lunedì 17 agosto 2015

Amantea: (seconda parte, l'opera di Pietro Bonavita)



La mia conoscenza dell'umanità di Amantea, come ho accennato nello scritto precedente, è stata particolare, poiché il caso mi ha portato ad avere a che fare quasi esclusivamente con artisti. Per non costringere il lettore a cercare la mia definizione di arte, che si cela in più di uno dei precedenti centosessantotto scritti del blog, preferisco ripetermi.
Artista è colui che, causa una crisi, deve esprimere un mondo interiore, renderlo concreto ai sensi. Dipingere, comporre, scolpire eccetera, sono voci che ci parlano direttamente, quasi sempre dall'inconscio dell'artista. Spesso egli sente l'urgenza di creare un'immagine; ne è parzialmente soddisfatto, ma non sa spiegare a fondo il suo operato. Col primo dei due artisti che racconterò, questa situazione di incapacità si è presentata chiarissima e ha favorito il dialogo.
Sto parlando di Pietro Bonavita, sul quale scriverò spero minuziosamente, poiché ho potuto conoscerlo con calma e tempo.
Per offrirvi l'enigma presente nelle sue opere, secondo me migliori, vi metto ora nella situazione nella quale ci trovammo la prima volta che ho visto le sue tele. Eravamo al piano terra della Galleria Amantea dove da poco era terminata la sua esposizione. Dal magazzino hanno preso le tele e le hanno disposte nell'atrio, sufficientemente luminoso. Gli ho detto subito “secondo me ci siamo” e vi spiego cosa intendevo dire.

Secondo me non esiste il critico. È una volgarissima figura finta creata dal mercato dell'arte e dalle università per avere guadagni supplementari e riuscire a vendere certe robacce, facendo sentire l'acquirente in inferiorità culturale. Se togliamo il velo ridicolo a questa recita scopriamo quanto segue: il critico è colui che viene pagato, spesso profumatamente, per parlare bene di chi? Dell'artista che lo paga a volte direttamente, a volte tramite il gallerista. Ci impressioneranno lauree e altri titoli, abiti da jet set e frequentazioni pregiate … ma è appunto tutta un'apparenza. Una falsificazione. Lo paghi e parla bene, non lo paghi e tace. E il bello è che lo sappiamo tutti. È necessario, nel campo dell'arte, ascoltare il pensiero di un artista su un altro artista e non di un intellettuale o di un prezzolato. Fra queste ultime due specie la differenza è minima anzi, forse inesistente. L'intellettuale pensa, a volte liberamente, un prezzolato crea castelli di parole in un linguaggio solitamente criptico per … guadagnare. Spesso finti artisti si cimentano per vendere se stessi e fanno veramente tenerezza. Eccovi un caso celebre. Kandinskij. Il suo scritto, “punto linea e superficie”, nelle prime pagine abusa talmente della parola “scientifico” da darmi la sensazione che voglia convincere se stesso prima del lettore e, diciamocelo chiaro e tondo, nell'arte di scientifico non c'è proprio nulla. È il cuore di un uomo che parla al cuore del mondo e diventa capolavoro quando la sintonia fra i due è completa, caso non rarissimo e ... si sa che accade. Beethoven, Michelangelo, Luigi Boccherini, Arcangelo Corelli, Alberto Savinio, Elsa Morante, Marguerite Yourcenar, Simenon, Maugham, Mandel'stam, Lorenzo Bartolini … e l'elenco, se mi lascio andare, diventa lunghissimo! In tre millenni di cultura occidentale, per limitarci a questa, di opere eccellenti ne sono nate molte. Possiamo ormai vivere a contatto quasi esclusivamente con una qualità sublime che è dialogo con la nostra anima, con l'anima del mondo. Dimenticavo; (volutamente, in quel breve elenco ho messo nomi notissimi di fianco a noti proprio per stimolare la curiosità...).

Quando ho detto a Pietro quel “secondo me ci siamo” nemmeno lui era ancora consapevole del significato profondo che per me questa frase contiene. Per me l'opera deve essere simbolica. Se per qualcuno questa è un eresia, gli dico di lasciar perdere lo scritto poiché, dopo anni di studi, di vita da artista e fra artisti sommata a studio continuo a ritmi moooolto elevati, mi permetto di dire che ne sono certo, e il motivo è il seguente: l'io conscio, usa la razionalità, l'io inconscio, i simboli. Quando accade che un umano passi dalla razionalità al simbolo, vuol dire che in lui è accaduto qualcosa di triste che lo ha colpito talmente a fondo che il “sasso” che ha distrutto l'io razionale, è arrivato col suo agire distruttivo, fino mare profondo dell'io, luogo nel quale le sensazioni, ancora senza forma di parola, schivando il piano di elaborazione razionale e vengono in superficie pure, incontaminate e appunto ancora simboliche.
L'arista si trova quindi fra le mani della mente, un simbolo che chiede insistentemente non di essere compreso, e di essere trasformato in oggetto sensibile (quadro, scultura ecc). Una volta compiuta l'opera, l'artista non è quasi mai appagato completamente poiché la totalità di significato del simbolo, quando ancora giace nella mente, è pressochè totale, diciamo al cento per cento, ma quando lo si trasforma in oggetto sensibile, sempre si perde una frazione anche minima di quella totalità. L'artista si trova davanti ad un novanta per cento di simbologia espressa e quel dieci per cento, nel scendere dall'idea alla materia (diranno ora che sono un neoplatonico e invece ero juventino e ora sono ateo …), lo tedierà portandolo ad una ricerca continua di miglioramento facendo in modo che che si possano produrre serie di opere simili ma mai uguali.
Ebbene, tenendo conto che il mio agire non vuole giudicare … nemmeno un vero dio giudica ma perdona … ma cercare di comprendere, a questo punto sarà evidente al lettore che avevo scovato il simbolo nelle opere di Pietro Bonavita.
Di tutte le opere che mi mostrarono, concentrai l'attenzione di Pietro su due tele, e sono quelle che vedete qui di seguito.







É l'uso di quel rosso che deve, non farci pensare, perché se si pensa con l'arte non si va da nessuna parte, ma concentrare. Il fruitore non ha bisogno di cultura se non per le opere che non appartengono al suo mondo o alla sua epoca. Per “entrare” in un testo anche solo di cinquant'anni fa, probabilmente ci servirà una descrizione di un mondo ormai perduto. Solo in rari casi questo problema non esiste, ma non ne parlo ora. Per la differenza di zone ci basti il problema serio che è per un occidentale affrontare per esempio l'arte giapponese anche del presente poiché, nonostante la globalizzazione, che mai sarà totalizzante, certe caratteristiche sono radici non condivisibili di un popolo e comprensibili solo se vissute ... e non basta certo averle studiate.
(un esempio per tutti. Per l'occidente la purezza verginale della sposa si rappresenta col bianco, in Giappone il bianco è lutto. La radice del simbolo è la medesima, essendo per l'io profondo, sia il bianco che il nero, dei non “non colori” che aprono e chiudono la gamma cromatica identificandosi con un totale di luce e con la sua completa assenza, e lo desumiamo dalla medesima radice delle parole del nostro comune linguaggio occidentale, ovvero le consonanti B e L che nelle parole BLanco e BLack, coesistono apparentemente in contraddizione, essendo, dicevo, per l'io profondo sia bianco che nero, densi di significato che si dirama da un'unica fonte, l'assenza di colore, solo la conoscenza, un poco, ci guida, ma mai come l'esperienza).

Valutiamo prima di tutto se la contestualizzazione culturale e temporale possa essere per noi un ostacolo nella decifrazione di queste due opere. Pietro é calabrese, e le due opere che osserviamo rappresentano luoghi della sua terra, ma mi sembra possano essere considerate come generiche vie nelle quali si muovono non uomini pieni, veri, totali, ma ombre. Il suo essere calabrese secondo me, in queste due tele non crea problemi di interpretazione; non sento la necessità di affrontare un'analisi di una identità culturale, almeno per ora.
Fattore temporale. Le opere appartengono al presente nel quale sia lui che noi siamo immersi, e l'unica distanza effettiva è che il suo io è suo ed è differente dal nostro ma, come ho precedentemente accennato, l'opera riuscita esprime simboli che appartengono sì all'individuo, ma la sua profondità, dalla quale li ha con sofferenza recuperati, è un di io condiviso e, se “sentiamo” questa specie indescrivibile di colpo al cuore dell'anima, questa lieve destabilizzazione che ci fa capire che abbiamo capito, in qualche anfratto dell'io, che non siamo più abituati a sondare, allora l'opera vale, ha senso, è utile e ci fa bene, poiché ci rende consapevoli in modo più completo. A questo punto, nel limite del possibile, elaborare razionalmente è l'unico modo d comprender per chi non sa più abbeverarsi al simbolo nel modo più puro possibile che è quello nel quale l'artista ce lo offre,

Osserviamo le due opere, tenendo conto che dalla visione totale di tutte si ha una sensazione, che per ora definisco strana, perché si hanno vicoli e inquadrature che possono essere esteticamente appaganti ma, per due motivi, lasciano un poco di amaro in bocca: si “sente” che tutti i colori sono “fatti” col nero, che esso corregge rendendo ogni tonalità composta da colore sommato ad una sensazione di grigio. Stadio lievemente depressivo, insoddisfazione, ecco cosa “sento”. Secondo punto. Le vie, gli scorci, sono disabitati oppure appaiono esseri ombra.
Sulla dimensione depressiva nelle opere degli artisti “VERI!!!” porto qualche esempio.
Picasso e il periodo blu. Il blu rappresenta la consapevolezza di essere depressi, quindi il primo grado del recupero di se stessi e l'inizio del lento rivitalizzarsi dell'io. Mi ci è voluto del tempo per comprenderlo. É l'azzurro che può essere positivo. Quasi mai il blu. Per arrivarci il ragionamento è passato per le poesie di guerra di Ungaretti. Il poeta sul Carso soffre e il linguaggio si fa scarno, essenziale. Mi rendo conto che anch'io, in momenti di sofferenza estrema, tendevo a ridurre il linguaggio all'osso. Picasso che non parla ma dipinge, riduce al minimo la tavolozza come faceva Ungaretti con gli aggettivi che sono il colore della frase, e sceglie non a caso quel colore. Mentre era sofferenza pura, soffriva e basta, quando ha iniziato a riprendersi, l'urgenza di esprimersi era tale che la semplificazione era d'obbligo. L'azione pittorica doveva essere compressa al massimo, immediata, non meditata, che la sofferenza della meditazione non sa proprio che farsene. La domanda che i critici non si sono mai posti è la seguente: Picasso quando faceva quelle opere soffriva in modo tremendo. Cosa gli faceva così male? Rispondere equivale a capire quasi tutta la sua opera che quindi … è attualmente incompresa. Per facilitare la visione dei colori veramente “depressi”, porto un altro esempio sul quale ci si può documentare con un click su internet. Munch dipinse in fase depressiva acuta e utilizzava colori che non esito a definire col termine di acidi, quindi prevalentemente marrone giallo e verde. 
Vi sono poi altri metodi per rendere idea di una situazione depressiva. Domenico Gnoli con le sue sale da pranzo vuote e i tavolo così vicino che non possono starci sedie e vanno a perdita d'occhio e i suoi alberi-nervi, nelle incisioni con i corvi macchia, malattia dell'io e la scoraggiante ripetitività di Morandi che, se ne vedi un paio dici che è notevole, ma se vedi una mostra alla fine ti annoi.

Per far comprendere la differenza fra un artista vero e un artista che si atteggia, si pensi ora al diverso utilizzo che, della categoria depressivo, questi potrebbero fare da quanto ho appena spiegato. L'artista prende atto e studia il suo io osservando le opere che ha fatto utilizzando quei ragionamenti; l'artista finto (o intellettuale, quindi che pensa), se va di moda l'arte depressoide, ecco che prenderà le categorie che ho proposto e, consapevolmente (errore spaventoso!) le applicherà. Il problema è che il vero artista percepisce subito la finzione del finto collega e si allontana con dileggio. Meglio la solitudine che certe conoscenze … che si atteggiano.

Torniamo alle due tele di Pietro Bonavita. La nota stridente, lo cogliamo subito anche senza lauree, è quel rosso vivo che non è in armonia con gli altri colori. Stride, e appare stranamente nei lampioni. Si sostituisce quindi alla luce oppure è una luce diversa da quella percepita dai sensi? Poi scopriamo che il corpo ombra che sale le scale ha, più o meno nel punto del cuore, una macchia del medesimo rosso.
Dico a Pietro. “Ecco il simbolo! Mi sai dire perché la lampada e lui, l'uomo ombra, hanno la medesima macchia rossa?” Pietro risponde: “non lo so” e io chiudo dicendo “ne parliamo domani” dandogli così il tempo non per decifrare, perché ne serve molto per chi ha creato e poco per chi osserva, ma per instaurare in lui la consapevolezza di quell'affinità di senso.
Ora devo spiegare una cosa del simbolo. Non è esprimibile in parole. É un po come definire Brahma nella religione indù. È impossibile. Si può dire quel che Brahma non è e non quel che è. Il simbolo, allo stesso modo, rappresenta un'area di significati mentre invece la parola razionale, ha come compito assegnato quello di dare uno e uno solo, significato, di solito preciso. Spiegare quindi il simbolo di Pietro Bonavita è impossibile. Posso solo avvicinarvi ai confini della sua area di senso, e ora ci provo.
Dalla lampada esce la luce rossa. Quel rosso è l'anima che è quindi in un bel connubio con l'energia. Anima=energia. Per questo la macchia rossa è anche nell'uomo-ombra in modo lecito e sensato. L'energia-anima dell'uomo è poca, per questo è ridotto ad un'ombra? Ora: è per me evidente che si sta esprimendo una sofferenza, in questo caso non travolgente ma sottile, e per comprendere di più sento l'esigenza di sondare le dimensioni tempo (il tempo personale dell'artista, poiché il tempo cronologico, essendo condiviso col nostro si neutralizza da solo) e l'influenza del luogo poiché comunque un denominatore comune dell'opera è Amantea con le sue viuzze caratteristiche. Si tratta comunque di una carenza di energia esistenziale, le vecchie lampade, dal loro passato, continuano produrre nel presente, un'energia che è anima, che è atmosfera, senso esistenziale, ma che solo come rimasuglio distante, non più utilizzabile, viene percepito da umani che di conseguenza si riducono ad ombra di sé stessi, non comprendendo che solo nutrendosi da quella antica, direi atemporale fonte, avranno in dono la pienezza dell'esistere.

A questo punto, per avvicinarci ancora di più al simbolo, (di più non posso fare, poi ognuno deve inoltrarsi in esso in solitudine), vi offro il risultato della conoscenza personale che ho avuto occasione di fare con l'artista.

La presentazione iniziale è stata piuttosto formale. Il primo incontro sensato è avvenuto il giorno dopo. Ho ormai l'abitudine di alzarmi presto. Alle sette ero già fuori dall'uscio del Palazzo Carratelli ove sono ospite. Mentre scendevo pensavo che, nonostante in quell'antico edificio avessero dormito almeno un papa e un re, nessun fantasma era venuto nella notte a fare un giretto. Con Gianludovico, il padrone di casa, l'ho detto con vena scherzosa e ha confermato che “presenze” non se ne sono mai percepite, Allora gli ho risposto che, o non ci sono oppure si trovano bene e non hanno lamentele. Scendendo da Amantea alta ad Amantea Bassa, facevo come l'acqua e cercavo la via più breve per arrivare al centro del paese che mi era stato indicato con un dito immerso nel panorama, la sera precedente. Mi ritrovo così in una piazzetta che ha, su un lato breve, un locale che si chiama Amarcord! La presenza fantasmica di un caro amico mi dice che devo sentirmi a mio agio? Che nulla di negativo mi attende? Di Tonino Guerra, carissimo amico, autore di quel film, mi son sempre fidato ciecamente e, con la sua presenza di fianco, che mi tiene a braccetto, poiché desiderava tanto camminare negli ultimi anni ma per lui era ormai assai faticoso! mi avvio, ben guidato e arrivo in una piazzetta che mi offre la vetrina di un negozio di strumenti musicali. Mi incanta un minuscolo violino. Sembra fatto apposta per un bimbo di quattro anni e … sembra vero! Ma suonerà? Funziona? E immaginando, mi ritrovo seduto al un tavolino interno del caffè Caruso, nome così musicale che di più non si può chiedere ad una piazza. Tonino si dissolve al rumore della televisione, non prima di avermi promesso di ricomparire, e mi immergo in un brevissimo telegiornale seguito dalle previsioni del tempo. Avevo nel frattempo ordinato il mio rituale cappuccino e una brioche che dalla vetrinetta mi faceva l'occhiolino, seducente. Mi sentivo osservato poiché a quell'ora, erano le sette e venti, non erano certo abituati a vedere turisti. Per me manducare qualcosa la mattina è un'abitudine irrinunciabile. Soddisfatta la carne, mi sono allungato nell'adiacente edicola, ho preso un quotidiano e mi sono immerso nella lettura. Simulavo un'attenzione che forse sembrava esagerata ma appunto mi sentivo un po', poco comunque, a disagio. Avevo nel frattempo notato un avventore che conoscevo, Pietro Bonavita, ma non avevo agito perché non sapevo quantificare la formalità di quanto accaduto nella presentazione del giorno prima. Verso le sette e mezza mi sento dire “Buon giorno!” in modo squillante, chiede se può sedere e si chiacchiera leggermente. Mi dice che ha da fare e gli dico che la mia abitudine di alzarmi presto sfocerà in una passeggiata curiosa. Mi consiglia il sottopasso in direzione del mare perché “è stato dipinto”. Ci lasciamo e, prima vagando, di nuovo in compagnia del fantasmico Tonino, mi avvio per una strada che non capisco se è la “via dello struscio” e, attirato da un canto di chiesa, mi siedo al caffè Juliano 



girando la sedia in modo da poter vedere la chiesa, in cima ad una salitella, che mi dicono essere dei Cappuccini. Prendo il secondo caffè, scusa minima per poter usufruire della seduta e ascoltiamo questo salmodiare per nulla nervoso. Voci anziane, calme, che mi sembrano rassegnate. Mi alzo e sempre con Tonino, e giungo ad un metro dall'entrata ma senza inoltrarmi fra la gente. La porta centrale è spalancata, osservo i fedeli. Si, anziani e donne. Uno sguardo a freccia mi sfiora, lo evito mettendo gli occhiali da sole. Aveva un visetto delizioso e qualcosa di cattivo nelle labbra questa ennesima reincarnazione di Eris, che mi risulta sia nata sull'altra costa non troppo distante da qui, e mi incammino tornando, al bar Caruso, per vedere imboccare la via indicatami che porta ai dipinti del sottopasso.












Nel frattempo Tonino mi fa notare con un certo disappunto che il proprietario del “suo”, Amarcord, non sa che lui ha disegnato dei piatti e fatto delle etichette per bottiglie di vino e mi chiede di avvisarlo. Sarà fatto. E mentre rincaso con calma, schiacciato dal primo caldo che rende la salita ardua, mi saluta e sparisce con un sorriso che mi fa … sorridere.

Pietro Bonavita, per nulla invadente e composto, aveva accennato ad un pranzo con Gianludovico e Camilla. Non avevo capito per quando e, a mezzogiorno siamo partiti in macchina per un agriturismo dell'interno. Là ci attendevano l'artista con la moglie e il figlio novenne. Il dialogo si è fatto immediatamente fluido e appassionato. Quattro menti artistoidi si misuravano, mentre invece la moglie di Pietro si asteneva dall'intervenire. Gianludovico ha sempre detto che lui in fondo ha il talento di organizzare; io l'ho rincuorato facendogli notare che senza gente come lui gli artisti non li noterebbe nessuno, ma ho anche intuito che scrive, non può riuscire a non scrivere una mente come la sua! e alla fine ha confessato la sua “colpa”. Camilla è una scultrice per me assai interessante, ed infatti ho già scritto su di lei in occasione di una mostra a Castel sat'Angelo ovviamente a Roma, Pietro che dipinge e infine io, che scribacchio lasciandomi andare completamente all'io interiore combinando forse, caos e nozionismo, in una miscela che richiede un buon digestivo e spesso una dolce euchessina per riprendersi .. sono il quarto fra cotanto senno.
Mi rendo conto che, non per la forza di Bacco, si è creata una piacevole euforia e capisco velocemente la causa. Finalmente quattro teste artistoidi, o matte se preferite, possono misurarsi nel dialogo. Si confrontano estetiche con aneddoti ed esperienze varie, si consiglia e sconsiglia a piene mani, consapevoli tutti che non ci sarà il dovere di seguire una delle vie indicate perché la libertà assoluta è fondamento essenziale per creare. Arriva il termine del lungo pranzo, condito da un allegro temporale e, una calorosa stretta di mano di Pietro mi fa comprendere che è appagato. Aggiunge, un secondo prima di partire, che gli piacerebbe mostrarmi il suo studio. Accetto curioso, ma anche perché desidero continuare a quattr'occhi il discorso sul suo rosso-anima.

Ed eccomi, in un pomeriggio caldo, avviati allo studio. Ci siamo incamminati per un vicolo, le foto ve ne mostrano qualche scorcio (foto da me medesimo scattate... quindi abbiate un poco di perdono che di solito sono così imbranato a far fotografie che sempre fa capolino un dito e stavolta, con grande sforzo son riuscito ad evitare almeno questa bruttura!).








La stradina in salita porta alla parte alta di Amantea alta. Una porta dipinta. La apre e un ambiente fuori dai canoni ai quali siamo abituati, si mostra. Le foto ci accompagnano nelle stanze dipinte a colori sereni. 








Mi dice che mediamente ogni anno ridipinge per avere la sensazione di un ambiente rinnovato. Gli oggetti che vedo son dei recuperi. Solo li esistono ancora? È questo il senso? Di un antenato che viveva di mare, ecco una piccola composizione a statuette con pescatori, e nella stanza più in fondo un tavolino che è una bara con dentro lucine e un piano trasparente e un cartello che nella foto si può leggere.



Ecco il messaggio. Non si può più sognare. Ma sognare è un modo di vivere irrinunciabile per i vivi! Questo gli dico. Comprendo che quello studio è un luogo che si colloca fuori dal tempo presente, che recupera qualcosa, e che la vita che vi si svolge è un rituale perduto. Gli spiego cosa penso del rosso dei suoi quadri. Ammette di non averci mai pensato e gli dico che sono d'accordo, che è giusto così. Per lui, in quanto artista, essersi liberato del simbolo e aver condiviso un peso con chi vedrà l'opera, è una forma di alleggerimento interiore. E poi mi dice che li si fanno spesso mangiate è chi la sorte fa passare dalla viuzza viene invitato ad aggregarsi allegramente. Aggiunge poi: “vedi, le mie opere sono disabitate. Non mancano solo le persone, ma anche i pani stesi, gli odori. È una vita, un modo di vivere, di sentire, che era secondo me intenso e pieno, che si sta perdendo”. Gli faccio notare che i panni può rappresentarli come fantasmici esattamente come le poche figure che si avventurano in quelle viuzze ormai deserte di vita. E' d'accordo. “e per gli odori?” chiedo, “che si può fare?” e dalla stanza a fianco mi strizza l'occhio Tonino che ha trovato l fiasco e beve un bicchiere con soddisfazione, lui così “avanti”, così all'avanguardia nella sua opera cinematografica, e così legato alla tradizione, al dialetto, alla terra. Il profumo nelle opere non ci entra a meno che non utilizzi la pasta di acciughe col grigio per esempio, penso, ma col tempo puzza. Non sto scherzando. L'olfatto, veicolo di ricordi santificato da Proust, è escluso dalla pittura e dal cinema e, rincasando, penso che il vicolo dovrebbe essere costellato di studi di artisti con le porte spalancate. Quella antica salitella, scalcinata ma affascinante tornerebbe alla vita. Restaurare un minimo e far sapere ad artisti, anche di fuori, che se vengono gli viene dato per starci un'estate o anche più, in cambio per esempio del quindici per cento sul venduto! Tonino, che nel frattempo è ricomparso, mi consiglia la ceramica, che adora. I numeri civici, mi dice, in ocra e azzurro su fondo bianco sporco. E qua e là una meridiana. Le insegne in ferro passato all'aceto per avere un effetto ruggine omogeneo che dura inalterato e più invecchia più è gradevole, che sul vecchio dei vicoli il nuovo e il nuovissimo ci stanno come cavoli a merenda. “Un anno di galera a chi ha messo questi infissi di alluminio!” Grido, “e un altro anno a chi ha fatto 'sta porta e quella finestra di un blu che è un pugno in un occhio!”, e … la porta blu si apre, esce un signore educatissimo che saluta Pietro e fa un cenno a me, mentre Tonino sghignazza e mi dice “eccotelo servito ed è pure bello grosso!” sono allegro. Non bevo più da un pezzo e comunque mai ho ecceduto, raramente ormai una birra e quasi mai per mia scelta. É la situazione che è bella. La casa-studio di un artista, così fuori dagli schemi, mi fa sentire vivo, e penso a turisti che si inerpicano e mettono il naso in queste stanze che promettono novità in un mondo che non ne sa più dare di decenti.
Il mattino seguente ci troviamo da Caruso e mi porta a visitare il mercato degli ortaggi e della frutta.







Lascio una fetta di cuore a certi barattoli che in nord Italia l'unità sanitaria bloccherebbe senza scampo. Qui, a casa “lavorano” le verdure e poi questi sapori antichi ed eccellenti, messi casalingamente sotto vetro, riescono ancora ad avere un mercato. Al nord dovrebbero re istituire un mercato nero delle delizie, ora che l'unione Europea ha reso lecito produrre per esempio cioccolata senza cacao e latticini senza … latte mi aspetto delle brutture ben presentate che mi vien voglia di campare d'aria! E mi inebrio di quantità e di profumi, fotografando, che diventa un modo assai dietetico di mangiare tutto quel che mi si offre gaiamente alla vista.

Mi sono lasciato andare. Può non piacere come ho scritto, ma mi son lasciato andare con serenità al ricordo recente, rivivendo con una discreta intensità quei momenti. E di Pietro ora so che di individuale, quindi che va detto perché dalle opere per ora non traspare, di individuale dicevo, emerge questa nostalgia di una Amantea compatta, nella quale il pescatore come il nonno, che aveva avuto una pesca abbondante, con un rito di cortesie che non riesce a dimenticare, cercava di donare al vicino un poco di pesce azzurro. Questi in altre occasioni aveva ricevuto una cipolla, qualche aglio da un orto che si era permesso di eccedere un poco dalla stretta necessità .. insomma, tramite il cibo, più che tramite le tante chiese … meditate gente, meditate, ... un senso di comunità che gli manca immensamente. Ed è modernità, girare per i vicoli con l'anima rossa di sangue e di energia, con le vecchie lampade che sanguinano luce che si è fatta sofferente perché nulla è rimasto di tanti gesti gentili. E lui, l'artista, che viene chiamato in paese Monsieur, ma con rispetto, perché spesso è stato e va in Francia, e che è in procinto di tornare a New York, in autunno, questo Pietro detto anche e sempre con rispetto, Pedrito, poiché nacque in Argentina, questo esule, in fondo, è più amanteano di chi da qui non è mai partito e forse per questo, non sente la mancanza della tradizione.


sabato 15 agosto 2015

Amantea (prima parte:impressioni di viaggio)




Il viaggio dal nord Italia ad Amantea è stato, utilizzando le parole di Ennio Flaiano, “tragico ma non serio”. Arrivo da una terra che attualmente mi accoglie, in un clima a base di zanzare e umidità tropicale. Si chiama pianura Padana. Il suo fiume, noto col nome di Po, un tempo si chiamava Eridano. Parlo di tanti secoli fa. Prima di Cristo, mentre la saggezza greca cercava di fiorire, quando il tempo degli orologi non esisteva e al suo posto il passato si immergeva nel mito, la terra piatta intorno all'Eridano, quella pianura grande a forma di triangolo con la punta acuta rivolta verso i Galli e un lato, quello piccolo, verso il mare Adriatico, quella pianura si era formata causa la caduta del figlio del dio Sole. Questo figlio troppo giovane per essere saggio, distrusse la sua vita. Il padre si lasciò scappare una promessa: “Dimmi una cosa che vorresti fare!” e il figlio chiese di guidare il carro del sole. Il padre non poteva, in quanto dio, disattendere ad una promessa. Poteva però tentare di dissuaderlo. Ci provò, ma a nulla valsero i suoi moniti. La lezione per noi è che mai si devono fare promesse del genere ad un adolescente che è un essere, maschio o femmina è la stessa faccenda, che ha un corpo di adulto in una mente ancora infantile. Con l'angoscia nel cuore, il padre diede il carro al figlio e lo istruì, ma i cavalli pieni di nervosa eccitazione erano difficili da guidare. Non bastava un braccio esperto, serviva un Dio! E partì; partì e lo spavento immediatamente lo prese. Passò bruciando il cielo e nacque così la via Lattea, ricadde verso il basso e sempre bruciando, creò il deserto della Libia. A questo punto, sentiti i lamenti degli umani, Zeus, il nonno, provvide a scagliare un fulmine e Fetonte, figlio di Apollo, cadde. Cadde secondo alcuni nella zona ove attualmente troviamo il paese di Crespino, in provincia di Rovigo, secondo altri ove sta Alfonsine in provincia di Ravenna.
Questo mito, che forse racconta della caduta di un asteroide infiammato, secondo me va visto come una caduta rovinosa di un essere enorme come di solito era la dimensione dei figli di un dio. La valle Padana tutta, fu quindi il luogo della frana divina. Lo immagino Planare da est, dall'Adriatico, e piantarsi creando questa grande valle. L'Eridano poi nacque di conseguenza poiché allora come oggi, l'acqua andava e va verso il basso e tutte quelle delle alpi e degli Appennini qui convogliarono. Quando ci passarono gli Argonauti, nel viaggio di ritorno, persero la fame causa l'immonda puzza di questo immenso cadavere semidivino che procedeva in una lentissima putrefazione. Questo vuol dire che una generazione prima della caduta di Troia, che si pensa sia avvenuta intorno all'ottocento prima di Cristo, la valle Padana era un putridume vallivo con un clima assurdo. Dopo circa duemila e ottocento anni, forse del corpo dello scriteriato adolescente, non è rimasto nulla. Le bonifiche hanno fatto il resto, ma rimane un'umidità che che è una discreta penitenza e zanzare fameliche che nessun veleno sembra capace di ammansire. Anzi, secondo me se ne nutrono e diventano ancora più fetenti (che derivi da Fetonte? Sembra proprio possibile! Quale lunga storia dietro ad una parola!).
Sono partito quindi dalla valle dell'Eridano, con un clima da purgatorio e sono approdato bene a Roma, città caldissima ma affascinante, anche se sgangherata.
Quando sento dire che il problema dell'Italia è il sud, mi imbizzarrisco. Il problema è Roma. Non mi stancherò mai di dirlo. Se, a monte della storia d'Italia sta un gesto assurdo di Garibaldi, ovvero unire l'Italia che secondo me come la intendeva lui non esisteva, si può iniziare a prender in considerazione una verità di versa da quella che ci è stata propinata. Il Sud, quel regno che viene sempre discriminato come arretratissimo, aveva una politica industriale e si stava evolvendo. Il fulcro era Napoli. Passare sotto il regno d'Italia portò come conseguenza lo spostamento del baricentro industriale su Lombardia e Piemonte. Al sud solo con le tasse si riconobbe un ruolo, e quel che invece stava nascendo, anche a livello industriale, finì miseramente in niente. La penisola italiana era secondo me un territorio con tre (e forse quattro) popolazioni diverse. Il Nord fino a Marche e Toscana incluse, il Lazio, con confini non così ristretti, e il sud, con una Sicilia eventualmente indipendente.
Così Roma prese quel che all'apparenza era il meglio, la gestione burocratica dello Stivale, e divenne assolutamente il luogo peggiore dello stato. Da papalini a burocratici è veramente un passare dalla padella alla brace. Luogo di menefreghismi assoluti e di magna magna apocalittici e volgari, non ha saputo e non sa nemmeno far viaggiare un treno! E infatti la mia agonia è iniziata a Roma Termini. Dopo aver assolto ad un gradevole impegno, mi inoltro in questo luogo delle partenze e mi ritrovo a fare una fila per prendere un tagliandino che mi autorizza a fare la fila per la biglietteria. Un'ora per il tagliandino e due ore e mezza per parlare col bigliettaio che mi nega il viaggio perché tutti i treni sono pieni. Il perché della doppia fila si spiega col fatto che mai un italiano rispetterà la fila. Ricordo a Londra in occasione della mostra di Raffaello da giovane. Sorteggiarono i biglietti d'entrata poiché troppa era la richiesta in proporzione alla capacità di assorbimento delle sale. Una volta giunto e in fila, feci il possibile per esprimermi in tedesco e negare la mia parziale origine italiana. Era una vergogna continua. Solo italiani e spagnoli andavano da colui che era incaricato di regolare il flusso d'entrata, e tolta una moneta di discreto valore dalla saccoccia, senza pudore, mostrando platealmente il gesto, chiedevano di saltare la fila. Per questo solo in Italia, ed esattamente solo a Roma, luogo ove l'italianità peggiore si mostra senza veli, si è resa necessaria la doppia fila prima per il tagliando e poi per la biglietteria!
Ero a questo punto. Stremato e senza tagliando di viaggio. Stavo optando per il noleggio di una vettura ma mi spaventava enormemente la Salerno Reggio Calabria, strada pericolosissima e sempre costellata da cantieri di lavori in corso. Ricordo che giorni prima avevo letto che per la prima volta nella sua storia aveva un solo cantiere e un calabrese che sentì questa mia considerazione mi disse che era comunque lunghissimo chilometri e chilometri. Potevo dignitosamente arrendermi, ma una strana tigna, che non è tipica del mio carattere, si è impossessata. Mi son detto: “siamo in Italia. Qui tutto è alla buona tranne le apparenze!” e mi son recato in metrò con assurda allegria, a Roma Tiburtina, l'altra stazione della città. Fila in biglietteria e questa volta il biglietto me lo fanno! Devo arrivare a Paola e poi verrà una macchina per fare l'ultima manciata di chilometri! Sembra finita e invece no. Corro di nuovo alla metro, riesco a prendere il treno per un soffio e quando salgo, solo allora purtroppo, leggo il biglietto. E' un posto in piedi, ma per quello sono in grado di sopportare, anche se si tratta di cinque ore di viaggio, ma il peggio è che il biglietto è fino a Napoli! Perché! Mi dico. Come ha potuto fare un errore simile se ho detto che dovevo recarmi ad Amantea e mi ha consigliato di arrivare fino a Paola che è nelle vicinanze! Comunque ero sul treno e nemmeno con un bazooka ora mi avrebbero fatto scendere prima della meta ormai agognata! Arriva il primo controllore e se ne lava le mani. Mi dice “io scendo a Napoli. Ci penserà quello che sale al mio posto”. Quello che viene dopo si lamenta che il nuovo biglietto me lo doveva fare l'altro … e poi mi rifila una multa enorme. Gli ho spiegato che l'errore è della biglietteria, mi dice che comprende ma che è costretto a fare così perché diversamente quella multa la mettono in conto a lui. Cosa fare se non augurare un attacco di dissenteria lungo duemila anni al direttore generale delle ferrovie italiane? Ho pagato, come troppo spesso accade in questa Italia malandata, gli errori di altri!
Arrivo comunque a Paola e, mistero tutto italiano, ho fatto il viaggio seduto poiché i posti liberi erano a decine! Rinuncio a capire questo popolo nel quale per esempio, hanno appena fatto una legge per assegnare con raccomandazione fra tre anni (poiché è la volontà, o la voluttà del dirigente a decidere tutto, quindi sarà un trionfo di parenti e amici) gli insegnamenti delle superiori che prima erano affidati ad una per quanto discutibile graduatoria! Una legge che si chiama ridicolmente “la buona scuola” e che è basata invece su due soli pricipi: ridurre le spese già all'osso e appunto allargare quel che l'universitese (lingua dei docenti universitari) chiama “Familismo amorale” e che in soldoni altro non è che il malcostume delle raccomandazioni.
Ma torniamo al viaggio. Finalmente scendo e mi accoglie una stazione presentabile e abbastanza pulita. All'esterno la statua del santo che fu confessore di un re di Francia, mi accoglie con un buon augurio e questo sud tanto vituperato da alcuni partiti politici e mediamente da tutti, inizia a mostrarsi con una decenza che non lo rende di fatto diverso dal nord Italia. Viene a prendermi un caro amico che ha avuto e ha ruoli importanti al ministero degli esteri. Gianludovico, dopo essere stato impegnato nella Russia di Gorbacev e nell'Iraq di Saddam Hussein, quindi incaricato di gestire delle discrete gatte da pelare, ha appena terminato un quinquennio a Camberra e ora dirige la commissione sui diritti umani. E' una persona semplice e alla mano. Si chiacchiera subito bene e, come è giusto che sia, la nostra semplicità nasconde una segreta complessità. Il viaggio in macchina mi mostra un bel mare, montagne che sembrano avare di terra e piene di sassi e rocce, e qualche vecchio rudere di castello. Si arriva ad Amantea. Il suo Palazzo è nella parte alta. Il panorama vale il viaggio e la casa è magnifica. Al primo piano ha aperto uno spazio espositivo che si trova su internet cliccando galleriaamantea.com e il secondo piano, è quello dove si abita. Mi viene assegnata una stanza veramente bella. Ha due finestre. Una mi offre la vista di Amantea bassa e del mare, e in una giornata serena son riuscito a vedere l'isola di Vulcano col suo nuvolone di perenne fumo che sembra un sombrero. Il clima è caldo ma non insopportabile come nella piana ove il fetente Fetonte franò causa una saetta del nonno.
Mi son fatto una doccia veloce per liberarmi delle scorie del viaggio e sono immediatamente uscito. In me oscillava una curiosità fondata su chiacchiere, quindi sulla totale ignoranza del reale. Calabria! Luogo di malavita organizzata! Italia border line! Qualcuno mi aveva invitato a stare attento e a non dare confidenza a nessuno! Non scherzo. Questa è la visione che ci consegna lo strano mix delle chiacchiere da bar e dei media! E invece esco dal portone nobiliare e mi inoltro in una realtà semplice, composta di bambini che giocano, di una brezza frizzante e di una certa pulizia. Mi siedo in un caffè che dista forse trecento metri dal palazzo che mi ospita e decido di concedere alla mia gola una birra. Quale eresia stavo commettendo! Non sapevo ancora che ero in un tempio del gelato consigliato anche dal Corriere della Sera! Ho ormai rinunciato, direi quasi completamente, agli alcolici, ma mi son concesso uno strappo alla regola perché ero comunque stanchissimo e mi son dedicato ad una delle mie attività preferite; osservare la gente. Ho colto immediatamente che le donne hanno sguardi appuntiti e una sensualità primordiale e i bambini scorazzano con una energia più positiva di quelli del nord. Giocano per esempio a palla e non sbriciolano panchine e marciapiedi con gli skate, e vestono senza troppi condizionamenti delle mode. Spesso un bambino del nord è già un essere che si atteggia, qui invece tutta l'energia va nel tentativo di raggiungere il pallone e di gestirlo decentemente. Mi ricorda quel che mi affascinava a Dalmine, nel bresciano. Dalla finestra della cucina casa nella quale ero ospite, mentre chiacchieravo, ero letteralmente ipnotizzato da un gruppo di ragazzini che giocavano a calcio nel campetto del prete. Ricordo che ce n'era a uno di colore che era veramente bravo e che mai più, ormai da anni, mi son divertito tanto come a guardare loro, con quello sforzo genuino, con quel giocare per il gusto del gioco e nient'altro! Ed ecco di nuovo qui, questo giocare fresco. E mi ritrovo a essere preso dai virtuosismi di un ragazzino che subisce un fallo. Subisce un fallo e si accende la discussione che essendo in italiano capisco perfettamente. Non sanno decidere e improvvisamente uno di loro mi chiede cosa ne penso. Sono sorpreso. Non mi aspettavo avessero colto il mio interessamento. Dico che rispondo se poi accettano il mio giudizio e riprendono a giocare. Accennano di si tutti e dico che era fallo. In un secondo, senza aggiungere parola, riparte l'azione e io distolgo lo sguardo da loro per tornare alla gente che passeggia.
Ora devo rientrare. Alle ventuno e trenta apre la mostra e dobbiamo prima cenare.
Quello della cena è il mio punto debole per due motivi. Mangio poco e di solito in Italia i tende a rimpinzare l'ospite, e poi sono reduce da ben quattro interventi in circa un anno quindi, se mai la mente ha continuato a lavorare a pieno regime, il corpo me lo porto dietro come fosse un fantasma ancora poco convinto di esistere.
Mi inoltro nel labirintico palazzo, la cena sarà semplice e nessuno mi spinge ad eccedere, e scopro dei pomodori fantastici. Dico con Gianludovico E Camilla, sua moglie, che si tratta indubbiamente dei migliori pomodori che ho mangiato nella mia vita. Li avevo già visti e assaggiati al nord dove li chiamano “cuore di bue”, ma per quanto piacevoli, non avevano l'intensità di questi che qui chiamano “pomodori di Belmonte”.









Terminatala cena ci avviamo al piano inferiore nel quale il pittore, già presente, dialoga con i visitatori. E ora inizia la parte del viaggio che è stata in un certo senso la mia fortuna. Camilla, la moglie di Gianludovico, è una scultrice. Scrissi di lei in occasione di una sua personale a Castel sant'Angelo nel 2008, e se ne fece un libretto del quale sono soddisfatto. Quindi a cena dialogo con una artista e col marito che, ha poi ammesso, sta scrivendo e intende scrivere … Dopo cena il dialogo con un altro artista e la presentazione di un altro ancora e posso dire che da ora in poi, la mia visione di Amantea sarà positivamente condizionata dai dialoghi con loro, dal loro modo di vivere e sentire quei luoghi. É un grande privilegio scoprire un luogo per mezzo dei suoi artisti. L'artista non si limita a pensare, ma crea qualcosa che viene prima del pensiero e ne pone le basi. L'artista diviene tale per una sofferenza che qualcosa ha innescato. E nella seconda parte narrerò del primo di questi. 
(foto iniziale, tramonto da Amantea alta)

paragrafo a parte:

I POMODORI DI BELMONTE

Ho messo tre fotografie. I pomodori, che spesso sono enormi (me ne hanno mostrato uno che pesava un chilo e tre). il mazzo di Origano che viene utilizzato per condire insieme ad  appena una spruzzata di olio. 
Perché dedico un paragrafo ad un pomodoro? perché ho scoperto un gesto antico che lo riguarda. 
La prima sera, Gianludovico ha tagliato delle fette di pomodoro che sembravano bistecche da quanto erano grandi, ha messo un accenno di olio e, tenendolo con la mano destra, ha "grattato" il mazzo di origano che ha nevicato le sue particelle sulla fetta rossa. 
Quel gesto è storia. L'ho immortalato in una preparazione collettiva fatta da uno dei pittori che ho conosciuto, Pietro Bonavita. Immaginate una stanza ad uso cucina in cima ad un antico palazzo, (mi spiegano che la cucina era li e non come può capitare altrove, al piano terra, poiché in caso d'incendio si era constatato che i danni erano più facilmente isolabili), dalle due porte aperte entra una piacevole brezza serale. La moglie dell'artista pigia nel grande mortaio di legno il pane che, ridotto a polvere, verrrà versato nella dose giusta nella ciotola dell'insalata quando vi è rimasto, a fine pasto, qualche pezzo di verdura e il "sugo" che è ambitissimo. e quel gesto anzi, quei gesti, col mazzo di origano e col mortaio, che mi hanno portato per un attimo, fuori dal tempo, oltre il tempo. Immagino la Magna grecia colta si, ma che "magna" esattamente come stavamo facendo noi. e non solo. La Calabria ha una storia curiosa. Quando fu romanizzata, gli indigeni, gente assai primitiva che si dipingeva la faccia e viveva in capanne, scapparono sui monti. Come arare quella buona terra per ricavarne i migliori pomodori del mondo (concedetemelo)? ed ecco che dalla Siria "importano" circa trentamila ebrei che nel nono secolo dopo cristo era no diventati circa novecentomila. Si cristianizzarono e rimase solo qualche gesto rituale e sicuramente culinario. Quel che abbiamo mangiato quella sera, verdure e spaghetti con le alici salate,
era secondo me, forse per caso, forse no, Kosher. Ho notato che la principale suddivisione ebraica, ovvero non mangiare carne e contemporaneamente latticini, sembra sia saltata, ma insisto, forse casualmente, quella sera la regola è stata rispettata. (spiegazione ebraica. Mai mischiare carne e latticini per non rischiare di cucinare l'agnello nel latte di sua madre. Visione orrenda, che dimostra che chi comunque l'agnello lo ha ammazzato, gli riconosce una dignità ultima, forse insensata, ma che ci tocca il cuore. di fatto questa separazione è una importantissima nota dietetica che favorisce non poco un vivere sano).
Una Rabbina (rabbino donna. Causò un bel disordine nell'ebraismo questa ormai ex fanciulla! mandò una lettera ai vari rabbini nel mondo dicendo che voleva diventare rabbine e che nessuna parte dei testi sacri negava la possibilità di realizzare questo suo sogno) una rabbina dicevo, considerò l'abitudine calabrese di coprire gli specchi, come un brandello, una traccia di quegli ebrei convertiti. devo contraddirla. Lo fanno anche gli ebrei. non si tratta quindi di una prova certissima. la ricerca deve essere più profonda. Si coprono gli specchi in varie parti del mondo per semplificare a "vita" (diciamo così), del morto recente, che potrebbe smarrirsi in uno specchio e perdere la via per l'aldilà al quale di solito non accede immediatamente. In quasi tutte le culture, fra la morte del corpo e l'entrata nel regno dei morti, intercorre un periodo più o meno lungo. In alcuni casi, solo due volte all'anno la via si apre, ed è nei due solstizi. Si immagini quindi l'anima che attende e potrebbe, in questo periodo di transizione, perdere la strada.

Immaginiamo ora un ristorante di Amantea. Esso non deve solo offrire i migliori prodotti, ma anche uno spettacolo antico, fatto di gesti che hanno un valore enorme, e lo dimostra il fatto che si insinuano nella memoria e riappaiono assai spesso per mesi e a volte anni. Vedete, la pulsione erotica va e viene, e l'avvenente bagnante che ci ha fulminato i sensi, apparirà in base alla nostra buona disposizione verso il femminile o al grado di astinenza. le sensualità del cibo invece, è assai più radicata. Non per nulla Proust affida ad un infuso di tiglio nel quale intinge una madeleine, la ricomparsa di un immenso e minuzioso ricordo! ecco il potere di un odore, di un sapore, ed anche di un gesto ad essi collegato!
Immagino quindi il cameriere che insegna il gesto col mazzo di origano e invita il cliente a compierlo, mentre questi pesta col mortaio un po' di pane secco e ne spiega l'utilizzo. Recuperare e valorizzare gesti. insegnarli. anche questa è ricchezza. E poi amo profondamente ogni gesto o pensiero che ci libera almeno per un attimo dal tempo dell'orologio e ci consegna ad una sensazione di eternità. A Istambul  mangiavo involtini di foglie di vite che erano prelibati già al tempo di Socrate! sono meraviglie cerebrali, ma per me irresistibili.
E penso alla Francia, terra nella quale al ristorante, anche una cosuccia mediocre sanno servirtela. Ad Antibes il carrello dei formaggi era di legno scuro, rifinito di ottone, e da un globo di vetro vedevi formaggi morbidi lavorati con le erbe. Non erano eccezionali, ma sapevano presentarteli talmente bene che qualcosina lo prendevo sempre. ed era bello la mattina, a Nizza, a Cannes, vedere le donne che arrivavano al mercato con cestini di vimini coperti di foglie con dentro segreti per il palato che agognavo vedere e ... assaggiare. 
E penso ai pomodori negli Usa. Erano perfetti per l'occhio ma totalmente insapori. si mordeva il nulla. Scoprii poi che quelli messicani erano buoni ma costavano una follia. questi fetenti di americani (concedetemelo...), consigliano e spesso impongono al mondo il libero mercato, ma al loro interno fanno del protezionismo che ha dello squallido. Il loro prodotto è insensato e solo bello, quello buono costa una follia per tasse aggiunte su ogni prodotto che viene da fuori! provate a Miami a fornirvi di un poco di verdura decente. Impossibile. conosco gente che ad amici che vengono dall'Europa chiedono di portare un poco di frutta e verdura "civili" ... no comment!

E invece ... quei pomodori di Belmonte, per il ricordo che hanno lasciato alla memoria del palato e a quella visiva coi gesti per prepararlo, ben meriterebbero una sagra che ho consigliato vivamente di organizzare!

lunedì 3 agosto 2015

Lady Gaga - Bad Romance



Avevo ascoltato per radio, viaggiando, una canzone di lady Gaga. Musica orecchiabile, accettabile. Un ritornello quasi ossessivo diceva “I want your love” e la parola bad ricorreva spesso. Mi capitò successivamente di vedere il video. Le altre persone presenti reagirono muovendo il corpo a ritmo, mentre si era seduti ad una cena e la tivù, su un canale tutto musica, faceva da sottofondo. In quel frangente mi colpì la scarsa attinenza fra parole e immagini e due momenti nei quali mi era sembrato di vedere un lacrima sul volto della cantante. I conti non tornavano, qualcosa strideva, e una volta rincasato, osservai meglio per mezzo di Youtube.
Non si pensi che sia eccessivo quanto ora dico. Mi commossi, mi alzai dalla sedia, lasciai lo schermo dopo aver riavviato la canzone e andai a rileggere per l'ennesima volta la frase di Don Leavy che scrissi anni fa a matita sul muro della camera da letto: “Scrivere è trasformare in soldi i nostri momenti peggiori”. Se tolgo scrivere e metto fare video … ecco, ci siamo.
E non mi ha colpito più di tanto la sensualità della cantante. E' vero che è uno scricciolo e ho da sempre un debole per le donnine piccole, è vero che il fisico è, oserei dire, perfetto, e il musetto, imperfetto, fa “sentire” che è vera, che è lei, che è un io che tenta disperatamente di realizzarsi ma ...

Per me la sensualità, raramente riposa nel corpo di una femmina del mondo civilizzato. Tranne Luciana Savignano che conobbi personalmente, trovo che sia tutto troppo artefatto, costruito anche nella sensualità. E un ricordo estremo che spesso mi addormenta la sera, riappare mentre sto scrivendo. Sono a Zalau, vicino a Cluj, in Romania. Si sposa una coppia di amici e per pura coincidenza c'è la sagra del paese proprio nei pochi giorni della mia permanenza. Spesso si incontravano zingari, ma erano come isolati, reietti. Nessuno parlava con loro. Mi disse un fratello della sposa che, se non hai mai fatto l'amore con una zingara non sai cos'è la sensualità. La mia risposta fu un sorriso accondiscendente. Io vedevo gente molto sporca, vestita spesso di stracci e di rado in modo sgargiante. Ci sedemmo ad una tavolata a ridosso della piazza centrale, mangiammo in allegria e poi mi alzai per portare via la mia parte di piatti di plastica sporchi e tutto il resto di bicchieri di plastica e tovaglioli di carta. Avevo visto ai confini della sagra con una viuzza malmessa, un piccolo recinto che conteneva qualche bidone per l'immondizia. Mi avviai da solo e mi accorsi, una volta vicino, che c'era una zingara. Stava fra due bidoni, ne serena ne a disagio. La prima tentazione mia fu di tornare indietro, non so dire perché. Forse furono le mani sporchissime con venature di pelle screpolata nell'incavo fra le dita, ma resistetti per paura di sommare una umiliazione a mille altre che sicuramente le toccavano quotidianamente. Mi avvicinai al bidone più distante da lei e buttai via tutto. Lei mi aveva visto ma ignorava. Quasi che l'avessi innescata io chiudendo il coperchio, iniziò la musica. Il volume era alto nella festa, e li arrivava affievolito il ritmo, folkloristico e invitante. Lei iniziò a muoversi. Piccole quasi impercettibili sinuosità dei fianchi e del busto, e quelle mani luride divennero incantevoli disegnando nell'aria segni di un alfabeto sconosciuto. Ero incantato. Non avevo mai visto nulla di simile. Ricordo un amico di colore a Minneapolis che mi incitò: “dai, balla con lei!” e lei era una balena infinita. Ero imbarazzato ma andai in pista. Ebbene, io come sempre ero goffo, lei si muoveva come una piuma scossa dal ritmo. Poi mi prese e mi trasmise, per il tempo di un blues, la sua capacità. Quando tornai seduto ero di nuovo l'albatro che a terra trascina le ali, sgraziato fino al ridicolo. Ricordo anche Paloma, un'amica cubana che una sola volta si lasciò andare a danzare la Santerìa. Ipnotica, divenne irreale, impalpabile, divina. Ecco cosa non ha più la cultura occidentale, un contatto con le radici del ritmo, e quella zingara, da sola era ritmo, ma non esalante la divinità della Santerìa o la leggerezza di farfalla ritmica della grassa signora di Minneapolis! Era sola, per l'occidente immondizia fra le immondizie, ma si sentiva il peso calibrato del suo corpo, il suo autoerotismo nella danza che era indipendente, non aveva bisogno di me, di te,di nessuno. Bastavano lei e la musica e si saldavano in un concentrato di sensualità che diventava in me un a lieve forma di panico. Mi allontanai senza parole. Agitato. Non mi interessava relazionarmi. Volevo solo vederla, vederla danzare con se stessa. Tornai con del cibo e le feci segno di danzare perché era tornata immobile nonostante la musica. Non mi ascoltò. Prese i mich (polpettine di carne)e con elegante voracità li mangiò. Ma non aveva finito il boccone che iniziò una musica che le piaceva e lasciò li il cibo. Non per me, non per se stessa forse, ma per la musica, di nuovo la vidi evaporare in una sensualità cosmica. Lasciai ai suoi piedi dei soldi, come si lascia un ex voto per grazie ricevuta.

Questo a Lady Gaga manca, come le manca la serenità per danzare così. Dentro non devi avere gioie o sofferenza. Devi essere vuoto per accogliere il ritmo, la musica.
Un saggio di quella sensazione appena accennato, lo trovo nel modo di camminare della cantante dei Barcelona Gipsy Klezmer orchestra, “Djelem djelem” è il brano. Quel passeggiare è sensualità che va oltre la fame del corpo, che si appaga in se stesso, nella consapevolezza che quel passo esiste e che hai avuto la possibilità di vederlo.

Quella sera la dedicai a Lady Gaga. Mi accorsi che in altri due video lei, alla fine, piangeva. “Born this way” che stimo, e “Juda” che trovo interessante ma di un gradino meno elevato.

Forse, se fossi un poco razionale, dovrei partire da “Born this way”, che mi sembra il video più importante, ma ho come il sospetto che “bad romance” sia più spontaneo, più personale, sentito.

Aggiungo poi una considerazione. In pubblico ho già parlato di questo video. Succede che mi chiedano dove sia finita l'arte, che non sanno più dove si nasconda in mezzo a tutto questo commercio, e io portavo sempre come esempio il primo quarto d'ora della “Carmen” di Francesco Rosi e Tonino Guerra per mostrare il divario fra quel che l'artista aveva detto e il poco che loro avevano recepito. Volevo far capire che l'arte c'è. Non muore mai. Son chiacchiere da indocenti e intellettuali quelle sulla sua morte! E poi ho iniziato ad utilizzare anche il video “bad romance” perché tutta la sua qualità sfuggiva. Questo brano altamente ballabile, era inserito nei canali che diffondono musica commerciale. La qualità che interessava ai produttori non era certo nel senso, ma nell'essere all'avanguardia modaiola, un po' kitsch e cosette simili. Tutte attività che non sfiorano nemmeno il livello del pensiero e la sensibilità, non sanno nemmeno se esiste. E se invece attendi che passi l'opera, e ovunque speri che si sia rintanata ma nonostante tutto un suo lampo ti accechi per un attimo …ecco che allora ci si concentra su questo insospettato video.

E ora penso sia il caso di venire ai fatti. Ho meditato molto su come procedere nella spiegazione e ho deciso come dirò ora, di mettere il tempo del fotogramma espresso in minuti e secondi in modo che il fruitore, può seguirmi passo a passo.

Chiedo prima, di fare una cosa. Meditare su quel che si ricorda del video ed eventualmente segnarselo, poi vederlo e meditarlo un attimo e trarre delle conclusioni. Solo a questo punto può avere senso leggere lo scritto che segue, poiché comprendendo il divario, la voragine che si rivela fra quanto abbiamo compreso da soli e quanto invece c'era di sensibile, avremo lo stimolo ad essere più ricettivi in futuro.

BAD ROMANCE

0:01
Uomini in nero (tranne uno che non si nota sulla sinistra seduto con canottiera bianca). Donne in bianco. Alcune con mascherina di pizzo. Notare il primo a destra che ritroveremo. Maschera sulla mascella stile Hannibal, in mano barattolo dorato tipo birra. Lady g (da ora abbrevio così) in centro su trono bianco, ma vestita color oro e con occhiali. Sembra che stia guardando ben oltre quella realtà. Quello che la circonda è il mondo reale, lei sul suo trono femminile è in una nuvola d'oro che la esclude e protegge. Gli occhiali stanno per maschera. La maschera inaugurata nel XX secolo. Prima si nascondeva il viso e si mostravano gli occhi perché l'intenzione era di non essere riconosciuti, ora non è un problema la propria identità, ma si vuole occultare il pensiero che spesso si tradisce dallo sguardo.

Lady G schiaccia inavvertitamente un pulsante alla sua destra. Parte prima un raggio di luce che in un certo senso la rende consapevole della realtà che la circonda. Una frazione di secondo dopo parte la musica.

Segue la visione di un antro semibuio con qualche contenitore bianco dalle linee morbide che viene colpito dal raggio di luce come per una cova delle uova, un riscaldamento che feconda.

Apparizione fugace di una bottiglia di Vodka Nemirov. Questo fotogramma passa inosservato per il suo vero senso. Si pensa immediatamente ad una esigenza dello sponsor come accadrà con la Carrera per gli occhiali e non solo. Invece quello è il filtro, (chiamiamolo come nelle favole), che la risveglierà. La scelta di un superalcolico come filtro magico che risveglia all'età adulta mi sembra una idea buona e … tremenda

0:19
Stanza bianca, contenitori bianchi in grado di contenere un corpo, sfilano davanti alla macchina da presa. Sul terzo c'è scritto in rosso “MONSTER” e sotto, sempre in rosso, una croce.

0:29 Su un vetro, che corrisponde al quarto muro della sala bianca, appare la scritta “BATH HAUS OF LADY GAGA”. Noi in questo breve frangente vediamo come il padre o i parenti che vanno in ospedale per vedere il nuovo nato che di solito è in una stanza bianca, ci sono i lettini bianchi in fila e i bimbi sono vestiti di bianco. La similitudine è importante, ci fa comprendere che si tratta della nascita di corpi.
Si “schiudono” le uova … primo gesto, che mostra una distanza dalla normale nascita, sono i movimenti contorti delle mani. Stiamo assistendo alla nascita di una persona? È questo uno dei passaggi interpretativi più difficili. Si tratta della nascita di una larva che poi, passando per vari stadi, mostrati nel video, ma da interpretarsi come evoluzioni interiori, si unificheranno nell'uscita della farfalla dal bozzolo che sarà rappresentato dalla finale pelliccia di orso bianco portata come uno strascico nuziale. Quando da questo guscio esce Lady G, essa è fisicamente al top dello splendore e la crescita interiore si è saldata a quella esteriore. Come vedremo la crescita è sofferenza. Bellissimo l'ultimo stadio della larva, l'abito stravagantisimo sul verde metallico di McQueen. Quella sequenza, nella stanza da bagno, luogo dell'evoluzione della larva, sembra assurda e stravaganza pura. Se consideriamo una serie di fotogrammi come la crescita del bruco fino a diventare farfalla, tutto si fa chiaro.

0:39
da sette uova escono sette figure bianche femminili. Una è lady G. sono coperte di latex semitrasparente bianco che imita la placenta. Lady G è un essere elementare, inconsapevole di sé al massimo grado. Scopre di avere una gamba e di averla sollevata lei con grande meraviglia mentre è nella vasca dove le altre l'hanno messa.
Simbolo vasca. Utero materno. Immaginare (occorre mooolta fantasia ma è divertente) il rubinetto di una vasca come il membro e i pomelli di acqua calda e fredda come testicoli. Il buco della vasca. Ora siete pronti per “sentire” la vasca come la pancia materna.
E' curioso che questa larva in incubazione abbia le scarpe... vezzo simpatico di Lady G che probabilmente le adora e le carica di simbolo. Osserviamo la capigliatura della larva. Rossa e spettinata. È come se fosse al grado zero. Da ora in poi la vedremo sempre curata. E' un altro aspetto della nascita, di un inizio.
Ha l'auricolare. Ovvero è esclusa dal mondo esterno.

0:47 Lady G allo stadio larvale inizia ad avere la sensazione del cambiamento e si vede in nero con la corona e gli occhiali, riflessa in uno specchio bianco.
Ripeto da sempre e lo faccio anche qui, limportanza del bianco e del nero. Essi si pongono, nella psiche, agli estremi della gamma cromatica. In un certo senso il bianco è assenza di colore e il nero è la somma di tutti i colori. La radice linguistica ci rivela dell'altro: si osservi il vocabolo black e poi blanco. Da due lingue di ceppo diverso possiamo estrarre una radice comune, quel BL che dimostra la medesima natura dei due colori. Essi sono nella psiche profonda, assenza di colore, non sono percepiti come colore. Mi raccomando, questa considerazione importante perché rivela l'elaborazione inconscia del piano simbolico.

0:48
Primo piano nella vasca della larva appena nata. Ha occhioni enormi. Si constaterà da un fotogramma verso la fine che sono stati elaborati così tecnicamente. Danno idea di innocenza.
Movimenti inconsulti della mano come se stesse prendendo consapevolezza delle sue possibilità di movimento.

1:25
Inizia l'intervento del mondo esterno, e non è gentile …
Due esseri, evidentemente femminili, la prendono di sorpresa e la estraggono dalla vasca. Lei cerca di resistere ma la siedono sul bordo con forza.

1:39
Primo piano bellissimo del suo volto, quasi angelico, biondo. Questa è l'anima che osserva l'evolversi del corpo.

1:40
Le due violente nutrici, le tolgono la placenta.

1:45
Gesto di sofferenza e rassegnazione della larva che vorrebbe rimanere nel suo caos primordiale. Rappresenta una rassegnazione alla nascita. Ricordare: vasca come pancia della mamma. Ecco le due ostetriche che ti fanno nascere.

1:47
Le aguzzine le fanno bere a forza la pozione. Il rifiuto di crescere diventa conscio in chi vede l'età adulta come mostruosa. Nel video accade. Chiunque sia altro dall'io di Lady G, definisce i limiti dell'io, costringe alla relazionalità = uscire dal guscio, costringe a non nutrirsi più solo del proprio io.

1:54
tentativo estremo di reazione sputandolo oltre il resto in viso a una delle aguzzine.

1:58
le aguzzine son divenute sette e le vogliono togliere un cappotto color sacco con scritte nere. Lei si oppone ma deve cedere. Con pudore, una volta senza cappotto, si copre le zone del pube e del seno. Qui penso che Lady G avrebbe preferito girare la scena nuda. Si sa che per lei non sarebbe stato un problema ed in effetti il senso sarebbe stato più chiaro. Quel gesto di pudore su un corpo vestito, anche se succintamente, stona ed allontana dal significato. Si tratta dell'inizio della pubertà quando le aguzzine pian piano diventano educatrici (madre e natura). Rappresenta la presa di coscienza del corpo col primo ciclo.
Si alternano immagini di lei larva nella vasca (si ricordi che rappresenta il percorso dell'io interiore), che sembra stia tentando di reagire a un incubo.

2:04
Si intravvede per un attimo un gruppo di uomini. Segue primo piano sul volto di uno di loro che ha un supporto dorato alla mascella (accentua l'aggressività, riferimento al protagonista del “Silenzio degli innocenti”)
2:05
Le sette aguzzine iniziano il ruolo di educatrici. L'insegnamento è la danza. La protagonista prima fatica, poi diventa più brava di loro. Con la consapevolezza della danza, che diventa, come in tanti animali strumento di seduzione, Lady G inizia a diventare protagonista.

2:06
Stanza da bagno ora semi buia. Un corpo longilineo e lievemente deformato al pc, (vertebre assai evidenziate), in una gabbia. E' il bruco che sta cambiando, l'io interiore fa il suo percorso dettato dalla natura come l'io corporale, oltre allo sviluppo fisiologico cresce con l'apporto educativo. I due sviluppi sono paralleli e vengono osservati dall'io anima, quello biondo.

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Ora vediamo meglio gli uomini. Si tratta ancora di una massa indistinta quindi riguarda la percezione generale del maschile. Sono in semicerchio, circa nove. O vestiti di nero o a torso nudo. Tatuati. Alcuni con strane maschere. L'insieme rappresenta come il femminile nascente coglie il maschile. Enigmatico e non solo. Su un tavolino si vede l'elisir che per lei era sgradevole e che loro gradiscono continuamente (sono quindi il suo opposto).

2:13
Lady G è divenuta padrona di se stessa nella danza. Non si oppone più alle educatrici ma si muove in sintonia con loro.

2:20
Primo piano su un volto maschile. Beve vodka come fosse acqua. Sguardo duro, bocca aggressiva. Sullo sfondo, poco nitido ma comprensibile, un altro uomo con una maschera assurda.

Ora la danza di Lady G si fa deciso. Guida lei le altre. Si vede ancora la larva primordiale
Danzando, Lady G va verso i nove uomini e sceglie di piacere a quello con la mascella d'oro che era presente nel fotogramma iniziale. Gli altri fanno scattare gli indici di gradimento dai computer, modo semplice per rendere visibile una dinamica sociale interiore.

Il ritornello si fa melodico e martellante. I want your love viene ripetuto e influenza la nostra percezione della scena.

3:29
Appare l'abito estremo di Alexander mc Queen. Lady G, in un altro stadio dell'evoluzione larvale interiore, ha un abito verde che rimodula le proporzioni del corpo. Si noti che senza questa interpretazione la scena, che si svolge come le altre della evoluzione della larva, nella sala della vasca, risulta incomprensibile, esattamente come la apparizione in penombra, in una semigabbia di un essere lievemente deformato e con le vertebre rilevate. Insisto sul denominatore comune della sala della vasca come luogo della metamorfosi della larva.

3:44
Con uno strascico di pelle completa di orso bianco, che ne occulta il corpo, Lady G viene inquadrata di schiena che avanza. Ai due lati trofei di caccia. Cambia l'inquadratura e vediamo che mister mascella d'oro è seduto sul letto e beve ovviamente la pozione. Lady G si toglie lo strascico, lo lascia cadere. Questo è il momento nel quale, la metamorfosi si conclude e rivela la farfalla che è Lady G nello splendore della sua tonicità fisica. Nell'avvicinarsi lui, Bevendo vodka, ha fatto un gesto di sfida al quale lei risponde togliendosi gli occhiali.

3:49
Ora il balletto vede le danzatrici in rosso e solo Lady G senza mascherina.
3:54
Lady G passa al francese, lingua considerata più sensuale, e un'inquadratura elegante è di fatto un omaggio alla collega Madonna.

4:09
Riappare la lady G/ anima che canta con angoscia e spunta un'altra lacrima, poiché il momento è cruciale e la sofferenza della metamorfosi riceverà un consenso o un rifiuto.

4:27
Brucia il letto nell'amplesso che coinvolge tutti i sensi.

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Lacrima sul volto/anima, pulito, senza rossetto

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torna il balletto che ripete i passi dei mostri bianchi all'inizio del video.

Ora la sorpresa. Dovrebbe accadere che lui e lei si consumano nel fuoco dell'amore e invece, ironia finale, lui che era l'aggressivo, l'immagine spaventosa, ne esce spolpato e bruciato, quindi non all'altezza di quel sentimento.