venerdì 11 gennaio 2013

Keith Jarrett: "The Koln concert"


Partiamo dalla più totale inconsapevolezza. Il vocabolo giusto è ignoranza, ovvero colui che ignora. Esco di rado. Mi invitano in una birreria dove posso trovare una birra che ho da poco scoperto e che mi piace molto. (Il fatto che ora racconto accadde più di dieci anni fa, non ricordo esattamente, ma lo ricordo con molta nitidezza ...). La birra si chiama Menabrea. Ora è nota, all'epoca era difficile da trovare. Ho accettato anche per non essere scortese e dire sempre no. Ricordo che era una zona vicina ad un porto. Buio, ombre di navi enormi rese indefinite dalla nebbia. Fantasmi.

Non ricordo in quanti siamo. Ci si siede, si ordina e si chiacchiera come è normale che sia. C'è musica di sottofondo. Qualcosa di così amalgamato con l'ambiente che appena lo noti quando tutti, per qualche secondo, tacciono.

Ma … ecco che poche note di pianoforte mi mettono all'erta. Penso: forse si tratta semplicemente del fascino che provo per quello strumento? no. Mi rendo conto che la musica che precedeva e che confondevo col brusio, si basava sulla percussione monotona tipica della musica commerciale. È lo stacco, la differenza ad aver acceso l'attenzione, e anche il fatto che le chiacchiere non pesano niente, non sfiorano nemmeno l'ordinario. È un inizio che comunque, altre a godere dello stacco dal brano precedente, ha un qualcosa di chiaro come un invito a concentrarsi su un tentativo. Lo sento subito, un tentativo che essendo all'inizio si offre in tutta la sua indeterminatezza, ma ugualmente dice “sto tentando … ci provo ...”. Qualcosa che dopo aver chiamato all'ascolto, tenta di prendere il volo. Ora so calcolare i tempi della mia reazione. Riascoltando il brano oggi, sono in grado di ricordare e rivivere i tempi della fioritura che ebbi e ora tenterò di riviverla in queste parole.

Allora fu una sensazione enorme. Non ero più io, ero musica.



Riprendo il ricordo: Una emozione forte mi prende e gli occhi si son fatti lucidi. Mi sono alzato geloso della mia emozione, e anche timoroso che qualcuno la vedesse. L'ipersensibilità spesso sembra ridicola. Ma chi ora non ce l'ha deve ricordare che non siamo sempre identici a quel che pensiamo di essere. Un giorno non ci scuote nulla e invece in un altro, ci ritroviamo a salutare commossi una foglia che cade dall'albero, improvvisamente consapevoli che non la vedremo più, che per lei è finita, e che quell'ultimo volo è bellissimo.

Sono uscito dal locale. La musica è anche fuori, allora rientro e mi rivolgo al cassiere che è anche il proprietario e siede proprio fra il registratore di cassa e l'impianto stereo. Gli chiedo per favore di rimettere su il brano dall'inizio. All'inizio è sorpreso. Non ho il tono e l'aspetto di chi lo chiede come un favore, ma di chi ne ha bisogno … non dice nulla. Schiaccia il tasto giusto ed esco. Ora, con la notte e la nebbia potrebbe essere più facile. Qualche macchina in lontananza e nient'altro ed ecco la chiamata al raccoglimento e le note che cercano un'ordine, come le idee nella testa di un essere umano. Al terzo minuto esatto del brano il primo salto che fino al quinto è un meditativo rarefatto che cerca di coordinarsi. Al sesto minuto è alle soglie del cuore ma non riesce ... fatica, ma non ce la fa ancora. Dopo trenta secondi ho la sensazione che ce la sta facendo ed ecco che, esattamente al minuto 6,53 spicco il volo. Ma il brano non termina col volo. Troppo semplice. Il volo non è la meta, ma il modo per raggiungerla … e poi, al minuto 7,12 si accende il sole dentro … no … sembra la sua luce, ma è il travolgente schiudersi del loto, dell'anima, del sacro.



Non è questione di lasciarsi andare. Accade tutto senza che mi accorga delle reazioni del corpo. Quando l'apice passa, e torna al volo stentato, riappaio a me stesso.

Dopo un poco sento qualcuno che mi tocca una spalla. È il proprietario che è uscito ed è appoggiato al muro di fianco a me. Mi passa la mia Menabrea che avevo lasciata al tavolo. Ora sorride comprensivo. Mi chiede: “E' la prima volta?” “Si” rispondo.

Ascoltiamo ancora un poco e poi chiedo: “Chi è?” “Keith Jarrett. Il concerto di Colonia”. Non ci guardiamo in faccia, le parole sono sparse, rade, per godersi la musica. Gli chiedo: “perché cose così nessuno te le consiglia? Se non fossi venuto stasera … e non volevo venire ...”

Non lo so” ha risposto, “anche a me ha fatto effetto. La sentivo alla radio in macchina. Erano le tre di notte … mi sono fermato”.

Arriva qualcuno, lo salutano. Il momento magico è evaporato. Ora siamo solo uomini in un pub con una birra in mano, ma per un attimo ...

E domani, quel domani di più di dieci anni fa, comperai “The Koln concert”.



La magia di quel pezzo che mi risulta essere giustamente apprezzatissimo, merita di essere approfondita.

Il mondo della musica classica, esauritosi in un certo senso con Scriabin, Rachmaninov e Mahler, passò le consegne ai direttori d'orchestra. Questa frase farà venire i capelli dritti a molti esperti, ma non li temo. Agli intellettuali spetta altro. Io parlo di arte, quindi questo scritto non li riguarda. La musica classica, esauriti i suoi compositori eccezionali, cosa poteva fare? Nulla. Trasformò in grandi star i direttori d'orchestra. Karajannis naturalizzato tedesco e noto come Karajan, Kleiber, Walter, Toscanini, eccetera. Fate caso che del novecento, esattamente da dopo la prima guerra mondiale, siete in grado di ricordare solo direttori d'orchestra. Siamo al punto; da anni ormai, dai media si viene a sapere che c'è un concerto di Muti, e cosa suona ... viene detto dopo e non sempre. Abominevole. Io amo Glenn Gould, Claudio Arrau, Arturo Benedetti Michelangeli, Artur Schnabel, per esempio. Una generazione d'interpreti che oltre ad essere delle star, spesso loro malgrado, sapevano annullarsi. Ma quanti di loro erano troppo star e producevano un gesto atletico sulla tastiera completamente staccato da qualsiasi sensibilità! Quando Michelangeli suonava una mazurka di Chopin, appariva l'anima del grande polacco, il polacco più francese che sia mai esistito …

Certi direttori d'orchestra di quella medesima generazione erano ipnotici, bravissimi, ma troppo protagonisti, troppo star. Vi confido una cosaccia che non si può dire. Il direttore d'orchestra, la sera dell'esecuzione, può starsene a casa. Lui la deve preparare, l'orchestra … è come se l'allenatore di una squadra di calcio, oltre ad allenare, scendesse regolarmente in campo. Mi ricordo che lo fece Vialli nel Chelsea. So che è un'eccezione. Se il direttore non ci fosse, forse il momento sarebbe più spirituale. Si, perché c'è tanta musica classica che, con o senza il dio di qualche religione che manifesta direttamente le sue esigenze programmatiche tramite preti e vescovi e cardinali, tanta musica classica dicevo, è spiritualità in senso laico. Non hai bisogno di sapere nulla del dio di Johann Sebastian Bach per provare un brivido immenso mentre la Messa in si minore fa vibrare l'aria! Il Beatus Vir di Monteverdi, non ha bisogno di essere tradotto per ritrovarti in macchina a canticchiarlo quando meno te lo aspetti, anche se le radio ti tamburellano roba adatta per essere digerita e … lasciamo perdere.



È evidente che se dal primo dopoguerra son diventati protagonisti i solisti e, più ancora i direttori d'orchestra, un motivo ci deve essere. E io penso che sia dovuto al fatto, da me ripetuto fino allo sfinimento, che gli intellettuali han preso il posto degli artisti. L'intellettuale è una macchina che non mira alla qualità ma all'autopromozione. Esiste quello serio che ti schiude i simboli e ti mette nelle condizioni di fruire, ma sono men che rari. Se guardate il panorama internazionale, i compositori non mancano nemmeno oggi ma, tranne qualche rarissimo nome, si tratta appunto di intellettuali che giocano a fare gli artisti. Tutto parte con Sconberg e dintorni … ed ecco che la musica, quella che ama autodefinirsi classica, si stacca dalla vita. Se la cantano, se la suonano, e si congratulano fra di loro. Il pubblico pagante deve pagare e se dimostra di non gradire è ignorante, non nel senso che ignora, ma nel senso di inferiore.

E così accadde nella poesia, nella letteratura, nella pittura. Ciarpame dal quale nella vita quotidiana ci si libera facilmente per esempio cambiando canale. Loro però continuano a campare perché università, accademie e stati, foraggiano. Si, ci sono anche gli artisti che lo stato riconosce come suoi e dai quali ama farsi rappresentare, e lo stato in questo caso equivale a dire una ristretta cerchia di politici che impongono dal basso dei loro dimostratissimi limiti. Finzioni. E accade ancor oggi. Nulla a che fare con la qualità, ovviamente.



Accade però che la musica sia l'arte più sentita. Quella che può permettersi la massima astrazione e colpire veramente all'anima. Keith Jarrett viene da un mondo della musica che è considerato settorializzato, ovviamente sempre dagli intellettuali. Si dice che parte dal jazz. Io dico che parte dalla verità. Bach e Miles Davis, possono sembrare incompatibili, due mondi distanti, e invece si tratta semplicemente di qualità e lo dimostra il fatto che lui li ama entrambi e ne fa un mondo unico. Lui improvvisa brani che non sono jazz, ma improvvisare così, gli viene dal jazz. Utilizza quindi la materia musicale senza sentire le barriere che altri hanno imposto. Non è assurdo dire che si amano col medesimo trasporto Beethoven e de Andrè proprio per questo. Si va direttamente all'anima, senza giochini intellettuali, atteggiamenti, protagonismi. L'artista, quello vero, ha fame di toccare quel momenti magici. Sa di poterli creare. Lo ha capito, e la sorpresa di questa capacità, ve lo garantisco ... è sua quanto vostra. Immagino Chopin che si guarda le mani e stupisce di quel che ha appena fatto. Lo dona a se stesso. Se siete li e sembra che lo doni anche a voi … ma è a se stesso ... Lui non deve cercarvi, ma siete voi, che, consapevoli di non poter creare quelle estasi, cercate chi le crea. L'artista, quindi non dona, ricordarlo sempre! È troppo sorpreso da se stesso per riuscire anche a donare. Può farlo solo dopo, quando il momento magico è finito, ma quel che offrirà sarà, l'immagine riflessa, non l'attimo estatico. Meglio che niente, sicuramente. E questo vale anche per Jarrett, che sale sul palco, ci prova, ma non è detto che sbocci.



Ora. La linea di musica cresciuta fuori dagli intellettualismi, è giunta con Keith Jiarrett ad alcune soluzioni notevoli. L'artista sale sul palco e improvvisa. Sappiate che l'inizio di quel primo brano che suonò a Colonia il 24 gennaio del 1975, corrisponde alla campanella che invitava il pubblico all'inizio dello spettacolo. Lui la ripete col piano, idea che gli è venuta sul momento. Una sollecitazione esterna che ti da il via e poi si lascia andare ... come quella volta che nel finale della quinta imperatore, Michelangeli davanti al papa in sala Nervi, sentì un tuono enorme. Gli rispose, col piano, lo fece genialmente suo. So che qualcuno si è lamentato che Jarrett è duro col pubblico perché vuole il silenzio totale e già un colpo di tosse lo irrita. Io lo capisco. Deve ascoltare se stesso e ripetere quel che quell'io dice. L'io interno è fragile, sensibilissimo. Basta un nulla e lo perdi e poi ti ritrovi davanti ad un pubblico, sei Keith Jarrett sì, ma ormai solo esteriormente, e puoi solo autoimitarti, perché ti sei perso.



Dopo l'esecuzione gli hanno chiesto di trascrivere il brano. Non voleva. Hanno insistito. E invece “quando esegui una improvvisazione deve finire lì”, come lui aveva tentato di dire. La vuoi risentire? Siamo nell'epoca della riproducibilità tecnica. Niente di più facile. Che sia un cd o un file, è un attimo. Ormai basta volerlo e hai tutta la musica e tutta la letteratura in un click.

Keith Jarrett, che è musica classica della migliore, nel senso che è già un classico riconosciuto dal giudice più alto che è la nostra anima, Keith Jarrett dicevo, ha seguito il percorso vivo della musica. Quando negli anni trenta finiva la classica occidentale, moriva, esattamente nel 1938, Robert Johnson. Con lui suonava Sonny Boy Williamson. Primitivi, nel senso buono del termine, come primitivo era per alcuni Giotto, ma spontanei, veri.

Vi invito ad osservare, oltre che ad ascoltare, un video su You tube. Muddy Waters: il brano è “Got my mojo”. Fatto? Bene. Quello con la fisarmonica è Sonny Boy. Suonò con Johnson ed era con lui all'ultimo concerto che fecero insieme. Ora guardatevi Sonny Boy Williamson in “nine below zero”. Vi consiglio quel filmato nel quale il presentatore di colore della tivù statunitense, lo presenta. Oltre ad ascoltarlo guardatelo bene. É una maschera antica, non recita mai come faranno quasi tutti i cantanti dal secondo dopoguerra. Gradate Robert Johnson e Muddy Waters. Non sono ne belli ne brutti. Sono veri. Sono i volti e lo stile di una tradizione, ma l'americano bianco che li guardava dalla tivù, seduto in poltrona, sentiva solo il ritmo e solo di questo s'invaghiva, ma il ritmo da solo è ben poco, quasi nulla.

Prima ho detto che non sono ne belli ne brutti, anzi, per i canoni attuali decisamente brutti … e vi chiederete cosa centra la bellezza ... ora ve lo spiego. Loro venivano dall'anima nera trapiantata con lo schiavismo negli Stati Uniti. Avevano una tradizione che si incrociò col cristianesimo bianco. Era una cultura, e non una sottocultura, come si diceva allora. Robert Johnson esce dalla fabbrica religiosa mista dei santoni degli schiavi. Cantare era invocare. Cantare poteva essere un richiamo, delle forze del bene e del male non importa, purché collaborassero. Chi sentì cantare Robert Johnson, se era nero e ne condivideva la cultura, non vedeva solo un cantante, ma un santonee ne provava anche timore reverenziale. Per i bianchi quella musica e quell'uomo, erano solo una tecnica, la sua anima non la condividevano. Se forse un poco la conoscevano, comunque la sbeffeggiavano. Le leggende sulla sua vita, sulla sua fine, fanno parte di un gioco ormai frainteso, un po' come chi dice che Elvis è vivo. E come scoprirono il blues i bianchi? Andate a leggerlo in “Storia di una maitresse Americana di Nell Kimball … sentendoli nei postriboli. In quei salottini, fra una marchetta e l'altra quella musica avanzava e iniziava a piacere. E ora pensiamo alla generazione che segue questi sacerdoti che cantano per un rituale, per uno scopo. Sono giovani, belli, e hanno arraffato i ritmi del blues perché fanno ballare, perché funzionano. E proprio in Elvis, cosa rimane di quella spiritualità? Esiste solo un parallelo possibile ma casuale. Elvis era un sex symbol e quelle canzoni dei primi bluesman avevano un alto potenziale di immaginazione erotica. Andiamo avanti e approdiamo al disastro del secondo dopoguerra. I cantanti hanno preso il mascheramento, l'essere altro da sé, come abitudine. Son retrocessi agli stregoni? Si, ma non lo sanno nemmeno. Non sanno che è la medesima cosa. Non sanno che far musica equivale a somministrare ritmo. Non sanno che il ritmo è alla base della ritualità sacra, della vita. Migliaia di persone che si fanno corpo unico, che si esaltano. Intervengono le droghe semplicemente perché questo annullamento nella massa guidata da un ritmo, diventa più rapido e totale. E infatti speso gli stregoni somministravano erbe che producevano il medesimo effetto e il rito ritmato aveva sempre uno scopo. E ora arriviamo al Top. Mike Jagger con i suoi Rolling Stones. Cantano “Sympathy for the devil” ad Altamont nel 1969. La situazione era tesa per fatti precedentemente accaduti e le autorità avevano invitato a rimandare il concerto. Ma il solista voleva cantare. Aveva un'idea della musica come pacificatrice di animi. Se riuscite, cercate di osservare il video dell'intero concerto. Si vedono i disordini, Il cantante mascherato in modo decisamente triste, il momento dell'omicidio, i drogati letteralmente sfatti e, scena notevole, il solista che va in sala di registrazione per rivedere il concerto. Questo momento è importante, perché si coglie dalla sua espressione, che non ha capito cosa possa essere accaduto e lui, così distante dall'origine della musica della quale usa i ritmi, ovviamente non ci può arrivare.

Robert Leroy Johnson


Ma Sonny Boy Williamson, Muddy Waters e Robert Johnson, non si mascheravano e la loro musica aveva un motivo d'essere preciso. Non erano strumenti di un mercato commerciale. Erano se stessi e calati in una tradizione. Mike Jagger, senza tradizione perché ancora ragazzino, si ritrova il successo e lo usa come può fare uno che basi non ne ha avute. Gioca con la musica, gioca col “diavolo” in quella canzone che farà da innesco all'omicidio, senza sapere da quale passato quei ritmi e quelle immagini, provengono. Non sa nulla di religione, stregoni, sciamani e musica come rituale.

Sonny Boy Williamson
Muddy Waters

E' la tragedia dell'ignoranza. Dai il successo a gente che non ha le basi e che pensa che la musica sia solo ballare e divertimento ed ecco che si ha la fiera dell'esteriorità. Ma la musica non è mai stata solo quello. Anzi. Spesso è stata, all'opposto, solo sacralità. Vi porto un esempio. In origine, quando Johann Sebastian Bach preparava la settimana pasquale, ogni messa era cantata e suonata. Non esisteva un pubblico. Immaginate la chiesa con i fedeli. Cantare e suonare era pregare, tutti insieme, e quella voce, diventava l'anelito della comunità verso il suo dio. Oggi, sentirla in ruolo di spettatore, in chiesa o in teatro, è comunque agire in un modo profondamente diverso da quello originario. La partecipazione nostra si abbassa di livello.

E se si pensa alla musica sensuale espressa da James Stephens nel capolavoro “La pentola dell'oro”! Il più irlandese dei romanzi del novecento ci mostra il dio Pan che arriva in Irlanda e suonando seduce. Solo i bambini non ne sono estasiati, perchè non sono ancora sessualmente sviluppati. Per il resto tutti, vecchi e giovani e animali, tutto il vivente, freme … alla sua musica.

E ora passiamo a William Butler Yeats, sempre irlandese, Nobel per la letterature nel 1923 e ascoltiamo, cantata da Branduardi, la sua poesia “Il violinista di Dooney”. Ecco la musica nel momento del raccolto, nel momento in cui la comunità contadina si raccoglie per fare i lavori insieme, e le fanciulle attendono lui. “Ecco il violinista di Dooney, vengono a danzare come le onde del mare”, bravo Yeats e bravo Branduardi. Eros trionfa al ritmo di un violino. E quel rito contadino che portava ai fidanzamenti era di tutte le campagne, a tutte le latitudini. Ecco l'universalità del linguaggio che proviene dalla terra, che ha una poesia e una musica sue che ovunque vengono comprese, ma non in città, non da chi è nato in un quartiere di Liverpool o New York, o anche solo Milano.



Io vedo questa situazione. Gli anni trenta si spengono in Europa come musica classica. Emerge un mondo che è legato alla tradizione e ad un sacro non ufficiale , negli anni venti-trenta. Non accade solo negli Usa. In Belgio, per esempio, nel 1910 nasce Django Reinhardt. Zingaro sinti; ascoltate la sua “Minor Swing”. Ascoltate anche la musica Klezmer equel che l'ebraismo ha dato alla musica! E caricate l'anima di energia ! ... e su Berio, Cage e simili procediamo col rendere operativo l'oblio immediato che si son guadagnati in quanto intellettuali che si mascherano da artisti.

Django Reinhardt

E Keith Jarrett … dimenticavo, ho scritto di lui questa sera perché trovo giusto che si sappia che è stata recuperata una registrazione del 1979 fatta a Tokio con Jan Garbek, Palle Danielsson e Jon Christensen. È stata pubblicata nel 2012 e immediatamente è stata considerata un capolavoro. L'ha ritrovata in archivio il dirigente della casa discografica EPM. Ne è rimasto colpito, l'ha inviata a Jarrett che ha riconosciuto la sua qualità e ha acconsentito alla pubblicazione. Si chiama “Sleeper in Tokyo”.

Sax, basso, percussioni e tastiera. Ne vale la pena.



Ricordate comunque che come tutta la grande musica, non fa solo fremere il corpo … va oltre. La musica classica europea, fattasi troppo intellettuale, troppo pensata e quindi laica, cede il passo a chi intende leggersi dentro con un talento e una sincerità decenti. Nessuna differenza nel metodo con i grandi di sempre, nessuna differenza nella qualità della grandezza.



ciao ...

...

buongiorno. riapro il post perchè ho qualcos'altro da aggiungere che forse rende più chiara la mia posizione verso la musica del novecento che è indubbiamente discutibile.

dopo gli anni venti trenta del novecento la cultura occidentale ha prodotto ancora qualcosa di buono. per esempio amo l'opera di Giya Kancheli, ma oltre lui e qualche pezzo rarissimo di altri, accade che trovi si qualcosa di interessante, ma mai appassionante. Keith Jarrett lo ascolto spesso, e questo mi capita con lo studio op. 8 n. 12 di Skriabin, con la Kreisleriana di Schumann per esempio ma, sempre per esempio, Already it is dusk" di HendrYk Gorecki, che stimo, lo ascolterò forse una volta ogni due anni ... il Requiem Polacco e il Dies Irae di Krysztof Penderecki, li ritengo validi, e anche il suo Te Deum, ma li ascolto assai di rado. perchè? valgono ma non mi attirano. troppo mentali, spesso talmente potenti da rasentare il rumore, che non è musica, e il ritmo, quella base che fa fiorire la vogliua di ri sentire, quasi non c'è ... la musica solo per la mente, la costruzione troppo intelligente, intellettuale, non dura in noi.
lo dimostra la "Misa Criolla" del 1964 di Ariel Ramierez (Argentina). la sento invece anche in macchina! Spesso gli strumenti popolari, per esempio in questo caso quelli andini, e i ritmi decisamente folk, vengono visti dai puristi come qualcosa di grezzo. a me non interessa. si nutrono anima e corpo, le dita tambureggiano sul volante, spesso canticchio! fate caso che Glenn gould e Keith Jarrett, spesso non si rendono conto che con nla voce ripetono il tema che stanno eseguendo. ci sta. si son lasciati andare, ci guidano in alto. tutto si perdona a chi ci guida oltre alla terrestrità, oltre al quotidiano.

E ora un altro esempio.
Mi invitano ad un concerto. suona Li Biao, virtuoso della marimba.
quando inizia col concerto per marimba e orchestra d'archi di Ney Rosauro (vivente, nate nel 1952), dopo il primo stupore curioso per l'abilità mostrata e per l'inusuale strumento, mi sono accorto che la gente era distratta. il brano non "prendeva". alla fine grandi applausi per il virtuosismo .. ed ecco che Li Biao, in inglese, avverte che ora suonerà un brano composto dieci anni fa, per un amico che era deceduto. silenzio in sala. l'anima si stacca immediatamente dalle poltrone e dai palchi e vola. vedo occhi lucidi, commozione. Li Biao è andato oltre al virtuosismo. momento stupendo.

quel che ora si cerca è il momento nel quale un buon concertista, inventa. accade di rado. una volta ogni tanto, ma è quello il frutto desiderato. Il jazz che improvvisava ed era puro istinto. la musica classica che calcolava tutto chiusa in una sytanza, scrivendolo su uno spartito ... immaginate uno Scriabin che col suo pianoforte ci dona non la composizione, che sarebbe un ripetere, ma il momento nel quale l'idea nasce! è il massimo che si possa desiderare. ora può accadere e, oltre il resto, l'ascolto può essere staccato da quel momento magico. ovviamente chi fu presente a colonia quel giorno, godette più di me che ascolto la registrazione ma, poter sentire e risentire proprio quando l'idea nasce ... è sicuramente più toccante che sentire quel che un pianista anche geniale prepare andando al piano in sala d'incisione esattamente come si va a fare un lavoro qualsiasi. l'arte non è invece così. esiste il momento giusto. bisogna saperlo cogliere. la leggenda di Vivaldi che lascia l'altare proprio poco prima dell'elevazione per scrivere alcuni accordi, è esemplare. lui, prete, fu criticato, ma se avesse atteso la fine della funzione, nella sua mente sarebbe rimasto non l'accordo geniale, ma la sua ombra, il suo ricordo ...

Uno dei primi a comprendere il potere della sala d'incisione, per arrivare a produrre l'esecuzione migliore, fu Glenn Gould. ci andava quando se la sentiva e suonava quel che voleva. una sonata non veniva consegnata intera, così come l'aveva eseguita, ma scomposta nei suoi tre movimenti e poteva accadere che il primo fosse dell'anno precedente, il secondo di due mesi fa e il terzo di ieri. si tenevano le tracce migliori e il risultato per l'ascoltatore era il migliore possibile. Lui, un interprete, l'aveva capito. per questo chiuse coi concerti. suonava e registrava quando era ispirato.
Ora si desidera questo dalla grande musica: iil momento dell'ispirazione direttamente visto e vissuto dal pubblico. lo si conserverà pio registrato e sarà bello risentirlo. l'intellettualità che tutto vuol dominare e regolare è stata messa in un angolino. La creatività pura, ha creato la situazione nella quale può liberarsi senza limiti. trascrivere poi in uno spartito per farlo ri eseguire da altri? Non ha più senso. abbiamo il momento magico ... non esiste di meglio.






2 commenti:

  1. Nessun commento? Con te condivido la passione per Keith Jarrett, il Concerto di Colonia, mirabile, la musica classica, il jazz. La musica classica e il jazz che si fondono, diventano qualcos'altro da musica classica e jazz. Ho letto tutto il tuo breve saggio. Colto e interessante.

    RispondiElimina
  2. Essere colti è la conseguenza involontaria di una lunga perseveranza. La vita ha una scadenza e quindi sento il dovere verso quel seme interiore da coltivare, che viene chiamato anche anima, di nutrirmi del meglio. E' una ricerca lunga che in quanto ricerca porta a ben poco. Si trova, in fondo, quasi per caso, come dicevano Bejarte e Picasso. Jarrett è una ricchezza irrinunciabile. Mi viene in mente una persona che mi disse che la musica classica le faceva "venir sonno". Equivale a dire che la sensibilità occidentale, che nonostante tutto esiste, fa ....venir sonno? e penso a Schubert, Schumann, Domenico Scarlatti, Bach-Busoni con la stupenda ciaccona, che hanno dato un senso ad una notte pasquale insonne.
    Che dormano coloro che il seme dell'anima non lo coltivano e si riducono alla sola corporeità.... per il jazz aggiungo una precisazione. Mi interessa ma non lo amo. La penso come Glenn Gould che disse di questo genere, che rappresenta il temperamento di un popolo (e un popolo può e deve dare più di questo). Il jazz, quando si innesta su generi spesso esausti come l'ultima, troppo intellettualoide, musica occidentale di estrazione alta, rivitalizza. Se poi un personaggio come Jarrett ci mette del suo, lui che ha imparato, cosa rara in un occidentale, a lasciarsi andare .... ecco che si ha un capolavoro. ciao

    RispondiElimina