domenica 13 dicembre 2015

Abazia, ricordo surreale di un viaggio



Quattro dicembre duemilaquindici. Abazia (Croazia)

Da febbraio, quinta piccola vacanza in questo porticciolo che nell'ottocento era il mare del sud Europa più “vicino” alla Russia. La grande e la piccola nobiltà veniva a intiepidirsi anche, come sto facendo io ora, in dicembre. La famiglia Nabokov, col piccolo Wladimir che non scriveva ancora ma già adorava le farfalle, affittava una villa. Il nonno, ministro di due Czar, vi venne, e mi fermo qui, perché i fantasmi degni di essere ricordati che passeggiano in questo clima primaverile, sono più delle persone di carne e sangue.

Attualmente il paese, Abazia (in croato Opatia con l'accento sulla i), nell'insieme funziona. E' solamente quando si scende nel particolare che si coglie, per esempio, nel liberty sparso, un senso di falso simile a quello che provai a Budapest quando vidi e vissi brevemente, l'hotel Four Season.

Dell'Austria Felix rimane qualcosa di buono … le fette di torta. Ma è un altro popolo e si “sente”.

Le donne per esempio, e anche le ragazze, non passeggiano mai trasmettendo un senso di relax, anche quando risulta evidente che si tratta di due passi sans souci.
Sembra sempre che siano sole anche se non lo sono, e che stiano andando a fare qualcosa di impegnativo. Tengono la borsa come se fosse una cassetta degli attrezzi e così qui, questo oggetto icona, perde la sua “leggerezza” e non appartiene più al superfluo strettamente necessario di ogni donna a ovest del loro confine.
La loro bellezza è pregevole e atletica, Esprimono elasticità, capacità di fare e resistere. 
Vi è in esse un accenno alla bellezza russa, inimitabile e “pericolosa” sopra tutte, con lo sguardo che mescola intelligenza e follia, illudendo il cacciatore di angeli che il risultato sia la Sensibilità … e invece è solitudine.
Qui le donne non volano nell'illusione. Sono concrete, efficienti … doti che apprezzo ma non mi attirano.

Qualche eccezione … una donna antica. Forse ha due o trecento anni. Lo sguardo da regina per il mondo e di devota struggente col piccolo bassotto vecchio e arruffato.
Ho sempre con me minuscoli biscottini da cane e seduco la saggia bestiola che mi annusa. Mi riconosce come uno strano esemplare della sua razza, e sono promosso alle sue attenzioni.
Accetta il biscottino con stile e la signora, in un tedesco più melodioso di quello parlato dai tedeschi, sommato ad incantevoli sfumature frrranscesi, mi ringrazia a nome di Kant.
Il bassotto filosofo comprende e con uno sbandieramento della coda degno di Karajan, approva ... quel Karajannis greco, penso per un attimo, che si finse tedesco per sembrare e non essere ... la Musica.
Mi torna a galla da un passato remoto, per via della parlata della signora, che pensavo fosse cancellato, un leggero inchino che si trasmette automatico al corpo. Lei, elegante e simmetrica, risponde con le vertebre esauste che sembrano tornare adolescenti. Mi osserva con nostalgia mentre mi allontano. Per un attimo abbiamo resuscitato un'epoca, per un attimo l'aria di Abazia era al ritmo di Strauss.

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Spazieren gehen, passeggiare, Promenade.

Amo questi tetti troppo squadrati che sembrano fatti di scaglie di drago. Potrebbero contenere il filo di quel ricordo che cerco in me, che forse non esiste ... e immagino che il terreno a ridosso di questa piccola baja, sia il luogo nel quale venivano per cambiare la pelle, una volta ogni mille anni ... e che il nostro tempo è una briciola, un battito, del loro.
E a queste rive tiepide attendevano che la pelle nuova si facesse spessa, adatta per il fuoco e il ghiaccio di tutti i luoghi, di tutti i desideri.
E poi, passeggiando, li immagino prendere il volo, indossando finalmente il loro abito verde tenue e primaverile delle favole, delle mie favole, che devo decidermi a scrivere per smettere una buona volta di dubitare di essere stato bambino.

Fingere il passato per essere, perché senza fondamenta non esiste casa e destino che stia in piedi.
Ma inventare utilizzando quel che gli uomini chiamano realtà, non mi basta. Per me è già favola lo sguardo di un cane, o quell'uccello che ora, sbattendo le ali, inventa il vento, o il falco più potente, e padre dell'uragano. Ed è sufficiente ignorare le leggi della prospettiva per credere, e fermamente, che quell'uccellino laggiù, a dieci metri di distanza, sul mare, è un drago con la pelle nuova, distante un chilometro. Se la prospettiva è illusione ottica, io dell'illusione faccio l'uso che mi può far sorridere.

Mi siedo ad un Caffè. L'acqua sussurrante è a due passi. Prendo carta e penna e scrivo queste parole. Poi sorseggio una bevanda tiepida come questo sole delle otto e mezza del mattino, e mi lascio incantare … come un bambino, da una montagna che in mezzo al mare e alla foschia, spunta come da un quadro zen. La sensazione è che davanti a me ci sia un lago ma so che non è vero. A scuola me lo hanno fatto studiare e so che l'Istria è una penisola, ma mi hanno anche detto che la terra è tonda, e l'ho imparato a memoria, ma per me questo pianeta è un seme che, nonostante le spine, sarà la Rosa. E anche il mio sangue sarà il sacrificio per quel calore di porpora. E quell'isola … stupenda e irraggiungibile che vedo là in fondo, mi ruba i pensieri … Ora in groppa a un drago volo via, mentre le persone del posto, con le pelli che i draghi hanno lasciato nei secoli dei secoli, ormai dure come pietre, costruiscono inconsapevoli di tanta storia, i loro tetti.


Sera. Caffè Wagner.
Sembra una fresca primavera.
All'aperto. Se serve offrono un plaid bordeaux, ma sembra sia dignitoso snobbarlo. Pini. Il mare è immenso solo ora che non lo vedo, diluito nel buio. Così silenzioso, questo mare che prima, alla luce del giorno, si fondeva col cielo in un grigio fiorito di grida e curve gotiche di voli di uccelli.

Ma il pino del giardino del Wagner, curvo e slanciato verso il mare, grosso come il nervo di un dio, e come un dio immobile … lo “sento”, e mi sussurra dalle foglie … 
Questo pino vide i Nabokov, questa nobile e vasta famiglia, e lui ancora cucciolo, ancora inconsapevole della colpa che costruì con la sua fantasia per darsi un senso ... la colpa di amare eternamente le dodicenni.

Era l'età di Dolores, che la gente conosce col nomignolo di Lolita. Era l'età di Ada. 
L'età di un ricordo mai rivelato e che per sempre voleva rivivere. Ma se a dodici, a quattordici, a sedici anni, amare una dodicenne fatata era possibile, e in quell'epoca era amore di fantasia, poi, coll'aumentare della distanza nel tempo, anche il sogno chiese il conto perché nella realtà divenne sconcezza e poi reato.
E fu la letteratura, dichiarando che era pura invenzione, a far vivere l'impossibile. Wladimir, l'adulto, mise la maschera. Finse di fingere per poter dire la sua realtà intollerabile e irrinunciabile e poter così amare eternamente la sua prima, mai toccata, fatina. La colpa era del lettore ora, che sembrava leggere per desiderare perversioni, mentre lui, l'autore del sogno, dal sogno fu perdonato.

Un valzer fragile, di carta pesta e filo spinato, cancella l'immagine, nebbia sulfurea, di un Wladimir ancora innocente, ancora bambino, che di fianco al possente pino del Wagner, in calzoncini corti e camicia alla marinara, pensa al mistero della musica, alla quale mai ebbe accesso … e per me è inaccettabile ... inaccettabile questo valzer suonato per i turisti, senza stile, e mi fa cadere nella realtà quotidiana quando si presenta così sgangherato, e passo dalla fantasia leggera all'odio per quei musicisti che, è evidente, non amano quel che fanno.

Mi alzo e me ne vado. Wladimir mi segue per un poco come un fuoco fatuo chiedendomi di non smascherarlo, poi si avventura nel nulla immenso di buio e mare, mentre io, dal nulla della realtà scrivo queste ultime parole del quattro dicembre e, sorseggiando Chopin in camera, costruirò, negli occhi chiusi, un mondo di orchidee azzurre, serpenti in forma di flauto che suonano respirando, e petali croccanti come patatine.


domenica 15 novembre 2015

il re di New York (racconto)




C'era una volta un re che chiedeva alla sua serva, raccontami una storia, e la storia cominciò …

C'era una volta un re ..... quando arrivò un re non era, ma dopo l'alba ....
Partito dall'Italia, dal sud dell'Italia, e arrivato a New York, Pietro aveva ben nascosta in valigia, una sorpresa per qualche amico. Non era il suo primo viaggio e di lui sorridevano con indulgenza. Non dipingeva per far soldi, non usciva per agire! Era insomma un italiano, che usciva con gli amici per il piacere della compagnia e non trovava soddisfazione nelle sbronze. Un extraterrestre quindi per New York, che armato di un piccolo scrigno diceva di portare un tesoro.
Si videro a cena e … nella scatolina intarsiata di Bucellati, c'era un pomodoro di Belmonte coltivato da Benedetto, un fauno delle colline.
Aveva notato Pietro, che i loro pomodori, quelli degli americani, sono stupendi, perfetti! Immagina il pomodoro più bello che ti riesce. Ecco, è quello, ma se lo mordi, e Pietro lo morse come si fa con una mela, acqua. Zero sapore, il nulla. E come spiegarlo agli amici? C'erano i pomodori messicani, quindi d'esportazione e che per questo erano e sono tassatissimi, ma neanche quelli secondo Pietro erano pomodori veri. Questo, della sua terra, enorme che sembrava un uovo di struzzo ammaccato, rosso e un po' verde, con una piccola cicatrice grigia, non  era certo perfetto per gli occhi, ma al palato, un paradiso, quasi un'esperienza erotica.
Già con le banane un giorno avevano discusso e non era riuscito a spiegarsi. Aveva preso dei plumcake, ed essendo tutti con ingredienti strani, prese quelli alla banana perché erano secondo i suoi gusti, i più normali. Dovevano fare una gitarella e quando verso mezzogiorno ne assaggiò uno, lo sputacchiò disgustato. Sapeva di chimico. Un amico americano provò ad assaggiarne un altro, era una confezione da sei, e disse che secondo lui quel dolce era normalissimo! Pietro gli chiese se avevano mai mangiato una banana, ma ovviamente sì, le avevano mangiate. Tornato a New York, le comprò e si rese conto che erano una polpa strana. Non poteva spiegare se non con un esempio portato da casa e quindi un pomodoro enorme, dalle colline vicino a casa sua, finì in valigia e, per passare inosservato alla frontiera, fu messo nello scrigno che contava poi di vendicchiare a qualcuno.
Il pomodoro seppe spiegare bene a quei newyorkesi, cosa vuol dire pomodoro. A loro sembrò provenire dal paradiso. Felice dell'esito, raccontò dei sapori della sua terra e loro finalmente riuscirono ad immaginare.
La notte, a Central Park seduti sull'erba, decisero di aspettare l'alba. Spiegava Pietro che spesso, davanti al mare, pensando, vedeva nascere il giorno e i colori.
L'alba venne e Pietro ebbe negli occhi una nostalgia per qualcosa che non volle spiegare. Disse “questa mattina vado a fare un giro e domani notte aspetteremo di nuovo l'alba, ma a modo mio!”
Pietro partì e, verso sera telefonò dicendo “nel medesimo posto al Park! Puntuali! Un'ora prima dell'alba!”
Lui era già li. C'era il silenzio della città che non è quello vero, e il buio che buio non è. Pietro era nervoso. Si capiva che aveva organizzato qualcosa e aveva paura che non riuscisse ma poi, un attimo prima dell'alba … si sente un gallo cantare.
Qualcuno faceva footing nelle vie intorno e si fermò come un cane indeciso, annusando l'aria, i suoi amici ascoltarono sconcertati quel grido solare che avevano nel sangue, come tutti gli animali, ma che, non sentendo più da un pezzo, fece loro anche un po' paura.
Poi si vide il volatile, che come un re passeggiava nel prato, e un paio di galline. Beccavano. Pietro aveva gettato tanti semi, e aveva spiegato che per convincerlo a rimanere servivano cibo e femmine, più di una, che i galli non si accontentano di una sola.
La mattina dopo c'era una folla. Il silenzio e il buio erano ora attesa. Per un po' era sembrato che fosse in ritardo e quando finalmente cantò, ci fu un applauso. Pietro si innervosì e urlò “silenzio! Che poi si spaventa e scappa!” e silenzio fu, da quella seconda mattina. Fu chiamato Pavarotti quel gallo, perché il grande tenore cantò tanto a New York. Se Pietro fosse stato spagnolo lo avrebbero chiamato Domingo, se francese non so come, ma era Pavarotti che era tornato in forma di gallo, questo dissero, e ora che l'applauso era diventato un tabù, attendere il canto del gallo era diventato un rito, il rito del giorno nascente. Quando qualcuno alzò le braccia, come per voler abbracciare il sole, fu imitato, e come una messa mattutina, New York si scoprì pagana, antica, umana.
Pietro raccontava tutte le notti del sole sul mare che non è come il mare degli americani, dell'isola col cappello di nuvole che si vede nei giorni chiari dalla sua Amantea e della sensazione che spesso prova, che gli dei siano appena andati via, lasciando il sole, i pomodori e il cantare, ma io so che gli dei invecchiarono e divennero uomini. Ebbero noja dell'immortalità, com'è giusto che sia. Alcuni abitanti  del sud ogni tanto dicono che fanno un viaggio, mandano lettere di avvenute morti e naufragi, e poi tornano eterni, fra gli uomini di casa, che la creazione del loro padre, che non sanno nemmeno immaginare, li ha ammaliati come sta facendo il gallo a Central Park con i newyorkesi. In ogni generazione dodici saranno i profeti e non sapranno di esserlo, questa è la legge, questo è il sole che sorge.
E ora Pietro tornerà, ma il gallo, re degli uomini, che sveglia il sole, che insegna il canto che serve per infrangere il silenzio senza sentirsi in colpa, il gallo avrà un figlio, diventerà il figlio che si farà padre, che in un altro figlio, non meno eterno di una divinità, sveglierà il tuo sonno, e per un attimo, anche se uno solo sei già un diamante, per quel attimo avrai sentore, ricordalo del paradiso.



C'era una volta un re ...

domenica 8 novembre 2015

"Mein Kampf". cosa si deduce già dai primi due capitoli ... e altro

Perché ho deciso di approfondire questo argomento.

Ho notato che ci si pone spesso una domanda: Hitler aveva previsto dall'inizio della sua dittatura di sterminare gli ebrei? Si dice che prima volesse mandarli in Madagascar, poi optò per un qualsiasi posto oltre gli Urali … Chiacchiere. Chiacchiere degli storici, basati su documenti che dovevano occultare le sue decisioni che sono di vecchia data.
Come prova porto semplicemente il suo testo guida. “Mein Kampf” fu pubblicato un Germania nel 1925. Dopo il fallito colpo di stato di Monaco del 9 novembre 1923, Hitler finì in carcere. Sembra che i primi due capitoli siano stati non scritti da lui, ma dettati a Rudolf Hess, suo compagno di prigionia. É una sfumatura che giudico importante. C'è meno controllo sulle parole quando si parla, e accade che il fango del subconscio affiori con più spontaneità. Scrivere è un terzo livello. Prima la sensazione pura, pre verbale, poi la forma di parola che si concretizza o nel cervello medesimo, oppure si fa udibile ai sensi, poi la parola scritta che organizza, quindi parzialmente maschera, occulta, il secondo livello.
Penso che lo stile discorsivo si possa cogliere per esempio da certe ridondanze. Nel secondo capitolo, dedicato al ruolo e al fine dello stato, la definizione viene di fatto ripetuta minimo quattro volte. Si faccia caso, come esempio parallelo, che nel parlato non ci curiamo troppo, spesso per niente, delle ripetizioni, mentre nello scritto siamo sempre a caccia di sinonimi perché il possesso al presente del già detto ci rende più attenti alla forma. Nel parlato, il presente, quel che stiamo dicendo, è curato in relazione all'emozione e al senso, le ripetizioni son volate via e non si notano. Fateci caso. Accade anche con i contenuti, particolarmente poi quando non si è delle cime e mi sembra di poter dimostrare che Hitler non lo era assssssolutamente già analizzando, come mi accingo a fare ora, il primo capitolo.

Il primo capitolo
Si basa su ragionamenti che funzionerebbero al bar e non è difficile spiegarlo.
La lettura di alcuni brani, l'ho sperimentato, raccoglie tuttora consensi in alcuni passi, poiché la natura del ragionamento espresso è del tipo: “i politici sono tutti ladri” “al sud hanno meno voglia di lavorare che al nord” “i romeni sono tutti ladri” ecc.
Ecco un assaggio:

da pagina 2: “Tutte le mattine, il rappresentante del popolo arriva sino alla sede del Parlamento; se non entra, riesce ad arrivare per lo meno in anticamera dove viene affisso l'elenco dei parlamentari presenti: è su questo elenco, che il nostro, servendo la Nazione, scrive il proprio nome, ed è per questa fatica enorme, giornaliera, che incassa un profumato indennizzo. Passati quattro anni, o avvicinandosi sempre più lo scioglimento della Camera, detti signori vengono sollecitati da un impulso irrefrenabile, al pari della larva che è destinata a trasformarsi in farfalla, codesti vermi di parlamento abbandonano così il rifugio comune e volano fuori, dal popolo.
Ricominciano nuovamente a parlare agli elettori narrando loro come siano ostinati gli altri, e di come essi abbiano invece duramente lavorato.
(… e poi poco più sotto per concludere …)
E' così che il gregge (del proletariato e della borghesia) rientra nella stalla, tenuto per mano dal nuovo, invitante programma e dalla stanga, pronto a rieleggere coloro che lo hanno ingannato.”

Ho posto “Proletariato” e “Borghesia” fra parentesi perché attualmente son vocaboli che sanno di vecchio e daterebbero il pezzo al massimo agli anni settanta del novecento. Provate a rileggerlo senza quelle due parole e avrete la sensazione che si stia parlando di oggi. E si badi che sempre sempre sempre si avrà questa sensazione. Come ho detto, l'ho sperimentato sbalordendo l'uditorio quando ho poi rivelato che erano parole di Hitler. … ma in fondo son pensieri semplici, che non esito a definire da bar. Questo modo di ragionare e parlare in pubblico, fa effetto sulle masse e come si sa, è la maggioranza che vince.
Ci basti l'inizio del primo capitolo e quindi dell'opera come conferma: “Pensiamo, per un attimo, di quali misere idee siano infarciti, di norma quelli che vengono chiamati =programmi di partito= e come, di volta in volta, vengano riadattati alle mutate idee correnti.”
In questo caso ha detto una verità che, per esempio, è stata confermata di recente dalla Clinton, candidata alla presidenza degli USA. Nel dire che è favorevole alla pena di morte chi non si è domandato se ha preso quella posizione perché una indagine d'opinione le ha fatto capire che essere a contrari alla pena capitale sarebbe stato controproducente per ottenere voti? Io, lo ammetto, l'ho pensato, e penso di non essere stato l'unico. Ben pochi secondo me hanno creduto che si trattasse della sua vera considerazione in materia.
Frasi popolari, semplici. Argomenti spiegati senza paroloni, e immagino che Hitler li avesse già snocciolati in vari comizi.
La sequenza di frasi ad un livello empatico popolare, si alterna con tre concetti enunciati come indubitabili ma di fatto non dimostrabili
1), l'equazione ebreo = comunista. Essa nasce, nel testo, dal fatto che Karl Marx fosse ebreo e ogni volta che viene citato lo si presenta con quel chiamiamolo rafforzativo. All'epoca non solo quel nome sembrava essere prova schiacciante. Trotzkij fu, a dire il vero, il più temuto. Fu lui e non Lenin ad innescare la rivoluzione. In proposito fa fede quanto scrisse Malaparte in “Tecnica del colpo di stato”, testo che completò dopo aver parlato coi protagonisti e che fu considerato per anni il volume imperdibile per ogni dittatore. La paura per Trotzkij fu enorme. Sapeva combattere e, come accade spesso ai combattenti, fu il burocratese manipolato a sconfiggerlo per opera di Stalin, esserino non meno assassino di Hitler ( notevole il testo di Canfora intitolato “la storia falsa” (pagg 29-123). Era anche provato che gli ebrei dell'est noti come chassidici, che non erano occidentalizzati e vivevano in comunità nelle quali l'individualismo si poteva sciogliere e adagiarsi nel rassicurante noi, era provato dicevo, che fossero facilmente sedotti dal comunismo, che in teoria è idealista e comunitario. Sta di fatto comunque che alla prova dei fatti l'equazione ebreo = comunista, non poteva reggere. Erano forse il cinque per cento del totale ad esagerare proprio di molto? Penso di si, e credo che non serva spendere altre parole per una simile stupidata.
2), per Hitler, esisteva una volontà della natura. Nel primo capitolo la nomina ma poi non la definisce. Posso dedurre che si trattasse di una interpretazione banalizzante del darwinismo che poi scomponeva in due parti; darwinismo selettivo che tutti conosciamo, e darwinismo morale che non si capisce cosa sia. Il darwinismo selettivo lo autorizza a dire che ci sono le razze, e che quella superiore ha il diritto naturale di comandare su tutto. Una conseguenza estrema la troviamo a pagina
21 del secondo capitolo: “ … la razza non consiste nella lingua, ma soltanto nel sangue. Perciò si potrà usare il termine =germanizzazione= solo quando si saprà cambiare il sangue dei vinti. Ma questo non è possibile. a meno che con la fusione di ambedue le razze non si ottenga un cambiamento, cioè l'abbassamento del livello della razza superiore, ma la conseguenza ultima di questo svolgimento dei fatti sarebbe l'annientamento di quei valori che un giorno permisero al popolo conquistatore di vincere. Principalmente le qualità culturali verrebbero distrutte nell'unione con una razza inferiore.”
Tradotto vuol dire che la razza ariana, se pura, ha ideali superiori alle altre razze. Non deve mischiarsi con altre razze perché ne va della purezza non solo fisica, ma anche spirituale. Fate caso che in quel frammento usa, “culturale” come se fosse un sinonimo di spirituale quando ben sappiamo primo che non lo sono e secondo che la cultura viene diciamo “versata” in qualsiasi essere umano al di là della razza ( inteso nel senso che dice Hitler ovviamente).
Questo non mischiarsi, non incrociarsi, porta ad una conseguenza non piccola. Se conquisti un territorio puoi germanizzarlo, nel senso che lo popoli di ariani, ma la gente che ci abita non può essere germanizzata. Va quindi schiavizzata fino all'estinzione? Va uccisa? Deportata?
Da una di queste soluzioni, mi sembra evidente, non si scappa.

Hitler porta l'esempio dell'Austria. Ricordiamoci che la razza dipende per H. dal sangue e non dalla lingua … “Oggi (1925) si deve reputare come una fortuna se la =germanizzazione= dell'Austria di Giuseppe secondo (imperatore Absburg) no ha avuto buon esito. Forse, se fosse riuscita, lo Stato Austriaco si sarebbe retto, ma la comunione di lingua avrebbe prodotto un abbassamento di livello razziale della nazione tedesca. Col passare dei secoli si sarebbe formato un istinto di branco, ma il branco avrebbe avuto minor pregio.”

Anni fa mi capitò di entrare in possesso, in una fiera dell'antiquariato, di un passaporto Fuer Auslander, per stranieri, che mi diede molto da pensare. Il titolare del documento era di Vienna e, verso la fine della seconda guerra, lavorava a Vienna alla Brown-Bovery. Ma … se l'Austria era stata annessa (Anschluss), come mai un viennese di nascita e residenza era costretto a girare con un passaporto che lo definiva appunto straniero? La risposta è nel brano sopra. Non basta la comunanza di lingua. Un austriaco è qualcosa di diverso come razza da un tedesco quindi si annette il territorio, ma la gente che lo abita, considerata di serie b, diventa straniera ... a casa sua. Nei libri di storia, parlando solo di Annessione forzata dell'Austria al Reich, trascurano una sfumatura decisamente importante. Il quadro che h. descrive si fa sempre più preoccupante. Di fatto un solo popolo “usa” li altri che conquista. E se non servono? Deportazione. Oppure …. ?

Altro passo: “E' sbagliato pensare che, ad esempio un cinese o un negro diventi tedesco solo se impara il tedesco ed è pronto, per il futuro, ad usare la lingua tedesca, e a dare il suo voto ad un partito politico tedesco. La società (borghese) non ha mai compreso che una tale germanizzazione è nei fatti, una degermanizzazione.

Ora facciamo un “giochino” che deve farci meditare: modifichiamo negro con nero che è più politically correct, e mettiamo “Italia” “italianizzazione” ecc, dove necessario. Non vi sembra a questo punto il discorso di un fedelissimo della …. Lega Nord?

Le parole sono importanti …. un gradino oggi e uno domani e si causa il disastro!

Questo è il mio pensiero, ma torniamo a Mein Kampf.
Abbiamo identificato ora due punti fondamentali per H., che però non sono dimostrabili. Anzi, l'equazione ebreo = comunista, proprio non regge!
Mentre i darwinismi, sociale e morale, non hanno finito di elargire i loro macabri doni. L'ariano è il più elevato spiritualmente (asserzione indimostrabile) e quindi ha diritto a popolare il mondo e a divenire l'unica razza del pianeta.
Ora un puzzle di citazioni: Ogni persona cerca di fare il bene suo e della sua razza, e lo deduciamo da una considerazione su Marx: “E il marxismo internazionale non è altro che il trasferimento fatto dall'ebreo Karl Marx di una idea (che in realtà c'era già da molto tempo) ad una data professione di fede. …...... Karl Marx, verità fu solo uno fra i moltissimi, che nella situazione disperata di un mondo in distruzione, individuò con l'occhio lungimirante del profeta i principali veleni, e li trasse fuori, per raccoglierli, come negromante,in una miscela destinata a distruggere subito la vita indipendente di libere nazioni sulla terra”.
Questa idea è l'uguaglianza fra gli uomini che ovviamente risultava indigesta a chi teorizzava il razzismo per popoli. Quel che mi incuriosisce, ma rimane senza risposte, è quella “situazione disperata di un mondo in distruzione”. Si riferisce all'industrializzazione? All'ebraismo? Non sono in grado di comprendere.

“L'idea nazionale razzista … riconosce nello stato solo un mezzo per conseguire un fine, il fine del mantenimento dell'esistenza razziale degli uomini. Quindi non si ritiene vera (l'ebrea) uguaglianza delle razze, ma ammette che sono differenti e che hanno un valore maggiore o minore , e da questa ammissione, (l'idea nazionale razzista) si sente costretta, conforme con l'eterna Volontà che domina l?Universo, la vittoria del migliore, del più forte, la sconfitta del peggiore, del più debole. E così rispetta l'idea di Natura che è aristocratica.
Essa (l'idea nazionale della razza) non solo ammette un diverso valore delle razze, ma anche quello dei singoli. Mette in luce l'uomo di valore, e agisce così da ordinatrice di fronte al marxismo creatore di disordine.
L'idea nazionale della razza, non può permettere ad un'idea morale di esistere se questa idea costituisce un rischio per l'esistenza razziale dei sostenitori di una morale superiore ...”

“La migliore delle creature fatta a immagine di Dio … l'idea nazionale del mondo, corrisponde alla più profonda volontà della natura, perché ripristina quel libero scontro delle forze che deve portare ad una prolungata, mutua, educazione delle razze, fin quando, mediante il raggiunto dominio della terra, sia facilitata la strada ad una umanità migliore, la quale possa agire in campi posti al di fuori e al di sopra di essa.”

“Non si vince con armi fragili. Soltanto quando alla concezione internazionale marxista (costituita in politica dal marxismo organizzato) si porrà contro una concezione nazionale ugualmente e unitariamente organizzata e guidata (nazismo), e solo se nelle due parti sarà uguale la forza, nella lotta AVRA' LA VITTORIA, LA VERITA' ETERNA.”

Leggere e rileggere. Non basta una volta sola. Contiene quasi tutto quel che accadde.
La lotta suprema per H. era contro il Marxismo, quindi la Russia ma non solo. Se gli ebrei = comunisti, ovvio farli fuori. Se la potenza è simile (Dice “e solo se nelle due parti sarà uguale la forza”) equivale a prevedere e desiderare uno scontro fra potenze che facciano una guerra enorme. Solo così per H. ci sarà un vincitore vero, e questo vincitore, poiché ha vinto e solo per quello, possiederà la verità eterna.

Uccidere gli ebrei. Uccidere i comunisti! Scritto nel 1925! penso che ha H.
questo era per lui lo scontro supremo. Il resto erano piccole cose. La Francia, la Polonia, l'Austria ecc, briciole. Gli ariani in cima, poi slavi e latini da usare e …. curiosamente un rispetto forte per i britannici che non fu apprezzato. L'idea era il Lebensraum, lo spazio vitale. La terra. La gente che la abitava un problema da risolvere.

E' interessante anche notare in questi primi due capitoli, come volesse strutturare il partito come una religione. Quegli aspetti che io ho definito insensati, indimostrabili e nel caso di ebreo = comunista una fandonia, venivano elevati così a dogmi. Divenivano verità rivelate.

“Ritenni mio dovere quelle di tirar fuori dall'argomento ampio e vago di una dottrina, le idee più importanti, organizzandole in forma più o meno dogmatica.

  1. ebrei = comunisti
  2. razza ariana spiritualmente superiore
  3. lo scopo ultimo che si realizzerà permetterà alla razza rimasta unica a dominare di dedicarsi a cose non spiegate che sono “campi posti al di fuori e al di sopra di essa”
  4. la volontà della natura
  5. spirito della razza con spirito che è sinonimo di cultura

“Lo stato deve ritenere suo compito essenziale la conservazione e l'elevazione della razza, premessa di ogni evoluzione della civiltà umana”.

Questa frase porta a conseguenze estreme. La selezione del più puro. Ecco un passaggio che parla chiaro che più chiaro non si può: “Nel presente stato della calma e dell'ordine (che sarebbe quello che lo mise in carcere), per i rappresentanti di questa bella Società nazionale-borghese, è perciò un crimine ostacolare la procreazione nei sifilitici, nei tubercolosi, in quelli che hanno malattie ereditarie, nei deformi, nei cretini, mentre l'interruzione reale della possibilità di procreare in milioni di esseri sani non è ritenuto un fatto riprovevole e non offende i buoni costumi di questa falsa società, è anzi al servizio della cieca indolenza del pensiero.”
E infatti, quando H. andò al potere, organizzò rapidamente un programma eutanasia proprio per quei tipi di malati. Non riuscì a portarlo a termine per l'opposizione della chiesa nella persona di qualche vescovo che ebbe il coraggio (particolarmente uno) di condannare e rivelare il tutto durante la predica nonostante fosse stato tassativamente proibito.

Si comprende pure, secondo me, già dalla lettura dei primi due capitoli, che l'incompatibilità con qualsiasi religione era enorme in fondo perché, anche se in modo ancora non dichiarato a tutti i livelli della popolazione, il nazismo si presentava come una religione. Prova ne sono, per una ristretta elite, i riti che si svolgevano al castello di Wewelsburg che, curiosamente a forma di freccia (a ricordare la lancia di Longino), rivelano molto, se non tutto nella loro ritualità. La lancia di Longino … il vero motivo dell'invasione dell'Austria. La leggenda dice che chi la possedeva sarebbe stato imbattibile e nonostante la lezione della prima grande guerra, Hitler la volle.
Son casi che si sprecano. Il laicissimo Stalin, temendo l'invasione di Mosca, fece fare tre giri in aereo intorno alla città, da una icona della “Madre di Dio” … il tutto in segreto perché che Stalin si affidasse alla Madonna sarebbe stata una figuraccia a dir poco … mondiale.

Follie!

E a questa aggiungo la mia considerazione conclusiva.

“Se per esempio, un essere di una razza si unisse ad uno di una razza inferiore, ne deriverebbe prima un deterioramento, poi un infiacchimento di discendenti di fronte ad altri esseri rimasti puri.”

Qui sta la tragedia personale di H. vi siete mai domandati perché non ebbe figli?
Perché stava purificando se stesso. Lui era il bastardo. Nato a Braunau da una madre che lo ebbe in modo diciamo non convenzionale. Le versioni sono due. La madre era andata a servire in una casa da un ebrei ricco. Fu licenziata perché rimasta gravida. L'altra, narra che il macellaio kosher (quindi ebreo) fosse il padre. Ho avuto due occasioni di parlare con persone vecchissime di Braunau. Accadde anni fa. Mi confermarono che la voce popolare non aveva dubbi … il macellaio. … e sappiamo che è brutto credere alle malelingue ma nel frattempo non sbagliano mai … (citazione da Andreotti).
Propendo per il macellaio, lo ammetto, ma è secondario. Comunque il padre era ebreo e lui si sentiva per questo, sporco, impuro.
Secondo me l'impurità non è direttamente legata alla religione del padre naturale ma al fatto che, nella cattolicissima Austria, lui aveva l'etichetta di figlio illegittimo. Di chi era la colpa? Dell'uomo che aveva tentato la madre e della madre che si era lasciata sedurre. E così secondo me scaturirono due odi; verso gli ebrei e verso le donne. Ne ebbe, ma sempre nel rapporto di superiorità del Fuhrer divino e della ragazza carina che adorava. Rapporto irreale quindi.
E la mancanza di figli è per me la conferma maggiore. Decise di spendere la sua vita per fare in modo che non potesse più accadere quel che è accaduto a lui. Progettò un mostro assurdo per prificare il mondo malato che aveva permesso a lui di nascere illegittimo. Avere figli non poteva. La tara come il peccato originale era ereditaria. Poteva solo purificare il mondo e andarsene, per dare a quelli dopo di lui la certezza della purezza e dell'essere affrancati dalle sue angosce.

Purezza della razza = purezza della nascita.

E un'angoscia costata milioni di morti.

Non meravigliatevi … vi porto un altro fatto che riguarda un altro grande della storia.
Lenin aveva un fratello maggiore. Era fratellastro dello zar che lo fece impiccare. Per questo il celebre Lenin, in tre genocidi distinti, annientò la famiglia reale al completo. La rabbia estrema per il fratello maggiore che gli fu guida e che amava.
Accadde che uno studioso si rese conto dai documenti, che lo Zar ricevette in udienza la madre di un condannato a morte, oltre il resto per attentato contro la sua imperiale persona. Era impossibile! Inspiegabile per i rigidissimi rituali di corte! Scavando e scavando si arrivò a questa grande sorpresa. Lo zar parlò con l'amante del padre ormai defunto, e sapeva che stava condannando il suo fratellastro.

La storia ... Affascinante e tremenda. ciao


(non ho corretto. Sono stanco. Lo farò un'altra volta. Spero che non ci siano troppi errori)

sabato 7 novembre 2015

Pasolini. Dico quel che ne penso liberamente!

Giovedì cinque novembre 2015. Sul “Corriere della sera” a pagina 23, leggo di un attacco a Muccino (quello amerikano) perché ha osato dire cose non osannanti di Pasolini … Dice Muccino su Facebook: “ho sempre pensato che Pasolini regista fosse fuori posto, anzi, semplicemente un non regista” … uno che usava la macchina da presa in modo amatoriale, senza stile, senza un punto di vista meramente cinematografico sulle cose che raccontava in anni in cui il cinema italiano era cosa altissima … ha di fatto impoverito e sgrammaticato il linguaggio cinematografico dell'epoca, altissimo sia in Italia che nel resto del mondo.
In risposta ad una critica che secondo me dovrebbe invitare a pensare, qualcuno ha scritto “Muccino sei un accattone”, battuta che non fa ridere e nemmeno piangere ma solo pena ….” Qualcun altro ha risposto “sei un ignorante, vai a vedere i film che ha fatto” e anche questa non mi va giù e non c'entra il mio pensiero su Muccino! Lui ha dovuto chiudere la pagina per eccesso di insulti e io do stura alle mie appassionate invettive. Mi spiego con un esempio. Secondo me, e proverò poi a dimostrarlo, Italo Calvino era un intellettuale e non un artista. Le sue invenzioni erano pensate, non sgorgavano mai dall'io interiore, unica via per me per giungere all'opera autentica. Se un artista può essere intellettuale (ovvero, dopo aver colto l'idea in sé nascente, la riordina con l'intelletto), un intellettuale potrà giocare a fare l'artista e mai esserlo sul serio. In questa sua finzione però si cade spesso perché l'intellettuale fa un mestiere e dedica quindi ore lavorative alla sua costruzione, mentre l'artista lo è suo malgrado poiché una sofferenza si rende sopportabile solo quando viene espulsa in forma di opera concreta. Esiste un libretto Einaudi di “La bella estate” di Pavese che in fondo include qualche lettera fra l'autore e il giovane Calvino appena entrato in Einaudi. Si comprendono chiaramente due cosucce; uno, Calvino non ha compreso il romanzo di Pavese e lo sbeffeggia con super superficialità. Due, Pavese lo distrugge, lo mette in riga rapidamente. Accade poi che Pavese si spara, e Calvino mediocreggia in un certo partito, fa l'intellettuale di successo perché in fondo come intellettuale funziona anche, ma se non avesse avuto la sinistra dietro cosa sarebbe stato di lui? Forse avrebbe avuto un ruolo minore, più consono alle sue capacità. Riesco a leggere e imparo spesso dal suo lavoro di intellettuale, e invece mi irrito col suo lavoro da artista perché sento la costruzione solo intelligente.

Ebbene, non mi interesso al Muccino regista ma medito su quel che ha detto di Pasolini ovvero ascolto l'intellettuale e non mi curo dell'artista. Dico per prima cosa che ad una critica così circostanziata si risponde con un ragionamento, non dicendogli, come qualcuno ha fatto, “cervello di ricotta”.
E aggiungo che se, nella letteratura del secondo dopoguerra si desse il giusto valore ai raccomandati della sinistra, la letteratura itagliana (errore voluto) risulterebbe quasi nulla come consistenza. Accade invece che sia forse la migliore in Europa per quel periodo e forse per tutto il novecento! Maraini, Moretti, Benigni, Silone, Cassola, Pasolini, Moravia, Guttuso sono esseri mediocri (strana eccezione Marianna Ucria per la Maraini. Un gran libro, ma non riesco a capacitarmi che la medesima persona abbia firmato schifezze totali, atteggiamenti fintissimi come “Buio”, che ha pure vinto il salottiero premio strega (minuscolo voluto).

Veniamo ora ad un fatto quotidiano. Dico troppo spesso delle cosucce sccomode e mi hanno fatto notare che per questo non sfondo. Rispondo di solito che non mi interessa il successo, quando non stimo chi me lo dovrebbe elargire. Mi interessa scrivere bene e ci sto provando da anni. Tutto qui. Ma quando, in occasione di questo anniversario di Pasolini, dico che non mi piace per niente con delle prof d'italiano e mi sento dire che la pensano allo stesso modo ma preferiscono tacere perché se tocchi Pasolini ti disprezzano.....non pensate che si deduca che la situazione itagliana sia ridicola?

Ebbene. Ecco quel che dico da anni. Pasolini ha dichiarato in un tempo nel quale era un tabù potentissimo, di essere omosessuale, e ha lasciato comprendere che aveva preferenze per ragazzini di ambienti loschi o se preferite, poveri. Questo fece sensazione e incuriosì, un po' come l'assassino seriale elevato a mostro, che viene intervistato e che fa una grande audience perché tocca confini che non tolleriamo ma che proprio per questo incuriosiscono. Ci arrivò a suo tempo Musil che nella sua opera più nota, mostra la morbosità del pubblico per l'assassino Moosbrugger e come egli stesso, il mostro, diventi creatore consapevole della sua immagine. Ci si pensi per favore. Dici oggi che sei gay e ti dicono “affari tuoi” e se dici che sei pure pederasta rischi abbastanza perché questo aspetto infastidisce tuttora. Pasolini ci ha marciato! E si sapeva che persona era. Ci si informi sul perché lasciò l'insegnamento in Friuli per esempio e ditemi onestamente se oggi, come allora sarebbe accettabile una persona così. Ha cavalcato l'etichetta di mostro perverso della sessualità, ecco tutto, come Bukowskij ha cavalcato l'onda della sincerità triviale dell'ubriacone. Si fa audience … ma la qualità non è invitata.
Ora veniamo alla sua opera. I romanzi non mi piacciono, e non lo dico in modo soggettivo. Un'epoca come la sua, che aveva vivi Flajano, Savinio, Brancati, Ortese, Manganelli, Tobino, Landolfi, Malaparte, Guareschi per esempio, lo condanna. Ha creato uno schemino mentale e ci ha fatto di tutto. La società che cambia (solo quelle malate non cambiano...), l'omologazione culturale, la perdita dell'individualità che è la ricchezza dell'Italia (come se in Germania e Francia fosse una benedizione...). Roba semplice fatta film, romanzi e poesie. Dissi con dei docenti che i film sono fatti male e le idee che emergono (quelle vere) sono morbose a sfondo erotico, una ossessione dalla quale non sapeva liberarsi, e questo è ovvio poiché ogni essere può girare solo intorno alla sua individualità e, se non sa essere sincero crea maschere trasparenti o con crepe che permettono di vedere la sua personale realtà.
A tavolino ha pensato un cinema che ha fallito. Se in Russia un Dovshemko utilizzò magistralmente attori non professionisti (ma ebbe l'accuratezza di prepararli almeno un poco, si vedano gli spezzoni di “Terra” su you tube...), se Nanni Loi fece un film capolavoro sulla liberazione di Napoli utilizzando comparse per piccoli ruoli e attori per le parti vere, mettendoci pure idee semplici e geniali (ma purtroppo è stato dimenticato...!!!!), se questa esagerazione, di far recitare al personaggio, se stesso, dimenticando che recitare è un'arte, e che io che recito per esempio la parte di me stesso, produco troppa realtà che sembra finta, mentre nella dimensione scenica o cinematografica, solo una finzione abile può dare un certo senso della realtà..... insomma ... Pasolini di cinema non ci capiva niente e perseverava nei suoi banalissimi errori.
So cosa ne pensava Fellini che era indiscutibilmente un maestro e non lo scrivo perché è un giudizio in volgarese. So tramite Tonino Guerra cosa ne pensava Tarkovskij, che considero il geniaccio del cinema del novecento, il suo poeta totale, e non ne parlava bene. Immondizia, diceva. So che Tonino e Lussu, usciti dalla prima di “Salò”, non erano sconvolti, ma schifati. Tonino mi disse all'inizio della nostra conoscenza, che forse lo avrebbe capito fra anni, ma poi quando iniziò a sbottonarsi parlò chiaro e disse che non gli piaceva. Lo conobbe personalmente e mi raccontò di una volta che uscirono in quattro. Visconti, Pasolini e Moravia. Visconti, raffinatissimo e gentile (diveniva intollerabile e feroce se si innamorava di qualcuno e non veniva corrisposto), Pasolini giudicatore di professione e gay dichiarato che girava con la feccia, e Moravia che, forse bisex, spesso spariva sui colli con le tasche piene di contanti, a caccia di ragazzini. Lo sapevano tutti, ma non ne faceva un vanto e in fondo non ne aveva bisogno per vendere, perché decente lo era nella sua opera, anche se non meritava di essere paragonato a Flajano, Savinio ecc. e … mi raccomando! Ne Tonino ne io abbiamo mai avuto preconcetti verso i gay. Ognuno è quel che è; ho amici e amiche di tutte le “parrocchie” e così era anche per Tonino, e non m'interessa la vita sessuale di una persona, ma la sua sensibilità, il suo pensiero.
Posso anche aggiungere, per chi pratica la discriminazione sessuale, che ci si diverte di più se in compagnia c'è almeno un gay di quelli dichiarati, che di solito hanno un umorismo e una fantasia che noi etero ce la sogniamo … e le risate son quasi sempre garantite. Guardarsi invece da un gay deluso in amore, meglio martellate sulle dita. Sono l'apoteosi della lagna!!! dico sul serio!
Non trovate che sia curioso che gli addetti ai lavori che ho conosciuto nel settore cinema, ne ho citati solo alcuni, non lo stimassero? Ovviamente a telecamere accese si deve sempre parlare bene. Quella è una regola! Pensate che Tonino diceva al massimo di chiunque, se non lo stimava, “non è un artista sul quale io sia cresciuto”. Solo privatamente usciva la verità. E questo accade a tutti i livelli. Anni fa, un amico laureatosi poi in lettere alla Normale di Pisa, inveì, davanti ad una tazza di caffè, sul fatto di avere dovuto sostenere un esame su Dino Campana. Ne disse peste e corna. “Ma ti rendi conto? Stella variabile per Campana voleva dire cometa! Ma che senso ha se devo leggere con le interpretazioni sotto!” aggiunse poi che l'Italia voleva il suo poeta maledetto. Non ebbe un Verlaine e quindi andò in manicomio a cercarsene uno. Spietato, e secondo me veritiero, ma in pubblico lo sentii dire … il contrario. Chissà se ha compreso che è per questa sua maschera che non lo frequento più....
E che dire delle professoresse d'Italiano che mi dicono “la pensiamo come te ma non si può dire?”
E quegli indocenti che, quando dico che i romanzi son banali e scritti male, e che i film sono squallidi, mi dicono che però la poesia è bella? E li spiazzo rispondendo che quella è la loro risposta di repertorio per salvare il salvabile e quindi il loro mestiere, e che la poesia di Pasolini l'ho letta ed e la trovo insipida insipida insipida?

Aggiungo anche che un giorno, parlando di Joyce, dissi che è illeggibile. Mi risposero che ero matto ma sbiancarono quando aggiunsi poi che era una citazione di Borges! Joyce lo si inizia per curiosità e poi lo si lascia perdere. Solo il dovere di un esame ti condanna ad approfondirlo.
Questo fatterello ci rivela un aspetto medievale che la sinistrata sinistra ha riportato in auge: il concetto di autorità. Il valore di una frase dipende da chi l'ha detta o da quel che contiene? Il bello è che, come dimostra il caso della frase di Borges sul quell'irlandese che terminata la moda è morto alla letteratura, è facile farli morire delle loro medesime insensatezze! Conta l'autorità? Mi presto la frase di uno che per te è un fenomeno, mi lascio insultare e poi ti rivelo che l'ha detta il tuo idolo … Povera Itaglia.

Eppure esiste un'Italia vera, degna della majuscola assoluta.
Due esempi. Leggere “I tre amici di Tobino” e “Poveri e semplici” più “il cappello piumato della Ortese”. La sorpresa sarà la seguente. La sinistra già nel 1952, era l'ombra ipocritissima degli ideali che sbandierava. Quella che Tobino racconta è una storia vera che da sola basterebbe a domandare quali erano gli scrittori iscritti al partito nonostante l'ipocrisia rivelata, e usarli in bagno come carta igienica o nel caminetto! E la Ortese! Premiata perché brava al Viareggio, se non erro, e che viene dimenticata perché diceva verità scomode. Avrebbero dovuto fare una scelta nel partito: leggere quelle opere e apertamente accettare le critiche. Ma questo avrebbe portato a cambiamenti che non erano in grado più di attuare perché? Perché erano realmente ipocriti, con la maschera di un grande ideale. Accantonati gli artisti perché sinceri, ecco che emergono gli intellettuali che per prendere quegli spazi lasciati vacanti devono fingersi scrittori … e così due veri maestri, Tobino e la Ortese, razzolano nella terza classe degli anniversari di nascita e di morte, stabiliti da una nuova generazione di intellettuali altrettanto ipocriti perché tuttora nessuna di quei sinistrati reduci e nemmeno dei nuovi senza ideali, vuole ammettere il fallimento della loro linea culturale. Servivano artisti asserviti, ma era una razza pericolosa che poteva reagire anche contro chi li coccolava. Non obbedivano! E quindi solo chi stava al gioco faceva carriera. Ma un artista che sta al gioco per definizione … non è più un artista ma un traditore prima di tutto di se stesso.

Direi che sia ora di fare piazza pulita e riscrivere una vera antologia della letteratura del novecento!
E penso a Emanuel Carnevali, il maudit che l'Italia cercava ma che non era obbligatorio avere! Tornò dagli Stati Uniti falciato dalla Spagnola. Era ormai una larva, ricoverata a Bazzano in clinica e se, meditate …., e se Ezra Pound e Montale andarono a trovarlo e gli pagarono un anno di cure, ci sarà pure un motivo! Quel Carnevali che collaborò con Poetry ed ebbe il coraggio onesto e all'epoca vero, di dire a Pound che si atteggiava troppo! E nell'incontro anche polemico fra giganti, c'è comunque spazio per le scintille come per il rispetto. Emanuel era dilaniato ormai, scriveva solo con un dito, che lentamente batteva i tasti della macchina per scrivere e si nutriva di calmanti, ma Pound e Montale fecero quel pellegrinaggio ad un uomo che in poesia fu “Quasi un dio” (poesia riedita recentemente da Adelphi nel volume “Il primo Dio”).

Esiste un documentario diviso in due parti, la prima a cura di Guareschi, la seconda di Pasolini. Si scelse un autore di sinistra e uno di destra. Decisero per il padre di don Camillo che era di destra si, ma rispettato perché era stato in campo di prigionia. Cercatelo de divoratelo. L'effetto che fa dopo tanti anni, è rivelatore. Pasolini cavalca luoghi comuni, Guareschi fece centro e tuttora tocca profondamente. Si pensi che una volta terminate riprese e montaggi non fu messo in circolazione. Il motivo risulta evidente per chi visiona l'opera. Pasolini dice quel che si può e che si deve dire, è indottrinato e allineato; ha creato un contenitore di luoghi comuni e scoprirete vedendo la sua parte, quanto anche voi vi siete nutriti di quella propaganda. Guareschi è andato oltre, e con una scena, quella dei gatti per intenderci, se mai lo vedrete, avrà il potere di sbalordirci e prevedere. è carino pensare, per non dire grottesco fino al ridicolo, che Pasolini definì Guareschi un prelogico, ovvero un animale. Ma finita la moda Guareschi, non solo con Don Camillo segna un'epoca con una saggezza sorridente e profonda e Pasolini viene ancora "osannato" dalle pecore della sua stalla.

Morale: spero che, al più presto, vengano riscoperti e valorizzati come meritano i veri Grandi della letteratura italiana. ciao






venerdì 4 settembre 2015

Amantea (terza parte: alcune opere di Salvatore Tonnara)

Alla galleria Amantea, nel periodo che ho soggiornato come ospite del suo proprietario mecenate, esponeva un personaggio assai particolare: Salvatore Tonnara.
Se non ho scritto di lui fino ad ora, è perché trovavo difficile affrontare determinati argomenti senza offendere un modo di pensare assai radicato, ma poi ho compreso che stavo esercitando il rispetto verso la superficie, l'atteggiamento, l'ipocrisia, e mi son detto, vado a ruota libera senza preoccuparmi se qualcuno si offende. Ed essendo i critici, gli “indocenti”, insomma i mestieranti delle varie arti, coloro che son disposti a spaccare il capello in quattro, chiusi nella torre d'avorio del loro ruolo e impiccati ad uno stipendio, io che scrivo senza altra spinta che non sia un'esigenza esistenziale, me ne lavo le mani delle loro sofferenze ... anzi … ammetto che un po' ci godo.






Veniamo al dunque. Me lo presentano. La mostra apriva la sera verso le nove e mezza se non ricordo male. Anziano, magro e assai energico, arrivava a chiamare i conoscenti che vedeva al balcone della galleria che era al primo piano e io all'inizio ero un poco imbarazzato da questo comportamento che mi sembrava ledesse la libertà di andare o non andare ad una mostra. In un piccolo paese, ci si conosce tutti e non potevano certo esimersi o trovare una scusa. Una capatina la facevano, spinti dal dovere di amicizia, dal fatto che dire di essere andati ad una mostra fa sempre “altolocato”, e dalla curiosità per quel palazzo della Amantea alta che da rudere che aveva comunque ospitato un papa e un re, era stato riabilitato e verniciato di bianco e ocra. Vedere come era sistemato quel gigante di pietra era a dir poco irresistibile. La visita partiva quindi per tre curiosità alle quali si sommava la presenza dell'artista che in fondo non interessava molto, perché i visitatori pensavano di conoscere già le sue opere. Ebbene, immaginate il primo giro per vedere le sale, i muri ben restaurati, il paesaggio dalle finestre e dedurre che sì, nella piccola Amantea un privato (e chi altri in questa Itaglia che Gianni Agnelli chiamava giustamente la repubblica delle banane”!) era riuscito a fare qualcosa che sembrava non essere finzione. Poi, nell'ordine interveniva la sorpresa dei quadri, che il narcisismo, quello lo si esercita con calma nei giorni successivi al caffè, e due chiacchiere chiarificatrici con il pittore era elegante farle fra quelle storiche mura che hanno il potere di nobilitare tutto, pubblico, artista e pure le opere, che avevano stupito queste ultime, chi pensava di conoscerlo ormai a fondo. Camilla, la padrona di casa, aveva selezionato le tele da esporre, secondo un criterio semplice ma azzeccato. “Salvatore! Prendiamo delle cosette da casa tua, di quelle che la gente non ha mai visto!”, perché Tonnara, che da questo momento chiamerò semplicemente Salvatore, ha un'abitudine tipica a molti artisti; certe tele le tiene per sé. Non le mostra se non a coloro che, in un certo senso, passano un piccolo esame di sensibilità. Si tratta di entrare veramente nella privacy, nell'anima più schietta. Porto un esempio recente. Un artista di Roma che stimo, di recente mi ha chiesto un pezzo per una mostra che terrà in Lombardia. Gli ho domandato quali opere porta e mi ha detto che da qualche anno, complice la crisi, l'essere diventato padre eccetera, ha rallentato con le idee, quindi troverò pochi cambiamenti. Gli ho ricordato quattro bronzi alti circa un metro e trenta, che io considero i suoi capolavori. Ha sorriso e ha detto che sono ancora in un magazzino sui colli romani e che rimarranno là. Lo capisco. Il padre finì in ospedale per un ictus, lui, coi famigliari uscì dal quel edificio fattosi incubo con un responso intollerabile. Aspettare... Forse sopravviverà, forse rimarrà un corpo senza più identità, forse …. solo dei forse. Cristiano, così si chiama, “scappò” da solo al suo studio, vi si chiuse dentro, ed esorcizzò quel tempo assurdo lavorando con carta pesta e gesso. Fu un lavoro automatico, senza scampo come sincerità e nitidezza. Il padre si salvò, sta benino e le opere, fuse nel bronzo, stanno lontane da chi le ha plasmate, perché ricordano una sofferenza intollerabile che la loro vista ri innesca. Questo caso è certamente estremo ma deve farci pensare a quel che l'artista ci mostra. Se siamo un io della folla che per qualche attimo prende forma individuale, ci mostrerà roba leggera, se invece si diventa qualcosa di più, un io pensante può già bastare, allora quell'invito, che sembra all'inizio sorprendente e inatteso, ci rivelerà qualcosa di più intenso. Nel caso di Cristiano, il suo agire fu inconscio e gentile. Mi invitò a bere un caffè in sant'Agata, posticino che amo in Roma, e poi mi disse che doveva recuperare una testa per un cliente. Lui cercava fra le casse e altra roba ammucchiata e io mi trovai davanti a questi quattro urli angosciati, a questi corpi che stavano scivolando nel nulla.

Bisogna ora spiegare qualcosa di Salvatore. Era un insegnante col mitico posto sicuro in una Milano che per anni è sembrata essere la capitale della cultura in Itaglia (errore voluto), ma che, esattamente come la sinistra sia in Itaglia che in Francia, ha occupato i posti della cultura ma non ha fatto ... cultura ….
Correva l'anno 1982 quando decise di “mollare tutto”. Dipingeva già da dieci anni e questa scelta, radicale ed intollerabile per un italiano medio (mediocre … altro che medio!), rappresentò la punta dell'iceberg di una sequenza di scelte nient'affatto minori. Fu studente universitario prima a Napoli e studiò fisica ed ingegneria elettrotecnica poi, senza concludere, si iscrisse a scienze biologiche a Bologna e alla fine decise di non laurearsi. Gli ho chiesto il perché e mi ha risposto candidamente “perché volevo una mia cultura!
Grande risposta, insopportabile per un qualsiasi umano medio (mediocre, insisto) dell'occidente industrializzato. Mancava qualcosa in questi cicli di studi? O c'era qualcosa di sommamente fastidioso? Bah! Io gli do ragione per un'infinità di motivi. Ne elenco alcuni. In Itaglia si diventa docenti grazie ad un iter che offende anche la mafia, che male che vada in minimo di morale, che ovviamente non condivido, ce l'ha. Si esce poi come dei polli di batteria, con una messe di nozioni trasmesse come certezze e zero capacità di pensiero. Se sei un minimo indipendente ci metterai anni per smontare e rimontare un castello grottesco, per trasformarlo in un giaciglio minimo ma accogliente e veridico. Per dare un'idea della situazione vi racconto di un certo indocente di Bologna che imperversava e imperversa nelle facoltà umanistiche. Si chiama Renato Barilli. Mostrò in aula magna, presente qualche centinaio di polli di batteria e un terrorista (io …), la seguente opera del Beato Angelico.







La spiegò cercando di dimostrare come in essa conviveva la mentalità medievale della costruzione dell'immagine e la nuova tendenza figurativa. Il problema che avevo colto era uno specifico che gli dava sì ragione, ed era una delle rarissime volte, ma nel frattempo dimostrava una capacità di “vedere” l'opera, assai limitata. Dissi: “trattandosi di un Giudizio universale”, ci dovrebbe essere il Padre, il Figlio e il piccione … ma dov'è il piccione?” fui sgridato perché battezzai lo Spirito Santo com irriverenza e da sempre auguro un attacco di colite atomica a chi manca di umorismo, comunque, sia il caro indocente, che una massa enorme di studenti, si misero a cercarlo nella enorme diapositiva. Non lo trovavano e dissi “cercate bene! C'è!”. Dopo una decina di minuti che avevano fatto letteralmente saltare la lezione, il prof mi chiese di dire dove si trovava questo benedetto Spirito Santo, ma gli dissi “se mi da il suo posto glielo mostro!”, La lezione finì in una risata e gli studenti pensarono che nemmeno io lo sapevo e che forse, caso rarissimo, non c'era. Divertiva il fatto che ero l'unico che riusciva a tenergli testa a quel professorone, e tutto accadde da quando, dopo il primo giorno di lezione, contestai fortemente una sua posizione veramente stupida. Il prof Renato aveva dato il programma d'esame alla prima lezione; io che per il momento lavoravo, non ero riuscito ad andare e alla seconda mi disse, in malo modo, che non poteva girare tutta la vita coi programmi nella borsa quindi avrei dovuto andare apposta per riceverlo, in orario di ricevimento poiché lui, unico del dipartimento, all'apposito bidello non lo dava. Avrei dovuto perdere una mattina. Morale, il tempo degli altri non vale niente. Al termine di quella seconda lezione, mi recai, più veloce di lui, nel suo studio, e quando arrivò gli dissi che me ne sarei andato solo col foglio del programma. Dopo un'oretta, per liberarsi di me me lo consegnò, adirato, ma nel frattempo promosso nel suo io aggressivo, poiché l'avevo ripagato con la moneta che preferiva. Accadde poi, durante una lezione, che chiese se sapevamo chi era lo scrittore che aveva prodotto tre romanzi senza concluderli; stava spiegando il “non finito” in pittura. Dopo vari tentativi, l'uditorio era ormai silenzioso e lui indignato. Io, memore del fatto che aveva scritto un libro su Kafka, ebbi il sospetto che intendesse il praghese. Lo nominai e mi fece i complimenti. Dovetti purtroppo controbattere che i tre romanzi in questione erano terminati. Forse Kafka non ne fu soddisfatto, di quei finali, in fondo non lo era mai, ma alla lettura, che nel mio caso fu ed è una rilettura che dura da una vita, i finali c'erano eccome … e non sapevo come spiegare a questo prof che il non finito in arte invece, nasceva dallo studio delle opere orientali che andò fortemente di moda della fine dell'ottocento ed ha una forte valenza filosofico religiosa … era e fu ben possibile che il non finito in occidente, alla fin fine, fosse diventato un altro modo per essere superficialmente originali, ma non era il caso di discuterne con lui durante la lezione. Ne parlammo a quattr'occhi e si dimostrò d'accordo, senza comunque rendersi conto che il condividere equivaleva ad annullare il senso della sua lezione. Mi disse poi chiaramente che desiderava che io facessi la tesi di laurea con lui. Argomento, arte e letteratura. L'idea in fondo non mi dispiaceva. Mi ero iscritto a ventinove anni, quando, dopo viaggi molto studio e vita bohemienne, avevo deciso cosa fare del mio esistere e accettavo tutto ciò che mi sembrava costruttivo. Ma accadde che, in attesa una mattina per definire l'argomento, vidi uscire una ragazza in lacrime, con in mano una voluminosa tesi in gestazione. Lei mi disse che doveva rifarla. Lui le aveva detto senza mezzi termini che doveva portare avanti le sue idee (sue di Renato Barilli!!!) e che non gli interessava quel che pensava la studentessa. Io, da sempre più don Chisciotte che Alessandro il Grande, mi avventai come una furia facendo presente al malcapitato che lui aveva il dovere e veniva pagato per far crescere il nostro io e non il suo che oltre il resto, la metà delle volte diceva cose discutibili e l'altra metà ovvie! Mi rifiutai di fare la tesi con lui. Non era il caso. E' vero che ambedue amavamo la letteratura oltre che l'arte, ma non potevo sopportare certi diktat che fanno male alla libertà di pensiero, alla crescita interiore, alla vita. E non si pensi che fosse l'unico essere discutibile di quell'ambiente. Ricordo un prof di Storia della scienza, era la mia seconda laurea, in filosofia. Gli feci notare, con l'intenzione di farci una tesi, che i concetti di tempo e spazio, nella storia della fisica, erano in relazione stretta con la religione imperante nella mente dl fisico creatore. Per Newton, cristiano, Dio era in un luogo ben definito, misurabile e raggiungibile. Per Einstein, dio era impalpabile, irraggiungibile per quanto esistente e parzialmente visibile esattamente come il tempo che lo spazio che si dilatano in certe opere di Kafka (i due si conoscevano pure...). Attualmente la fisica si lega alla metafisica induista … e il prof Pancaldi, annoiato, mi disse che conosceva un docente in Norvegia che poteva essere interessato. Mi diede la e mail che provvidi a cestinare subito. Era e forse è ancora, solo un buon organizzatore di convegni … E veniamo ad un pesce grosso. Il filosofo Paolo Rossi. A lezione disse che i malati mentali venivano isolati totalmente come i lebbrosi e che non si ha traccia di certi fenomeni come l'epilessia eccetera. Gli feci notare che spesso erano nei conventi e che il loro stato di malattia ben riconoscibile dai sintomi, quando avevano le crisi acute, era considerato sacro. Mi disse che ci volevano le prove, e le prove, che esistono, e gliele diedi immediatamente con qualche riferimento bibliografico. In un'altra lezione disse che i fisici non erano più le grandi menti come una volta, che ora era tutto un lavoro di equipe. Contestai chiedendogli cosa ne pensava di Hawking, Penrose, Bose eccetera e mi rispose, pensate un po', che questa cosa la diceva Feynman. Mi chiese se lo conoscevo, risposi che era askenazita. “Lo conosce! E' un grande, non trova?” “certo”, risposi. E lui di rimando per chiudere, “bene, allora siamo d'accordo!”, e invece non eravamo d'accordo proprio per niente perché questa “botta e risposta” rivelava solo una incoerenza non mia. In compenso, poiché aveva colto che per la seconda volta ci eravamo scontrati, a fine lezione venne da me, mi strinse la mano e dopo due chiacchiere attaccò un adesivo sul mio notes, col suo numero di telefono di Firenze, invitandomi a rivederci da lui. Ma ero inorridito. Trovavo veramente ipocrita che mi si riconoscesse un valore a quattr'occhi ma pubblicamente mi si fregava con dialoghi insensati come quello appena descritto. E poiché non mi sentivo a mio agio e non sopporto lisciare i potenti per una viscida ed italianissima raccomandazione, mai lo chiamai.
Ne ho un treno da raccontare di queste situazioni. Per la seconda laurea, il pro rettore, mio prof di storia della filosofia, mi chiese espressamente di fare la tesi con lui. Mi dissero che era un'onore, che quasi di tesi non ne faceva più. Per quanto avesse tenuto solo un paio di lezioni e le altre le avesse fatte fare a suoi galoppini e alla sua amante, che erano decisamente di serie b, accettai, perché mi sembrava comunque in gamba, con un linguaggio nitido e semplice che ambivo come una meta, per la mia scrittura. La tesi andò bene. Accadde però una cosa spiacevole, ed ora purtroppo non posso fare nomi perché quel prof agì da furbo. Dialoghi privati e quindi niente di dimostrabile. Rischierei la querela. Comunque, mi propose l'insegnamento in Università a Bologna, ero stupito. Avevo capito che era un ambiente feroce nel quale non vinceva certo il migliore. Se me lo aveva fatto chiedere dal suo portaborse di Rovereto … era perché mi stimava e in fondo così, anche in modo indiretto, mi sembrava una cosa pulita perché non mi si chiedeva niente in cambio se non la mia qualità che sembrava riconosciuta. E invece no! Quando dissi che mi andava bene, che potevo provare anche se l'ambiente di filosofia mi sembrava troppo nervoso, il galoppino, dopo avermi dato una pacca sulla spalla, che voleva dire “ora sei dei nostri”, mi chiese se avevo la tessera del PD. Dissi di no e mi rispose “falla, e da lunedì sei qui”. Testuali parole. Non la feci e comunque mi accorsi che alcuni prof si erano fatti scontrosi e maleducati con me. Capii poi successivamente, quando fu chiaro che avevo rifiutato, che mi consideravano ormai della “cosca” del potente pro rettore e mi dissero anche che aveva diretto l'istituto Gramsci e da quell'ente aveva travasato suoi adepti in quantità, in università … può bastare? Insisto, ne ho a quintali di cosucce da raccontare e, con tre lauree e una specializzazione posso dire di avere visto le corna del diavolo e, se mai valgo qualcosa è per quell'aggiunta che ci metto di mio, che da quando ho l'età della ragione, leggo e medito tanto e in aggiunta, un poco ho pure vissuto e grazie al gentil sesso, che gentile non è, ho pure sofferto.
Torniamo a Tonnara. Io sono molto diverso da lui. Ho terminato gli studi perché prima di arrendermi all'evidenza ho dovuto sbattere il naso fino a sanguinare e ora ho il dente avvelenatissimo verso una categoria che tratterei peggio dei mafiosi (anche perché non vedo grandi differenze). Salvatore invece, quando ha capito che terminare un ciclo universitario di studi, equivaleva ad avere un cervello omologato, tristemente troppo simile al nozionismo, semplicemente pieno di cose spesso non sensate ma solo di moda ... e la moda esiste anche nelle scienze e perfino nella matematica …
Ecco, Tonnara, ha deciso di lasciar perdere e di proseguire da solo. Il risultato è che lui, tornato ad Amantea, si è innervosito meno e ha fatto scelte sì estreme in fondo come le mie, ma molto più sensate e senza perdere troppo tempo e ora io maledico gli anni buttati via a Bologna. Se fossi re per un giorno … la Alma Mater la chiuderei definitivamente. Covo di raccomandati superbi! Irnerio si chiamava il fondatore e il nome era il mio. Werner, che divenne Wernerius poi Irnerius e ora appunto Irnerio. E ammetto che mi piacerebbe spianare via Zamboni e farci un bel giardino. In Più, contrariamente a quel che si crede, non è la più antica, che Federico secondo a Salerno, di qualche decennio la anticipò con la scuola medica.
Salvatore non ha rabbie in corpo. E' serenissimo e dice che con la sua opera vuole seminare serenità. Io, all'apparenza ho fatto la cosa giusta, terminando gli studi e facendone così tanti. Ma so che ho solo tante medagliette senza senso, che i fatti, quel che io effettivamente sono, non sono nati dagli studi di Bologna, ma dall'innesco dell'io che avvenne per ben altre vie.
Che il lettore non si stupisca troppo del mio modo di scrivere. Egli potrebbe pensare “ma guarda questo! Dice che parla di Tonnara ma poi parla di se stesso!”. Ma ha un senso agire così. Il mio io si rapporta in modo individuale, soggettivo, con Tonnara. Mi fa ridere chi pretende di essere oggettivo, freddo, razionale! E particolarmente in arte e letteratura che son scienze umane e come ogni cosa umana …..
Se poi si pensa che la religione ha condizionato per millenni la nostra percezione del mondo fisico, penso che non si possa più dubitare che niente, sia oggettivo, almeno per ora, nella cultura umana. Si può fingere di esserlo, ma un'ipocrisia condivisa non mi piace e fa male a quella irraggiungibile realtà che desideriamo almeno avvicinare.
É quindi la storia della mia esistenza che si misura con la storia dell'esistenza di Salvatore e, per anni, per quel che riguarda lo studio, ha vinto lui, perché ha capito prima il totale disvalore dell'università italiana, e ha deciso di fare da solo.
Ha più di settant'anni e vive in un modo tutto suo ma che è coerentissimo con i suoi principii. Casa sua, mi hanno detto, è disordinatissima. Mi hanno raccontato che non si capiva dove fosse il letto e che una volta individuato, la domanda era “ma come fa a dormirci con tutta quella roba sopra!” e io deduco semplicemente che ha altro a cui pensare e che il concetto di ordine non deve essere apparente. Se lui in quel caos trova subito quel che cerca allora si tratta di un caos apparente o, che è la stessa cosa, di un ordine con regole che ci sfuggono. Sembra che ci siano libri dappertutto, ma non è uno di quegli uomini, nati nel libro che trovatisi in internet da adulti e non hanno saputo adeguarsi. Lui tende al misticismo, e le sue ricerche, che attualmente avvengono tutte per mezzo del computer, vanno verso la meditazione di quelle teorie della fisica che sembrano avere la possibilità di rivelare quel che secondo lui la scienza non è disposta ad ammettere. Mi raccontava per esempio, con fascinazione, di un video nel quale le molecole d'acqua reagivano in un modo elegante e rilevabile visivamente. Masaru Emoto, scienziato ovviamente giapponese, dimostra che la cristallizzazione dell'acqua cambia a seconda del tipo di musica alla quale viene sottoposta. Cambia perfino in relazione alla voce umana. Vi basta digitare quel nome su youtube per deliziarvi.
E ora noi ragioniamo su Salvatore Tonnara. Non ci interessa e non ci deve interessare come lui interpreta un esperimento scientifico, ovvero in modo mistico, ma il perché.
E per questa via, vedrete che pian piano approdiamo ad alcune delle sue opere che secondo me meritano spazio e rispetto.
La tendenza al misticismo e l'arte come suo sacerdozio, si colgono in ogni suo pensiero. Egli si sente partecipe di una universalità divina.
Dopo aver iniziato vari corsi universitari ad indirizzo tecnico scientifico, li lascia perché la scienza gli sembra fredda e insensata, senza anima. E non si pensi che la scienza non ne abbia bisogno. Newton diceva che l'universo era un grande meccanismo che Dio aveva ideato, gli aveva dato delle regole e che ogni tanto dava una spintarella perché altrimenti si fermava. Hawking e non solo, dice che un'entità che qualcuno chiama Dio, ha innescato il big bang e poi si è seduto e si guarda lo spettacolo dell'universo e delle nostre vite come fossero fuochi d'artificio (scherzo ma più o meno la pensa così). Insomma, in un certo periodo, la fisica è stata atea, non sentiva il bisogno di Dio. Si chiamava positivismo. Vi invito a ricordare Il romanzo “Frankenstein”. Uno scienziato romantico (non per niente lo scrisse Mary Shelley su un'idea partorita dal marito con lord Byron …) riesce a sconfiggere anche la morte! Il problema comunque sarà nel fatto che, l'essere che torna in vita, non è più esattamente quello di prima. Questo tentativo, poi fallito, e che sarebbe la meta estrema tanto desiderata dalla scienza, la ritroviamo nel romanzo “Il Golem” di Gustav Meyrink. Qui il rabbino Low (Leone) di Praga, realmente esistito, con i suoi studi sacri, riesce ad ottenere un essere si vivo, ma senza senso, al quale manca quel qualcosa in più che lo rende umano e che solo Dio può aggiungere. Un altro libro, assai più recente, ri mette il dito nella piaga. Stephen King, in “Pet Sematary” del 1983, immagina una donna che muore causa un incidente stradale. Il marito che non resiste al dolore, la porta in un cimitero degli animali vicino a casa, nel bosco, poiché risulta che gli animali che qui vengono sepolti, riappaiono. Così era accaduto al loro gatto che comunque non era esattamente quello di prima. Frankenstein, il Golem e quest'ultima idea, si “sente” che sono nate da un desiderio troppo umano dell'uomo, che viene effettivamente realizzato solo nel misticismo religioso e attualmente anche, in una forma che non esito a definire misticismo laico. Si potrebbe obbiettare che si tratta di una illusione, che di fatto le religioni promettono l'immortalità ma non ne danno altro che l'illusione (che comunque è meglio che niente), che la vita eterna, la vita oltre la morte eccetera, siano aspetti indimostrabili. E io confermo dicendo che la mentalità scientifica è fortemente emancipante dal punto di vista materiale. Non nego che ci abbia semplificato e allungato la vita, ma è anche una gabbia tremenda. Se non rispetti le sue regole sei fuori dal senso e sei ridicolo ma … vi faccio un esempio scientifico, anzi due, assai semplici.
Primo. Un chimico che collaborava ad inizio carriera in una equipe americana di prestigio, ipotizzò che in una fase della cristallizzazione il materiale osservato sia diciamo gommoso. Fu irriso dai colleghi che gli regalarono libri di testo che in teoria avrebbe dovuto avere letto, e il grande capo gli diede proprio dell'imbecille. Scrisse pure delle robacce su un foglio che il nostro povero giovane portò con se per tutta la vita attaccandolo in ogni laboratorio dove si trovava a lavorare. Com'è finita? Che aveva ragione e per quel ragionamento, poi dimostrato, ha pure vinto il Nobel! Secondo esempio; il Bosone di Higgs. Si tratterebbe di una particella senza massa. Strano! Già linguisticamente stona. La particella ha massa per definizione! Che casino! In poche parole la scienza, con le sue regole ferree impedisce addirittura anche a se stessa di progredire e se accade è ancora troppo spesso, per mezzo di grandi sofferenze individuali. Giordano Bruno e Galileo non furono i primi e non saranno nemmeno gli ultimi a pagarne le consegurnze. Bose, grande fisico, che arrivò a concepire il quarto stato della materia (a ridosso dello zero termico assoluto), e che fu approvato da Einstein, era profondamente religioso, per esempio. Per lui le sue scoperte altro non erano che la rivelazione di un frammento in più del tutto che si identifica con Brahma.
Penso di avervi un poco ubriacati, ma ho dovuto farlo per dimostrare che la scienza, come ogni pensiero umano, è umanissima e risponde in fondo non ad un astratto senso di realtà, ma ad un bisogno appunto umano.
Altro esempio (e tre ...). I numeri nascono dal bisogno di contare le pecore e le staia di grano, poi per misurare gli edifici eccetera. Una esigenza pratica. Disponiamo di una matematica pura, fine a se stessa? Direi ancora di no. Essa viene varata tuttora per soddisfare esigenze concrete. Esiste una matematica per la fisica quantistica, come esiste una matematica per quella newtoniana, ma è legata ad un uso specifico e no è una matematica per tutto. Non si tratta di matematica pura. Un esempio elementare. La diagonale di un quadrato è, in relazione al lato, un numero incommensurabile (infiniti decimali, esempio più semplice, radice di due è la diagonale di un quadrato con lato uno), ma noi di fatto vediamo un segmento che ha un inizio e una fine, vediamo un oggetto definito! Questo per me dimostra semplicemente che la matematica che usiamo non è ancora in grado di emanciparsi dal conteggio delle pecore. E lo zero poi! Un unico segno per due significati diversi. Ma questo non crea confusione? Zero sta per quantità nulla, quindi un niente e se il numero è una quantità come fa lo zero che rappresenta l'assenza di una quantità ad essere considerato un numero? E poi, si osservino questi due numeri. 101 e 1001. Si vede che qui lo zero rappresenta una posizione. Ci si potrebbe mettere d'accordo e metterci un altro segno. Che vuol dire colonna delle decine o delle centinaia. Quindi un segno, lo zero, rappresenta una posizione che non contiene nulla oppure il niente e spero che si “senta” che si tratta di due cose diverse.
Lo zero divenne importante da quando Fibonacci portò la partita doppia come calcolo aziendale dal nord Africa nella sua Pisa, e da qui si diffuse in tutto l'occidente medievale. Lo zero divenne l'incubo del commerciante perché rappresentava il bilancio in pari! Prima del milleduecento lo zero compariva e spariva. La sua presenza assai scostante ci deve rivelare molto e la sua fama è quindi di natura commerciale!
Perché vi affatico con queste cose? Per dimostrare, se non scientificamente, non ambisco a tanto, ma con un filo sottile e discutibile di coerenza quotidiana, che non è impossibile mettere in discussione le basi della scienza. E un mistico poi, categoria della quale Salvatore fa parte anche se è dotato di competenza scientifica, ha il diritto di illudersi esattamente come fa il fisico. Ricordate quanto segue: se lascio l'oggetto che ho in mano, andrà per terra. Se lo rifaccio accade ancora e ancora e ancora. Ma dedurre da questa ripetizione che è una regola fissa, è pura illusione innescata dal nostro bisogno di abitudini, di regole. Diversamente si tende alla follia. Si pensi al personaggio di Charlie Chaplin in “Tempi Moderni”. Nel rapporto con la macchina, regola pura, l'uomo non ha più scampo perché non serve più pensiero. Questo genera alienazione. Ma questo accade anche nel suo opposto che è la totale assenza di regole. Per questo l'uomo tende a cercare la ripetizione, codificarla, e lo fa solo per semplificarsi la vita, per non diventare matto, perché solo nella regola è possibile definire un'azione che se ripetuta diventa scienza o tradizione (oppure sono sinonimi con ambizioni diverse ma la medesima base? Meditate gente...)

Ora alcune opere di Tonnara.
É accaduto, nelle sere che feci compagnia all'artista durante la mostra, che alcune opere fossero particolarmente apprezzate dai giovani. Non si permettevano di applicare assurde regole di estetica enunciate da esperti prezzolati. La più celebre spesso me la sento dire da anni dagli artisti, ed è in fondo una forma di difesa. “io l'opera l'ho fatta e ognuno ci vede quello che vuole!” che è un puro assurdo. Un artista fa un'opera perché ha un motivo! Diceva Fitzgerald: “non si scrive per dire qualcosa. Lo si fa solo se si ha qualcosa da dire”. A “scrive” possiamo sostituire in questo caso “dipinge” e il senso regge ugualmente. Ebbene. Cosa vuol dire l'artista con questa opera? Domanda legittima che molti giovani appunto, in barba al filosofese e agli atteggiamenti scientificheggianti della semiotica dell'arte, hanno posto ad un Salvatore Tonnara che vedevano ben disponibile e chiacchierino.
Va aggiunto che la situazione era assai particolare. Ad Amantea, che per semplice assonanza ho deciso essere il luogo di nascita della gentile capra Amaltea, ci sono circa quindicimila abitanti e tutti conoscono questo pittore che ama definirsi pittore di marciapiede poiché, nella centrale via Margarita espone quotidianamente dalle 19 alle 24 (tempo permettendo). È presente poi la domenica mattina perché è giorno di mercato. Mi ha detto che non ne vuole sapere di contratti e mercanti e che ha accettato per la prima volta di esporre in quel modo, in uno spazio espositivo organizzato e coperto, poiché gli è stata garantita la totale libertà che sente essergli necessaria. Le opere poi, spesso le regala, poiché sente come un legame con chi la acquisisce. E' un poco come chi ha una cucciolata e i nuovi nati non li da per guadagno ma solo se è sicurissimo che vanno a stare bene. In questa situazione, con questo tipo di rapporto con la sua cittadina, egli è noto a tutti, tutti lo salutano e fargli una domanda non presuppone, anche nell'apparente ufficialità di una galleria d'arte, un rituale che in altri contesti si fa necessario. Direttamente quindi, molti giovani chiedevano su una certa opera che è la seguente:



Tonnara allora si profondeva in una spiegazione semplice e con implicazioni etiche forti. Lui da ragazzino amava i film con gli indiani. All'inizio erano i selvaggi da eliminare e nei giochi per le vie della sua infanzia invece, l'indiano era per lui, un essere emanato direttamente dalla natura con diritto alla vita più delle giubbe azzurre. Poi col tempo anche nel cinema, l'indiano si è trasformato, da selvaggio pericoloso in vittima. 




Nell'artista, per anni, una volta che scoprì che erano stati relegati nelle riserve e di fatto annientati come cultura, si sommò, alla precedente preferenza già controcorrente poiché erano a contatto con la natura più dell'uomo bianco, si sommò dicevo, un senso di impotenza che divenne in lui immagine ricorrente. Prima dipinse i primi piani di indiani (quasi mai puro individuo, ma la coppia che rappresenta il minimo plurale che è simbolo del plurale assoluto che è la comunità), poi folle, nelle quali ogni individualità rimane a sé ed è rimarcata dal colore che è sempre diverso e disposto pure diversamente. In più alcune caratteristiche, come la piuma, e la collana, passano per una astrazione che li semplifica all'estremo. Diciamo che sarebbe necessaria una mostra che parte dai doppi ritratti degli indiani nei quali ogni volto è un io grazie alle caratteristiche somatiche, per approdare all'astrazione e alla folla, al popolo indiano che diviene un insieme armonico.
In altri scritti ho spiegato che spessissimo l'arte contemporanea la si può comprendere non con l'opera singola ma con la serie che parte dall'idea per giungere al risultato. Esempi celebri sono il toro di Picasso che da figurativo tradizionale, si fa segno rapido fino ad essere espresso in modo completo e avvincente da tre pennellate e basta. Se si mostrasse solo il risultato finale, quel toro quasi astratto, non si apprezzerebbe lo sforzo compiuto dall'artista, e nemmeno il ragionamento che ci sta dietro. Un caso simile accade con l'albero di Mondrian.
Anche Salvatore Tonnara ha necessità di questo tipo di esposizione per essere compreso. Il quadro da solo, esposto alla mostra, appagava per il senso che lui spiegava e che ha un alto valore morale, ma il pubblico giovane era attratto dalle cromie, dalla tendenza iconica, dalla folla, che a è una dimensione attuale che spesso è vissuta come annullamento. L'appagamento dal punto di vista visivo, ci sarà solo con l'esposizione dell'intera serie e penso anche che non sarebbero più necessarie spiegazioni. Si può dire, come è giusto che sia, che l'opera di un nostro contemporaneo, calato nel nostro medesimo contesto sociale, ci parla senza bisogno di mediazioni.
Si ricordi sempre che è lo scarto temporale che richiede l'intervento dello storico dell'arte, e attualmente anche un'opera di vent'anni fa ha bisogno di una spiegazione che riguarda un mondo che non c'è più, del quale forse abbiamo un ricordo e basta. Si ricordi anche che solo le opere espresse dal nostro “branco” possiamo comprenderle con immediatezza. Tonnara in questo momento, che non sappiamo quanto dura, ci offre un azzeramento del tempo che quindi viene ad identificarsi col presente e, in più fa parte del nostro gruppo sociale. L'indiano anche per noi è vittima ed è sentito come un peccato originale, non l'unico, della cultura occidentale industrializzata.
Aggiungo che questo quadro, unico con questo tema nella esposizione, staccava troppo dagli altri, che erano assai più, diciamo, tradizionali e proprio per questa sua “solitudine” espressiva, attirava.

Delle altre opere non parlo. Tonnara ama i fiori, ama la tradizione, con le processioni in una luce che solo il sud sa dare. A me, che forse non sono più giovane, piacciono i suoi indiani che ha riscattato purtroppo solo sulla tela.

Amen

dopo l'amen mi è venuto in mente che devo fare una precisazione. Vi è qualcosa di mentalmente primordiale, arcaico, nel fatto che Tonnara abbia espresso uno, due e poi molti. Mi spiego. Gli indiani in un'opera come la seguente,





esprima una identità più una. Da una più una, la sua mente è passata alla moltitudine.
Ora il riferimento con l'origine del calcolo nell'umanità, verificato nel novecento ancora in alcune tribù. Essi contavano così, uno, due e poi molti. Si badi che contare uno e due è dovuto a due fattori. In noi molto è doppio, quindi abbiamo necessità per esprimere noi stessi con completezza. Una mano, un'altra mano, si trasformò in una mano, due mani. Il passaggio è notevole. In esso si cela il gradino successivo, che consta nei multipli di uno e due, quindi II – I che è III, quindi tre, nuovo numero accessibile a chi ha imparato a gestire uno e due. Poi II – II che è IIII ovvero uno dei modi di rappresentare il quattro sotto l'impero romano. Dopo quattro ecco molti. Questo passaggio dal quattro in poi, Già diviso in sé in due più due, è moltitudine perché in un solo colpo d'occhio già il cinque lo scindiamo in tre più due.
Per quale motivo vi “rompo la testa” con la matematica delle origini? Perché è quella che usa l'inconscio. Se Salvatore ha usato uno, due e molti è perché non ha meditato l'immagine, ma l'ha sentita e riprodotta da una dimensione primordiale, originaria dalla quale già il tre (che divverrà simbolo divino e quindi gerarchico) e il quattro, simbolo delle direzioni, non sono ancora stati concepiti.
Altro pensiero e poi chiudo. Non è esistito il vocabolo grande e il suo opposto, piccolo. Ma grande e non grande che successivamente si sono trasformati in vocaboli distinti. Una particella privativa, quel non, alla quale ricorriamo senza renderci conto, quando sguazziamo malamente in una lingua straniera. Immaginiamoci in Germania, stanchi per il viaggio. E chiediamo una birra. Ci chiedono se la vogliamo grande come di solito accade ... ebbene, se non ci viene a galla subito la parola che sta per piccolo, che è Klein, ecco che ci scappa, quasi in automatico, un nicht gross! Che ottiene, con meno competenza, il medesimo risultato. In un altro brano ho spiegato la base comune di significato, a livello di psicologia del profondo, per Black e blanco che, se si rispettano le consonanti, son troppo simili per non dare da pensare. Che la b possa diventare v e accidenti simili è poca cosa, sta di fatto che una radice consonantica comune deve accendere una lampadina nel nostro cervello!




E tutto questo materiale, in pittura o in un racconto, quando appare con insistenza in superficie, ci dimostra che la mente sta pescando nell'io più profondo, che le convenzioni sociali almeno per un momento in noi sono impotenti e che una verità, prima nostra e poi universale, sta emergendo.