domenica 3 giugno 2012

Il pensiero fisso di Gogol


2 giugno 2012

Oggi mi hanno parlato di Gogol. Risulta da alcuni scritti, oltre che da testimonianze, che fosse letteralmente terrorizzato dall'idea di finir sepolto vivo.
La paura gli venne, e crebbe fino a diventare fobia, perché in età avanzata iniziò a soffrire di letargia. Ovunque, e con facilità, si addormentava di un sonno pesantissimo che in alcuni casi si faceva simile alla morte.

Accadde che, durante la Russia comunista, si decise di spostare la sepoltura e di cambiare la lapide. Aprirono anche la cassa e con sorpresa generale, videro che il corpo era a pancia in giù.

“Sono perplesso”, ho risposto. La cassa potrebbe essere caduta …... ma, se la sua grande paura si è compiuta, dovrebbero esserci segni di graffi. So di casi simili e si vede chiaramente che la persona ha lottato.

Mi hanno risposto che i giornali dell'epoca non specificarono niente, ma conoscono qualcuno che fu presente e mi faranno sapere.

Ognuno di noi teme un certo tipo di epilogo del corpo e, come fu per Gogol, di solito questo è in relazione con una nostra debolezza fisica. Anch'io ho, in proposito, un mio timore che per ora giace assonnato.

Quel che mi tocca profondamente di questa possibile vicenda, è la sensazione che certe situazioni, pensandole, le attiriamo.
Ovviamente non basta una volta e forse nemmeno due, ma convivere per esempio con la paura di una caduta nel bosco in montagna, rende possibile l'evento perché quando siamo nel “paesaggio della paura”, è essa stessa a guidarci.

E può anche accadere che l'aerea cada con colui che ha paura di volare, perché l'io è più forte di quel che si crede e attira a sé il destino meditato senza discernerne la negatività, se è presente.

sabato 2 giugno 2012

Paola Capriolo - "La spettatrice"


La fine del corpo di Tonino, accaduta nel primo giorno di primavera, ma ha inebetito per tutti i giorni seguenti fino a questa mattina quando, alla vista di un gruppo di fenicotteri rosa, qualcosa in me si è risvegliato. Penso di aver ritrovato una parte di me stesso. Spesso, all'alba, o quando potevo, mi recavo a Santarcangelo, sedevo sul retro del monumento ai caduti della piazza e osservavo l'appartamento ha spiccato il volo. Lora, la moglie, accuratamente dispone fiori nei vasi e qualcuno, mi piace pensare che sia lei, li nutre d'acqua. Mi diceva Tonino che quell'appartamento, che stava contenendo la sua fine, era l'unico abitato della piazza. È una delle aberrazioni italiane e forse non accade solo qui. Le banche e le grandi aziende, comprano gli edifici sulle piazze dimenticando che in Italia, questa terra con l'anima nel sud, vive quello spazio come un salotto che ha come soffitto il cielo. Gli uffici chiudono a una certa ora e nei giorni festivi son deserti. Così la gente deve migrare dalla periferia che per un italiano è già a due passi oltre la piazza o la via preferita per il passeggio. Il centro è dove ci si vede, dove si dialoga, dove si va per incontrarsi e costruire, dopo aver concluso gli edifici, la civiltà. Ricordo con fascinazione, Ascoli Piceno. Verso il tramonto, la piazza principale, che fino a quel momento era stata solo un crocevia di casuali passaggi, si riempie fino all'inverosimile. Io, seduto in compagnia di una birra, osservo il duomo alla mia destra e quella folla. Non il duomo, non i muri son Ascoli, ma quella gente che eternamente si radunerà sempre qui al tramonto. Se osservate oggi un cavallo nel paesaggio e fra vent'anni, ripassando, nel paesaggio vedete di nuovo un cavallo, se siete sensibili saprete di aver osservato e di osservare, oggi come domani e per sempre, il Cavallo come entità eterna. Così gli ascolani, semplici, popolari, vocianti e antichi. Penso che anche i gesti di quella donna ben vestita, quel muovere il braccio e schiudere la mano nell'intento di rafforzare una frase appena detta, siano antichi, inconsapevolmente tramandati, come inconsapevole è per loro che stanno vivendo, cogliere questa eternità nell'attimo.
E Siena, che mi accolse in una sera d'estate e alcuni senesi erano stesi in piazza esattamente come si farebbe sul divano di casa. La famigliarità delle piazze italiane, la loro vita. E penso anche a New York che ha trasformato le piazze in incroci e ci si incontra solo nei locali e forse, nei parchi che in loro fanno scattare un istinto ginnico e non certo di meditazione.

E, nella piazza di Santarcangelo, guardando la finestra, spesso vedevo me stesso che si affacciava in quei giorni duri, ad abbeverarmi di un po' di luce e tornare carico per trasformarlo in sorrisi, compagnia, dialogo di quel che lui e io quasi segretamente, si amava.

Son tornato in me, forse solo per qualche ora; ancora non so, ma lo devo anche ad un'amica sconosciuta. Si chiama Paola Capriolo. Ieri sera ho preso in mano un suo libro e mi son detto “proviamo se riesco a leggere un po'” perché una delle conseguenze più spiacevoli, per me è stata, da dicembre, l'incapacità di concentrarmi in un libro per più di una decina di pagine. Ho scelto “La spettatrice”. La mia è una prima edizione del 1995. ho tolto con fastidio la sovracoperta e ho tentato le prime parole.
Sì, Quella sovracoperta la odio e un poco la amo. Sotto al titolo, l'immagine di Beardsley mi infastidisce. Si intitola “gli amanti di Wagner” e mostra in primo piano due donne che percepisco come mostruose, incapaci di dolcezza e un volto d'uomo di profilo che ha per me sapore di cinismo. In fondo si vede un palco ornato da coppie di colonne che contiene due figure femminili. Queste, rese innocue dalla distanza, sono idealizzabili; quella a sinistra mi sembra una dama rinascimentale, quella a destra, una dama di Rossetti, dura dura, ma pura.
Il particolare che più mi destabilizza e mi allontana dall'essere quell'acqua tranquilla che è in grado di ricevere e riflettere i raggi del sole, è l'immagine di lei, l'autrice, sul retro di copertina. Per quanto sia evidentemente in posa, colgo negli occhi la sorpresa di chi anche se sa che stanno fotografando, pensa con disgusto che quella immagine di sé, che ben poco rappresenta quel che siamo o pensiamo di essere, farà il giro di molte case. Indifesa nel mondo. Bisognosa di una realtà ideale che ben poco o quasi nulla di umano intorno a lei, è in grado di incarnare. E io che son protettivo, la trovo bella per questa sua fragilità e poi ammetto a me stesso che non è solo così. L'istinto la guarda e la trova interessante... ed ecco che l'acqua si fa increspata e poi onda. Non si deve leggere mai con i sensi! Quasi mi arrabbio con me stesso che non ho resistito e mi son lasciato andare al suo musetto che trovo grazioso. Tolgo quindi la copertina, accendo un incenso, attendo che l'aria sia profumata e accarezzo Lolita. Mi nutro del suo sano affetto, e recupero la limpidezza, la calma che può far riflettere i raggi del “pianeta che mena dritto altrui per ogni calle”. Sono pronto. Inizio la lettura. La prima facciata di sapore borgesiano, è costruita ed elegante. “...narrare...una possibile storia di Vulpius....pochi elementi certi di cui disponiamo. Che sia poi la sua storia vera, o almeno la più verosimile, non mi sentirei di affermarlo.” Bene. Io che sono il lettore mi faccio alleato e indagherò con lei questa vicenda. Nella facciata successiva inciampo in una fastidiosa ripetizione. Intrattiene- intrattenuti. Per una frazione di secondo torno alla realtà e poi riprendo il cammino semionirico. Mi tiene sempre parzialmente ancorato alla realtà un modo di scrivere così accuratamente costruito da rasentare l'artificialità. Costruire troppo è ingabbiare. Sento che la scrittrice agisce al limite ma non cade mai nella costrizione solamente intelligente. C'è qualcosa di sensibile che la guida e la rende sempre più che presentabile. Da sempre penso che chi costruisce troppo in arte lo fa per uno dei seguenti motivi. O eccessiva solitudine, e qualcosa bisogna pur fare, o l'essere incastonati in un sistema sociale che richiede questa apparenza per essere stimati. Accade poi che quell'apparenza si fa abitudine, la maschera diventa il volto e chi la indossa ne perde la consapevolezza. Per lei penso si tratti di solitudine. In essa accade che i pensieri girino in tondo all'unico epicentro che a loro si offre, se stessi, e la precisione rischia di farsi minuziosa per approdare poi all'ossessione. In lei non accade. So che ha dei gatti e legge molto e, se sai fare, se intimamente hai compreso, si tratta di due modi di relazionarsi, non nella realtà sociale, ma in una dimensione personalissima che curerai e rispetterai con sacra attenzione perché da essa dipende la tua possibilità di salvarti dalla sempre possibile perdizione. Mi lascio andare alla lettura del libro, passano i minuti, si fanno ore. Con questo libro di valore ho ritrovato i miei passi, l'atmosfera di corridoio vuoto, di gente appena passata, di odore di vita appena accaduta, e respiro me stesso ritrovato.
Penso poi a quella ripetizione che ho accusato di avermi distratto dal fluire della scrittura.
…..Questa mattina ho visto i fenicotteri e ho scritto. Ricordo di aver prodotto una ripetizione e di non averci fatto caso più di tanto, perché avevo premura di avvolgere il più accuratamente possibile quanto appena vissuto in quella ventina di misteriose lettere dell'alfabeto.
La perfezione stilistica nutre il corpo, non devo cercarla perfetta. Chi in essa si esaurisce è come se si sentisse sazio di vita dopo aver nutrito i sensi fino all'eccesso.
Questo libro poi è una tappa di un cammino che secondo me raggiunge l'apice in “Una luce nerissima”. Ricordo che ero al supermercato e vendevano libri a due euro al chilo, più o meno il prezzo di due caffè. C'era quel libro. Lo presi e lo scoprii il capolavoro.
Ho sempre detto che De Andrè era degno del Nobel per la letteratura. Mi trattarono con indulgenza, come un malato irrecuperabile. Ora è il genio italiano del secondo novecento e qualcuno, in altre parti del pianeta non trova stupido candidare Bob Dylan. Trovavo degno di quel titolo, Tonino Guerra, e prima di lui Manganelli, e poi Flaiano e Savinio. E penso che di tutti questi nomi solo De andrè ha una notorietà giusta, inscalfibile e destinata a crescere. L'Italia non esiste se non sa identificare i suoi grandi e rispettarli, riconoscersi in essi. Attualmente, degni di una candidatura che un tempo era considerata la massima consacrazione, sono secondo me Paola Capriolo, Roberto Vecchioni, e Francesco de Gregori. Mi risulta che per ora, la finzione che conosciamo col nome di Saviano (e che nulla ha a che fare con la letteratura e comunque la parola elevata ad arte), sia in pole psoition, l'abbiamo già visto col Nobel cinese e con Pamouk che si vince se agisci, detto in modo generico, nel sociale. Esseri come La Capriolo, Vecchioni e De Gregori, che rendono offrono alla nostra specie la speranza di essere portatori di un'anima sensibile, son considerati di un livello secondario. Ora si vive di presente, di reazione ad esso valutata dall'emotività. Chi va oltre come loro, è grande, ma è solo.

Due giugno, ore dieci di mattina.

Ho appena terminato la passeggiata nella “valle” di Marina Romea. Avrei potuto dire che è stata lieve..... ma l'incontro con due umani ha annullato la bellezza che secondo me emana da quell'aggettivo.
Dunque. Passeggiavo.....
e sulla destra, in lontananza, vedo un gruppo di uccelli bianchi.

Se stanno volando si chiama stormo. Non so se è corretto anche per quando riposano sull'acqua.
Ho la sensazione, ma non la certezza, che l'ultimo gruppo che ho visto planare, sia rosa. Dopo poco passano in direzione a me contraria due umani; un maschio e una femmina, con l'atteggiamento di chi sta camminando in modo deciso, da qualche chilometro. Li annuso con discrezione. Qualcosa in loro mi rende diffidente, ma mi avvicino e chiedo se vengono da là, da dove stanno quegli uccelli.
Dicono di si. Chiedo se sono i fenicotteri e confermano. Sovrappensiero, ma ad alta voce, dico che non resteranno in quel punto. Rispondono con aria di sufficienza, che son li da due settimane. Avevo annusato giusto. Qualcosa in loro manca e da questa assenza si libera nell'aria un odore che è quasi una puzza. Mi si ferma la lingua. Annuso ancora in un crescendo di diffidenza. Riesco a dire solo che voleranno vicino alla tale fabbrica perché c'è qualcuno che si fa pagare per portare la gente vicino con una barca a motore. Loro mi ri-guardano con sufficienza e mi ripetono che i fenicotteri son li da due settimane.. mi arrendo. Se ne vanno.

Chi pensa di aver capito guardando, come han fatto loro, cosa perde?
Bastavano cinque minuti e guardare sarebbe diventato osservare. Uno stormo è giunto sull'acqua immobile. È rosa. Un altro, un attimo dopo, si fa stormo e va. Vanno verso destra, in direzione di quella fabbrica, sempre.
Diventano bianchi qui, mangiando non gamberetti ma un'altra minutaglia, per questo puoi distinguere chi è appena arrivato da chi è presente da almeno una settimana.

Ecco. Vedere e osservare. Osservare ed elaborare. I primi tre gradini che ben pochi percorrono. Sono in salita, ma avvicinano alla meta. C'è comunque una fatica da compiere, che se ti affidi ai sensi che notoriamente girano in tondo, puoi evitare, ma ottieni ripetizione e non crescita.

Ed elaborare, il terzo gradino che ci emancipa, deve essere affidato alla mente e al cuore.
La prima spiega quasi tutto e il secondo, il cuore, crea un'armonia che....

E infatti, penso, anzi, mi lascio andare a quel che mi ribolle dentro e “sento” che, in questo paesaggio di pini acqua e vento, il fenicottero inconsapevole, si fa adulto e parte di un paesaggio stupendo dal quale io, frammento di quell'umanità distruttrice, mi sento escluso.
Passo sempre col piede leggero, per non disturbare, per non “svegliarli” ala vista del carnivoro supremo. Io so di non esserlo, ma come spiegarlo a quel paesaggio vivo e riuscire a farne parte compiendo così uno dei miei destini?

Ma mi rinfranca la Volpe che non mi teme e viene di notte, mangia qualcosa che ho preparato per lei e poi si ferma, si siede, fiuta l'aria e, senza mai guardarmi negli occhi, mi fa compagnia.
Io, seduto con una piccola luce che si posa sulle pagine di un libro, deformato da una giacca a vento, nel freddo della notte, ho atteso, solo, questo momento.
Sono commosso.
Sì, la natura che mi è madre e assassina, non mi teme, e dalla compostezza elegante della volpe, me lo fa capire.
E mentre pensavo queste cose, distratto appunto dal pensiero che troppo spesso ci allontana dalla vita, torno a me per via di un fruscio. La Volpe se n'è andata.
Devo crescere. Il pensiero, in certi momenti ostacola il fluire da dentro e anche la vita. Devo lasciarmi andare e forse ancora, come quell'unica volta un anno fa, si avvicinerà e dolce e supremo accarezzarla ancora.