domenica 31 marzo 2013

Il toro Raton




Il 24 marzo, verso mezzogiorno, è morto il toro Raton. Era anziano, aveva l'artrosi e non ha retto alle cure. Lo so che sembra strano dedicare lo scritto della pasqua cristiana ad un animale che oltre il resto ha ucciso tre persone e ne ha ferite una trentina, ma per me è un simbolo, Il simbolo dell'assurdità degli uomini.

Nato nell'aprile del 2001, il suo destino fu di essere sacrificato nelle corride. Ma quel destino gli aveva assegnato anche, in dote, cinquecento chili di muscoli e lui li seppe mettere a regime. Il suo stile non era piacevole. Non si arrabbiava più di tanto. Aveva accettato il suo destino. Faceva la sua parte con un poco di svogliatezza, ma osservava attentamente. La prima, forse l'unica distrazione del torero era da cogliere e questo fece. Era potente ma non come i tori più massicci. Vi era in lui qualcosa di sorprendentemente agile che spesso lo sfidante dimenticava durante l'ineguale sfida. Sì, ineguale, perché il toro veniva accuratamente indebolito e dissanguato per mezzo di quei multicolori artigli che il torero gli piantava nella parte alta della groppa. La sua unica possibilità era nell'istante, in quell'istante nel quale un malato narcisismo di dimenticava cosa stava accadendo.

Ormai siamo in tanti a tifare per il toro, in generale, ma non è abbastanza. Raton ebbe in sorte una vita ridicola. Uccidere per sopravvivere a lui non bastò, come accadde ad altri tori. Salvarsi dall'arena spesso aveva come premio una vita calma, da riproduttore. Non il massimo per chi ha nel cuore, un cuore da erbivoro, da pecora, anche se enorme, prati morbidi d'erba, sole sulla pelle e passeggiate che gli umani chiamano pascolare …

A Raton andò male sempre. Dopo aver ucciso tre volte, e per lui è sacrosanto parlare di legittima difesa, fu conteso delle ferìe, dalle sagre. Un toro normale costava mille euro all'ora. Per lui, per il toro assassino, si offrivano diecimila euro. Si arrivò fino a quindicimila, e la sua pace fu l'artrite, la malattia.

Caro Raton, mi scuso, mi vergogno di essere un umano.

Ti racconto come da sempre ho sofferto più le ingiustizie patite dagli animali che non quelle che l'uomo, in fondo causa stupidamente, a se stesso.

La prima angoscia fu a Istambul. Il giorno della fine del ramadan. Ero in casa. Non uscii. Sapevo che là fuori stavano sgozzando migliaia di innocenti. Ero chiuso in camera. Ricordo i muri bianchi, le lenzuola bianche, le pagine di un libro e le parole che erano sparite. Fogli bianchi, terribilmente bianchi … e con la mente, col cuore sentivo gli urli, vedevo le lame alla gola, il sangue scorrere.

Fu un momento così sconvolgente che, a sera, quando tornai in me, era già sera … feci i bagagli, chiesi un taxi con i vetri scuri e me ne andai all'aeroporto. Attesi il primo volo, non mi interessava la meta. Solo andare via era importante.

Mi accadde allora per la prima volta, e avevo una trentina d'anni. Ora la pasqua è la mia ossessione occidentale. Uccidere gli agnelli...

Io penso da sempre, caro Raton, che essere umani equivalga all'emanciparsi dall'omicidio. Non faccio differenza fra umani e animali. Chiunque sia capace di affetto “sento” che deve essere rispettato. Se nell'antichità, nel medio evo e anche fino ad un ieri ormai distante qualche decennio, era impossibile emanciparsi da questo peccato originale, e la morte di un animale era per noi un'esigenza irrinunciabile per la sopravvivenza, ora, da qualche decennio appunto, di quel peccato gli umani, se solo volessero, potrebbero liberarsene … ma non c'è la volontà e nemmeno il sospetto che si possa agire in questa direzione.

Quella medesima scienza che fa della tecnica un'arma che è in grado di sterminare e non solo, ma anche curare e trasformare una vecchia in una ragazzina ... eccetera, questa scienza, questa potenza della mente umana, non è stata direzionata, purtroppo, verso la liberazione da questa condanna. E quindi, caro Raton, la condanna, per l'uomo, diventa colpa ….

Uccidere un essere capace di affetto quando non è strettamente necessario! Questo per me è intollerabile. Ma io so di essere estremo. I canili mi angosciano non meno degli orfanatrofi. Le greggi, anche se incorniciate in un bel paesaggio alpino, per me son schiere di condannati. Ricordo il giorno che, in un paesaggio da favola, tolsero il vitellino alla madre e lo caricarono su un furgone. L'urlo materno, il più vero, forse l'unico che ho compreso. E quel vitellino tirato senza sensibilità per un destino di bistecche.

Ovviamente son quasi vegetariano. Il quasi è dovuto al fatto che se son ospite, non voglio creare complicazioni e mangio quel che c'è e quasi sempre me la cavo senza insozzarmi.

Che provino loro, caro Raton, se vogliono mangiar carne! Che provino non solo a comperare al supermercato, ma che partano dall'omicidio! Che sentano il dolore di esistere a queste condizioni. Loro fanno presto … non ci pensano. lo sanno ma non ci pensano. Ma che provino a prendere il coltello, ad immergerlo nella carne di un essere vico e con uno sguardo che ha capito!

Io amo la vita, sono per la vita, anche se la mia di vivibile per ora ha avuto ben poco. Quel che mi dona la carezza donata a un cane, la carezza ricevuta anche solo dallo sguardo di un cane, è un riscatto, un infinito, una via che percorro da anni. Provate a toccare un agnello, a prenderlo in braccio e pensate per favore ad un altro modo di santificare una pasqua o un ramadan o qualsiasi festa … per favore.

Quando Abramo ricevette l'ordine, di fatto si trattò di una lezione! Un dio feroce stava cambiando idea, almeno un poco. Quando Isacco fu posto, già legato sulla pietra del sacrificio, quel dio degli eserciti lo fermò e gli disse di prendere il capro. Ordinò. Non gradiva più i sacrifici umani. Ora so che quel dio colpevole e senza pace, ha capito che chiunque è capace di affetto merita di poterlo vivere, di poterlo tirare fuori quel mondo che ha dentro. Il dono che si può, che si deve fare ad un dio, è nel riuscire a dare affetto alla sua creatura, alla vita tutta. L'affetto è lo specchio immenso che riflette una realtà talmente grande e inattesa che nemmeno la morte, le resiste. E se un dio antico sbagliò, ricordiamoci che se l'era inventato l'uomo. Un dio che crea la vita, è per la vita. Una divinità non può concepire nulla di diverso dal paradiso. Se quì sembra tutt'altro .....

Per me, oggi, non è un bel giorno caro Raton. Gli urli degli agnelli, i loro sguardi, li sento, anche se, come a Istambul son chiuso in casa. Io ora posso guardarli negli occhi senza colpa, senza vergogna, Si può essere felici, o almeno contenti, solo quando tutto intorno a noi è felice, o almeno quando gli altri stanno percorrendo quella via.

Ho atteso oggi Raton, per salutarti, vittima di un'umanità ridicola...

ciao










mercoledì 27 marzo 2013

Joseph Conrad: "Titanic"



Per la prima volta consiglio un testo che non è letteratura. Ho qualche attenuante. Chi l'ha scritto si chiama Joseph Conrad. Può sembrarlo, ma non è uno sconosciuto. Quasi tutti conoscono almeno una sua opera che si chiama “Cuore di tenebra”, ma più nota sotto falso nome, ovvero “Apocalipse now”. Questo film, per quanto sia non completamente fedele, è un gioiello, e Francis Ford Coppola, per quel che ci ha messo di suo, ha dimostrato di aver compreso il libro e di non averlo umiliato.

Di Conrad, fra tante opere degne di attenzione, scelgo un libretto, edito dalla Passigli che si intitola “Titanic” poiché ci mostra l'abisso fra quel che sappiamo di quel fatto e quel che veramente è accaduto. La meditazione su questa differenza, che si rivelerà enorme, potrebbe venire utile per meditare su quel che pensiamo di sapere sulle vicende del nostro tempo. Siamo in un'epoca esasperatamente visiva e su questa vi offro qualche ragguaglio, ovviamente visivo ... Studiando delle foto di Atget:




per esempio, riguardanti la Parigi dei primi del novecento, ho avuto occasione di vedere delle vie, degli edifici, completamente coperti di cartelli pubblicitari. Era carta stampata e incollata, al massimo cartone o legno dipinto. Ce n'era una invasione esasperante; anche i vicoli più sgangherati erano assaltati da queste immagini che rimanevano attaccate per tanto tempo, e spesso erano solo le intemperie ad eliminarle. Pensateci. I cartelloni, che siano luminosi, di carta o altro, attualmente hanno scadenza breve e raramente li vediamo malmessi come mostra un certo Rotella (vedi immagini)



che piace più agli arredatori che agli appassionati di arte .... Io tuttora rimango sorpreso quando, in un certo punto di una strada, nella quale passo appunto per sincerarmene, ritrovo ancora l'avviso funebre di ringraziamento di Carlo, un amico che quasi tre anni fa se n'è andato. La sua fortuna, la fortuna del suo foglio bianco listato a lutto, è che si trova in alto in una tabella metallica in grado di contenere sei annunci. Ho osservato la metodica dell'attacchino. Preferisce, causa la sua altezza, riempire sempre i quattro spazi più in basso. Il quinto e il sesto sono gli ultimi e predilige, non ho ancora capito il perché, riempire prima la casella destra e Carlo è a sinistra. Carlo, per essere coperto da un altro annuncio, deve attendere quindi sei morti che devono decidersi a defungere nel giro di qualche giorno. Per ora si è arrivati, una volta sola, a cinque e vedo il tempo, il vento di mare, la pioggia, che pezzo per pezzo si portano via l'ultima sua traccia nella vita, fra le strade che lo videro bambino e poi uomo e infine anziano. Niente foto. Rimane un pezzo del nome e io passo da quella strada ogni volta che posso, per salutarlo e osservare il lavoro lento del tempo, quel lavorio, quel rosicchiare, che è temuto, e chirurgie plastiche di corpi, restauri di edifici e oggetti, e altri mascheramenti, ci rendono ormai inusuale. Tutto deve essere nuovo, giovane, perfettibile e immediato ... e questa esigenza, è diventata anche la vera identità dell'informazione. Che la notizia sia vera o falsa, in buona o cattiva fede, che importa? Essa deve essere giovane, scusate, nuova, sempre nuova, e non importa se coerente, come quelle ottantenni che ho visto a Cannes, in maglia aderente leopardata, leggings e sguardo rapace … perché sotto l'abito, sotto il ritocco e la finzione, spesso, da millenni è la medesima notizia che pulsa...

Quel che mi accade con Carlo, è una rarità. Di solito la pubblicità cambia spessissimo, e siam talmente assuefatti al cambiamento che quando, per esempio in televisione, lo sketch pubblicitario di un comico, viene ripetuto troppo spesso, quindi ha eroso completamente il suo aspetto di novità, l'unico che ci distrae, siamo irritati e non esitiamo a lamentarcene.

La pubblicità, al tempo del Titanic era come ce la mostra Atget. Un po' di colla, un cartello e li presente per mesi e mesi. I giornali, che fossero quotidiani o settimanali, non erano “utilizzati” come oggi. Spesso il settimanale veniva acquistato solo in abbonamento da persone abbienti o circoli, quindi gli “altri”, potevano nutrirsene solo quando il popolo di “prima scelta” non ne era più interessato. I quotidiani costavano, poco ma costavano, e di solito chi non voleva scialare, attendava il giorno dopo o si recava a certi chioschetti davanti ai quali si faceva gruppo e oltre a leggere si discuteva. Accade ancora che davanti a qualche sede del vecchio partito comunista che ha cambiato pelo ma non il vizio, ovvero non ha cambiato sede, facce e nemmeno idee, ma solo appunto la sigla, accade ancora che li davanti, il loro quotidiano, sia esposto pagina per pagina in alcune teche.
...e poi i caffè. Anche oggi si fanno due conti. Una tazzina costa più o meno quanto una testata, quindi tanto vale bere e sfogliarne una certa quantità quasi gratis!
Ora c'è anche internet e il giornale si è infilato anche li dentro, ma così diventa un atto individuale e per ora la vince il bar, termine italianissimo, da barra, sulla quale l'avventore appoggiava il piede mentre sorseggiava al bancone.

Ricordo a Salzburg il piacere, quasi il rito, di recarsi al caffè della piazza del Nuovo Mercato e prendere le stecche col quotidiano arrotolato. Provateci e vivrete una sensazione antica. 

Stecche al café Tomaselli di Salzburg
Il cafe, la stecca, che se vi riconoscono, e a me accade, ve la portano con un sorriso che vi fa sentire a casa anche se non è vero, un certo stile quindi, e l'atmosfera di un'epoca. Mi è capitato a Nancy, nei suoi stupendi caffè liberty, di legno specchi, ferri a fettuccia e argento … capita insomma ancora.

Nancy: il Flore oggi

Il Flore ieri.....

Il quotidiano come collante sociale e che invita alla chiacchiera, e in esso la notizia che si accompagna sempre più a interpretazioni emotive, scandalistiche, smentibili sempre e non necessariamente il giorno dopo. Un carnevale insomma nel quale siamo coinvolti al punto da diventare guitti a nostra insaputa.

Ecco cosa ci rivela il libretto di Conrad. 


Egli, da una sferzata alla chiacchiera. Ci mette sull'attenti. Stiamo parlando di circa 1520 persone morte! Non è uno scherzo nemmeno se ne muore una, ma 1520, moltiplica indubbiamente l'obbligo, la necessità di attenzione.

Veniamo al fatto. Sapete dirmi quando è affondato il Titanic? Immagino di no e non sentitevi sotto esame. Anch'io mi son posto la domanda e ammetto di aver sbagliato anticipando di una ventina d'anni. Quel che sappiamo tutti è che la nave più grande del mondo, si schiantò contro un iceberg e poi affondò. Ce ne mantiene fresca la memoria un film che con effetti colossali ha fatto cassa per benino, rivelandoci comunque un talento come Di Caprio.

La data è 15 aprile 1912. Cerco di essere preciso. Il 14, alle 23:40, l'iceberg viene toccato; alle due e venti del giorno dopo, quindi due ore e quaranta di tempo, affonda.
La realtà è quella che ci mostra Atget. Carta ovunque, sui muri e nei caffè. Altro non c'era per comunicare. Le notizie duravano un poco di più nel senso che quel che si veniva a sapere alle otto del mattino non cambiava fino a sera. Un lasso di tempo per meditare su parole immobili. Attualmente la notizia si modifica continuamente. Se ne esaminiamo una dotata di una vita minima di una settimana, vedremo quante contraddizioni vengono prodotte e annullate e spesso riappaiono.

In quell'epoca, dall' “English Review”, numero di maggio, quindi appena sedici giorni dopo il disastro, una grande mente, e in questo caso un esperto di mare, “striglia” un'epoca. Apparirà poi un secondo scritto, tempo un mese, che rincara la dose e il quadro che ne esce è doppiamente sconcertante.


Il Titanic … perché è affondato ...l'agire umano, che affonda. L' English Review” era un mensile, razza che si potrebbe considerare estinta. Affrontava argomenti di politica, attualità, aveva velleità artistiche e si rivolgeva alla elite. Ora “fa fatica” a campare anche un settimanale. Troppo tempo una settimana con un'informazione che fa ormai tutto in diretta! E ci si mette pure che un giorno, una settimana un mese, con una notizia che non cambia, ci costringe a pensare. L'immediatezza è emotiva, ma il tempo calma i nervi e rimane qualche possibilità almeno per il pensiero. Ci sarebbe un gradino in più, ma non ne parliamo ora.

Non intendo rivelare nulla di quel che il libretto narra. Avrete di che stupirvi.
Quel che vi invito a fare, è un accurato ragionamento sul vostro rapporto con la notizia, oggi. Penso non esista testo migliore di questo di Conrad per meditare un po' su quest'argomento. Egli, in quanto artista, dice, e senza preoccuparsi di dar fastidio a qualcuno, a qualche corrente politica, al commercio, agli Stati Uniti. Lui ci mostra il fatto, analizza alcune risposte date dai “tecnici”, e poi affonda il colpo.

Vi invito poi ad ascoltare “Titanic” di de Gregori. 


“La prima classe costa mille lire, la seconda cento, la terza sudore spavento puzza di sudore dal boccaporto e odore di mare morto...” vado a memoria, potrebbe non essere esatto.

E da un'altra canzone di quell'album eccellente:
.....questa nave fa duemila nodi, in mezzo ai ghiacci tropicali, ed ha un motore di un milione di cavalli che invece degli zoccoli hanno le ali. Questa nave fulmine, torpedine miccia scintillante bellezza fosforo e fantasia molecole d'acciaio, pistone rabbia, guerra lampo e poesia.
In questa notte elettrica e veloce, in questa croce di novecento, il futuro è una palla di cannone accesa e noi la stiamo quasi raggiungendo.
E il capitano disse al mozzo di bordo
io non vedo niente
c'è un po' di nebbia che annuncia il giorno...
...andiamo aventi tranquillamente...”

Quelle ultime parole mi mettono i brividi. Non è una nave che avanza, è un'epoca, che come quella di quegli uomini che hanno costruito il Titanic, e lo guidano, ha perso il senso della realtà.

De Gregori rende benissimo questo significato. È il 1912 e noi, col senno di poi, sappiamo che nel giro di due anni, scoppierà il finimondo. E non credete a chi dice che furono due guerre mondiali! Fu una unica, iniziata con la follia che affondò il Titanic e che Conrad ben descrive, sfociò in dittature e crisi economiche che non son guerre solo per i cretini, e terminò, dicono, nel quarantacinque.

Da un libro e da un disco, se si vuole, se si ha tempo, una lezione grande che ci deve far riflettere sulla nostra epoca...

Irene Nemirovsky: "Il calore del sangue"



Consiglio questo post solo a chi ha letto il libro.


É stato molto difficile decidere quale opera di Irene Nemirovsky presentare per prima. Tutto quel che ha scritto merita di essere letto. Ho deciso di “partire” con “Il calore del sangue” poiché mi son reso conto che l'argomento che tratta è in fondo il medesimo che si trova per esempio in Simenon, Forster, D.H. Lawrence, Tolstoj, Kafka, Bulgakov, solo per citare qualche grande. Se si osservano le date, ci si rende conto che dal terzo quarto dell'ottocento in poi, quest'argomento, che è l'emancipazione nella scelta del partner, diventa enorme e non riesce più a scendere a patti con le regole della società.

Si faccia caso che la Nemirovsky è l'unica donna che ho messo in elenco. Ce ne sono altre, per esempio nella letteratura inglese e per l'Italia metterei la Deledda. Quel che capita leggendo questo libro è che, se strappassi la copertina e ve lo dessi dicendovi che l'autore è un maschio, non esitereste a credermi e accade non solo perché la voce narrante è maschile. Questo dimostra, secondo me, che la Nemirovsky ha condiviso nel suo io profondo questo nodo epocale. L'ispirazione spontanea, in lei si è fatta poi gestire da una capacità intellettuale eccellente che ha rivestito di una trama che stimo perfetta quella sensazione pulsante e viva, se non per un particolare del quale parlerò più avanti.

La domanda che mi sembra lecito persi è, come mai, una schiera di scrittori eccezionali, prima di lei, hanno preso a cuore questo tema. Sembra ovvio pensare che la libertà della donna debba stare a cuore … alle donne, o almeno, in quest'ottica ho l'impressione che sia sempre stato proposto.

Ma se “Anna Karenina” è stato scritto da Tolstoj, una spiegazione ci deve essere io penso di averla trovata …

Immaginate di dover quasi comperare una moglie. La società nella quale vivi non si interessa dell'affetto. L'unione vien decisa dai soldi, dalle parentele, dalla tradizione. Ed ecco che si ha la madre dei propri figli e, per qualcuno, l'amante fuori casa. E chi non desidererebbe che l'amante fosse anche la moglie! È vero che, come dice un detto, l'amore è eterno finché dura e che l'amore nel matrimonio si diluisce in abitudine per diventare amicizia, quindi sembra non offrire un finale migliore di un matrimonio diciamo “comperato”, ma iniziare con una persona per la quale non si prova quel sentimento mi sembra di una tristezza intollerabile.

Anna Karenina, per chi legge attualmente quel capolavoro, è l'ingiusta vittima di un sistema che non considera il sentimento. L'apparenza va salvata, lei non resiste e un treno la libera dall'angoscia assurda della sua non vita e chi ne parla è un Uomo con la U majuscola; Leone Tolstoj.

Tolstoy

Ma si osservi anche “Il Maestro e Margherita”! La base è una storia d'amore nata in clandestinità, fuori dalla norma sociale, che ottiene la possibilità di esistere da un certo Woland. 


Bulgakov

Perché affidarsi al diavolo? Perché egli, come tutte le creature, immaginarie o reali poco importa, esce dal seno della divinità quindi, anche se in modo indiretto “opera il male, ma per ottenere il bene” come ci disse Goethe.

E Kafka? Sembra che, come fanno gli intellettuali, si debba indagare sul rapporto che ebbe con Felice Bauer e che dopo vari fidanzamenti naufragò, ma nell'opera, e non nei diari e nelle lettere private, i segni sono forti e sufficienti. Come ho detto anche altrove, un'opera “vera” cammina da sé. Non ha bisogno di una versione universitaria di Novella duemila, ovvero nell'indagare nelle pieghe della vita privata! Accade il contrario, se si è validi nella interpretazione dell'opera, cioè essa ci mostra la realtà interiore di chi scrive, tralasciando quel che è secondario. Se ci limitiamo ad agire intuitivamente sulla sua opera, troveremo delle “cosucce” interessanti, ma che, a differenza di quel che dice la critica, non ha a che fare con Felice Bauer; quel dramma fra lei e Kafka, fatto di un fidanzamento pieno di incertezze e infine sciolto, conferma, a chi ha già capito dalla sua ultima storia d'amore e dall'influenza evidentissima che ebbe sulla sua opera, conferma, dicevo, che lasciarsi andare solo all'amore vero a costo di annichilirsi, era quel che nell'intimo di questo grande, stava accadendo. Proviamo a fissarci una data in testa, il luglio del 1923. Quella data è uno spartiacque fondamentale. Con la sorella si è recato al mare a Muritz, sul Baltico. Nella colonia ebraica dove è ospite per il pranzo, essendo lui vegetariano, lo invitano a recarsi in cucina per dire cosa intende farsi preparare. Scende le scale. Davanti a lui vede una ragazza che sta tagliando pezzi di carne. Non è stato notato poiché il lavoro è rumoroso e lei concentrata. Ad un certo punto lei “sente” quella presenza, alza lo sguardo e lui, un lui raffinatissimo che dimostra anche in queste poche parole quale tensione continua e profonda fu la sua esistenza, dice: “mani così belle sporche di sangue...”. Lei raccoglie le mani nel grembiule e scappa. Quel medesimo pomeriggio passeggiano sulla spiaggia e dopo poco tempo vanno a convivere a Berlino. Lei si chiama Dora Diamant, spesso erroneamente scritta Dora Dymant.

Dora

Io artista, a differenza di un intellettuale, semplicemente perché non dimentico mai che chi scrive è un uomo... leggendo l'opera completa di Kafka, mi ero reso conto che in alcuni racconti, la logica ferrea che sempre si dipana con fatica e che inizialmente sembra assurda e comunque sofferta, in alcuni casi era semplicemente struttura. La scrittura era allentata, il soggetto non era più un io. Ottima ancora la costruzione, sempre necessaria e sufficiente, ma ormai ridotta al rango di un gioco di un'abitudine che ha perso il suo senso, alleggerita dal problema che la guidava. Decisi di porre una barriera e di leggere le opere scritte dopo quel luglio 1923. Esiste la società, il mondo, non più l'angoscia. L'io si fa popolo, popolo ovviamente ebraico e, per esempio nel racconto “Giuseppina la cantante”, l'io individuale sparisce completamente e l'argomento diventa il mistero dell'arte, dell'arte per il suo popolo, dell'arte per gli ebrei, che anche se laica, si fa identità fondante.

Per Kafka, il problema, la vergogna, l'irrisolvibile, era quel sistema di vita che prevedeva che lui, ragazzo borghese benestante che girava in moto, giocava a tennis, si era laureato e quindi alla moda e appetibile, non potesse lasciar fare al sentimento.

Di Lawrence è il caso di parlare? Nella mente di chiunque lo ha letto egli è il principe dell'emancipazione erotica riuscita! 



Quel che a “Madame Bovary” non riuscì e finì in veleno, all'altra eroina accade e siamo tutti con lei consapevoli ora, nel 2013, che quell'esperienza, che all'epoca era avventura proibita, è giusto che si compia.


Forster
Di Edward Morgan Forster ho parlato in un altro post e l'affinità che posso mostrarvi si rivela nel nome del protagonista di questo libro della Nemirovsky: Sylvestre, ovvero del boschi. Abbreviato in Silvio e spesso paragonato a Pan, merita di essere accostato alla novella “Storia di un panico” che si trova nel volume “L'omnibus celeste”.

di Forster. Quella situazione diciamo folle, vissuta da un ragazzino oltre il resto svogliato all'ennesima potenza, non è diverso a quel richiamo del sangue che unisce Sylvestre a Helene nel romanzo della Nemirovsky.

Non trovate sorprendente che due autori distanti come stile di vita e cultura arrivino ad utilizzare addirittura la medesima immagine che si chiama Pan, con il suo carico simbolico vasto e chiaro? Una liberazione, un non resistere ad una compressione sociale, una reazione che sembra follia per l'epoca, ma che è la vita che canta se stessa. Nella medesima epoca l'argomento è trattato da James Stephens in due opere: La prima è “La pentola dell'oro”, che ho trattato in un post e che di Pan ce ne mostra due, quello del paganesimo irlandese e quello greco. La seconda opera di Stephens, affine per argomento, ma con un passo in più che è pieno di senso profondo, è “I semidei”. In questa storia, tre angeli scendono in terra e vagabondano in modo zingaresco con un anziano signore assai scaltro, il suo saggio asino, l'unico che ha una visione completa della realtà, e la figlia. Accade che uno degli angeli, quando è ora di tornare in cielo, rinuncia, e lo fa per amore della figlia del vecchio. Il senso è chiaro. Anche le regole divine soggiaciono ad eros...

Più difficile è cogliere l'affinità con questo tema in Simenon.



In futuro, quando ritrovo il libro più adatto per spiegarmi e che si intitola “Maigret e il barbone”, gli dedicherò un post. Quel piccolo libretto giallo è assai anarchico. Appare per un paio d'ore e poi se ne va e se non colgo l'attimo si fa desiderare per mesi. La prossima volta che lo prendo …. in Simenon, comunque, e direi in quasi tutta la sua opera, lo spirito vitale arriva a scardinare sistemi, situazioni costruite per essere tranquille, omologate, ma che non reggono proprio perché si dimenticano di quel “fuoco primordiale”...

La trama del libro merita di essere osservata con attenzione poiché, più che in altri testi, si “sente” il luogo dell'idea e come da essa, nata nell'anima, scaturisca la capacità ordinatrice che si fa trama.

Abbiamo delle coppie che definisco imperfette, e la loro imperfezione causa il dramma.

Helene, giovanissima, ha un amore condiviso e platonico che si fa promessa fra i due. Lui va a studiare poiché lei ha solo tredici anni, ma quando torna, è sposata. Non ha resistito alla matrigna che è insopportabile. Helene è figlia di primo letto di un padre che si è poi risposato e ha avuto una seconda figlia, Cecile, la sorellastra brutta e incapace di accasarsi. Helene, che ha sposato un notaio in pensione di quarant'anni più vecchio di lei, rivede il suo amore. Si promettono di nuovo, ma solo dopo che il marito è deceduto. Il promesso riparte e va in Bohemia a lavorare. Il marito si ammala e una lunga e fastidiosa malattia se lo porta via. Lei fa la brava infermiera e nel frattempo, come da accordo, mai si sente col promesso. Lo avviserà quando sarà vedova. Il sacrificio di Helene, nato dalla fretta di accasarsi per fuggire alla matrigna insopportabile, va in polvere davanti a Sylvestre, uomo inquieto che non accetta il paese d'origine e, guidato da una inquietudine che definisce “il calore del sangue”, gira per il mondo. A pagina 124 dell'edizione Adelphi, possiamo leggere quanto segue: “Mia madre sarebbe riuscita a tenermi con sé. Se solo mi avesse lasciato vivere come desideravo, di giorno nei boschi e la sera in sua compagnia. Ma naturalmente voleva che trovassi moglie. Nei nostri paesi i matrimoni si combinano nel corso di conviti solenni a cui sono invitate tutte le ragazze in età da marito. Gli uomini si presentano avendo ben chiaro il conteggio di doti e future eredità, come quando partecipa a un'asta conoscendo in anticipo il prezzo di vendita di ogni oggetto ...”

Ecco il luogo del ridicolo. Così ce lo mostra la Nemirovsky in un'epoca nella quale quella era ancora la prassi. Per sradicarla servirà un periodo che va dalla prima alla seconda guerra mondiale e che preferisco unire in un dramma unico che chiamerei la Grande guerra, mettendo come data 1914-1945. un evento continuo dal quale esce un mondo definitivamente cambiato. Veniamo ai fatti. Nella prima guerra, le donne vengono chiamate in fabbrica per aiutare la patria. Accade in tutta Europa. Terminata la guerra, le si ri vorrebbe in casa a fare la calza e allevare i figli, in un ruolo completamente subordinato ai mariti. La donna reagisce. Essa ha già degli avamposti emancipati, le grandi città ... e arriverà una Grande Virginia Woolf che con “Le tre ghinee” e aprirà letteralmente la testa al maschile... 



Arriva poi la grande crisi del '29 che licenzia tutti e poi la seconda fetta di guerra che di nuovo, quando conviene, non fa distinzione fra maschi e femmine che riesce a vedere ora solo come forza lavoro. Ma … lavoro è indipendenza! Chi lavora guadagna e chi guadagna può comperare quel che desidera. Se prima il maschio, comprava letteralmente la femmina, ora, dal secondo dopoguerra essendo lei indipendente, saranno altre leve che richiederanno di esser sollecitate ... i soldi non spariscono certo, ma se li si considera la causa primaria di una scelta , oggi, ammettiamolo, si è considerati volgari, quasi immorali.

Kafka conviveva con Dora. Ci si pensi. Nella cultura ebraica era letteralmente obbligatorio sposarsi! Ma anche per l'epoca, che era il primo quarto del '900 ... Ma lui convive. La prima guerra è terminata. Nel caos di Berlin, nel caos della povertà e della crisi economica, condizione che trasforma tutto in sopravvivenza e elimina tutto quel che è superfluo, convivere resistendo ai malumori della famiglia allargata, diventa possibile, in più, vivere a Berlin, lontano da Praha, lontano dagli occhi, diluisce l'imbarazzo già malridotto dalla crisi. Se l'unione si fosse realizzata in quel modo in un periodo di pace, senza baldacchino, che per la sinagoga sta per matrimonio, i famigliari, col burbero padre in testa, sarebbero andati a prenderlo e lo avrebbero costretto con la forza perché la vergogna sarebbe stata insopportabile. Incrinare la normalità. Ecco la colpa de “Il processo”. Lui, Franz kafka, mezzo ebreo, e mezzo occidentale, con il lato ebraico che inizia a dominarlo, sente di essere fuori dalla regola sociale che affianca a quella divina, ma accade che non sia il matrimonio l'incrinatura ... ma il saper amare! e Kafka medesimo lo comprende quando finalmente l'amore lo pervaderà, lo illuminerà, rendendo la sua vita non inutile per lui medesimo. Per noi fu un'esistenza grande e immenso è quel che ci ha lasciato, ma per lui, se la soluzione, se quel processo con una colpa data da un mondo che non si spiegava, che non sapeva e non poteva spiegarsi, se la soluzione non fosse arrivata, avrebbe concluso un'esistenza ben buia …

Nel testo della Nemirovsky, la scena delle promesse spose esposte ai pretendenti, accade due volte: la prima per volontà della madre di Sylvestre-Pan. Egli è promesso senza impegno a Cecile, la sorellastra di secondo letto di Helene, alla quale lo si vuole indirizzare, ma era presente anche quest'ultima... ora, si osservi quel nome, Elena. La letteratura antica la rese stupende e ambita. Rapita e involontaria madre di guerre e rabbie fra dei... nella scena delle pretendenti, è vestita di rosso, e anche questo non è un caso. Lei accompagna solo la sorella? No! Nel senso più profondo del termine, come Cecile, non ha ancora vissuto. Quel matrimonio col vecchio notaio, non ha intaccato il suo ruolo che viene percepito come eroticamente presente e vivo, come le altre donne presenti.

Abbiamo un'altra scena nella quale un uomo va dalla pretendente scelta dalla famiglia. In questo caso non si tratta di un branco di fanciulle e di una finta festa che di fatto è un mercato delle vergini. Abbiamo Francois, che si reca a casa di colei che gli vogliono “rifilare” … ed è sempre la povera Cecile. L'ambiente è immobile, mediocre, senza verve. Quando esce da quella casa vede una ragazzina che gioca nella neve. Ma lasciamo parlare il testo:

Vi racconterò il mio primo incontro con la mamma.....La ragazza, cioè la sorrellastra di vostra madre, mi era stata destinata in sposa …. entro dunque in quella casa trascinato dai miei genitori, mi avvio al matrimonio come un cane restio al guinzaglio. Ma mia madre, povera donna, teneva molto a sistemarmi, e a forza di suppliche aveva ottenuto quel colloquio che non mi impegnava in alcun modo, come si era affrettata a precisare. Entriamo. Immaginatevi il più severo, Il più freddo dei salotti di provincia. Sul caminetto c'erano due torciere in bronzo che raffiguravano le fiaccole dell'amore e che a ripensarci mi fanno inorridire ancora adesso … quelle fiamme gelide e immobili, nel salone dove non veniva mai acceso il fuoco, avevano un valore simbolico … cercai di abbreviare al massimo la visita. Quando finalmente uscimmo (frattanto aveva iniziato a nevicare) vidi i bambini che tornavano dalla scuola li vicino: in mezzo a loro correva e scivolava sulla neve una ragazzina allora tredicenne, ai piedi aveva un paio di grossi zoccoli di legno e sulle spalle una mantellina rossa. I capelli neri tutti scarmigliati, le guance scarlatte, la punta del naso e le ciglia cosparse di neve … gli altri ragazzini la inseguivano gettandole palle di neve sul collo. Si trovava a pochi passi da me, si voltò, raccolse un'intera manciata di neve e la gettò davanti a sé, ridendo; poi, giacché ne aveva uno zoccolo pieno, se lo tolse e restò in piedi sulla soglia di casa saltellando su una gamba sola, con i capelli neri che le cadevano sul viso. Dopo aver lasciato le due donne compassate e il loro gelido salotto, non avete idea di quanto quella bambina mi sembrasse viva e seducente.”

Questo brano è importantissimo. La ragazzina ha la mantellina e le guance, rosse. Nel momento culminante, quando eros scatta, anche nell'altro incontro, qualcosa di rosso è presente. Vedete, qui esiste una parte di calcolo, e la troviamo per esempio nella scelta di dire quel che in fondo il lettore accorto comprende da solo, ovvero che le due torciere che rappresentano la fiamma dell'amore, in quella stanza fredda, hanno un valore simbolico. Pensiamoci. Perché la Nemirovsky ha sottolineato quel che si dovrebbe comprendere con una certa immediatezza e che quindi non sembra necessario sottolineare? Esaminiamo il contesto: una figlia di Francois e Helene col fidanzato e gli altri figli presenti, hanno chiesto di sapere come fu quel primo incontro. Il padre racconta quindi a dei ragazzi. Ci sta che si sottolinei quel che è ovvio per un lettore. Nel raccontare oralmente, oltre il resto, ripetere le medesime parole non pesa come quando si scrive, e questo vale anche per i concetti. Abbiamo una prova quindi che l'autrice sta elaborando con intelligenza la trama. Essa però è tessuta con fili dettati dall'inconscio e sono fili rossi … la scelta del colore non è un atto intellettuale, come l'opposizione immobilità e dinamismo che pervade la scena della scelta.

Si passi al racconto “Storia di un panico” di E. M. Forster e si noterà che nuovamente il divario fra latenza e azione è enorme. Quel che accade in ambedue le opere, se avete la pazienza, come consiglio sempre, di rileggere, è che esiste un terzo tempo … mi spiego. Abbiamo l'immobilità di Cecile e dell'interno della casa, che fa da contraltare alla dinamicità in esterno con la nevicata e la piccola Helene che gioca, ma abbiamo anche il lento girare nel meccanismo sociale, di tutti gli altri che son sullo sfondo della scena! Passiamo al racconto di E. M. Forster e ri analizziamo: il ragazzo da ameba si fa iper attivo, ma non si muove in un mondo fermo. Esso si identifica nella lentezza del gruppo, che rappresenta la società che ha eliminato, Pan che equivale all'istinto vitale primigeno.

Fior di studi psicologici ci dimostrano che quando si seleziona il partner, molto del nostro agire ... ci agisce senza convocarci... lo sguardo seleziona i lineamenti non certo solo in base al canone estetico di moda! Ciò che esprime salute attira la vitalità! Ma non diciamo guarda com'è sana quella ragazza! Ed ecco quelle guance vermiglie di Helene.... che esprimono chiaramente una sana vitalità. Accade poi che l'olfatto sia diventato ormai quasi completamente ingestibile dalla mente razionale: esempio semplice: dialogate con una persona che vi piace. Siete in un luogo affollato e non vi è alcuna forma di contatto se non verbale e visiva. Una parte della selezione quindi ha promosso l'altro e scatta l'invito. Cenetta, passeggiata e poi il bacio... ma, in quel momento l'altro non è ancora promosso del tutto! Quel bacio è il primo contatto olfattivo! E infatti potrebbe accadere che l'indomani, quella persona che aveva affascinato gli occhi ed eventualmente le orecchie con il dialogo, non ha retto alla ormai inconscia prova olfattiva! Noi non sappiamo spiegare, ma l'attrazione si è spenta e se l'altro accennasse delle avances anche delicate, otterrebbe come reazione il disappunto. Sorridendo, vi dico che è quel che fanno i cani quando si annusano il sedere, solo che noi ci abbiamo messo un po' di civiltà in mezzo... Non si limitano a riconoscersi, si valutano, e può accadere che, se un odore è di molto cambiato, come accade con la malattia, il cane stenti a riconoscere l'altro. Il meccanismo si attua in tanti modi. Come spegnere gli ardori del marito che ha la moglie in dolce attesa? Essa emanerà un odore diverso da prima di essere fecondata. Un odore che inibisce, addormenta le velleità maschili....

Vedete ora come in quel brano è stato organizzato un materiale che appartiene al vero dell'inconscio? Questo fa il grande artista, e la Nemirovsky lo è con capacità e sottigliezza. Quel vermiglio delle guance, quel giocare allegro, prima che essere infanzia, è vita! L'inconscio offre il materiale e l'intelligenza lo organizza. Bach e Vivaldi ne sono due apici. E così tanti altri artisti. Aggiungo una considerazione “consigliatami” da Alberto Savinio. Con queste capacità possiamo parlare di genio? “il genio è una lunga pazienza”, disse appunto Savinio, e noi ora possiamo aggiungere che è una lunga pazienza che lavora sulle immagini dell'inconscio organizzandole con l'intelletto. La lunga pazienza serve come all'atleta l'allenamento. Tutto qui. Non staccare mai1 è fondamentale. È questo che fa sembrare l'artista uno stravagante a chi, lentamente, fa parte dello sfondo e vive secondo regole non comprese ma ereditate dal contesto e nel libro sono Cecile e Jean Dorin…

Di quest'opera della Nemirovsky potrei sezionare dell'altro. La sua abilità è anche commerciale. Si pensa che esista un enigma, ed è la coppia Helene-Sylvestre che scopriremo a poco a poco, ma sorprende veramente la paternità di Brigitte.

Possiamo aggiungere che i destini che non hanno rispettato Pan, pagano il conto. Lo paga Helene per non aver resistito alla matrigna, lo pagano Jean Dorin e Cecile, ambedue con la vita, uno morendo ucciso e l'altra non vivendo ... la vita.

Le due incarnazioni della Vitalità, Sylvestre e Marc Ohnet, vivono invece fino alla sazietà.

Può sembrare che stoni l'omicidio attuato da Marc Ahnet? Questo è un punto chiave che ritroviamo in Simenon e molto chiaro ne “Maigret e il barbone”. Ricordiamo che, sempre, l'istinto vitale elimina gli ostacoli che impediscono la sua realizzazione. Simenon ci mostra chiaramente che più su della legge scritta dagli uomini esiste quella della natura. Quando Maigret scopre chi ha ucciso, comprende che quel che è accaduto rispetta una legge appunto superiore. L'unico testimone il barbone, glielo fa capire, ed è per quello che non accetta di testimoniare. Quel padre padrone eliminato ha permesso la nascita di una famiglia e di un bambino, ha permesso alla vita di essere viva.

Helene che ha sbagliato, sposandosi per sfuggire alla matrigna insopportabile non ottiene il pieno premio dalla vita. Anche in questo la Nemirovsky è coerente. Quel Francois tanto atteso, è più un compagno, un amico. Il palpito, il grande momento è stato per lei una fiammata, non lo ha saputo cogliere. Per farlo avrebbe dovuto accettare di vivere fin dall'inizio per quella vitalità che aveva sacrificato sposando il vecchio.

Brigitte invece? Perché a lei spetta il dono di una vita viva e piena? Poiché non ha mai tradito quella vitalità. Era mal visto il suo agire libero, quando era sposata al vecchio contadino, ma lei quel matrimonio se l'era visto imporre, non lo ha certo cercato come Helene per fuggire a qualcosa. Se si pongono troppo sotto pressione le strutture sociali, queste crollano e si rimane in un deserto. E così lei, Brigitte, ha agito al limite, ma senza mai distruggere. Ballava con gli uomini, partecipava alla parte della festa destinata ai giovani, termine col quale si intendeva i non sposati, di nascosto vedeva l'amante … ha cercato di vivere, e mai ha tradito Pan. Quindi intuiamo che avrà il premio di una vita eroticamente completa.

E Marc Ohnet? Esiste un neo? Lui premiato? Lui che ha ucciso?... ha tradito Brigitte seducendo anche un'altra donna... Colette. Ebbene, l'istinto vitale puro non ha il senso del pudore e nemmeno divide l'agire in bene e male. Pan vive e basta e tutto in lui è vitalità. Anche Sylvestre ha avuto varie donne, anche se, sembra, non contemporaneamente. Sembra quasi che la Nemirovsky, sempre in modo inconscio … ci faccia sapere che, finché non si ama, anche la promiscuità sessuale, è possibile, e non sporca nulla. Il subconscio dunque, offre nozioni che probabilmente nemmeno chi le ha fatte emergere è in grado di comprendere completamente? La Nemirovsky ha dato la precedenza all'idea di rapporto uomo donna che deve nascere nel cuore e nell'erotismo, insieme. Altri messaggi non erano interni al tema che le stava a cuore e quindi non li ha trascurati. Semplicemente non erano funzionali a quanto le stava a cuore.

Un capolavoro. Non l'unico. Un altro libro si è nascosto in casa. Avrebbe avuto la precedenza, ma ho dovuto rinunciare: è “I cani e i Lupi”. Anche questo, quando la smetterà di farsi gioco di me e lo catturerò e lo spremerò in un post. Medito con il piacere della vendetta, la fine di questo “prendermi per il naso” che i libri, capaci di vita propria almeno nella mia casa, compressi nell'e-book, dovranno accettare. Da quella scatolina non scapperanno certo! Escogiteranno qualcos'altro? In fondo mi divertono anche per questa loro irriverente mobilità....

Dimenticavo. All'inizio dello scritto ho detto che c'è comunque qualcosa che, almeno per me stride: due personaggi muoiono. I due vecchi mariti. Io penso che la morte, dell'altro, quando la si vive da vicino, sia un'esperienza travolgente, irrazionale quanto l'influenza di Pan. Trovo coerente che in quel “momento”, col marito alla fine, Helene ceda. Funziona, ma penso che, chi ha visto un corpo deperire e spegnersi, oltre il resto di una persona, volente o nolente, nota, rimanga segnato in modo forte, e questo nella trama non lo “sento”. Questa notte ho meditato su una possibilità che darebbe la ragione alla Nemirovsky. Le donne hanno le chiavi della nascita e della fine. Noi uomini deragliamo davanti a questi momenti estremi. Per loro fanno parte della vita, per noi sono un mistero al quale sappiamo solo soccombere. Sì, questa notte ho pensato che il limite è mio. Irene, ha “guardato” da donna, quindi posso solo imparare.

Irina Nemirovskaja. Così si chiamava. Ne parlai con un'amica influente. “E' ucraina? Strano, mai sentita”

e ti dico che è un fenomeno. Decisamente da mettere accanto ai più grandi”

mi fa notare che il nome Irene in Ucraina e anche in Russia non usava”

un'eccezione non è possibile?”

no”.

Ero in disaccordo. Le mostrai i libri. Era esistita ed è veramente di valore.

com'è possibile che in Ukraina non sappiano chi è!”

L'amica apre la sua agendina che ha tentacoli fino in paradiso e alcuni all'inferno e chiama il ministro della cultura di quello stato. Non si arriva a nulla.

Poi, pensa un po' e decide che Irene doveva essere Irina. Mi dice anche che Nemirovsky, scritto così, è un cognome da uomo. Al femminile diventa Nemirovskaya.

Richiama il ministro e questa volta ha conferma. Esiste ed è stimata, ma il ministro non sapeva della grande fortuna che stava avendo in Europa. Tutto è partito dalla Francia nel 2004, con la scoperta di una “cosa” che sembrava un diario e invece era un romanzo incompiuto. Auschwitz, quella neritudine assurda, la ingoiò. Le figlie ereditarono una valigia. Il tempo fece il resto.

ciao




martedì 26 marzo 2013

Picasso; lettera dall'Aldilà


DALL'ALDILA’ 3(Picasso)



Picasso, ultimo autoritratto prima della fine

Ciao. Forse comprenderai chi sono durante la lettura di questa lettera. Forse no. Sono preparato anche a questo. Ma non temere. Sappi sin d’ora che non è colpa tua. Ci son cose che ora ti rivelerò. Cose che ti riguardano. Cose che deformano la realtà. Anche la mia.

Questa mail si cancellerà nel giro di poco tempo. Riuscirai a leggerla una sola volta e non è memorizzabile. Capirai poi perché. Ora vai avanti.

Il tuo tempo ha riordinato frammenti di passato secondo le sue esigenze pratiche e non secondo i fatti. Ma andiamo per ordine.

Chi sei tu.
Una persona che ha scelto di comprendere la storia dell’arte e che forse, senza l’aiuto di queste parole, proseguirà su binari un po’ rigidi.

Sappi comunque, che non sai bene cosa sia l’arte. Ne hai un’idea vaga, un guazzabuglio di sensazioni rivestite di romantiche possibilità per il futuro, ammantate di successo. Pensi ancora con indecisione a due ruoli: il critico d’arte o l’artista e non ti decidi. Sappi che Alberto Savinio disse che nessuno ha mai fatto un monumento ad un critico. Penso che dopo tanti anni quelle parole colgano ancora nel segno. Chi è il critico? Colui che, esprimendosi in universitese, linguaggio artificioso e barocco, se ben pagato, parla bene di un artista vivente. Se tratta di un artista deceduto, ovvero di uno come me, che non può più difendersi, ecco che il suo intento diventa scoprire qualcosa di nuovo e se non lo trova inventa. Deve far carriera e per questo ingrato scopo, i fatti realmente accaduti spesso non aiutano perché sono scarni, poveri oppure rivelano aspetti che non si è più abituati a valorizzare e quindi, si inventa.

La mia storia ne è un esempio.

Essere artisti invece ti sembra qualcosa che purtroppo non è. La parola chiave ormai è business. In più deve esistere sempre una capacità di stupire e la disponibilità di lasciar vedere ai critici e ai docenti universitari, che troppo spesso son la medesima persona, quel che vogliono, poiché l’importante è semplicemente che dell’artista si parli.

Ti lascerò nel dubbio. Non oso consigliarti una via o l’altra. Quel che ti chiedo è di non pensare solo a te stesso in qualsiasi caso e di ricordare che le parole, oppure l’opera, ti sopravvivranno e riveleranno prima o poi il tuo vero valore.

Ricorda sempre quando soppesi un’opera, che stai facendo un’operazione che serve prima di tutto a te in quanto essere umano. Se essa diviene immediatamente merce e strumento per l’affermazione economica e professionale, l’uomo che in te dovrebbe crescere sarà irrimediabilmente perduto.

Pensa ora a un pianista. Egli è l’interprete del pensiero di un grande compositore. È il medesimo ruolo che dovresti tentare di realizzare se decidessi di diventare un critico e ricorda che il pianista mai giudica. Non ha senso comunque, essere come quei pianisti tecnicamente perfetti che sono in grado di accelerare tutto in semibiscrome trasformando un parto della sensibilità in gesto atletico. Quanti ne ho sentiti! Ci sta dimostrare al mondo che si sa “fare”, l’ho fatto anch’io, ma poi è importante dare un senso alle cose della vita.

Fu il caso mio. Ho ricordi vaghi. Qui nel regno dei morti il senso del tempo cambia pian piano. Immagina di essere al centro di te stesso e che ogni attimo del tuo passato ti sia equidistante. Io un ricordo che si sgrana come le perle di un rosario, ce l’ho ancora, e il motivo è per me assai triste. Sono a ridosso della porta dell’inferno. Davanti ai miei occhi campeggia la scritta che ben conosci.

PER ME SI VA NE LA CITTA’ DOLENTE

PER ME SI VA NE L’ETTERNO DOLORE

PER ME SI VA TRA LA PERDUTA GENTE

GIUSTIZIA MOSSE IL MIO ALTO FATTORE

LA DIVIVA PODESTATE

LA SOMMA SAPIENZA E ‘L PRIMO AMORE

DINNANZI A ME NON FUOR COSE CREATE

SE NON ETTERNE, E IO ETTERNA DURO


LASCIATE OGNE SPERANZA O VOI CH’INTRATE”


Non son certo sai, che questo sia il luogo che mi spetti.

Non ho il coraggio d’entrare. Dietro di me il limbo. Passano spesso gli ignavi. Ho chiesto per curiosità se fra essi vi è Pietro da Morrone. Non c’è.
Questa scoperta è stata per me un sollievo. Vuol dire che il timore che mi attende oltre quella porta è, almeno in qualcosa, diverso da quel che ci fu descritto. Se Celestino non corre dietro al vessillo fra l’ignobile, vastissima schiera, allora forse, si, forse, non esiste nemmeno il girone che dovrebbe fagocitarmi.
Non basta comunque questa scoperta per raccogliere sufficiente coraggio e decidere di entrare. Ho paura. E non è vero sai, come è stato raccontato, che in noi venga infusa una smania di giungere al luogo dell’espiazione o della grazia.

Semplicemente ti ritrovi qui e devi decidere. Se hai la sensazione di essere colpevole ti avvii verso il luogo che pensi sia il tuo. E spesso, come nel caso mio, si approda ad un tergiversare che non si esprime in giorni, mesi, anni, decenni, secoli o millenni ma sembra comunque infinito e forse, è anche questa una forma della pena. Te l’ho accennato. Ogni momento del tempo è ora equidistante da quel che sei e quel che sei lo devi comprendere, non puoi non farlo, poiché si pensa di essere sempre qualcosa di diverso da quel che si è realmente, profondamente. Solo i grandi, i grandissimi artisti, son sempre quel che sembrano ma purtroppo, e contro il loro desiderio, lo sono solo davanti a se stessi. Davanti al mondo sono, proprio per questo, incomprensibili, folli, giusti rinnegati, temuti da ogni comunità, esiliati ovunque. Qui comunque, a differenza della vita, la finzione non dura. La maschera cade e questa è secondo me l’unica vera differenza fra la vita e la morte perché nemmeno il tempo, quando sei in vita, se sei te stesso fino in fondo, saprà sfiorarti e quel che farai sarà eterno.

Davanti alla Legge, scrisse Kafka. Ed eccola la porta. Ma non c’è nessun guardiano che ti spinge dentro o che risponda alla tua domanda, come accade nel suo racconto, dicendo che non è il momento. Accade la cosa più grande e temibile. Come ti ho detto, sarai tu stesso a giudicarti e avrai intorno a te tutta la vita passata, equidistante appunto e minuziosa, nitida.

Prima o poi dovrò decidermi ma per ora, con quest’attesa cerco di comprendere con ansia, quel che devo fare. Forse, per quel che ho sofferto, anche se in uggia alla morale della mia epoca, merito la grazia.

Perché ti scrivo dunque. Per consegnarti una vita tribolata che nessuno dei tuoi critici oppure, più freddamente, dei tuoi libri, ti ha nemmeno minimamente rivelato. Che bello sarebbe se tu decidessi di osservare “l’opera” senza farti influenzare! Fornisciti pure di notizie del suo tempo. Letteratura. La grande musica. Respira il suo mondo anche con gesti apparentemente banali come il ricercare, della mia epoca per esempio, gli oggetti. Solo così, libero di inoltrarti, avrai la possibilità di comprendere qualcosa.
La certezza mai.
Ricorda che a Celan, un pur valido autore italiano, contestò il fatto che la sua poesia era troppo incomprensibile. Egli, che soffrì l’inenarrabile durante la seconda grande guerra, si nascondeva anche nel linguaggio per sentirsi al sicuro. Il suo capolavoro fu quel fare capolino di rado, perseguitato da quella necessità di nascondersi che si realizzò completa nel gesto estremo di gettarsi da un ponte a Parigi. il massimo del nascondimento dalla vita. la morte.

Ora inizio con la mia storia. I fatti salienti son brevi. Era l’inizio del novecento. Con una persona mi mossi in direzione della straniera Francia. Se non ricordo male era il mio terzo viaggio nella capitale fantastica e questa volta avevo l’intenzione rimanere. Esattamente a Montmarte. Sia lui che io eravamo pittori. Montmarte era un poco il luogo della possibilità nella più totale assenza di regole. Era come il mito del Pugilato negli Stati Uniti. Potevi essere l’ultimo, ma con tenacia e qualche dono di natura, potevi emergere. E il dono di natura io l’avevo. Dipinsi più o meno a quattordici anni due ritratti. Uno di mio padre e uno di mia madre. La qualità era eccelsa. Ero quindi sicuro di me, spavaldo, forte. Una cosa però non andava bene. Il mio amico e io ci amavamo. Si. Hai capito. Ci amavamo. Giunti a Montmartre io non ebbi il coraggio di portare avanti la relazione. Mi rendevo conto che si trattava di un ambiente che ostentava virilità in tutti i modi. Il nobile o il ricco potevano essere quel che volevano. L’artista anche, ma di nascosto o per finta e con cautela e io, eccitato dal mio talento, volli rispettare forse troppe regole per assecondarlo. Le regole comunque, credute dal mio tempo. Son tante le fandonie su quel periodo. Quella che in fondo io stesso ho contribuito a creare intorno alla mia immagine, è forse la più grande poiché io ero il più grande.

Vi insegnano che Amedeo Modigliani si invaghì dell’arte africana. Sbagliato. Era l’arte egiziana che poteva vedere al Louvre. Era sempre solo. Squinternato, elegante, fantastico e autodistruttivo.

Torniamo a me. Dissi col mio compagno che si doveva nascondere il nostro rapporto. Non ci riusciva. Me ne tornai infuriato a casa. Lui rimase, angosciato dalla mia scelta. Tentò di andare a letto con una mia ex finta fiamma, per dimostrarmi forse un poco di buona volontà, ma non riuscì. Si sparò un colpo alla tempia in un caffè davanti ad amici comuni. Venni a sapere del fatto. Ora la mia rabbia si mutò in angoscia ed era la sua che, uscita dal suo corpo venne a cercarmi e mi trovò nella mia lontana città, nel momento esatto che le parole nella quale si era insinuata, mi raggiunsero raccontando quel gesto. Lo dipinsi con una candela di fianco, sul letto di morte e la tempia oltraggiata. Lo dipinsi mentre ascendeva al cielo seguito dagli angeli e arrivai a Parigi morto a me stesso, arrabbiato col mondo, incontenibile, capace di insultare e tradire tutto e tutti. Esplosi. Finii in una clinica per malattie veneree e, consapevole di cosa mi attendeva in fondo a quella pazzia se avessi perseverato, mi fermai. Osservai le mie mani, il mio volto interiore stravolto e dipinsi la solitudine che mi attanagliava. Pian piano tornai alla vita, quella esteriore. Quella interiore non ebbi più nemmeno il coraggio di sfiorarla. Si trattava di uno scrigno nero che quando inavvertitamente aprivo, mi offriva lo sguardo della persona che avevo annientato e che, ora ne ero certo, mi aveva veramente amato.

Vedi. Ho compreso ora che l’importante è amare. Disquisire sugli aspetti corporali di questo sentimento è decisamente ininfluente. Il corpo ha una sua natura che non si può contraddire. Se ci provi hai perso. I suoi urli ti assorderanno e se riesci a costringerti fino in fondo ad apparenze che non ti corrispondono, diventi mostruoso, elegante, forse di giorno, ma con uno sguardo strano e nelle notti della mente, feroce con chi ti ritrovi vicino.

Io invece, che possedevo quello scrigno che conteneva un simile sguardo, che è ben oltre qualsiasi sensazione di colpa, iniziai a dipingere in modo solo tecnico. Il corpo lo destrutturavo, lo deformavo in tutti i modi possibili e mi rendevo conto che per quanto lo massacrassi, si riconosceva sempre che di un corpo si trattava. L’anima nemmeno mi azzardavo ad immaginarla. Se facevo un volto esso mi riusciva perché lo concepivo come una maschera, anzi, come la deformazione di una maschera. Le donne poi. Ritraevo la medesima più volte nel tempo e da un ritratto abbastanza riconoscibile, passavo a destrutturare fino all’esasperazione. Un’esasperazione che ricevette il dono di un senso da parte dei critici ai quali lasciai fare il loro lavoro nascondendomi, quasi con gratitudine, dietro quel colossale muro di parole. Ho poi avuto donne. Ho figliato. Ho creato il mito dell’artista eroticamente insaziabile. Per me le figure femminili che producevo, però non erano “la donna”, ma qualcos’altro che sta a te ora comprendere. Mi rendevo conto comunque che, in certo qual modo, con i miei silenzi, collaboravo al fraintendimento. Il mio corpo reclamò comunque la sua vitalità e chi mi conosceva sapeva, ma ormai si era giunti ad un punto di non ritorno. La mia immagine commerciale aveva certe caratteristiche e non andava modificata. Rendevo tanto. Troppo. Chi minimamente aveva a che fare con me, si arricchiva. Pensa che ci fu un artistucolo che si vantò per anni di essere mio amico. Ad ogni inaugurazione, annunciava la mia presenza e poi si autoinviava un telegramma nel quale giustificavo in qualche modo la mia ovvia assenza. Lo seppi e sorrisi di questa bassa scaltrezza per riuscire a campare con poca fatica.
Ai mendicanti diedi spesso un mio scarabocchio su un pezzo di carta. Lo firmavo e per loro era come aver vinto alla lotteria.

Divenni vecchio e, come scrisse il grande argentino, “morto l’animale, o quasi è morto, restano l’uomo e l’anima”. Rimasi con me stesso accuratamente rinchiuso nel castello della fama, con una ricchezza sbalorditiva che mi era indifferente. In quella solitudine trovai la calma necessaria per aprire lo scrigno e dialogare con quello sguardo che mi scaldò dopo tanti anni, col suo disperato, sincero affetto. Eravamo finalmente rimasti solo lui e io e sappi che solo chi ama ha veramente vissuto e in tarda età, alle soglie dell’abisso, rigorosamente rinserrato in me stesso, l’ho contraccambiato.

Ora sono qui, davanti alla Legge. Pietro da Morrone non era nella schiera e forse, deduco. non esiste il girone che mi fa penare. Forse chi ama con tutto se stesso non rientra in quella categoria. Ho una speranza, ma per ora mi manca il coraggio.

Questa, caro ragazzo è la mia storia.
Questa è la storia di Pablo Ruiz Picasso .


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Quel che questa finzione rivela … è vero. Fin da ragazzo ero affascinato dal periodo blu e studiai accuratamente la vita di Picasso dalla nascita fino al 1906-7.
in me, in un'età nella quale l'amore era ancora disgiunto dagli ormoni, ero un bambino … e quindi anche l'omosessualità era men che irreale, in me dicevo, era comunque diventato chiaro un fatto. A Picasso era capitato qualcosa di brutto. Non era possibile che dopo l'apice toccato a soli 14 anni con i ritratti al padre e alla madre (eccoli)....




 la scoperta di Parigi e di Lautrec(ecco un'opera che ne dimostra l'influenza...);



 improvvisamente, fossero apparse quelle figure cosi sofferenti, dolorose e rassegnate. E poi crebbi, scoprii l'amore anche carnale, e mi resi conto che esistevano gli omosessuali. Io avevo altri gusti, ma “loro” erano di solito intelligenti, originali e quant'altro, quindi non li evitavo. Sicuramente con un gay, usiamo un termine più aggiornato, è abbastanza inverosimile che si parli per esempio di calcio... capita poi che il mondo dell'arte e dello spettacolo ne vanti una folta schiera, in parte nascosta, e in parte, ormai dichiarata e tranquilla. Negli anni novanta del novecento, dichiararsi gay era ancora un rischio, un'avventura con conseguenze sgradevoli, delle quali, una parziale emarginazione, era sempre il minimo garantito. Per me, allora come ora, quel che una persona fa del suo corpo, non interessava. Erano e sono affari suoi. Mi fa ridere di amarezza questa attenzione sulla sessualità dei politici, per esempio. Essa rappresenta la morbosità del pubblico che così trova sfogo, non quella del politico … e pensare che esiste il mondo dello spettacolo che ha il compito ormai istituzionalizzato, di render nota la vita privata e “scaricare” così le pubbliche, e mai ammesse tendenze, al morboso che in ogni epoca assumono aspetti suoi caratteristici.
Fu una intuizione quella che ebbi su Picasso. Lui che torna a Barcelona dopo essere arrivato a Parigi, con Casagemas.







Casagemas che si spara in un bar davanti agli amici dopo aver tentato di avere una relazione con una ragazza nel 1901. Picasso lo viene a sapere e fa le prime opere blu, a Barcelona, sulla sua morte. Arriva a Parigi, vive al limite della maleducazione, della scorrettezza, come impazzito. Eccede in tutto eccetera. Pian piano questa visione prende forma e scopro altri possibili tasselli interessanti. Poi capita che per un po' di tempo vivo a Milano e conosco, fra gli altri, anche Franco Passoni, che di Picasso fu amico.

Mi stima da subito e dopo alcuni incontri al Jiamaica (ecco in foto il locale, tuttore esistente, in via Brera 32 a Milano. Quì passò un'epoca di arte, per esempio, Savinio, Quasimodo, Buzzati eccetera e ciarlatani a migliaia...)




e ad inaugurazioni, mi invita a cena da lui. Ricordo ancora, spaghetti tonno e pomodoro come primo. C'era lui, la moglie e i figli Matteo e Vanessa. Si chiacchiera e poi Franco e io andiamo in salotto. Mi mostra alcuni “pezzi” della sua collezione, spesso astratti e per me un po' insipidi e serenamente glielo dico. Apprezza e poi … aggiungo che avrei da fargli una domanda su Picasso. Sapevo già che aveva lavorato con lui. Non si erano solo frequentati per dovere. Si era anche instaurato un rapporto di stima.
La domanda la feci e lui mi stupì con la sua risposta.
Picasso era gay?”
Si”
allora potrebbe essere giusto quel che ho pensato delle sue opere dei primi del novecento!”
ma cosa c'entra il fatto che fosse gay!”
Ero sbalordito. La sua opera era quindi stata studiata senza tenere conto di questo dato? Ma l'opera è il riflesso dell'esistenza! La borghesia fu ed è il livello più basso dell'atteggiamento, del mascheramento, ma raramente un giovane è borghese e Picasso era giovane, allora .... Mostrare ciò che si vorrebbe essere e non quel che si è, questo è il borghese che si specchia nei quadri di Boldini, per esempio. Ma coi primi del novecento, esattamente un po' prima, con Goya, il rapporto con l'io interiore, con la propria vita, si fece fondamentale. Le crisi di Munch, quelle di Balthus, e Sironi e Campigli! Solo per dirne alcuni!
Sfogliammo un catalogo di Campigli e egli feci notare che spesso c'era una tela nella quale spicca di solito, una coppia di donne, che sian sole, o fra la folla, uniche visibilmente in relazione, o anche in casa. Non capiva. Per lui Campigli era solo l'evoluzione riuscita di una tecnica!







Gli dissi che nei diari, Campigli raccontava che, quando era bambino, desiderava l'affetto della madre che era bellissima e la vedeva che si preparava per uscire. Lui si struggeva. Sperava di poter passeggiare al suo fianco, e invece, sempre, veniva un'amica e lui rimaneva in casa. Quel magone, lo ha ripetuto molte volte nella sua opera, poiché sempre tornava a galla. Tornò anche con la moglie, che si preparò, uscì con l'amica, e lui si sentì di nuovo, da adulto, come quel bambino fragile che fu! In più si deve tener conto che lo “passavano” per nipote e non figlio di …. cotanta madre … Come non tenere conto di questi dati per comprendere dei quadri che dimostrano la convivenza e non il superamento con un trauma! Se si ignorano queste considerazioni, le opere di Campigli risultano solo variazioni carine fatte su una celebre statuetta fenicia! Mai la tecnica non esaurisce il valore di un artista e se accade, o si tratta di mascheramento o di truffa. Accadde a Picasso dal cubismo in poi, e ritroviamo una situazione simile, anche se per altri motivi per esempio nella poesia di Celan,



 per il quale il mascheramento consisteva nell'ultima difesa espressa col rendersi incomprensibile, nascosto anche dietro al verso. Si tratta altrimenti di truffa, spesso inconsapevole attuata da un intellettuale che gioca a far l'artista. Dico che l'atto può essere inconsapevole poiché l'indottrinamento scolastico e commerciale, offre valori nei quali, ovviamente, all'inizio si crede e non si può fare diversamente. Se ci insegnano che si va in montagna con le pantofole, la prima volta le metteremo, è ovvio; si tratta delle uniche informazioni che abbiamo e vanno usate. Quando si torna dalla prima incursione, se non si mettono in discussione le pantofole e non si inizia a cercare … allora si ha un intellettuale che gioca a fare l'artista. Un alpinista in pantofole che si sente pure a posto col mondo, e ridicolizza colui che ha deciso, da solo che son meglio gli scarponi, poiché … non rispetta la tradizione, gli insegnamenti!
Deve accadere che una volta “provate” quelle prime esperienze indotte, ci si deve rendere conto che l'arte va oltre e che non la insegna la scuola perché non si tratta di un insieme di nozioni sistematizzabili e uguali per tutti. In più si tratta di un qualcosa che deve a ciò che è esterno da noi, solo una parte dell'alchimia, il resto si innesca in noi e il codice segreto per aprire, svelare l'io è diverso per tutti e incomunicabile. Si può solo trasmettere la fiducia nella possibilità e invitare ad una coscienza critica libera.
Passoni era sbalordito. Gli spiegai che secondo me lui e la sua generazione si erano concentrati troppo sulla tecnica e aveva prodotto intellettuali in grado di spaccare il capello in quattro, ma …. cosa me ne faccio di quarti di capelli? Nulla o quasi. Una parte vale, l'eccessiva minuzia, diventa ridicolo.
Rilessi i quadri di Picasso secondo la mia ottica e mi disse che era vero, mi rivelò anche di qualche altra “avventura” del Picasso ormai famoso, quando ormai si mascherava. Quando nella sua sofferta pittura appare l'arlecchino, figura compresa osservando e dipingendo i personaggi del circo Medrano, è perché nella sua mente è nata la soluzione. Picasso non può essere liberamente se stesso. Si deve mascherare.....



E ci riesce benissimo. L'immagine sarà quella del caliente donnaiolo spagnolo. Si sposa varie volte, ma le mogli, quando le ritrae, le prime volte le fa belle, e poi le scompone fino alla follia, perché per lui non son l'oggetto del desiderio, ma del mascheramento!
Passoni mi ascoltò con attenzione e poi mi chiese che effetto gli faceva la sua generazione. Gli dissi, “colti, spesso sinceri, ma troppo legati, inconsapevolmente, al pensiero positivista. Ecco perché l'arte è diventata per voi solo tecnica!”
e con la destra indicai una tela di Piero Dorazio ( ecco una sua opera)



 facendogli presente che conteneva a fatica un uno per cento di anima e io di anima avevo bisogno.
Mi chiese di Sebastian Matta, che da poco avevamo conosciuto. Gli dissi che il suo capolavoro era la figlia …




e poi l'opera che non era male, ed ecco a voi qui sopra un suo quadro. Era viva. Lui aveva accettato la regola del mercato che ti vuole immediatamente riconoscibile, e un Matta, come un Burri, o un Fontana era immediatamente identificabile. Ma a differenza degli altri due, era caldo, vivo. Scherzammo un poco su Burri, fascistone irredento e con le donne in odio, e poi mi disse, che forse la sua generazione poteva morire lasciando ben poco di buono. Gli dissi no! “gente come te e Sanesi, per esempio, siete comunque stati sinceri. Avete creduto in quel che avete fatto e detto e scritto. È lo schiavo del mercante, che utilizza la mentalità scientifica per giustificare con un linguaggio forbito qualsiasi corbelleria, è lui che non sopporto, e ce ne sono alcuni che hanno la mia età ...”

Non solo questo aspetto mi era d'ostacolo, ma con persone aperte come lui ne potevo parlare. Ricordo quando Alessandro Quasimodo (ecco la sua immagine. ottimo attore particolarmente per il teatro greco e .... quando legge le mie cose...ha una voce così calda e profonda da rendere belle anche le banalità che qualcuno tenta di proporgli...),



 mi portò a visitare l'appartamento di suo padre, il Nobel, in via Garibaldi, sempre a Milano. Sopra al letto c'era un autografo grandissimo di Gabriele d'Annunzio... era presente la poetessa Vittoria Palazzo che mi invitò a non meravigliarmi …

ecco Vittoria, buona poetessa e importante per la poesia. sapeva essere amica di personaggi assai difficili, da Fontana a Quasimodo a Sartre ecc.


...per quanto si fosse già negli anni novanta, non si poteva parlare di queste cose ...politica. E mi disse che lei, e Salvatore, che fu suo amico per anni, e non solo loro due, stimavano tanto l'opera del pescarese.

Quante “cose” strane, per un essere come me … a loro sembravo nato in una stanza senza finestre sul mondo e con a disposizione solo una luce e dei libri … Vittoria me lo disse, e questo li divertiva e spaventava, perché con due parole, scompariva qualcosa nel quale avevano creduto per una vita e dopo non aveva più il senso di prima. Vittoria mi disse. Hai ucciso Emilio Vedova.



Per me era quasi un genio, ora è solo il ricordo di un amico. Le dissi che non era poco e che forse da quello doveva partire per comprenderlo, se mai in Vedova esiste qualcosa da capire....

E comunque Picasso fu letto da allora, da quella cerchia di amici, tutti moooolto più vecchi di me eccetto Alessandro Quasimodo, come se, finalmente, avesse avuto un'anima, anima che, dicevo, è colei che fa le scelte grandi per i grandi artisti.

Alan Turing, ecco la sua immagine,



considerato il padre dell'informatica, per omosessualità, per vergogna di questa, si suicidò nel 1954, se non ricordo male. In letteratura grazie prima a Gide e poi a Proust e alla Yourcenar, senza dimenticare Mishima, il tabù si iniziò ad affrontarlo, prima con sorrisini sarcastici e poi sempre più con correttezza. Cosa poteva fare Picasso nei primi del novecento in una Montmartre di popolo e donnaioli Qualcuno era si come lui, ma la vita non era assolutamente semplice. Max Jacob ne fu un esempio. ecco la sua immagine:



 Non ci si deve meravigliare se Picasso decise, dopo il dolore enorme causato dalla fine di Casagemas, di mettersi una maschera. Ci son persone tuttora, nel mondo dello spettacolo che continuano a non avere il coraggio di viversela liberamente! Non li critico, anzi, li capisco. Le paure sono in grado di condizionare l'esistenza. Ma quando questa scelta viene sentita come obbligata da un grandissimo come Picasso, mi sembra ovvio che la sua opera ne risenta, ne sia condizionata e caratterizzata.

Siamo nel 2013. mi auguro che ognuno possa fare della sua vita quel che desidera. Esiste solo un limite, quando il nostro agire fa soffrire qualcun altro. Dobbiamo rispettare la libertà degli altri in generale, e la sensibilità di chi amiamo in particolare. Lasciarsi amare è più facile, secondo me, di amare. Lasciarsi amare è prendere. Amare spesso è rinuncia. Io credo che molte persone gay si nascondano tuttora non per timore dell'opinione pubblica, ma di un padre, di una madre o un figlio, e questo ostacolo che sentono insuperabile diventa maschera, la loro vita diventa una continua recita. Immaginate ora un Picasso che ha un morto nel cuore, un morto che amava e che ha portato all'esasperazione negando ciò che già era …

ed ecco che nasce il periodo blu, il capolavoro del novecento.