in un certo costretto da alcuni docenti perché sembra nessuno avesse tempo per andare a sentirlo. Alla fine della prolusione, presenti quattro gatti, vengo invitato nascostamente da un prof a fare una domanda poiché nessuno ne aveva l'intenzione nonostante Volelle l'avesse sollecitato. Chiedo allora se non pensa che la lettura di un testo come “Gli dei hanno sete” di France, possa essere utile per comprendere quell'epoca. Mi risponde, taglientissimo, che lui quella robetta la leggeva a quattordici anni. Ho reagito facendogli presente che France è robetta per i francesi ma non per il mondo e che questo scrittore, figlio di un antiquario specializzato sulla rivoluzione, era documentatissimo e dotato di una penna abile a sufficienza per trasmetterci la sensazione generale di quell'angoscioso evento epocale che i francesi e in particolare i parigini vissero col cuore in gola e ben poco convinti di essere nel giusto. L'ho poi massacrato facendogli presente che non sopporto le persone che hanno compartimenti stagni in tutti i loro pensieri e che lui come storico pretendeva che, agendo esclusivamente con la mentalità dello storico appunto, tutta la comprensione di un'epoca fosse rivelata a sufficienza. Alla fine venne per stringermi la mano e dirmi che mi scaldavo troppo, che ero troppo giovane forse per poter essere in grado di affrontare con lucidità e scientificità la storia e non solo. Gli diedi chiaro e tondo dell'imbecille facendogli notare che la sua prolusione era stata sopportata per dovere e che se non ci avessero costretti non sarebbe venuto nessuno. Lui con quel linguaggio supponente e convinto di avere la verità in tasca, era ridotto ad avere un solo pubblico di docenti, gente della medesima “cosca” e non certo dei veri interessati..... e forse fu la prima volta che qualcuno glielo disse in faccia.



Vedete? Il frutto del pensiero ha un sapore che potrebbe bastarci ma si deve ammettere che è acerbo, incompleto. Se per comprendere una formula di fisica o la sequenza degli avvenimenti di un evento storico, può bastare, per comprendere la vita, va un po' strettino. Che ne dite di valutare l'undici settembre solo come numero di vittime e di palazzi crollati? Col tempo sarà così, e quell'aura immensa che vi ha travolto, composto di paure, deduzioni, immagini di un futuro improvvisamente infragilito, sarà dimenticato. Un po' come dire che il corpo che vidi sul tavolo di marmo dell'obitorio era mio padre. E cosa ci vuole a capire che quel simulacro senza pensiero sguardo e parola non era nemmeno un nulla di lui!



Ed ecco la letteratura, che trasforma in parole la sensazione nata nell'anima, somma di cuore e pensiero. Essa si fonde in un'entità nuova completamente diversa dalle due parti dalla quale ha avuto origine, come un chimica più elementi se uniti danno qualcosa di nuovo.



È così per l'arte. Capita che un quadro rappresenti per noi la visione perfetta di un ideale. Capita anche che una persona ritratta da un essere sensibile, cioè un grande artista, riveli il suo carattere, il suo mondo, e noi sappiamo quanto sia difficile affidare a un viso tutto questo.



Spero di aver aver trasmesso, anche se con ciscischiamenti salti e tante, troppe parole, il “perché secondo me è importante leggere”. È uno sguardo sull'esperienza della vita e sul suo senso che ci viene lasciato in eredità da menti eccelse, da esseri umani che han saputo cesellare di fino il significato della quotidianità e anche delle nostre più grandi paure che rimangono, come la morte, insondabili, ma che guidati da loro che ci terranno per mano fra le pagine dei loro testi, ci saranno almeno più familiari.



E poi, leggere è pensare. Il libro, in generale, che si tratti di una guida per viaggi, un ricettario, un testo scientifico o antropologico o storico, è comunque e sempre pensiero e ci farà solo bene



….ma letteratura ci mette una variabile in più e anche questa può venirci utile.



Ci vuole allenamento. Questo si dimentica sempre. Col fatto che da piccoli ci insegnano a leggere pensiamo che non serva altro che “saper leggere” per impossessarsi del contenuto di un libro e tanta letteratura da strapazzo ci dà l'illusione che sia veramente così. Ma se ci si sforza di cercare la letteratura vera, quella senza tempo e che non ha bisogno dell'aggettivo “nuovo” per accalappiare, ma di quel termine “bello” che, insondabile e unico, è in grado di definire l'indefinibile come la bellezza di una donna se concepita non solo come un equilibrio esteriore di forme, si, se ci si sforza di nutrirci di quello, qualcosa cambierà in noi e sarà in meglio.



La grande letteratura ci sorprenderà ogni volta che ci metteremo nelle condizioni giuste per fruirla.



...e leggere richiede concentrazione perché, per chi non è allenato a pensare ma solo a percepire sensorialmente e a saper fare quel minimo che ci permette di muoverci nel nostro mondo, per chi non è allenato dicevo, farlo si rivelerà faticoso. Quando invece si è affrontato un rodaggio con opere inizialmente non troppo impegnative, si approderà senza sforzo alla comprensione di letture che precedentemente ci avevano spaventato. È come per gli alpinisti che vogliono conquistare l'Everest. Essi sanno che non possono arrivare alla meta per esempio in elicottero senza soccombere all'aria troppo rarefatta. Si prepareranno quindi per affrontare una salita che preparerà i polmoni gradualmente.



Leggere per esempio Proust sarà terribile così, senza un po' di allenamento. Ricordo che tempo fa, in un ristorante di Milano, amici artisti parlarono malissimo della Recherche definendola asfittica e illeggibile. Rimediai il primo volume della Mondadori tradotto da Giovanni Raboni e lessi ad alta voce il famoso “passo dell'infuso di tiglio”. Qualche pagina che scivolò via con un piacere e un coinvolgimento che li sorprese. Si trattava di avere pazienza, di cogliere il ritmo di quell'autore e riprodurlo. In certi casi è più difficile.

Kafka per esempio. In molti suoi brani accadono fatti che sembrano non semplicemente assurdi ma incoerenti, e questo ci fa perdere il filo. Quei suoi testi però, sono l'apice della cultura umana. Non dobbiamo dimenticarlo mai, farci coraggio e inoltrarci fra quelle parole e il ritmo, (che in Proust era legato al respiro. Essendo nel respiro malato, questo per la scrittura si era fatto mentale e per noi è diventato talmente lungo da farci rimanere senza fiato anche nella lettura mentale. Avete mai fatto caso che le frasi di ogni autore non superano mai la lunghezza della sua capacità polmonare a meno che non costruisca troppo giocandosi quindi la spontaneità che, anche per questa caratteristica, si coglie?) che ci sfuggirà perché distratti dall'argomento, ci farà pensare solo al senso. Questo smetterà un po' alla volta di sembrare incoerente, dandoci prima una sensazione dalla quale cercheremo di cogliere un frutto d'oro, angosciante ma vero, che, se morderemo, ci affiderà all'idea quasi pura .



In tantissimi testi di altri autori, di solito prima comprendiamo e poi reagiamo. Coi migliori questo avviene contemporaneamente, ma in Kafka....in Kafka passeranno anche anni prima che lo stato d'animo che ci ha trasmesso e del quale non ci liberiamo più, ovvero quel frutto che sentiamo d'oro ma che non osiamo ancora mordere con l'anima, riveli qualche particella di sé. E da quell'abisso rivelato non torneremo più..... Se vi accade come a me, con lo stupore di quel che egli riuscì a fare con le parole, e ricchi di una consapevolezza immensa che non rende immortali e forse non aiuterà a vivere la quotidianità, vi sarà più semplice affrontare le assurdità dell'esistenza, perché sentirete una regola profonda, una legge, che in un alto sentire, finalmente condiviso con la sua opera, si fa vita.







"La marcia su Roma e dintorni" di Emilio Lussu



Ho appena terminato la rilettura di “La marcia su Roma e dintorni”. Ora sono in viaggio, quando sarò di nuovo a casa rileggerò “Un anno sull'altipiano”.

Ho sempre detto che per tentare di comprendere un periodo storico non si dovrebbe leggere solo un testo di storia. La storia narrata da uno storico, ha presunzione di scientificità e questo ha per vari motivi dell'assurdo. Primo, troppe son le variabili e molte il tempo le cela, (oppure la faziosità sua o di altri); secondo: siamo sempre degli esseri soggettivi. La pura oggettività è un sogno non umano.
La scienza per esempio pensa di essere libera da condizionamenti...e invece è vittima anche di quelli estetici che apparentemente sembrano quelli più controllabili... per non dire poi di quelli morali. Solo quando una teoria è stata superata, col tempo, gli scienziati comprendono a quali limiti si erano adeguati. Il comico è che la nuova generazione pensa che solo i “vecchi”, proprio in quanto tali, abbiano potuto “credere” a quella teoria. Loro, i nuovi, il presente, si sentono duri e puri. Qualche esempio? Il primo è una colossale “badilata” nei dentini dei fisici. Il signor Hubble, voleva asssssolutamente dimostrare che l'universo era in espansione. Forzò i dati....e si diede ragione.
È sufficiente ma non semplicissimo recuperare i dati della sua osservazione....;
Ora un altro aspetto che deve farci pensare. Qualche fisico è a caccia della formula che può spiegare tutto, dal perché Emilio Fede è ridotto così, al come e come mai la terra gira in quel modo, al perché il moto si comporta così ecc..... concentriamoci. La sentiamo l'assurdità utopica di una formula del genere con infinite variabili quando noi comuni mortali ci arrendiamo già davanti a quattro o cinque?
Non sentite il sapore di un'utopia che assomiglia alla pietra filosofale o alla formula che Rabbi Low di Praga mise in bocca ad un fantoccio dando vita al Golem? Quella formula equivale a scoprire il pensiero di Dio. Ogni epoca ha i suoi sogni e li esprime con gli strumenti nei quali crede. Una volta era la religione, poi venne l'alchimia, ora tocca alla scienza.



Anche dal passato possiamo cogliere situazioni che sono debitrici per esempio all'estetica. Si pensò per secoli e secoli che il moto dei pianeti fosse perfettamente circolare e con la teoria degli epicicli si forzarono i dati in quella direzione per “far tornare i conti”. Se qualcuno riuscì a comprendere che erano ellittiche, fu perché notò che il sistema si stava facendo troppo complesso. Ora: si scelse la circolarità perché la divinità creatrice era espressione della perfezione e il cerchio esprimeva secondo loro, questo. Si sommò un' altra teoria estetica, quella di presupporre che la coerenza avrebbe scelto sicuramente la via più semplice per far funzionare un “sistema”. Ed ecco che calcoli matematici propongono la visione semplificante che risulta essere prima di tutto eliocentrica e poi basata su ellissi. Vedete? Non c'è scienza alla base di questi ragionamenti, ma la presunzione di essa. Quando la strumentazione permise l'osservazione, ecco che si ebbe conferma, ma si ricordi che prima dei fatti resi evidenti dal cannocchiale, la preferenza degli studiosi, sottobanco, per non far inveire l'ufficialità della chiesa, era dettata da due regoline che non si basavano su alcun dato concreto, verificabile, visibile, dimostrabile; la perfezione del cerchio che si credeva divina e la predilezione per la soluzione più semplice.

Un Libro di storia quindi, ne più ne meno di un testo scientifico, deve riconoscere la sua “umanità” il che equivale a dire, la sua origine umana, che è ben azzardato considerare perfetta.
Ci manca la fede negli studiosi. Ci basti guardare come nel secondo dopoguerra i vincitori avessero una loro verità e i vinti una diametralmente opposta, e per noi interessati lettori in cerca di qualcosa che si avvicini il più possibile al vero, la situazione risultava talmente difficile da arrivare a pensare che si stesse perdendo tempo. Esemplare al riguardo fu il caso della strage di Kathyn. I russi diedero la colpa alla Germania ed essendo questa non solo la perdente ma anche colei che aveva progettato e realizzato l'olocausto, fu semplice convincere il pubblico che era andata così. E invece....sorpresa delle sorprese, il cattivo per antonomasia non fu l'unico “cattivo”....

Mi capita di mostrare una certa foto e chiedere di cosa si tratti. Immancabilmente mi dicono, un campo di concentramento tedesco e invece si tratta si di un campo, ma russo.....

Vedete come è facile anche in storia “tirare l'acqua al proprio mulino”? E poi, quando la faccenda non ci tocca più sul vivo perché tutti i partecipanti son defunti, a chi rimane, mettere le cose a posto come si deve, dopo tanto tempo, vi pare facile?

Con questo, non voglio certo dire che i libri di storia non vadano letti. Vanno semplicemente presi per quel che sono e umilmente ci offrono delle scansioni temporali di eventi che per essere compresi in modo “umano” necessitano di letture dichiaratamente soggettive. Ed ecco che per ben due argomenti Emilio Lussu copre, secondo me, un ruolo fondamentale. “Un anno sull'Altipiano” ci racconta della prima guerra mondiale e “La marcia su Roma e dintorni” dell'ascesa del fascismo in Italia.

Per quale motivo ritengo Emilio Lussu fondamentale per cercare di avvicinarsi alla comprensione di questi due argomenti? Per qualcosa di irrazionale e personalissimo. Ha conquistato la mia fiducia.
E come? Con il suo stile prima di tutto.

Vedete, uno scrittore, che racconti o che inventi, ha per noi un valore solo se la fiducia si innesca. E questa si rivela direttamente all'anima dal modo franco, che va subito “al sodo”, di esprimersi. In lui sento un'urgenza di dire come si son svolti i fatti, di far sentire come li ha vissuti, e se il libro sulla prima guerra mondiale ci mostra un'Italia civile inconsapevole di cosa stesse accadendo al fronte e dei mercanti che si interessavano alla commesse militari a danno dei soldati, il libro dell'ascesa del fascismo ci mostra cosa accadde a molti soldati tornati dalla guerra che, incapaci di inserirsi nel contesto sociale con ruoli meno importanti di quelli conquistati sul campo e in più, vedendo i frutti dei loro sforzi non coronati dal trattato di Versailles e nemmeno dalla stima della gente, non esitarono a prendere posizioni discutibili davanti allo spauracchio del comunismo russo che si espresse in Italia sotto forma di scioperi.
In più, come accadde che una democrazia si sia trasformata in una dittatura? E come fu possibile l'accondiscendenza del re? Queste domande ricevono delle risposte. Possono non essere esaustive e in fondo anche per me esse rappresentano semplicemente un tassello di qualcosa di più vasto ma, essendosi Lussu conquistata la mia stima, non nutrirò dubbi su quel che mi racconta. Lo storico chiede di essere creduto in grazia di un metodo che considera scientifico e quindi infallibile, ma so che non è così. Lo scrittore, ci mette l'anima, i suoi ideali, la lotta. E l 'anima, somma secondo me di cuore e pensiero, merita tutto il nostro rispetto. Se si scoprisse che ci son cose sbagliate? Ecco che la legge del perdono scatterebbe automaticamente. È fatto in buona fede. Può succedere. Ed infatti un errorino, robetta trascurabile, per esempio c'è. Fausto Nitti, che fugge con lui da Lipari, non è nipote del presidente del consiglio Francesco Saverio, ma figlio di un cugino. Robetta da ridere, se si pensa a quel che Lussu ci mette sotto gli occhi.....


E quali pensieri si innescano da questa lettura?
In me, prima di tutto un paragone con l'attualità italiana. Ricordo che una ventina di anni fà in una città capoluogo di provincia, rossa fino alle mutande, non si trovava lavoro nemmeno per far le pulizie se non si aveva una tessera di partito. Non sto scherzando. E la tessera non doveva essere necessariamente rossa. Anche i bianchi avevano dei “canali” tramite i quali soddisfare i loro adepti. E se ci penso,oggi non è in fondo la medesima situazione? Vedete, i passaggi dalla libertà a una qualsiasi forma di sudditanza, “raramentissimamente” avvengono “tutti d'un colpo”. Ci si fa rosicchiare un po' di libertà tutti i giorni e dopo qualche tempo ci si accorge non sempre...) che ne abbiamo svilita una bella fetta.
E non è solo questione di tessere. E l'università? Nella quale solo un lungo, avvilente, umiliante galloppinismo permette di accedere a posti che dovrebbero essere appannaggio del valore? E nessuna corrente politica si salva. Anche quei gruppi che si celano dietro al cristianesimo agiscono così. E vedete altre briciole di libertà, di coerenza, cedute quasi inconsapevolmente in altri settori?

Notate che ne “La marcia su Roma e dintorni”, Lussu ci presenta e descrive le peripezie di molti voltagabbana. Ci da nomi e cognomi e se si pensa che il libro usci all'estero nel 1934......ci fa sapere anche come giustificano le loro “abdicazioni” a libere scelte. La risposta, tutta italiana, si può riassumere con un esemplarissimo.... “tengo famiglia”....!
Accade anche che chi ha goduto di posizioni di un certo livello, cerchi di mantenersi almeno al medesimo.....questione di “apparente” dignità personale....

E Lussu ci racconta tutto anche dell'omicidio Matteotti. Quando il libro venne dato alle stampe egli non poteva ancora sapere che questa illustre vittima, oltre ad aver tenuto quel discorso in parlamento, aveva dichiarato che avrebbe presentato per l'indomani un dossier che riguardava la vendita segreta di diritti per l'estrazione di combustibile dal sottosuolo.....
Per questo un testo non basta mai, ma quel che di Matteotti ci racconta, della sua ammirevole coerenza con un ideale, della sua convinzione che ora i suoi compagni avrebbero dovuto preparare il discorso per la sua morte....e non solo. Come reagì l'opinione pubblica, e poi i fascisti e Mussolini e infine il re, che in viaggio in Spagna era andato a complimentarsi per il loro viraggio a destra.... e l'attesa del suo ritorno che si conclude mestamente in una battuta sulla figlia, la principessa che “stamattina ha ucciso due quaglie” e lo sguardo perplesso dei presenti che speravano nelle dimissioni di Mussolini e che non riuscirono a dire di più che “le quaglie sono buone con i piselli”..... Povera Italia. Povera allora e povera oggi, perché secondo me gli italiani non son cambiati.

L'idea di democrazia che abbiamo in testa e che leggiamo sui libri è ben diversa da quel che nella realtà accade. Ora, chi viene scelto per coprire la carica di presidente del consiglio (voluto il minuscolo...) da un presidente che dispone di troppi pochi poteri.... è di fatto re per una legislatura. Prima l'opposizione contava qualcosa e lo costringeva a “rigare dritto” Ora, con i premi di maggioranza, chi sale sul “trono a scadenza” regna regna e regna. Questa secondo me non è democrazia.....

E poi....., ma la democrazia si deve anche meritarla! Com'è possibile che essa possa convivere con un sistema di raccomandazioni così capillare? È evidente che chi sta in cima alla piramide non è altro che il “grande elargitore”. I precedenti anche recenti parlano chiaro.

Libertà nella democrazia. Essere certi che il chirurgo che mi aprirà come un'ostrica sia veramente il migliore!!!! e non come leggo tristemente su “Gomorra” di Saviano di quel camorrista che si rifiutò di farsi “mettere le mani addosso” da quel medico perché lì, in quel posto, ce lo aveva messo lui.

“.....di quella umile Italia fia salute
per cui morì la vergine Cammilla
Eurialo e Turno e Niso di ferute.”

Dante Dante. I tuoi lamenti sono i miei. Ora si è in più esiliati in patria. Una patria che non sento. Mi vergogno di essere italiano, io che per un principio ho varie volte ridotto al minimo la mia esistenza!!!!

Vedete a cosa porta la lettura di Lussu? La sua sincera fede in valori libertari e democratici, innesca in me pensieri, confronti, consapevolezze....il desiderio di essere migliore, di vivere in un mondo, in un'Italia migliore.

Ora chiudo queste riflessioni.

L'italianissima pasta col pesto fuma nel piatto.
L'Italia ha qualcosa di buono, ma non deve essere e non è solo la cucina. Grandi ingegni l'hanno onorata. Per ora mi accontento della pasta col pesto. Speriamo in tempi migliori. In italiani migliori.

“Grattano il grana”. C'è tempo per un altro pensiero.

Ricordate quando durante la finale dei mondiali di calcio Materazzi ricevette la testata da Zidane ?
Si comprese immediatamente che il francese aveva reagito a qualcosa che gli era stato detto. Agli italiani non interessò...... punto. L'importante era vincere. Come non importava. E vinsero, si, ma dare della puttana alla sorella di Zidane per farlo imbestialire in modo che lo squalificassero non è ad dir poco squallido? Io avrei preso Materazzi per un orecchio, l'avrei costretto a chiedere pubblicamente scusa e l'avrei radiato dal calcio prendendo le distanze da quello “stile”. Invece niente. Silenzio su quel fatto. Era importante vincere e basta. Per me, nella vita, come in una partita di calcio, è altrettanto importante come si vince e questo, purtroppo per gli italiani, non ha valore.....

la pappa è pronta.... passo e chiudo.

domenica 5 giugno 2011

Meditando su un passo di Mc Almon

5giugno 2011  

Questa mattina ho letto le considerazioni di Mc Almon[1] su Joyce e il suo uso della parola.

Non posso non condividere e tenere conto di quel che dice e trattandosi di un momento della creatività che ho superato e risolto, lo offro a chi desidera “saper scrivere”..... per pensare.

Mi spiego

Mc Almon dice che l'infatuazione per la singola parola, per la sua definiamola, plasticità sonora, era una “malattia” di Joyce, e che ad essa tutti coloro che si cimentano nella scrittura, prima o poi pagano pegno. Joyce invece vi rimase irrimediabilmente (secondo Mc Almon, ma anche secondo me), legato. Si, so di essere d'accordo anche perché, ripensando alla mia adolescenza ricordo ora, sorridendo di me stesso, quell'innamoramento.

Un esempio può servire per far comprendere come ci si trovi ridicolmente travolti da questa apparenza che, essendo appagante, non ci permette di emanciparci e di crescere.

Ricordo una persona che veniva a trovarmi a casa. Gli offrivo il caffè, si chiacchierava e...sapevo bene perché era li...per leggere quel che di nuovo potevo aver scritto. Secondo me in lui questa curiosità non accadeva per apprezzamento; infatti il suo atteggiamento critico era assai libero e il mio narcisismo, non ancora consapevole che una critica vale ben più di mille complimenti, ne soffriva un po'.

Ripensandoci ora,credo di esser stato l'unica persona che conoscesse, o ancor meglio, che si lasciava conoscere, e che in più scriveva.

Era un tipografo e mi fece notare che spesso chi andava a stampare da lui, a pagamento o per mezzo di un editore, era come seduto su un trono d'oro che a lui sembrava un seggiolone da bimbo, e che da quell'isolamento lassù in alto, senza dialogo, pontificava o elargiva la propria presenza convinto che il presente avaro, sarebbe stato eclissato da un futuro che non poteva non incensarlo.

Io invece cercavo il dialogo ed ero appassionato. Combattevo per un'idea letteraria, artistica, con la medesima foga che si spende nei bar per il calcio e la politica e non perdevo troppo tempo nel selezionare il dialogante. Mi sembrava impossibile, intollerabile che esistesse qualcuno che non fosse interessato a quel che io amavo.

Allora accettavo le critiche anche se, come ho già accennato, nascostamente ne soffrivo. Esiste un'età per la quale basta amare per giustificare tutto, perché tutto sembri diamante.

Quanto sono cambiato... Ora trovo che i complimenti siano una perdita di tempo e se mi capita di conoscere personalmente qualcuno che mi ha letto, mi interessa solo verificare se quel che intendevo dire è stato recepito. E non cerco questi incontri.
Del narcisismo non è rimasta nemmeno la polvere. Ora la scrittura non deve nemmeno soddisfare me stesso.

Questo tipografo, dunque, lo lasciavo andare alla scrivania e dopo mi diceva quel che pensava.

Un giorno mi fece notare che in una poesia avevo usato la parola barman.

Dovete sapere che quel vocabolo, oggi ha un senso diverso e ben definito. Forse allora le classi più elevate già lo percepivano come oggi, ma per me che le classi non le vedevo e che bevevo al massimo una birra o un calice di spumante, quel mondo di significato era appiattito dal non uso. Certo è che ora, il termine barman è di uguale significato per tutti.
Tempo fa era, almeno per il popolo, un vocabolo piacevole e che dava un tono perché era straniero. Lo si conosceva perché nei film americani i doppiatori lo mantenevano e mai veniva tradotto con l'equivalente di un'altra lingua. Non era concepibile che Bogart dicesse “barista!”. La parola barman era connaturata in lui non meno del suo panama.
Molti attori americani erano adorati perché compivano riti che spesso, anche inavvertitamente si imitavano[2]. Ora non fuma quasi più nessuno e ne son contento, ma la fortuna di James Dean fu indubbiamente dovuta, oltre che alle sue capacità, e oltre che al suo sguardo di miope frainteso che non si rassegnava agli occhiali, anche per il modo unico che aveva di far rotolare il tumbler[3] fra le palme delle mani, sommato al modo di tenere la sigaretta fra le labbra o con i denti.

E' come leggere oggi qualche riferimento anche rapido, al ventaglio nei romanzi dell'ottocento. Quell'oggetto, più che far aria doveva, come la sigaretta o il sigaro o il monocolo per l'uomo, supportare e “sopportare” una gestualità che raggiungeva punte di raffinatezza per noi ormai definitivamente perdute. Si pensi per esempio al fatto che alle feste, con una matitina, la signorina segnava su di esso, in accurato ordine, prima dell'avvento del carnet, con chi fare coppia ai vari giri di danza... e si pensi al rossore, alla vergogna provata dalla fanciulla che poteva ostentare pochi inviti e di conseguenza aprire poco il ventaglio per non mostrare gli spazi vuoti....

…..ed ecco che io, più vittima che protagonista del mio tempo adolescenziale, avevo scritto “barman”.... Lui mi disse chiaramente che si trattava di un atteggiamento.

Quando se ne andò, cerchiai l'incriminata, pensai e ne uscii cambiato.

Il modo di agire verso la singola parola, modaiolo o sonoro che fosse, mi lasciò quasi definitivamente.

La domanda divenne allora la seguente: come scegliere le parole da “usare” ?

E compresi, col tempo, che se avevo qualcosa da dire, esso medesimo, questo qualcosa, senza consultarmi, si sarebbe trasformato, come e quando avrebbe ritenuto opportuno, in parole.

E ora, dopo anni di tirocinio di me stesso, accade che spontaneamente, senza metterci mano con estetismi, le parole si mettano in fila e si facciano frasi e le frasi racconti.

Mi capita di apportare qualche piccola correzione, per esempio per quanto riguarda le ripetizioni che, così comuni ed accettabili nel dialogo, quando le vedo scritte, mi infastidiscono.

Per il resto ho deciso di lasciar fare alla mente o, per meglio dire, all'anima che è somma, secondo me, di cuore e pensiero.
E l'anima appunto, faccia quel che vuole. Come dicevano gli antichi darò la colpa o il merito alle muse o alla divinità?  ...nulla è impossibile per un'anima.

Lascio comunque che il vero me stesso si senta libero da me. Ed uscirà l'io che sono veramente, profondamente. Questo lo confronterò con quel che credo di essere e, se combaciano come immagini allo specchio, penserò che possano valere qualcosa.

È grande letteratura solo quando quell'io che hai lasciato libero di esprimersi è identico a quel che sei. Non ci è concesso di essere più che minuziosamente, completamente sinceri.

In questo modo, è evidente che lo scrivere è per chi  lo fa. Il mondo non c'entra.

Tutto quel che accade dopo, è fuori di noi, incontrollabile, indifendibile e inattaccabile. È tempo perso accanirsi ad agire. Il mondo è troppo complesso per potersi permettere una legge diversa dal caso.

Vivere e cercare profondamente di comprendersi.

Oltre questo non esiste realtà.


[1]“Vita da geni” di Robert Mc Almon. ed. Adelphi – collana Biblioteca, n.341
[2] I tempi amano ripetersi ma mai in modo identico. È appena terminata la moda che ho visto nascere negli USA ed esportata a Cannes e da qui a Parigi, dell'assenzio. Si vedevano attori che estraevano una custodia di solito di pelle nera, ne usciva un cucchiaino che, sempre di solito, era d'oro o platino e che si erano fatti disegnare da un nome noto quando non lo avevano disegnato loro stessi, poi lo appoggiavano sul bordo del bicchiere, vi mettevano sopra la zolletta che veniva imbevuta di assenzio appunto e poi giù, con calma, acqua da una caraffa. Era più importante il rito della bevanda che infatti spesso, a riprova di quel che vi narro, non bevevano fino in fondo. La finzione, nei locali pubblici era tutta ad uso e consumo dei presenti che diventavano seduta stante un pubblico ansioso di imitarli e non si trattava certo dell'assenzio allucinante del secolo precedente che ora era ed è proibito. Questo veniva mostrato con finto mistero carbonaro a feste private e colava, denso, da bottigliette simili a quelle tascabili da Whisky.
Un altro rito che ha preso piede, è quello di “rullarsi” le sigarette. Molti dicono che sono più “buone”. forse per qualcuno sarà anche plausibile, non non ci piove che chi ha carenza di personalità affida a queste “cerimonie” un fascino che è ben consapevole di non poter “lanciare” con uno sguardo o un gesto saturo di pensiero.
[3]Semplicissimo bicchiere cilindrico

venerdì 3 giugno 2011

Carl Sternheim: Libussa




I vari titoli che ho gettato nella mischia durante la scrittura degli altri post, e per ora, non ho approfonditi, in futuro saranno spiegati nel senso che ormai sapete: ovvero perché li amo. Non necessariamente in arte, una scelta deve essere razionale e non mi va di esserlo troppo. La mente da sola fa dei danni, come il cuore, se fa per conto suo e, se abbiamo passato i tre anni di età dovremmo averlo ormai compreso. Come tante lezioni della vita, l'importante non è solo averle vissute, ma non dimenticarle....

In questo post propongo “Libussa” di Carl Sternheim.
Se amassi agire per categorie, che è la medesima cosa che dire per compartimenti stagni, vi dovrei dire per esempio che era un espressionista tetesko, e invece penso che sia il caso di iniziare a scoprire questo gioiellino di libro, prendendo una via per nulla secondaria ma che troppo spesso vien trascurata.

Iniziamo dicendo si qualcosa di questo autore, ma un qualcosa che va scovato, che non appare immediatamente alla mente, ma quando appare....brilla per la sua unicità, per il suo splendore.
Se si prende in mano un qualsiasi volumetto della collana Meridiani Mondadori, dedikato a Kafka, si scoprirà che nel 1915 questi “riceve il premio letterario Fontane”... strano. Di solito ci dicono che un premio lo si vince e in questo caso invece lo riceve.... La traccia è comunque troppo labile per rivelare qualcosa. Il sottoscritto che, se non lo si è kapito lo ri diko, ama moltisssssimo l'opera di Kafka[1], trovò poi nel volume fotografico “Franz Kafka e il suo mondo”[2] la seguente informazione un poco più estesa ma già sufficiente per stupirsi: “...Carl Sternheim, cui era stato assegnato il premio Fontane, decide di cederlo a Kafka.”

Penso che ci sia di che fermarsi e meditare. Vi è mai capitato di sentire una cosa simile? Immaginate: una persona vince un premio letterario che oltre il resto nella cultura tedesca ha la sua importanza e decide di consegnarlo ad un altro. Entriamo ora nella mente di quest'uomo almeno per ipotesi; egli scopre di avere vinto ma sa anche che fra i candidati Kurt Wolff, un editore, aveva proposto anche Franz Kafka. Carl Sternheim ci pensa e decide che non c'è paragone: “quel tipo di Praga è più bravo di me, va oltre a quel che io so dire, quindi non è giusto”, e trasforma il pensiero in azione.

Penso che davanti all'esemplarità di quel gesto il minimo che si possa fare sia di mettere immediatamente il cappello solo per poter fare il gesto umile di toglierlo davanti al piccolo libretto che vi sto proponendo.

Vedete, ha fatto una cosa semplicemente giusta e, badate bene, Carl Sternheim non era proprio l'ultimo arrivato e il libretto che vi consiglio, “Libussa”, lo dimostra.

Io ci sento, in quel gesto, il piacere di essere parte della comunità artistico letteraria, ma senza egoismo. Carl Sternheim sapeva di essere fra i migliori della sua epoca, ma non si preoccupava di essere il migliore in assoluto  perché non ha senso. Il presente del quale Sternheim e Kafka facevano parte, poteva intuire qualcosa, ma non certo comprendere tutto[3]. Il presente, fatto di una massa di esseri pensanti, vive intensamente e solo ...nel presente, e non è certo esente da reazioni emotive, da deragliamenti per improvvisi bui spettrali che possono per esempio chiamarsi Nazismo o Stalinismo o l'ombra di un finto grande che va solo di moda.

Qualche esempio notevole di improvvisi black out artistico letterari? Eccoli.... Fra le due grandi disgraziatissime guerre, Irene Nemirovsky[4] era nota e fu un caso letterario che fece assai discutere la Francia e la comunità ebraica internazionale, pubblicata oltre il resto da Grasset, il medesimo di Proust. Morì di malattia in un campo di concentramento e fu letteralmente dimenticata. È riapparsa quasi per miracolo in libreria qualche anno fa per un caso fortuito che racconterò in un'altra occasione, ed è come rinata, dal nulla in cui era caduta, per la seconda volta. Tutto quel che questa donna ha scritto, vale men che molto e fate caso che nel secondo dopoguerra, molto modaiolo e parigino, lei sparisce completamente....
Un altro caso di oblio quasi totale.... Isaac B. Singer[5], vinse il Nobel e ci tenne sempre a dire che il fenomeno non era certo lui, ma il fratello[6]. Gli credo, indago, e scopro l'opera di Israel Joshua Singer[7]. Eccellente. Penso che sia noto solo agli addetti ai lavori e ai suoi confratelli di religione. Triste, non trovate?
Non sto parlando di mezze cartucce....

Carl Sternheim merita di essere ricordato, secondo me, anche solo per quel gesto onestissimo. Il tempo gli ha dato ragione. Kafka è un caso unico ed eccezionale nella letteratura mondiale. Quanti secoli dovremo aspettare per vedere di nuovo una rinuncia simile?

Vedete, se esce un capolavoro, sarebbe auspicabile che gli venissero assegnati tutti i premi...ve l'immaginate “Anna Karenina” in libreria e i premi a robetta che ormai abbiamo, giustamente obliato? È accaduto...accade sempre.

Portiamo un esempio che scoperchia il pentolone di skifezze che sono per esempio i premi Oscar. Gli Stati Uniti si ritrovano un fenomeno come Clint Eastwood. Di oscar ne ha vinti e secondo me meritatamente. Ma poi ha stufato, non noi certamente, ma quella “strana accademia”. Esce un film come “Gran Torino”[8] per esempio, e non viene nemmeno preso in considerazione. Il motivo è ridicolmente semplice. Si tratta di confezionare un'operazione commerciale complessa della quale l'Oscar non è che un apice di visibilità accuratamente calcolato. Darne tanti alla stessa persona infastidisce[9] una mentalità che non ha nulla di artistico se non per pura coincidenza involontaria. Ed ecco che vediamo un film di Bollywood, qualcosa di una banalità insultante, che stravince. Si rimane stupiti ma, se non si dimentica e si fa qualche collegamento...., si scopre che quest'anno, nel 2011, si può comprendere. Aprire al mercato cinematografico indiano ha permesso agli attori americani di essere richiesti anche la. Per non parlare dell'incremento di distribuzione del prodotto holliwoodiano in India.

Un altro esempio un po' più solforico.
Correva l'anno 1960. Era maggio. L'organizzazione del Festival di Cannes aveva letteralmente costretto Simenon a fare il presidente di giuria. Già sorprende tutti dicendo che non vuole rimborsi spese per l'alloggio e poi, quando si riunisce la giuria, invita l'emissario del Festival che voleva sedersi con loro, ad uscire. Simenon aveva letto il regolamento..... Nella giuria, tanto per descrivere com'è il mondo del cinema, c'era anche Henry Miller al quale non gliene fregava niente di esserci. Dopo due riunioni disertò e si dedicò alla sua passione, il ping pong. I festival vogliono nomi noti... ma il punto è che oltre il nome il resto è d'ingombro. Non vogliono altro La giuria era divisa fra... sentite un po': “La dolce vita” di Fellini (meglio dire Fellini e Flaiano...) e “L'avventura” di Michelangelo Antonioni. Prima della riunione finale, il fondatore del festival e Simone Renant (dell'organizzazione), dicono a Simenon che, per ragioni diplomatiche è indispensabile che gli americani si portino a casa almeno un riconoscimento importante. Simenon fa invece l'onesto. La spunta Fellini per due voti (ma in fondo uno poiché il pingponghista gli aveva dato anche il suo).
Risultato eccellente. A Fellini la palma d'oro appunto e ad Antonioni il premio speciale. Col senno di poi si può dire che fu un festival che fece centro, non credete? E non perché erano due italiani. Quei due film sono dei capolavori. Per chiudere, Simenon ricorda che da quella volta, non fu più chiamato a dirigere dei festival e le sue scelte furono strafischiate da un pubblico che forse aveva carburato a sangria e non era in grado di distinguere un film di Vanzina da un capolavoro.

Morale. Pensi? Sei onesto? Fuori.
E per Nemirovskij e Israel Singer la morale è stata per anni la seguente: siete geniali? Echissssssenefrega!

Scopriamo l'acqua calda e lo sappiamo. Ma andiamo avanti.
Mi diverte precisare che sembra che qualcosa stia cambiando. Quest'anno (2011) la preparazione della cinquina del Premio Strega, è stata complicata dalle lettere di alcuni scrittori che non ne hanno voluto sapere di partecipare. Che sia una crisi di onestà intellettuale? Ci pensino gli editori a “curarla”, poiché è strarisaputo che sono loro a fare e disfare tutto in quel contesto.

Ebbene, dopo questo elenco, che è striminzito ma potrebbe essere chilometrico e penso, credo, anzi, sono certo che anche voi abbiate tante cosucce di questo tenore da raccontare...ebbene, dopo questo elenco, ma quanto brilla questo Carl Sternheim! Non trovate?

 E pensate che nel piccolo libricino edito Adelphi, colorato di una sfumatura molto elegante di rosa, di questa notiziola non se ne parla.

Veniamo al testo.
Va detto che è una cosina breve, di appena novanta pagine (anzi, il testo inizia a pagina nove, quindi ancora meno) ma non si pensi che sarà una lettura veloce. Sfido anche lo stitico più incallito a dargli fondo in una seduta.

Vedete, il problema è che siamo abituati a leggere cose troppo sempliciotte e superficiali. Carl Sternheim, non fa capriole da circo con le parole. Il suo linguaggio é si lineare, ma il contenuto è intenso, pesa. Non ci si può distrarre.

Esempio. (abbiate pazienza, ci vuole). Quando il prezzo del “Codice da Vinci” è sceso, nei mercatini dell'usato, sotto il valore di un caffè, ho fatto questo investimento. Alla pagina ventidue ho sospeso la lettura, mi sono avviato verso il bidone dell'immondizia e l'ho consegnato all'oblio. Solo ventidue pagine son bastate per comprendere che può essere letto senza pensare e si ricordi che ricordare non è pensare ma è materiale per farlo quindi da questa assenza parte una catena delirante che porta alla banalità ne ala fama di personaggi come il nostro simbolico Emilio Fido e tanti altri!
In quelle pagine un tipo muore lentamente per una pistolettata in pancia. Dialogano. L'assassino è un albino (perché albino? non c'è motivo ma fa scena) che zoppica (scopriamo poi che ha un cilicio, non cercate un senso nemmeno a questo. Deve solo stupire e quello stupore durare un attimo. Equazione, è un credente notevolmente compreso chi porta un cilicio. Ok, siamo tutti miscredenti. Grazie Dan per la lezioncina d'alta scuola). Del resto già non ricordo più nulla. Solo azione. Zero pensiero. Vende, anzi, ha venduto (e ora è ormai dimenticato, fagocitato, digerito e...e cosa viene dopo che non ricordo...?) a quel pubblico, che copula molto e senza contraccettivi, e aveva senza ogni dubbio i nonni intenti a fischiare al Festischifal di Cannes nel 1960....
Mi domando...ma che gusto c'è a mettersi nel cervello nozioni che si ammucchiano e si dimenticano senza un fine, un costrutto ma che comunque, anche se per un periodo limitato creano un bell'ingombro? Capisco, ma solo fino ad un certo punto, i lettori di gialli anche più dozzinali. Una volta che hai scovato il colpevole non c'è più gusto ma almeno hai mosso qualche ingranaggio e capita, anche se rarissimamante che questi libretti siano scritti bene. Anche nel “Codice” c'è qualcosa da scoprire, ma come mai, se un minimo si pensa, abbiamo la sensazione dopo una ventina di pagine che si tratti di una clamorosa stronzata? (non si può dire ma lo dico! Ho sempre asserito e qui lo ripeto, che la volgarità è spesso nell'atto e non nella reazione che esso fa scaturire. Quel libro è una volgarità bella e buona, tempo perso e sapete quanto vale il tempo, e quel vocabolo un po' colorito e odoroso, in confronto, ha il gusto squisito di un bacio Perugina...).

Ho letto di recente, oltre il resto, che il patron della Marsilio è tutto fiero perché pensa di avere scovato un altro “fenomeno” come Dan Brown (con questa notiziola cosparsa del mio acido mi son confezionato un nemico che sarà fiero di ignorarmi....ma chissà se si accorgerà che mi ha già pubblicato in combutta a un “mangione” che fa anche il critico d'arte in tele, fra una digestione e l'altra e se la cava pure bene /non solo a tavola.../!).
Consigliargli di cambiare mestiere pare brutto? Ma la neuro non lavora proprio mai? Che ci sia la crisi lo capisco, ma certe persone son pericolose. Un bel clisterino da venti litri tutte le mattine per un annetto, con due foglie di mentuccia perché la sensazione di fresco gliela diamo come prova che qualche speranza nella sua guarigione la coviamo...vi sembra troppo? A me no. Sei editore, capisco che adori la quantità, ma almeno ammettilo e datti un contegno e venditi meglio in quanto a immagine. Ma secondo voi uno così se gli passa davanti un Proust, un Musil, lo vede? Ho i miei dubbi....e le mie certezze....

Caro Carl Sternheim quanto adoro quel tuo gesto!
 E non certamente perché ci ha guadagnato il mio amato Kafka.
Avresti anche potuto sbagliare e dare il premio ad un Faletti! (no... non esageriamo, skusa Carl, skerzavo!) l'importante è stato il gesto e quello ha un monumento in me, e ora, credo, non solo in me.

Torniamo a “Libussa”. Come ho detto, è scritto con parole semplici.... ma non è un libro semplice. Per comprenderlo è poi necessario andare a leggersi qualcosina sulla prima Weltkrieg[10], così accadrà che certi protagonisti ci saranno familiari.
Ora veniamo al titolo. E' un nome. Esattamente di una bellissima cavalla bianca di origine russa. Talmente bella che fu prima onorata di sentire sulla schiena i regali glutei della moglie dell'ultimo zar russo. Questa è la sua autobiografia. Scopriamo così il suo pensiero femminile e nel contempo equino. Apprezzeremo perché, la sua sopportazione, dopo un po', non ha più retto la e ha dato in escandescenza. L'hanno parcheggiata in una stalla e poi regalata a Edoardo VII d'Inghilterra. Qui la cavalla si trova bene poi, quando Edoardo, da principe diviene re, alla morte della madre Vittoria e inizia a sragionare, Libussa va in crisi depressiva. Viene curata, guarisce (con una cura simile a quella che ho proposto prima per un certo editore....) e  offerta in dono al nipote di questi, di nome Guglielmo secondo che faceva l'imperatore in Germania e che stava troppo antipatico allo zio Edoardo per come vestiva. Di questo regnate Libussa s'innamora perdutamente.
Questa favola, che fa suoi dei dati reali e poi prende il volo, è affascinante e nel frattempo ci trasmette la sensazione che in quell'epoca si fosse in mano ad una “manica“ di matti anche un po' visionari.
Consiglio di proseguire questa lettura con il libro di Emilio Lussu, un sardo che abitava a Parigi e che non era più sardo o italiano e forse ormai parigino e comunque mente finissima.
In esso, in un'atmosfera coerentemente caricaturale comprenderemo, da uno che c'era, che anche gli ufficiali, quasi sempre di sangue blu, erano un po' fuori di testa.
Si potrebbe pensare così che la prima grande guerra fu l'evento che, forse (del doman non v'è certezza... ) chiuse il ciclo di distruzione di una regalità col suo codazzo di nobili ancora esaltati dal mandato divino. So per certo che qualcuno di loro, crede ancora in quel mandato, ma lo dice a voce bassa....

Quella guerra disastrosa, costata kilometri cubi di morti (lo sapevate che nelle foibe, non riuscendo a distinguere i corpi li misuravano in metri cubi? Ma questa è un'altra guerra...) ebbe altre  motivazioni, particolarmente per come si concluse, ma su una cosetta forse Carl Sternheim ha ragione. Si era in mano a degli esaltati che non davano valore alle vite umane. Io dico che fra questi i più pericolosi furono i capitalisti  e cito come esempio, sempre dal libro di Lussu, quando arrivò, agli alpini italiani al fronte, la partita di scarponi con le suole di cartone. È un passo che coglie nel segno e ci indigna anche se, come me, si è pacifisti. I fornitori pensarono solo a produrre al minor costo possibile e i soldati, persone della medesima patria!, si ritrovarono le suole che resistettero qualche giorno e poi i piedi congelati.

Un altro, uno solo invece, decise le sorti di quel conflitto. L'ho già accennato altrove. Si Chiamava Morgan. Abitava negli Stati Uniti e per ora, solo un esperto serissimo lo ha raccontato. Si chiama Geminello Alvi. Titolo del suo libro: “il secolo americano”[11]. Vi cito solo un passo che fa pensare: siamo nel 1920 e “ i funzionari di Washington  … pensarono prudente proseguire ad affiancarsi alla Morgan and co., e la trattarono come una nazione a sé stante”.... in fondo accadde già con i Medici, e poi di nuovo con Krupp... “bella” la storia, quella vera, non trovate?

...e il libretto di Carl Sternheim, con un brillante volo di fantasia, ci fa “sentire” di un'epoca qualcosa che ai libri di storia, che son da leggere con indosso il cappotto la sciarpa e i guanti grossi, qualcosa, dicevo, che i libri di storia non sono in grado di trasmettere, ovvero, una briciola di dimensione umana.


[1]Di recente non so come, mi son ritrovato a leggere della “roba” su Kafka, di un tenore più basso di Novella duemila o dei telegiornali di Emilio Fido. Guardo lievemente alterato chi ne è l'autore e scopro di essere finito a mia insaputa su dagospia, il sito di Roberto Dagostino. Non è curioso scoprire che dissacrare l'attualità non basti più e si vada a cucire vestitini da circo addosso a personaggi del genere? No comment
[2]Edizione Studio Tesi – gennajo 1984 (gran bel libro con fotografie e notizie interessanti)
[3]Un esempio di come certe vite grandi passino inosservate è la totale assenza, anche solo di una citazione su Kafka, nei primi due volumi dell'autobiografia di Elias Canetti che oltre il resto per due brevi periodi frequentò a Berlino fra gli altri, Brecht e Kraus.... (si tratta comunque di testi belli. “la lingua salvata”, “Il frutto del fuoco” e, terzo, “il gioco degli occhi, tutti editi Adelphi).
[4]Tutto edito Adelphi. Darei la precedenza a “suite francese”, “Il calore del sangue”, “Come le mosche d'autunno”, “Jezabel”.
[5]Per iniziare si potrebbero leggere alcuni racconti dalla raccolta edita da Meridiani Mondadori
[6] E questi due avevano pure una sorella scrittrice.
[7]Bellissimo “Yoshe kalb”(editori riuniti), ma penso che sia difficile trovarlo. Puntare su “I fratelli Ashkenazy” della Longanesi come antipasto.
[8]Preceduto da “milion dollar baby” e Changeling” che son eccellenti
[9]Ed è evidentemente contrroproducente dal un punto di vista degli incassi
[10]Prima guerra mondiale
[11]È di nuovo un testo della Adelphi. Non si pensi che mi abbiano foraggiato. A via San Giovanni sul Muro non conosco nessunoo almeno così penso. Fate caso comunque che, se scegliete ad occhi chiusi un testo di questa casa editrice, nove volte su dieci vi troverete a leggere qualcosa di valido. Hanno anche loro qualche scheletrino nell'armadio. Nessuno è perfetto e sono ben contento quando mi regalano o compero qualcosa, edito da loro.