venerdì 16 novembre 2012

Tonino Guerra e Nino Pedretti .... e altro


Nel post precedente ho iniziato dicendo che da tanto tempo non scrivo di Tonino Guerra.
Ora lo faccio, e sarà uno scritto purtroppo spietato. La stima nei confronti di questo grande artista è immutata. È da altro che viene il senso di fastidio.  
Spesso intorno ad un grande si forma un circo sgradevole. Il problema di Tonino fu che gli anni pesarono sulla schiena e sulle gambe. La mente era sempre lucida. Accadde così che negli ultimi anni, quel circo gli sia sfuggito di mano. C’era gente di valore e gente che non merita di essere ricordata e, cosa che mi sorprese, ma che è umanamente possibile, gente che avendo perso il suo valore lungo la strada degli anni si trasformò, inconsapevolmente in problema …
Che parlino i fatti.
 Con l’editore Maggioli, Tonino aveva in pubblicazione imminente un libro che si intitolava “Tempo di viaggio”. Un giorno me ne parla e lo vedo diffidente, scontento. Siamo come quasi sempre, a quattr’occhi. Mi confida che gli han dato la prova di stampa ed è piena di errori. Lui non ce la fa. Mi offro. Mi dice che i tempi son strettissimi. La notte stessa la copia è letta e il mattino seguente gli telefono. Alcune cose le chiariamo così e poi mi faccio dare il numero di telefono dell’editore, parlo con un paio di persone e faccio presente che ci sono una cinquantina e passa di errori e situazioni da risolvere. Si rimanda la stampa di una settimana. Arrivo da Tonino. Discutiamo con la matita in mano tutto un pomeriggio. Torno a casa, rileggo, sistemo e il giorno dopo son di nuovo a Pennabilli. La situazione si risolve e Tonino è contento. Ci voleva poco. Ma com’è  possibile che non ci sia stato un filtro fra l’editore e l’autore per rendere il testo presentabile? Non perdo tempo a dar colpe a destra o a sinistra. Fatto sta che la soluzione è venuta dal caso. Nulla era calcolato e calcolabile dalla visita di un amico. L’età in Tonino iniziava a pesare. Era meravigliosamente lucido e brillante nei pensieri, ma muoversi era ormai un problema. Ricordo che uscimmo per andare a fare due passi e si attaccò al mio braccio. Volle prendere anche l’ombrello che teneva con l’altra mano. Gli feci notare che il cielo era serenissimo e mi confidò che lo imbarazzava farsi vedere col bastone. L’ombrello poteva passare come un eccesso di previdenza e mascherare la situazione. Gli portai, alla visita successiva, un bastone particolarissimo per invogliarlo. Si svitava il pomello e nell’incavo si trovava una provetta ben tappata piena di grappa. Dovete sapere che Tonino, anche a novant’anni, dopo pranzo si faceva un cicchetto. Ricordo che ci si alzava da tavola mentre le donne continuavano con il tè e i pasticcini. Ci si sedeva, lui in poltrona e io al lato del divano che più gli si avvicinava e, dal tavolino che si insinuava fra noi, facevano bella vista di sé delle bottiglie che contenevano dei liquori fatti in casa. Ne versava un bel bicchierino e poi giù, tutto d’un sorso. Se l’avessi fatto io mi sarebbero partite le pupille come proiettili. Al ristorante prendeva l’amaro e anche questo, in un sorso, spariva. Il cervello non vacillava. Faceva poi mezz’ora di pennichella che io riempivo di solito dedicandomi a cani e gatti e poi si riprendeva il dialogo.
Torniamo a “Tempo di viaggio”. Il libro uscì e la copia detta Prova di Stampa, è fra i  miei ricordi più cari.
Accade, qualche tempo dopo, che deve uscire un libro con l’editore Bompiani. Lo vedo a disagio. “Di nuovo errori?”
“No. Stavolta è il titolo. Sembra che sarà  =La valle del kamasutra=.”
“E chi l’ha scelto?”
“Non lo so.”
Il libro esce ed effettivamente si intitola così. Rivedo Tonino. È contento dell’edizione in generale, ma il titolo non lo digerisce. Mentre dialoghiamo è apparso in visita il curatore di questo testo. Quando se ne va Tonino esprime a chiare parole il suo disappunto. Mi fa presente che penseranno che è un vecchio porco e cose simili. È vittima di una stupida legge di mercato. Gli domando se ha un’idea su chi possa aver proposto quel titolo e mi dice che tutti sanno chi comanda in Bompiani e se lo sapeste anche voi … ma non faccio nomi. Fa un paio di considerazioni che non riporto e cambiamo argomento. Esiste una prova filmata di questo disagio. Il curatore lo intervista e cerca di metterla come fa sempre sulla facezia allegra. Tonino fa comprendere chiaramente che non conviene con la scelta del titolo, ma lascia correre. Tra parentesi … ma quanto era sgradevole e pacchiana questa tendenza a trasformare un incontro pubblico con lui in una esigenza di risate. Lui lo coglieva e, entro certi limiti, stava al gioco, ma ne era infastidito.
E come mai si agiva così con l’uomo che disse a grandi come Fellini “No, qui si fa così!” e così accadeva poiché la qualità e il senso dovevano andare oltre ai protagonisti? Perché era anziano. Le sue energie, che vedevo diminuire giorno per giorno, non poteva ormai dedicarle più a queste battaglie. Ma per alcuni era più semplice usarlo. Poche ore senza la stanchezza che si impadronisce del corpo e della mente, senza qualche malanno che chiede il conto e sempre si paga col tempo … E scelse, com’è giusto che sia, di essere poeta, fino in fondo, fino alla fine dedicando i momenti di forza all’arte sua.
Le varie situazioni sgradevoli le sopportava e lasciava che avessero il loro corso indipendentemente dalla sua volontà, che sgocciolava ormai nelle letture, nella scrittura e, mi permetto di dirlo senza presunzione, nel nostro dialogo. Quando arrivavo, ormai, ci si rintanava in un certo salottino e non rispondeva al telefono e nemmeno accettava visite. Arrivava con me il dialogo sull’arte, sulla letteratura, sul cinema. Ricordo per esempio che gli parlai con entusiasmo di Crialese e del suo film “Nuovo Mondo”. Era incuriosito. Proprio in quel periodo, la mia copia, che volevo portargli, era sparita quindi dissi a chi “girava intorno a lui” di procurarla e di fargliela vedere. Non accadde nulla. Dopo mesi arrivai con una copia pirata. Tonino fu commosso da quel film. Disse che ora l’Italia aveva di nuovo un regista di valore.
Ci prestavamo i libri. Un giorno si parlò di favole e mi regalò il libro che aveva fatto con Antonioni e un disegnatore eccellente. Mi disse che apprezzava “Il piccolo Principe”. Aveva letto solo quell’opera di Saint-Exupery. Gli portai “Volo di Notte” e “Terra degli uomini” che consideravo i suoi capolavori. In certi periodi ci si sentiva tutti i giorni. Prediligeva, come me, i libri vecchi alle nuove edizioni, e spesso gli portavo copie anche vecchie di un secolo. Ci si donava a vicenda materiale col quale evolvere. Tonino cresceva tutti i giorni. L’età era un problema del corpo. La mente e con essa la sensibilità viaggiavano a pieno ritmo. Mi donò la scoperta di Manganelli. Mi consigliò di leggere Emanuele Severino (e pensare che, con me, nemmeno il nipote di questo ottimo filosofo mai lo ha fatto…), mi fece conoscere Danelia e vedere i suoi film. Era vita insomma. Vita fino al penultimo giorno.
Ora la sua casa è un deserto dell’anima, popolata di gatti e di presenze trasparenti, spesso nervose.
Tutti sanno tutto e l’umiltà, che in quel luogo era la chiave di volta, si è dileguata.
L’ultima volta, assai irritato per comportamenti che mi hanno dato fastidio, ho consegnato l’ultima “perla”, quella che mi aveva invitato a conservare e a spendere con cautela .... la più brillante e satura di significato, purtroppo non solo in senso artistico. L’ho consegnata a chi, a parole, gli stava più vicino. Forse al corpo …
La sala da pranzo dove ci si sedeva a mangiare e dove campeggiano, ora soli e insensati, la sua poltrona e il divano era la scena di quel, per me lugubre, epilogo. Parlavo con un’ombra.
“C’era una solitudine che non avete visto. La solitudine dell’artista. E lui vi poneva dei trabocchetti che la confermavano. A lui solo comunque, poiché doveva chinare il capo, ammansirvi. Dimmi a da cosa deriva il titolo dell’ultimo libro!”
Quasi lo gridai. Ero angosciato, definitivamente arrabbiato e disilluso. Era ora di fare cadere le maschere e creare quella definitiva distanza fra chi fa sul serio e chi recita una parte.
“Ma lo sai da cosa viene quel titolo …”
“Io lo so! Sei tu a non saperlo! E così ti dimostrerò il sapore della sua solitudine!”
Si fece silenzio. Attesi un poco, e poi spinto dalla fibrillazione dei nervi, dal cuore che faceva male per un torto da Tonino subito, e che non riuscii se non un poco a lenire … e poi dicevo, pretesi quella risposta che spesso la combriccola dava a tutti.
“Avevo tradotto =Il Polverone= in russo con =Polvere di sole=. Lo sai. Tonino ne era contentissimo. Gli piaceva. Diceva che funzionava.”
“Questo è solo un frammento. Era un omaggio a Nino Pedretti”.
Lo sguardo era sorpreso. “E’ possibile …” disse.
“Quando mi disse del titolo gli risposi che era un bell’omaggio. Mi fece notare che ero l’unico ad averlo compreso. Bastava aver letto, aver in fondo amato. Ecco cosa mi disse.”
“Quale poesia è?” Con quella domanda era nata l’ammissione. Non sapeva.
“Non ricordo il titolo. Ma è facile trovarla”.
“Dice proprio =polvere di sole=?”
“Sì”.
Dopo ci fu silenzio. Qualcosa disse. Ma ormai era lontano tutto, quella stanza, quell’avventura di fianco a un grande che mi ha dato molto e mi ha profondamente rispettato. Lui e io ci sentivamo semplici, con una scadenza, la fine della vita del corpo, che incombe. Solo l’idea, la poesia, l’arte, era oltre noi. E per essa, in essa, eravamo concentrati.
Uscii da quella stanza. Da quel passato. Vento e nuvole addosso. E nient’altro.
Era mia intenzione dire con più delicatezza questa “cosa” di Pedretti. Di solito quando un evento vero si “metamorfosa” in mondanità, oppure quando troppi mercanti invadono il tempio, me ne vado. In una stanza, quando due artisti parlano, se inizia a nevicare, lo sente il cuore, e ci si ferma incantati come bambini. Troppo rumore. Troppo, troppo rumore … per nulla.
In una data che è ancora futura, avrei dovuto tenere una conferenza in Puglia. Argomento, il mio rapporto con Tonino. Metà del tempo al curatore e metà a me. Avrei voluto evitare anche di incontrare questo personaggio irreale, ma ho ceduto alla gentilezza di un amico dell’organizzazione, ma non ho resistito e mi son defilato quando si son di nuovo mescolate le carte.
In quel frangente, avrei voluto far capire al curatore, ma senza farlo capire al pubblico, che non ha “curato” il libro. Io so quanto Tonino era rattristato. “E cosa faccio adesso. Aiutami!” Tonino era in un letto d’ospedale. Sapevo che non si sarebbe più ripreso e che l’avrebbero portato a casa, in un altro letto, per morire. Gli dissi “Tonino, lascia perdere. Non ha più senso. Ti ricordi la faccenda di Mozart e Haydn che avevano firmato opere scritte da un altro? Dopo qualche secolo ci si è arrivati e tutto verrà messo a posto. Sarà così anche per le note necessarie al tuo libro. Pensa ad altro!”
“E a cosa …” Era evidente che il suo volto si era adombrato perché era apparso il pensiero della morte.
“Tonino, il racconto … c’è quella specie di chiesa di ghiaccio, e adesso che faresti?”
Immediatamente si illuminò e, con decisione, disse: “Non si deve andare avanti come una trama! Troppo facile! Dobbiamo trovare il modo di mantenere la situazione ferma …”
e quel pomeriggio, sull’orlo di un precipizio passò sereno.
Da quando era in ospedale si illuminava quando mi vedeva. Già a casa accadevano gesti semplici, spontanei che avevano il loro corso con naturalezza. Da qualche tempo quando arrivavo, lo baciavo in fronte. Quando andavo via, lo facevo di nuovo. Mi accorsi un giorno che, seduto sulla sua poltrona, quando mi avvicinai, con la semplice intenzione di stringergli la mano perché c’era gente, si fece lievemente avanti col busto e avvicinò la fronte. Un movimento minimo, ma chiaro per me nell’intenzione che sottolineava un’abitudine alla quale si era assuefatto. Era semplicità. Era bellezza.
 Sapeva che avevo da fare e molti chilometri da macinare. Non chiedeva mai. Mi disse che sapeva quanto è triste andare a trovare un vecchio che ormai ha come solo argomento i suoi malanni ed era pure in ospedale. E io andavo quasi tutti i giorni. Aprivo la porta e lui era lì che si illuminava. Era bellissimo quel momento. Non eravamo più due artisti, ma due amici che avevano livellato la distanza degli anni e si capivano … e si donavano queste piccole cose, le uniche in fondo con un senso.
Vi faccio sorridere. Era tenuto a dieta ferrea. Non dai medici … mi disse un giorno “Sai, stanotte ho sognato la mortadella. Volava come una farfalla … la fetta, ma non riuscivo a prenderla. Era così profumata …”
“Tonino … se vuoi te la porto.”
“Davvero? “
 “Certo!”
“Ma … bisognerebbe farlo di nascosto …”
E fu fatto. La volta successiva fu ben calcolata. Tonino mi disse “Via libera!”, io attendevo in paese da un’oretta e salii con la farfalla bolognese. Agimmo con rapidità, da complici.
“Spalanca la finestra! Che se sentono l’odore …”
“Sei coperto bene?”
“Passami quella maglia.”
E dal sacchettino la mortadella apparve. Ma qualcosa non andava.
“Ma … io senza pane non ci riesco …”
“Non  me l’avevi detto ma l’ho immaginato. Eccolo, di due tipi.”
“Quello va bene!”
E si mise a mangiare di gusto quella fetta rotonda e grande che avevo fatto tagliare un po’ grossa.
A reato concluso, dopo che la situazione normale era stata ricomposta, seduto di fianco a lui,
mi disse con gli occhi sorridenti. “Non mi ammazza certamente una fetta di mortadella, non temere! E poi se fosse, almeno son contento …”
E poi si iniziò a parlare di Elsa Morante.
E ovviamente non fu quel micro pasto a chiudergli per sempre gli occhi.
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Ecco i versi di Pedretti:
L’è un cièr ad aria,
un pan te zìl
‘ste mél che bréusa
Te su biènch.
L’E’ PORBIA AD SOUL
Ste témp che crèss
M’al mi murai.
L’è un sens ad véita fònda
St’érba ch’u la scavècia e’ vént
(E’ un chiaro in cielo / il melo che brucia / nel suo bianco. E’ POLVERE DI SOLE / questo tempo che cresce sui miei muri. E’ un senso di vita profonda / quest’erba che la scompiglia il vento)
Mi dispiace, ora, oggi, per quel libro mal curato che si chiama appunto “Polvere di sole”.
Ve ne racconto una sola, per mostrare il lavoro che avrebbe dovuto essere fatto.
Il paragrafo undici si intitola “La parata di Fellini a Mosca”.
In una situazione sognante scopriamo l’idea di Fellini per un film. Un curatore decente avrebbe dovuto mettere la seguente nota: “Fellini aveva i soldi per fare un film e chiamò Tonino Guerra. “Senti Tonino. Un’idea a testa e poi facciamo la migliore!” Federico propose la parata. Tonino il funerale della cantante lirica su una nave. Fellini scelse l’idea di Tonino e si ebbe quel capolavoro che è “E la nave va”. Si era suggestionati dalla recente dipartita di Maria Callas. Tonino Guerra però si rese conto della “bellezza” dell’idea di Fellini e per anni se la girò e rigirò nella mente fino ad averla definitivamente fermata in questo scritto.
Pag 166. Il brano intitolato “Il rubino”. Contiene il “gesto” finale del Film “Solaris” ideato da Tarkovskij e tanto amato da Tonino.
Pag 139. Da “Saiat Nova” di Paradjanov
Pag 168. “Un raggio di sole”. Fatto veramente accaduto e che merita di essere raccontato per esteso. Ma almeno sapere che è vero!!!
Mi fermo qui. … Io ora son nervoso, stanco e ho bisogno di tornare a me stesso, alla gioia dolorosa che è scrivere, al piacere unico, al senso di completezza, di sintonia col tutto che lo scrivere mi dà.
Che qualcuno metta ordine, per favore. Io poi, non sono in grado di cogliere tutti gli agganci con la realtà, tutti i momenti che son storia, perché di storia si tratta, ed interessa a tutte le persone sensate, quando si racconta dei rapporti fra Tonino, Flaiano, Antonioni, Fellini, Rosi … e l’elenco sarebbe enorme, perché perfino coi Beatles ha cenato e avuto a che fare, e coi Pink Floyd, solo per citare qualcuno.
… Eppure, nella sua vita piena di fatti che meritano un sorriso o almeno un ricordo, amo salvarne uno per chiudere queste pagine strappandovi un sorriso da legare al suo che ricordiamo anche nella sua famosa pubblicità sull’ottimismo ...
Abitava a Roma in piazzale Clodio. Attraversò la strada assai trafficata e una macchina grande e nera quasi lo investì. Aveva lo sguardo arrabbiato. La schivò per un pelo e si trovò al suo lato. Guardò dentro e con stupore vide papa Giovanni Ventitreesimo. Eran ambedue perplessi. È evidente che il papa aveva compreso che l’autista aveva sbagliato qualcosa. Alzò la mano destra e impartì la benedizione …..
 E … me ne viene un’altra. Tonino sul suo letto ultimo, a Santarcangelo. L’appartamento dava sulla piazza  e anche la finestra della sua camera. C’era festa e molto rumore. Qualcuno decise che a Tonino dava fastidio e scese per ordinare che la cittadinanza si contenesse un po’ il che, com’è ovvio, non avvenne.
“Ma Tonino, ti da veramente fastidio?”
“Per niente. È la vita che viene da me. Ha capito che io non posso più andare da lei”.
E un ultimo pensiero.
C’era una persona che lavorava in un ristorante che si chiama Zaghini. Era capace di fare la strada fino a Pennabilli solo per portare un manicaretto a Tonino. Negli ultimi tempi, per rendere appetibile anche una sola goccia di brodo, inventava dei capolavori. Venne per salutarlo. Erano molto amici, di quell’amicizia semplice e profonda come aveva per Gigi, Gianni e Carlo. Fu lasciata fuori.  Tonino non l’ha mai saputo, lui non l’avrebbe fatto. Con lui anche la Loren si trasformava in una persona semplice. Penso a quella stima sincera. A quell’amicizia di vecchia data, al desiderio di salutarlo dopo essergli stato vicino tanto. Ma qualcuno, e io so chi, disse di no. E non lo perdono. Ciao Angela, buoni i tuoi cappelletti! Anche Mastroianni me ne parlò quando ancora non ti conoscevo! …Ciao.      

Riprendere a scrivere....


Da tanto tempo non scrivo più di Tonino Guerra. Scrivo poco anche per il blog. Uno dei motivi è che sto leggendo molto e che dal trentuno ottobre son tornato a scrivere. Le “cose” per il blog, la saggistica in genere, le scrivo col computer. Quando si tratta di letteratura scrivo a mano. Di solito con la stilografica. Cerco di mantener viva un poco di artigianalità nella scrittura. Scelgo gli inchiostri. Li miscelo fino ad ottener sfumature che in quel certo periodo collimano col mio stato d’animo e poi inizio. Ma tutto deve avere i suoi tempi. Non posso decidere “ora scrivo”! Quando accade che mi sento pronto tutto va da sé e spesso, non essendoci le condizioni, o perché c’è gente, o perché un impegno assolutamente non lo permette, mi ritrovo con uno spunto, scritto per non dimenticare ma ormai  il momento inspiegabile, carico di possibilità, è passato. Le parole che sarebbero fluite dalla stilografica con una semplicità che sempre sconcerta anche me, son tornate nel loro mondo al quale non ho accesso se non di rado.
Il trentuno ottobre, mentre ero in volo fra Francoforte e Amburgo, ho scritto otto pagine, come una furia. Di solito lascio decantare per minimo sei mesi nel silenzio di un cassetto, ma questa volta ho agito appena tornato da questo viaggio. Nel passare alla seconda stesura, per la quale uso il computer, lo scritto si allunga. Al terzo “incontro”, che può avvenire senza regola dopo due giorni o vent’anni, mi limito a correggere e accade, col tempo, che lo scritto si fa immobile, che più niente sono in grado di dargli e penso che sia dovuto al fatto che l’io che ha scritto e l’io che corregge, avendo accumulato una differenza di vita vissuta fattasi ormai considerevole, non son più gemelli nell’anima, ma prima fratelli, poi amici e infine semplici conoscenti. Quando leggo “cose” scritte vent’anni fa. Sorrido di quell’io che riconosco e tratto con la medesima indulgenza che avrebbe un padre nei confronti delle passioni di un figlio che vede ancora imbevute di troppa emotività, di troppa energia senza direzione. Una voglia di fare fine a se stessa, una propulsione che potenzialmente fa di tutto, un argomento, nel quale scaricare una tensione … e invece la letterature, l’arte in genere è qualcosa di più ….
Queste ultime parole non voglion dire che a vent’anni non si può fare qualcosa di buono in arte. Per chi dubita, invito a cercare su internet i due ritratti che un Picasso quattordicenne fece al padre e alla madre. Si coglie immediatamente in queste tele, che quel ragazzino aveva raggiunto, a quella “veneranda” età, la saggezza pittorica, la capacità rappresentativa della cultura occidentale. Dopo son i casi della vita, che quasi mai dipendono da noi, a fare si che l’opera abbia l’ambiente giusto per crescere. Si provi a mettere l’età di fianco alle opere di Michelangelo e si rimarrà sbalorditi. Questo dimostra che nonostante il furore dei sensi e la voglia di vivere che è maggiore delle possibilità della vita stessa, proprio nell’età più giovane, spesso già appunto a quattordici anni, qualcosa di grande può accadere. E lo spiego con un semplice ragionamento. L’adulto, e l’uomo che continua a crescere, accumula conoscenza e questa schiaccia immagini pure, che sono nel ragazzo, non costrette da regole e convenzioni morali o accademiche. Un esempio è quello di Gabriel Garcia Marquez. In un periodo della sua vita, per andare al lavoro, doveva prendere l’autobus e fare un percorso che durava un’ora. Aveva quindi due ore che dedicava alla lettura. La scelta era spesso dettata dal caso, ovviamente scelto fra quell’empireo di grandi che un’epoca ha deciso di definire tali. Lesse “La Metamorfosi” di Kafka, autore che più di un’epoca non ha compreso, ma del quale ha intuito il valore. Destino tragico quello di Kafka, sia in vita che nel rapporto della sua opera con gli intellettuali. La sua letteratura, forse più di tutte le sue coetanee dei primi del novecento, era sgorgata da un’interiorità sguinzagliata senza addomesticamenti. Fu, era, ed è difficile da comprendere. I docenti, e tutto quel mondo che si vanta di aver l’oro in tasca per quel che riguarda le interpretazioni delle opere, son stati contentissimi di aver avuto a disposizione una “cosa” complessa. Si può dir tutto e il contrario di tutto! E così Kafka, anzi l’opera sua, si è ritrovata ad esser utile ad una categoria che è strapagata per dire qualcosa anche se non la capisce. È una recita fra attori mediocri. Tutto qui. Marquez era una mente fresca che non si era ancora costretta alle regole, anche un po’ era già stato addomesticato. Leggendo “La Metamorfosi” rimase sbalordito e pensò: “Se lui ha potuto raccontare questo, allora anch’io posso descrivere il mondo che ho dentro!” ed ecco prendere forma Remedios la Bella, la Mamà grande, un vecchio con certe ali enormi e Macondo e …. Si, e “Cent’anni di solitudine”, che è un torrente in piena di spontaneità e di fantasia giovane, non addomesticata dalla scuola e dalla cultura. Questo accadrà sempre quindi “occhio ai giovani!”
Moravia scrisse “Gli indifferenti”. Quanti anni aveva? Non ve lo dico.
E che età aveva un certo Leonardo quando dipinse due figurette in un’opera del suo maestro di bottega che si chiamava Verrocchio lasciandolo di stucco per l’abilità dimostrata? Anche questo non ve lo dico…
Chi scrive ormai inoltrato in altre età, ha due scelte: uno scaltro mestiere che riveste le due o tre idee che danno forma e originalità (si spera) al suo io, oppure, ma non dipende da noi se non in minima parte, deve accadere qualcosa nel tran tran ormai monotono dell’esistenza che sia in grado di scardinare le radici, si da costringerci a rifondarle. Ultimamente la Fornero, Monti e altri strani esseri ci stanno offrendo una situazione simile alla seconda opzione. Tante forme di finta civiltà e non solo quei due cannibali, possono creare danno. Si pensi alle poesie scritte da Ungaretti in guerra. Son eccellenti, ma avrei preferito non ci fosse stata la guerra e con essa non avrei sentito la mancanza di quelle poesie. Preferisco insomma pensare che quei sradicamenti che costringono a una rifondazione dell’io, sian dovuti a fatti inevitabili, come la morte di una persona cara, una delusione d’amore eccetera. Se l’intento di Crudelia e di Monti è di metterci nelle condizioni di avere una futura ondata di grandi artisti ….. propongo una tonnellata di lassativo, così per il resto della loro esistenza avranno altro a cui pensare …
Mi si perdoni lo sfogo, ma quando le cause della malattia son evidenti e la cura non ha nulla a che fare con essa, ovviamente ci si può alterare.
Torniamo a quel che ho scritto in aereo. Ovviamente non ho usato la stilografica. Lo sbalzo di pressione fra decollo e volo è sufficiente a trasformare una di quelle penne, eccellenti quando si è a terra, in una fontana che uccide giacche camice e quant’altro sia a loro vicino. Ho sorriso di questo. Dopo anni, ho scritto con una penna a sfera tedesca, su un volo tedesco, in un cielo tedesco, e ho scritto qualcosa che ha, così mi han detto i miei pochissimi lettori, l’atmosfera di Kafka… E’ un piccolo brano che mostra alcuni paradossi del concetto umano di giustizia, scritto in un modo stringato. Un matematico direbbe, necessario e sufficiente, e questo ha fatto dire appunto a qualcuno, che assomiglia a kafka. Lui era laureato in giurisprudenza e utilizzò spesso l’aridità di quel linguaggio per esprimere certe idee. Mi distanzio immediatamente dal paragone con quell’astro che considero per ora insuperato. A me interessa essere me stesso. Essere un puzzle di altri attualmente accade troppo spesso e di solito questo tipo di autore viene lodato perché fa sentire intelligente chi legge. Riconosce le citazioni, si sente colto e in grazia di questa bella sensazione decide che l’opera vale. Squisitezze latrinesche da intellettuali…
E’ accaduto poi che qualcuno ad Amburgo, mi abbia chiesto: “la tua roba mi inquieta, ma non hai qualcosa a lieto fine?” Ce l’avevo, e pure già pubblicato, ma non a portata di mano. Non giro come un rappresentante con la mia merce appresso. E così, distante da casa, con molta mondanità da assecondare, ogni tanto mi isolavo e pensavo ad una favola. È nata poi, in suolo italico, e della favola ha le immagini, le parole, ma non so se è il caso che i bambini la leggano. L’ho inviata a chi l’ha chiesta come una sfida sorridente ed è finita li. I miei pochi lettori, che conosco personalmente l’hanno ricevuta e altro pubblico non lo cerco. Son geloso dei miei figli. Chi di voi manderebbe una sua creatura a lavorare da gente che non stima? Un racconto dovrebbe piacere ad un editore … e siamo a posto! Non distinguono un water da una sedia … e i risultati si vedono. Immondizia in forma di libro e quasi nulla di commestibile. Rispetto il pubblico. Ha una sua innocenza positiva. Aborro gli editori. Finiti da qualche anno, (per non dire decenni e facendo bene i conti, un cinquantennio), i bei tempi nei queli peraltro non esistevo e nemmeno ero stato progettato, quando in casa editrice potevi trovare un Pavese che non ne sbagliava una. Già quattro o cinque anni dopo, un raccomandato senza arte ne parte si permise di scartare i”Il Gattopardo” … il resto è storia. Un magro presente nel quale un lettore che considera il libro non solo un divertimento, un passatempo, ma anche una fonte per l’interiorità, è costretto a leggere e rileggere i classici. Ma il suo tempo. In cosa lo trova rappresentato, raccolto, asciugato, cristallizzato, compreso?
L’opera esiste, ma la struttura che dovrebbe renderla visibile, ha perso da ormai troppo tempo il contatto con la realtà. Amen.