lunedì 20 gennaio 2014

Le bugie della storia: La prima grande guerra e Waterloo


Quanto espongo è reperibile nel volume “Il secolo americano” edito Adelphi 1996 in Italia, e Grasset e Frasquelle, Francia, 1996.



Alvi fu segretario, presso la BRI (Banca Regolamenti Internazionali) di Ginevra, di Paolo Baffi quando questi era Governatore della Banca d’Italia. Questo istituto di consultazione internazionale, disponeva di una biblioteca notevole e accessibile, rigorosamente, solo agli addetti ai lavori. In essa la storia economica era oggettiva senza ombra di dubbio e quotidiani e enti simili, assolutamente non vi avevano accesso. Ebbene, Alvi ci racconta che, con il consenso burbero, ma solo in apparenza, che sempre si stemperava in un sorriso furbamente accondiscendente, Paolo Baffi, lasciava che facesse ricerche libere, e di esse poi dialogavano. Il libro rappresenta un ricordo dei fatti “scovati”.

Veniamo al dato storico. Lo spiegherò in modo breve per evidenziare la crudezza del contenuto. La Prima Guerra Mondiale è l’argomento che si analizza. Porterò alcuni brani direttamente dal testo (Alvi – Il secolo americano – ed. Adelphi -):

“Dal tesoro di Sua Maestà dipendeva la sorte economica dell’Intesa.” (p.19)

Ammissione del segretario al Tesori di Washington: “Per mantenere la nostra prosperità dobbiamo finanziarla, se no terminerà, e sarebbe un disastro.” (p.21)

“Una Inghilterra estenuata e senile, che dipendeva ormai tutta dalle energie venali d’oltreoceano.” (P.23)

“Entro il marzo del ’17 i titoli e l’oro per pagare le importazioni dagli Stati Uniti, sarebbero, questa volta, davvero finiti.” (p.24) (soldi, aggiungiamo noi, che servivano per sovvenzionare la costosissima guerra)

“Da una breve lettera del governatore della Federal Reserve di Washington; = Non posso sfuggire alla conclusione che gli Stati Uniti hanno in loro potere di abbreviare la guerra a seconda dell’attitudine che assumono in quanto banchieri =. Vi si aggiungeva poi che gli acquisti alleati e i prestiti che li finanziavano generavano inflazione; e dunque non si poteva ancora per molto assecondare l’Intesa.” (p.25)

“La banca Morgan era dal 15 gennaio 1915 l’agente degli acquisti di guerra inglesi negli Stati Uniti. Sommandosi all’incarico di agente finanziario del Tesoro inglese, quest’ultima esclusiva aveva mutato la Morgan and co. di New York in un ministero de facto del governo di Sua Maestà. … E coordinava di fatto tutte le operazioni inglesi a Wall Street.” (P.27)

John Pierpont Morgan Junior, era più ricco dello stato, gli USA, del quale era cittadino.



Non era l’Unico, Rockfeller, Vanderbildt sono altre due “Casate” altrettanto capaci. L’intesa non poteva chiedere prestiti allo stato americano poiché esso si era dichiarato neutrale e si asteneva da ugni investimento che incentivava la battaglia in corso. Il presidente Wilson, quando si rese conto che L’intesa si rivolse al più potente e spregiudicato banchiere americano, fece notare che quell’azione era in contrasto con la linea intrapresa dallo stato, ma lui era il meno potente …

“… dei molti libri dedicati, fra le due guerre, dagli storici americani, alla fine della neutralità del ’17. Sbrigativi, essi attribuivano ai banchieri di Wall Street e al tornaconto degli Stati Uniti, la prima causa della dichiarazione di guerra. Le ricerche minutissime negli archivi non hanno aggiunto da allora novità eclatanti; eppure adesso questa spiegazione è dimenticata, talora citata per essere troppo ingenua.” (p.33)

Scrittura privata del consigliere Robert Lansing indirizzata al presidente Wilson databile alla metà del ’15: “Alla Germania non deve essere concesso di vincere la guerra … questa necessità basilare dobbiamo sempre tenerla a mente … La pubblica opinione americana deve venir preparata, per il momento, che potrebbe venire, in cui dovremo disfarci della neutralità …”

Lettera di Wilson al colonnello House: “ A guerra finita possiamo costringerli al nostro modo di pensare.” (P.40) (soggetto, la Gran Bretagna, e per esteso, l’Intesa)

Questo frammento estrapolato dalla missiva rivela il ruolo di completa subalternità economica che giocheranno vari stati europei al termine della prima grande guerra, diventando di fatto mercati della merce americana e senza la possibilità di deciderne il prezzo che veniva gonfiato.

Bene. Anzi, male. Prendiamo un libro qualsiasi di storia della scuola secondaria in Italia, oppure del medesimo ciclo di studi in un qualsiasi stato europeo e di queste notizie, di questi dati oggettivi, non troveremo traccia. E si può uscire da un corso di laurea in storia contemporanea alla Sorbona, come ad Halle o a Bologna, rimanendo vergini completamente, di questa verità storica. Questa visione distorta, deviata, mondata che viene offerta, delle responsabilità di quell’epoca, ci porta a percepire il ruolo negativo dell’alta finanza, nella crisi in atto, come un evento nuovo. La percezione di una continuità nelle speculazioni negli ultimi due secoli e mezzo, che oserei definire selvaticamente amorali, dell’alta finanza, sarebbe assai utile al cittadino-utente attuale per porsi poi un quesito che consideriamo irrinunciabile e per il quale umilmente ammettiamo di non avere risposta: “La democrazia dal primo dopoguerra in poi è stata suddita dell’alta finanza. Attualmente la situazione non sembra cambiata e in quel scivoloso diaframma che vediamo fra le leggi transnazionali e quelle statali, sentiamo passare opzioni che rappresentano interessi che non si curano del benessere del cittadino. Come pensa la democrazia di riuscire a fare i conti, ad imbrigliare questo Leviatano invisibile?

Ebbene … ultimamente cito spesso Fitzgerald. Il suo volume autobiografico che l’editore rifiutò e che in Italia ha visto le stampe solo circa un mesetto fa, in un passo breve ma altamente sarcastico, che strappa almeno a me un riso amaro, tratta l’argomento Morgan e prima guerra (minuscolo sempre, perché un evento così tragico merita raccoglimento…). È la seconda conferma che incontro. Una di uno studioso, Alvi, che sento essere libero e quindi eretico, e un artista fra i più puliti del novecento.

E’ solo sulla consapevolezza della verità storica che si può tentare di organizzare un futuro almeno passabile. Quel che Morgan fece, e prima di lui altri, e dopo di lui ancora altri è presente anche oggi.

Non ci devono incantare telegiornali propaganda.

Penso anche che la verità non sia venuta a galla non per mancanza di volontà o per paura. Siamo abituati ad olocausti vari, alla strage dei kulaki (circa quarantacinque milioni di morti) attuata da Stalin, alle “depurazioni” di Mao eccetera. Non ci spaventerebbe questa verità se non per la constatazione per nulla difficile che quella ingerenza amorale non è certo terminata.

Ricordo un altro fatto storico che non è mai stato spiegato chiaramente, e in questo caso penso che il dubbio, la mancanza di certezza, sia servito agli studiosi per produrre migliaia di pagine utili. Si ricordi che il docente deve pur campare, e se non sforna novità …. Ebbene. Battaglia di Waterloo. Perché Napoleone perse? Trovate di tutto. Fortuna, calcoli sbagliati, distrazioni, il generale Ney che doveva disobbedire ad un ordine di Napoleone, ma aveva il difetto, che negava la sua genialità, e lo faceva ordinario, di obbedire ciecamente e sempre, questo per esempio ci narra Stefan Zweig in “Momenti fatali” …

Ma leggiamo quel che si scopre da uno scrittore acuto di nome Leonardo Sciascia:



“Ieri ho ricevuto da lui (Vitaliano Brancati) la fotocopia di una sua conversazione con Paul Valery pubblicata in cento esemplari nel 1957. Una conversazione sulla storia che comincia con questa battuta di Valery: Tutta la storia è un falso, e per conseguenza è inutile. Non ho mai subito la seduzione della storia.” E nel corso della conversazione fa poi un esempio. “Ho visto recentemente” dice Valery, una lettera autografa del generale sir Henry Shrapnel,



scritta quattro o cinque giorni dopo la battaglia di Waterloo, in cui dice: “Sono stati i miei nuovi obici a vincere la battaglia”. “Dunque”, commenta Valery, tutto quello che ci hanno raccontato finora su Waterloo è falso. Sono stati i proiettili di Srapnel – e cioè gli shrapnel di cui si è tanto parlato cent’anni dopo, nella prima guerra mondiale – a vincere la battaglia”.



Questa suggestiva rivelazione di Valery ha stimolato Lo Duca a cercare una prova; e l’ha trovata nella descrizione che Stendhal fa della battaglia ne “La Certosa di Parma”. Il lettore non ha che da controllare: quegli schizzi di terra fangosa che volano a tre o quattro piedi di altezza, non possono essere effetti della fucileria; si spiegano come effetti degli shrapnel. Ed ecco dunque che ancora una volta, un romanzo dice una verità che il libri di storia non dicono.” (da “L’adorabile Stendhal” ed Adelphi, pag 176/77).

E come non ricordare quell’azienda inglese, citata da Hugo, che anni dopo quella immane battaglia, rastrellò ossa di cavalli e soldati, li macinò e li vendette un po’ in tutta Europa come mangimi per animali? Qualcuno quindi, come non pensarlo, ha mangiato carne che si è nutrita delle ossa dei figli. Ma benedetta o stramaledetta economia senza morale!!!

E altre cose fanno sorridere … Sempre Napoleone. Campagna di Russia. Sembra che abbia ritardato l’avanzata per un attacco di emorroidi (fonte Luciano Sterpellone “Pazienti illustrissimi”).



Stava nella tenda a pancia in basso ad attendere che l’infiammazione passasse. Voleva guidare personalmente l’avanzata, e così partì con un mese di ritardo. Morale, Napoleone non fu sconfitto dal Generale Inverno … ma in questo caso gli storici li comprendiamo … ce la vedete su un libro di storia questa pur veritiera versione? Sorrido e comprendo, ma è roba di poco conto in confronto a quel che fece quel Morgan con la tacita approvazione di tutti i suoi colleghi finanzieri.


amen




sabato 11 gennaio 2014

"Il grande Gatsby": significato del romanzo





Dopo aver descritto alcuni aspetti de “Il grande Gatsby” in un post lettissimo anche oltreoceano, ora mi inoltro nella spietata verità che si cela nell'opera.

Si ricordi la frase eccezionale proprio di Francis Scott Fitzgerald e che ho scritta sui muri della stanza dell'insonnia: “Non si scrive per dire qualcosa. Lo si fa solo se si ha qualcosa da dire”. (taccuini). Aggiungiamo che la grande, la vera letteratura è un canto dell'anima, dell'io più profondo che abbatte, nello slancio della sofferenza tutti gli atteggiamenti letterari e intellettuali. Anima sincera. In questo caso anima morente. Anima morta.

La situazione di Fitzgerald che rivelerò con l'aiuto dei testi, rappresenta secondo me la constatazione di una morte dell'anima. Cosa rimane? Un io disorientato, senza la sua guida, e un corpo che non può non tendere all'annientamento.

Inizio dalla cronologia della vita dello scrittore che si trova nella edizione dei Romanzi edita da Meridiani Mondadori: “Congedato nel febbraio del 1919, va a New York, ma intanto , nel marzo del 1918, aveva portato a compimento il suo primo romanzo, “Il romantico egoista”, che dopo essere stato corretto, respinto una prima volta dalla casa editrice Scribner's, riscritto, viene finalmente accettato dallo stesso editore (16 settembre 1919) e pubblicato col titolo “Di qua dal Paradiso” (26 marzo 1920). Quasi contemporaneamente all'uscita del suo primo libro, sposa Zelda Sayre (3 aprile 1920), appena ventenne, figlia di un magistrato, di cui si era innamorato all'epoca del soggiorno in Alabama per il servizio militare (1918). Respinto da lei quando, al primo invio il romanzo era stato rifiutato e gli venivano rifiutati pure un centinaio di racconti inviati a giornali e riviste) ora egli può farne la compagna di anni che saranno memorabili … “

L'estensore di questa cronologia ha la sensibilità di una lima da ferro passata su una pupilla! Mi spiego. Lui la ottiene la ragazza, ma come credere che non ci sia una macchia, un' “incrinatura” che renderà quella conquista, per sempre in fondo, un fallimento? La situazione ideale sarebbe stata ottenere un si per amore, e non perché il reddito e divenuto adeguato! Se a questo ero arrivato da solo, (sono un maschio, ci son passato anche da ragazzo da quella sconfitta e so di tanti, troppi casi simili, che definirei col termine umiliazione), se a questo ero arrivato da solo dicevo, la recentissima pubblicazione in Italia (Donzelli editore, “Good Luck and good Bye”)



di un testo autobiografico che l'editore Perkins rifiutò nel 1936, giudicandolo poco interessante, ci offre, direttamente dalle parole dell'autore, il significato che ho sottolineato. Il capitolo si chiama “Incollare i pezzi” ed è un capolavoro di sincerità ed immediatezza. Eccone alcuni passaggi: “In un precedente articolo, l'autore di questo testo parlò di quando si accorse che la pietanza che aveva dinnanzi non era quella che aveva ordinato per i suoi quarant'anni. In realtà, siccome lui e la pietanza erano tutt'uno, egli si era descritto come un piatto crepato, di quelli che ti mettono il dubbio se tenerli o buttarli via”.

Sta parlando di se stesso. L'incrinatura … sente di essere un oggetto, un piatto, ormai secondario e che si potrebbe gettare. Ma cosa lo ha reso un piatto incrinato? E ci descrive due accadimenti. Il primo fu una breve malattia a vent'anni che risultò poi essere una leggera forma di tubercolosi. Dovette assentarsi dall'Università e, oltre a rimanere indietro di un anno con gli studi, perse il ruolo di presidente del Triangle club, e la possibilità di realizzare una commedia musicale. Il successo sociale insomma verso il quale sembrava ben avviato, fu annullato da quel problema di salute.

E … genialmente, Fitzgerald ci dice una cosa di una profondità tale che non posso non commuovermi anche quando la rileggo per la centesima volta: “In un solo pomeriggio di marzo mi parve di aver perduto tutto ciò che desideravo, e quella notte, per la prima volta, diedi la caccia allo spettro della femminilità che, per un breve momento, fa sembrare senza importanza tutto il resto.”

Facciamo prima due conti col calendario in mano. L'autore aveva vent'anni? Allora siamo nel 1916! Si tratta di Zelda? Ci sta parlando di lei? No, perché la conoscerà in Alabama nel 1917/18. Nella fredda e troppo intellettuale cronologia che ho usato prima, al 1916 trovo quanto segue: “dopo la chiusura dell'anno accademico vive mesi di cupa tristezza, aggravati dal fallimento della sua prima relazione amorosa con una bella, brillante e facoltosa ragazza, Ginevra King di Chicago.” Poco prima la cronologia ci parla anche della convalescenza avvenuta nel medesimo anno poco prima di questo triste fallimento.

Tiriamo le somme … Due tentativi frustrati per il medesimo motivo. Il fatto di essere precario economicamente. Ci dice anche, E QUESTO E' GENIALE!, che dopo la prima incrinatura, quella causata dalla malattia che portò al fallimento delle sue ambizioni sociali così ben avviate, in quel momento di fragilità, l'importanza della femminilità si amplificò diventando un'ancora di salvezza … ma la definisce spettro, quindi qualcosa di irreale se visto da fuori, o dopo la depressione. Se lo stato della mente è alterato, alterata sarà anche la soluzione che si escogita...

Ma questo meccanismo … fu solo suo o è di tutti? Chiudendo un triste occhio sul fatto che il gentil sesso ha un senso pratico a volte troppo invadente e che travolge istanze morali … se immagino una donna nella situazione della prima incrinatura, ovvero malattia che blocca ambizioni ben avviate, vedo la possibilità nel medesimo rifugio sentimentale nello spettro della mascolinità... La sento insomma come una regola generale che riguarda quelle donne che non fan calcoli coi sentimenti e hanno momenti fragili. Le altre, quelle col pallottoliere in mano, donne non sono.

A questo punto la seconda incrinatura. Fitzgerald si innamora di Zelda che attende il responso dell'editore per concedere la sua mano. L'editore dice no e Fitzgerald viene, come possiamo dire? Licenziato? Buttato via? Mah. … Ma lui combatte! Le riviste rifiutano un centinaio di racconti e lui non si arrende! Corregge anche il romanzo rifiutato e riesce ad ottenere la pubblicazione. Torna da Zelda (e questo per me fu l'errore della sua vita...) e ottiene il si per sposarla.

Perché penso che tornare da lei fu l'errore della vita? Era lui che amava l'amore, lei prima di tutto la sicurezza, l'agio, le comodità. Secondo me Fitzgerald, carico di entusiasmo per la pubblicazione e immerso in un'azione frenetica di correzione e contatti con le riviste, calato nell'azione in modo troppo forte, non ha meditato. Quando si è sposato e, nella calma successiva ha osservato la moglie nel sonno, mentre lui insonne faceva calcoli per il bilancio famigliare (non sto inventando, nel libro appena uscito da Donzelli, lo cogliamo), si è reso conto che lui aveva agito per amore, ma lui solo e se avesse dato tempo al pensiero, cosa che fanno in pochi, avrebbe evitato quel matrimonio tomba.

Parole di Fitzgerald: “l'altro episodio (l'altra incrinatura) … si era verificato dopo la guerra, quando avevo di nuovo esposto troppo il fianco (sottinteso al femminile). Era uno di quegli amori tragici segnati dalla mancanza di denaro, e un giorno la ragazza (non nomina la futura moglie...) vi pose fine in nome del buon senso. Durante una lunga estate di disperazione, anziché scrivere lettere (a lei), scrissi un romanzo, e andò a finire bene, ma andò a finire bene per un'altra persona. (andò bene per la futura moglie. Si noti comunque che questa frase fa comprendere anche che non andò bene per lui...). L'uomo con in tasca la moneta sonante, che un anno dopo sposò quella ragazza, avrebbe sempre nutrito un'inveterata sfiducia, un risentimento, verso i benestanti.”

Questo risentimento si trasformò in adulazione sconcertante e Hemingay criticò queste situazioni trovandole meschine senza cercare di comprenderle.

Ma proseguiamo la lettura delle dirette parole dell'autore! “Negli anni che seguirono, non ho mai smesso di chiedermi da dove arrivassero i soldi dei miei amici, ne di pensare che, in un qualche momento, poteva essere esercitato una sorta di droit de seigneur e avrei dovuto cedere la mia ragazza ad uno di loro”.

Non lo trovate spaventoso? L'angoscia del guadagno continuo. Se non hai soldi non meriti la donna e chi ne ha, chi non è in affitto e ha la casa, chi ha il lavoro sicuro, per entrare col paragone nei nostri tempi, e chi ne ha dicevo, di soldi, potrebbe esercitare un “diritto del signore”, del ricco, e portarti via la donna.

Accade. E lo sappiamo. La cogliamo la situazione dolorosa e continua di Fitzgerald?

Si prenda ora in mano “Il grande Gatsby” e si legga quella che di solito è l'ultima riga della prima pagina: “Il senso della dignità fondamentale è distribuito con parzialità alla nascita.”

Questa frase, che è un macigno, contiene il destino dello scrittore, che ricevette all'origine della vita, una dotazione di dignità insufficiente per potersi permettere … un amore. E si tratta dunque di dignità ferita che potremmo definire anche col vocabolo umiliazione.

ma.. se questa frase la si legge in apertura del romanzo... quanto troveremo di autobiografico, di legato ai due fallimenti femminili per carenza di soldi, nella trama?

Prima però tiriamo le somme su quel che gli accadde nella vita reale: La prima lo rifiuta e lui crolla. La seconda lo rifiuta e poi dice di si quando arriva coi soldini. Dignità ferita due volte.

Osserviamo cosa accade a Jay Gatsby nel romanzo. Era soldato come Fitzgerald quando conobbe Daisy. (Prendo ora frammenti dalla traduzione Mondadori della Pivano): “Daisy Fay aveva diciott'anni … ed era senza discussione la ragazza più nota di tutte le fanciulle di Louisville … quel mattino arrivai davanti a casa sua, lo spider bianco era fermo vicino al marciapiede. Daisy vi stava seduta con un tenente che non avevo mai visto prima. Erano così assorti l'uno nell'altra … L'ufficiale, mentre Daisy parlava, la fissava come tutte le ragazzine desiderano essere fissate una volta o l'altra … ciò accadde nel 1917. (Fitzgerald conobbe Zelda e visse situazioni simili, nel 1917/18) ( e poi Gatsby partì per la guerra in Europa e Fitzgerald per caserme negli USA). Strane voci circolavano sul suo conto (di Daisy): come la madre l'avesse trovata durante una notte d'inverno mentre faceva le valigie per andare a New York a salutare un ragazzo diretto oltremare; le venne impedito di farlo, ma per parecchie settimane non parlò più con la famiglia.”

Conosciamo anche la versione di Gatsby, che parte per la guerra con l'intenzione di morirci perché sa che la famiglia di lei rifiuta il loro rapporto. Ecco un tassello differente fra la vicenda dell'autore e quella del romanzo. Daisy, ne esce salva. E' stata la famiglia a impedire. Nella vita fu Zelda …la fidanzata medesima. Purificando il ruolo femminile, eliminando la colpa diretta, Fitzgerald ottiene una maggior purezza anche del dramma di Gatsby. Se la ragazza è innocente si può parlare di fato, di destino … E Fitzgerald, secondo me, non per calcolo intellettuale, ma poiché era giunto alla radice prima della sofferenza e della consapevolezza della di questa, agì nella creazione della trama, semplificando in un modo che non può non ricordarmi la tragedia greca. Siamo all'ultimo momento di un fatto lungo cinque anni. Dell'amore nato con Daisy sentiamo raccontare dal “coro” delle voci del romanzo e ci troviamo in quel presente scenico di carta che tira le fila della conclusione che è tragica e con morti, come un buon greco antico pretendeva … per catarsi.

Amo pensare che una trama così perfetta, semplificata, sia un'operazione non calcolata ma che si tratti di colpi di scalpello della sofferenza che semplifica per mostrare le poche facce potenti, abbaglianti del dolore puro che si è vissuto. Fitzgerald ricrea e rivive la sua incrinatura e il suo alter ego, Gatsby, muore. Rimane puro fino alle fine e la sua morte, che sa di sacrificio, è la descrizione della morte dell'anima dell'autore. Egli ora, è consapevole di essere un piatto incrinato, che si usa ma si potrebbe anche gettare. Un corpo quindi e un io senza la guida dell'anima che si annichiliscono per il bilancio economico perché altrimenti scatta il terribile “diritto dei signori”, e l'alcol, che ti da sul momento la forza di mantenere il ritmo e di non pensare, ma l'artista pensa anche quando non deve e non vuole … 

Ecco delle parole stupende e sue che lo rivelano: “Dunque, la cura abituale per uno che è affondato (incrinato...), sta nel pensare a chi vive una condizione di vera indigenza o di sofferenza fisica; è un toccasana contro la depressione in generale che va bene per tutte le stagioni, oltre che un consiglio quotidiano alquanto salutare per tutti. (/)
Ma alle tre di notte, un pacchetto dimenticato assume la stessa tragica importanza di una condanna a morte, e la cura non giova - nella notte fonda dell'anima sono sempre le tre di notte, giorno dopo giorno -”.

Stupendo. Ho messo un a capo (/) per dividere la frase in due nuclei di senso. Il primo nucleo, sa di essere meschino. Sa che rinfrancarsi pensando a chi sta peggio è un rimedio superficiale, da popolino, e infatti nella seconda parte, ci mostra la depressione, l'insonnia, abissi che conosco personalmente, e ci dice che in quei momenti eterni, un nonnulla diventa morte dell'anima. Lui dice buio, ma il buio è nella tomba, non nella casa viva.

Eccovi consegnata l'anima di un capolavoro. Alcuni oltre che apprezzarlo minuziosamente come opera artistica indiscussa, alcuni, dicevo, soffriranno, poiché di donne come Zelda è pieno il mondo e l'incrinatura che si ha, se letta, non fa star meglio, ma potrebbe farci sentire puri, migliori di chi ha ferito, come puro sentiamo essere Gatsby. Ecco la letteratura che definisco utile come una medicina! E che non si legga il romanzo una volta sola! Bisogna entrare non solo nella trama, ma nelle sfumature di una scrittura che nulla lascia al caso e che è una vetta profonda dell'umanità

amen