venerdì 2 marzo 2018

Vladimir Nabokov "La gloria"




Ci sono due scritti che amo produrre: i racconti e la presentazione di opere. I racconti non vengono su ordinazione. Se son pensati valgono poco o nulla. Roba da intellettuale, categoria (“avvoltoio”, vedi omonimo racconto di Kafka) che si nutre di quel che il vero artista ( “Cervo bianco” … vedi poesia di Pound in Personae) produce.
La presentazione di opere va per me dal quadro o ad una serie di essi, al brano musicale e al libro, solo se si tratta di un'opera che mi ha toccato.
Recentemente Joshua Singer con “La famiglia Karnowsky”, accuratamente riletto già tre volte, e poi Zavattini con “Parliamo tanto di me”, Sebald con “Austerlitz” e Migrazioni”, hanno meritato la mia emozione.
Quest'ultima è di due tipi, di pancia per esempio; ci basti pensare ai bambini all'asilo. Uno piange e gli altri senza sapere il perché si aggregano al solista e fanno un concerto. Accade anche col riso. Vi è mai capitato di aver a che fare con due persone che ridono a crepapelle e non sapete per quale motivo? Glielo chiedete, ma mentre dimostrate di voler sapere siete già come loro con il volto deformato in positivo. L'altra emozione, quella che mi fa decidere che vale la pena esortare alla lettura … quella è rara. Nasce da un punto inesistente posto fra cuore e cervello. Il suo modo di presentarsi è imprevedibile. A volte rapido come uno tsunami oppure lento come una carie, ma quando arriva al culmine della luminosità sentiamo che la realtà ha allentato la presa, che la realtà non è abbastanza vera … che se posso provare questa emozione allora …. e poi la vita quotidiana torna col suo tic tac di doveri banali ma necessari e quella mània, quella sana follia che si sta aprendo in noi, recede e rimane solo un sentore di ebbrezza della quale incolperemo lo stato di salute, una birra, qualsiasi cosa … e ci crediamo che sia tutto lì ... finiamo con l'esserne convinti … e non conosco altra morte che questa, dalla quale comunque con uno sforzo di volontà si può resuscitare.

In un periodo indaffarato ... ora ... appena conclusa la lettura di “La gloria” di Nabokov, il desiderio di scrivere mi prude le mani. Questo accade perché il libro mi risulta uscito nel luglio del 2017 e quindi è probabile che sia ancora facilmente reperibile.
É vero che male che vada esistono le biblioteche ma, se mai non sono in grado di comprendere la mania di possesso della nostra epoca (e forse anche delle precedenti ma non c'ero …) legata a roba che luccica, vestiti, auto, amori … tutto con un prezzo definibile e sproporzionato al sangue che ci costano i soldi, lo sconcertante divario tra il valore commerciale di un buon libro e l'oro che come in questo caso contiene, rende lecito possedere semplicemente per rendere più facile l'operazione fondamentale della rilettura.

La Gloria” è del 1932. la data in questo caso non è importante. L'ho appena scritta e quindi la lascio ma è ininfluente. Quel che il libro ci narra vale per tutti gli io e per tutte le epoche.
Il protagonista, Martin Edelweiss. I genitori si separano quando lui era ancora un bimbetto ed era di poco più grande quando giunse la notizia della sua morte. Niente tragedie. Il tutto fu digerito con controllata malinconia. Una guerra interviene e nel loro stato scoppia la guerra civile. Devono fuggire e finiscono in Svizzera da un cugino del padre che pagherà al ragazzo gli studi di letteratura (quella del paese in cui è nato e dal quale poi è fuggito) a Cambridge e infine sposerà la vedova.
Nabokov poi ci farà sapere che la separazione fra i coniugi Edelweiss avvenne nel medesimo anno nel quale fu assassinato l'Arciduca. Sappiamo anche che la guerra è la prima mondiale e che lo stato dal quale son fuggiti causa rivoluzione è la Russia, ma questo è pane per povere menti che si appagano nel capire cose solo intelligenti, un po' come colorare diligentemente un'immagine secondo le istruzioni della “Settimana Enigmistica” e poi riuscire ad essere appagati da un'operazione carnale, automatica, per la quale siamo stati addestrati.

All'inizio dell'opera, capitolo due, l'Autore ci descrive un quadro posto sopra il letto del bambino vicino al ritratto-icona di un santo. Un acquarello di un boschetto con un sentiero che vi si inoltra. La madre ha appena letto una favola nella quale un bambino si incammina in un quadro simile dando inizio a meravigliose (per un bambino) avventure (irreali per un adulto).
Il bambino è consapevole di disporre anche lui di un quadro come quello della favola. E' proprio lì, sul letto, e teme che la madre lo porti via.
Ora abbiamo la morte del padre che è anestetizzata dalla distanza, la rivoluzione e la fuga. In quest'ultima il ragazzo scopre il fascino dei paesaggi notturni e rimane incantato dalle lucine che vede in fondo al paesaggio che gli corre davanti. Ogni manciata di luci, come la possibilità di passeggiare nel quadro, è una possibilità, una traccia, una via, per inoltrarsi in un'altra realtà.
Il ragazzo diviene studente universitario. S' innamora di Sonja Zilanov che però amoreggia con Darwin, il suo migliore amico e compagno di studi. Questi è artistoide e per questo stimato in università fino al punto che gli vengono perdonate le piccole infrazioni che compie all'etichetta obbligatoria dei college. Dopo tre anni terminano gli studi; Sonja ha rifiutato la proposta di matrimonio di Darwin e si trasferisce a Berlino. Il nostro Edelweiss persevera nel sentimento a va a trovarla spesso. Non riesce a fare breccia e nel frattempo lei ha un'altra “storia” con Bubnov, artista che pubblica ed è assai apprezzato. Anche lui viene rifiutato. Nel frattempo, dopo essersi visto rifiutato il nostro eroe decide di viaggiare e prende l'amato treno. Di notte scende improvvisamente perché ha visto la medesima manciata di lucine della sua infanzia. La stazione è piccola, attende il giorno e chiede delle luci che ha visto e gli dicono che si tratta del paese di Molignac, che dista quindici chilometri e non esistono mezzi per raggiungerlo. Si inoltra a piedi, arriva e si ferma in una locanda. Si offre come bracciante in una fattoria e qui resta, ritrovando la serenità. Per lui è tutto così semplice e bello che quando vede una casa in vendita decide di scrivere a Sonja per chiederle la mano. Lei rifiuta e lui lascia la fattoria. Curiosamente alla fine di quel capitolo il controllore del treno gli dirà che quelle luci non possono essere di Molignac (pag 202-203) poiché dal treno il paese non si vede.

Fate caso, lo rimarco, come ogni nome di città, ogni data non hanno senso. Possiamo modificarle e spostare questa avventura nell'antica Grecia o nel Giappone medievale … cambieranno nomi, costumi e tradizioni, la la favola universalmente valida resta ...

E ora il finale. Il ragazzo torna dalla madre in Svizzera, medita di andare fino in Lituania e passare in Russia ma decide, poiché passare quel confine è pericolosissimo, di dire che intende tornare a Berlino. La madre pensa che sia per Sonja e approva poiché il ragazzo ha detto che poi tornerà. Se e quando torna gli tocca un lavoro che il patrigno gli ha già rimediato.
A Berlino desidera salutare i genitori di Sonja e anche Darwin, l'amico, che per una piacevole coincidenza si trova lì in qualità di giornalista di una testata importante.
Va a casa della ragazza quando questa dovrebbe essere in ufficio e invece la trova perché non sta bene. Varie vicende e scopriamo che ha lasciato Bubnov che è assai sofferente. Edelweiss riesce finalmente ad incontrare il compagno di studi, manca un'ora alla sua partenza per la Lituania e, dopo una iniziale emozione e un breve raccontarsi le proprie vicende, inizia per il lettore, ma non per tutti, il mistero. Quel che dice, quel dire sospeso di Edelweiss a Darwin, Sconcerta. Se tu lettore non comprenderai cosa vuol fare il protagonista, allora devi meditare su te stesso. Sei forse come Darwin? Che dopo aver condiviso sogni per tre anni col Edelweiss, si fa travolgere dalla vita e solo alla concretezza dell'esistenza sa dare un significato?
Se il ragazzo che scende dal treno perché è rimasto affascinato da una manciata di stelle ti sembra romantico ma stupido … se una persona che preferisce lavorare in una fattoria e rimandare un incarico dirigenziale offerto dal patrigno e anche non fare caso all'opportunità di conoscere pezzi grossi per diventare giornalista che gli offre l'amico, se una persona del genere ti stupisce … quel che ti dice Nabokov si fa duro, incomprensibile.
Il bambino davanti al quadro, la manciata di stelle in fondo al paesaggio notturno, passare il confine con coraggio (e questo è un ritorno alle origini, un ricominciare veramente da zero e non dalla Svizzera del patrigno) e ricominciare sono sensati se della vita non ti basta saziare le apparenze.

Io spero che il lettore affronti questo mio scritto solo dopo aver letto il romanzo.
Lo immagino diviso in due gruppi. Uno sparuto, quasi inesistente, di persone che hanno capito e sorridono. Un altro, una folla imponente (che così numerosa nemmeno Dante pensava che morte potesse aver disfatta …) che con sua sorpresa non ha capito e non sa che pesci pigliare. La via più semplice: lo scrittore è una schiappa … ma la storia e la fama che dura nel tempo e il rispetto che ha accumulato, dimostrano che invece è un grande … allora che abbia sottinteso troppo? E si scoprirà solo rileggendo che il quadro e la manciata di stelle son la chiave di un inoltrarsi in luoghi nei quali non solo l'apparenza si può appagare. Facilissimo sarà essere sconfitti, ma la vita raramente, quando la si valuta retrospettivamente con onestà, si scoprirà di averla spesa degnamente.
Il nostro protagonista sperimenta la paura, impara a controllarla, e quell'avventura montana che si risolve in un consapevole atto di coraggio, è tutta simbolo. C'è lo strapiombo, l'unica via percorribile è stretta, friabile e non certa. Ma questa è la vita, stretta, friabile e incerta, e l'abisso, la morte, verrà comunque ma ci si allena a non averne paura. Se la paura è ostacolo a scelte importanti, vivremo meno di un decimo di quel che potrebbe essere possibile!

Immagino quel lettore che non comprende il finale e dirà che il libro è brutto e non ammetterà facilmente di non avere capito. Fortunatamente questi ragionamenti, se sarà umile li farà a botta calda con se stesso, e perplesso cercherà di andare oltre, ovvero dimenticare, oppure si informerà. Un altro tipo di lettore, lo spaccone sgraziato, si divertirà a screditare quel che non ha capito. Accade in due occasioni, quando non si ha capito e non si ha l'umiltà di lottare per crescere o quando non si conosce e non lo si vuole ammettere. Ricordo una persona che mi disse che Beethoven gli faceva schifo (testuali parole). Compresi che la sua esistenza, forse tortuosa o forse troppo semplice, non era mai passata nemmeno per caso nei pressi dell'opera di quel genio. Gli regalai qualcosa e non ebbe più il coraggio di umiliare se stesso … con dichiarazioni assurde.

Un ultimo appunto.
Chi ha dipinto l'acquerello del bosco col sentiero che si inoltra? La nonna del protagonista. Questo particolare è strettamente autobiografico. Il quadro è della famiglia (in senso non solo concreto, ma atemporale) e inoltrarsi in esso equivale a mantenersi in stretta coerenza con le proprie radici. Alla fine il protagonista torna alla madre Russia, alle radici, per ricominciare? Non solo. Per essere. Le radici vanno rispettate. Uno sradicato, anche se inconsapevole, no cercando di capire se stesso, affronterà la vita a caso.
E qui è la nostalgia struggente di Nabokov che fa capolino, la vera causa che spesso mosse la sua penna. Se l'amore no basta mai per dare senso all'esistenza (Sonja che infrange cuori ma non li appaga), la coerenza, il rispetto dell'origine all'interno della stirpe per Nabokov è la sacra angoscia, l'oro originario del quale è stato privato … si scrive perché cc' qualcosa che ci fa male ed esternarlo anche se in modo criptato (pudore) aiuta a stare meglio per qualche ora, per qualche attimo, e poi l'artiglio riemerge dalle acque scure e ferisce … per sempre.