giovedì 25 agosto 2011

L'ultima lezione di Nabokov




Ho appena terminato di leggere “l'originale di Laura”

Nabokov è stato vittima di un successo spropositato che sarebbe stato giustissimo se fosse scaturito da una vera consapevolezza del suo valore. Mi riferisco ovviamente a “Lolita”. Per dare idea della situazione, che tuttora colpisce, di recente, a casa di un amico, “Lolita” era posizionato in un angolo abbastanza schivo della libreria e neppure in quella che non è di facile acceso all'ospite occasionale. Non è certo un libro che molta gente riesce a tenere in salotto. Una sorta di pudore ancora condiziona, particolarmente negli ultimi anni nei quali si è dilatato talmente il termine pedofilia rendendo il “lolitismo” uno dei suoi aspetti più noti e controversi.
Mi risulta che la definizione esatta di pedofilia sia la seguente: manifestare interesse attivo di natura sessuale nei confronti di bambini, e col termine bambini si intende, per la precisione un esserino ancora sessualmente non sviluppato. “Dolores Haze, al mondo nota come Lolita, non era più una bambina, ma una adolescente. Sessualmente sviluppata senza ombra di dubbio. Mi raccomando, non si pensi per questo che io intenda sdoganare la visione del tardone con la fanciulla. Personalmente ritengo che un rapporto abbia senso quando c'è un mondo, un mondo essenzialmente mentale da condividere e credo che rientri nel caso della eccezionalità più unica che rara la ragazzina che sia in grado di relazionarsi alla pari con un essere pensante di altra età. Non che la ragazzina non pensi. Ma la visione della vita che ha, la pulsione erotica, fortissima e spoglia di esperienze, la rende più facilmente vittima di chi sente la decadenza del corpo e vuole nutrirsi dell'altrui freschezza per esorcizzare la propria. Un sentimento, per quanto possa divenire incontrollato, travolgente, parte da un luogo che spesso ho descritto. È inesistente e si situa fra il cuore e la mente. Non esito a chiamarlo anima, e la sua influenza sulla nostra esistenza, una volta che abbiam imparato ad essere più forti del basso ventre, è totale e benefica.

L'immagine posta invece dalla pedofilia, intesa esattamente, oppure se non siete in accordo con la mia definizione, supponendo che così essa sia, è a dir poco sconvolgente, intollerabile.

La Lolita è un essere che per definizione è in grado di avere rapporti e quel che scopriamo nel romanzo di Nabokov, è il motivo che spinge il protagonista verso lei e la subdola di lei essenza.
Andiamo per gradi. Dopo aver letto quel romanzo, ho cercato in vari mercatini l'edizione più datata e ne ho rimediata una al prezzo di un caffè, edita da Mondadori nell'ottobre del 1959. Il libro vide la prima pubblicazione nel maggio di quell'anno. In sei mesi siamo alla diciannovesima edizione.
Un successo strepitoso. Se ci si sofferma un attimo sulla cinematografia di quegli anni, si noterà quale sconvolgimento l'opera attuò sulle menti allora assai diverse dalle nostre e capaci di scaldarsi alla vista di un decolleté o di una caviglia. In più le regole sociali erano ferree. Le regole della massa, del popolo. L'elite invece, viveva già in una sorta di miscuglio che uno studioso ha definito “il nuovo disordine amoroso” che di nuovo non ha nulla, essendo sempre stata, la sessualità e il pudore che la riguarda, assai oscillante. Si pensi ai testi di precettistica di Vives da Valenza che qualche secolo fa consigliava le fanciulle veneziane  di non esagerare col trucco. Fin qui tutto bene, ma quando andiamo a leggere come si “pittavano” ci coglie la sensazione che erano molto più libere o libertine di noi e con loro, l'epoca e il luogo. Il fondo tinta copriva viso e petto, seni inclusi che gli abiti lasciavano completamente scoperti. Il rossetto, veniva dato sulle labbra, ma anche sui capezzoli. Penso che basti questa constatazione per rendersi conto che non esiste, come si pensa, una corsa verso la liberazione del costume sessuale, ma un'oscillazione. Diciamo che la moralità si sta disinteressando dell'argomento e personalmente, penso che sia giusto. Criminalizzare la sessualità è ridicolo, e le religioni l'hanno fatto per poter attuare un controllo angosciante sulla popolazione. Questa libertà che si sta approssimando, e con un piede ci siamo già dentro, è dovuta al fatto che non esiste più una moralità dominante. La vita si è fatta più difficile ma anche più giusta. Sta a noi costruircene una che rispetti noi stessi e che sappia contenersi entro un limite che non è difficile cogliere nella comunità dei viventi. La pedofilia per esempio, e la costrizione dell'altro son cose spaventose. Lo sappiamo e se le si attua è con la consapevolezza di rompere un legame con il senso profondo della vita. Io aggiungo, ma è un dato altamente personale, che non deve esserci denaro. Per me, costringere una persona a fare quel che non le va e comprarla, è la medesima cosa. È semplice. Se avesse i soldi non lo farebbe? Allora la volgarità si sposta tutta su chi paga poiché, chi incassa vendendo ciò che ha senso solo se è donato, nelle giuste condizioni tornerebbe a rifiutare quel patto.

Torniamo a ”Lolita”. Nell'edizione che posseggo, il significato profondo dell'agire del protagonista si rivela nelle prime sette facciate che corrispondono ai primi tre paragrafi. Un ricordo della prima adolescenza: un rapporto carnale innocente che non riesce, la ragazzina che parte e morirà poco dopo a Corfù. Quindi l'anno successivo non la vedrà ritornare in vacanza nei pressi dell'albergo del padre. Questa situazione diviene traumatica negli anni. Egli cerca ossessivamente sempre lei, il suo primo amore che non si è realizzato, in quella cornice paradisiaca fatta di età d'oro e paesaggi stupendi. Lolita sarà l'ennesima ombra di quel primo amore che continua, in lui ad essere amato e cercato.

Questo primo aspetto, che è troppo evidente per riuscire a credere che al lettore sia sfuggito, si scioglie come neve al sole, nei primi anni sessanta, davanti al desiderio inespresso della adolescente che si fa erotismo puro e col sapore del proibito. Aspetto che travolge il lettore che, dominato dai sensi nemmeno si accorge che ha smesso di pensare.

Mi permetto una parentesi. Il surrealismo ha per me, eccezion fatta per la pittura metafisica, una chiave di lettura legata ad una disperazione erotica. Esso mostra l'uomo, il maschio destabilizzato da una situazione, nel rapporto col femminile, che sta sfuggendo dal suo controllo che era pressoché totale. Un maschio comperava la moglie con un patto matrimoniale che oggi non si esiterebbe a definire spaventoso per la donna. Ma la guerra, che portò le donne in fabbrica, cambiò tutto. Ora avevano due soldi in tasca e i soldi sono indipendenza. Indipendenza nella vita e nella sessualità. Ora la donna poteva dire di no all'uomo-maschio e sentirsi libera di farsi prendere da altri flussi per effettuare le sue scelte. Terminata la guerra le donne non vollero tornare a fare le mogli succubi e le madri. Si pensi che tutti i fascismi propongono e impongono lo status della moglie madre obbediente, ovvero tentano con la forza di ristabilire l'ordine precedente, ma non vi riescono. Ed ecco che nell'arte la femmina si fa oggetto che sfugge, si fa mostro, si rende indomabile. I quadri di Ernst! E particolarmente una tela di Balthus che Jouve tenne in camera da letto[1].



La ragazza ritratta ha il seno pesante. Non bello e nemmeno piacevole. È in piedi e ha un piede sulla sedia. Si sta pettinando i lunghi capelli. Tutto è femmina, ma nulla fa scattare nell'osservatore una se pur minima  sensazione di piacere. E gli occhi. Velati di bianco, senza sguardo. Il quadro, di formato abbastanza grande, ci investe anche per l'aspetto dimensionale. Quella è una potenziale belva. Con lei non si può pensare che sia possibile instaurare un rapporto che non sia una lotta. Quest'opera, datata 1933[2] appartiene ad un'artista, l'unico, che aveva la stima di Picasso, lui così schivo, che si fece varie rampe di scale per ammirare le opere dell'unico artista in circolazione che non lo imitava. Per “sentirne” il valore si osservi a pagina 267, la ragazza col pendolino.

Un capolavoro di “costruzione della figura” degno di Raffaello. Se si osservano poi  le foto che erano in possesso di molti surrealisti[3] si scopriranno molte adolescenti. Opere che oggi la morale guarderebbe con disappunto. Ma il momento della nascita ed evoluzione del surrealismo era appunto particolare. In occidente, stava per finire un “mondo” e le spose ragazzine stavano per diventare qualcosa di moralmente sgradito. Si ricordi però che in quel periodo il fenomeno non era terminato. Si concluderà definitivamente nel secondo dopoguerra. Le foto di Eluard e non solo, rappresentano quindi la nostalgia di un “mondo” al maschile che sta per terminare, un po' come i libri di certi autori Austroungarici dei primi del novecento trasmettevano e ci trasmettono tuttora, la sensazione di un'epoca che si sta concludendo.

Questa parentesi pretende di mostrare la complessità della situazione che vide approdare alle stampe “Lolita” e quel che più sconvolge il lettore che ha un controllo ormonale decente, è che ci rendiamo conto di “tifare” per il protagonista perché, nonostante tutto lo sentiamo puro. Si. Il fango della sua esistenza, condensato in quel trauma iniziale, non lo ha causato, ma subito e da lui scaturisce un sentimento malato ma vero e questo vale indiscutibilmente di più di quel che fa la ragazzina. Si può dire che lei usa un sentimento. L'apparente lordura di lui non è abnorme quanto la spietatezza di lei.

Questo libro è un capolavoro, e Nabokov ha anche fatto di meglio. Esiste un suo racconto nel volume “La veneziana”[4], che può essere posto, ovviamente secondo me, fra quei rari oggetti letterari che se non son perfetti, comunque rasentano la perfezione.

“Un diamante grosso come l’hotel Ritz” e “Berenice si taglia i capelli” di Fitzgerald, “Bartleby lo scrivano” e “il venditore di parafulmini” di Melville, “L'avvoltoio”, “Il cavaliere del secchio”, “Nella colonia penale”, “Il cacciatore Gracco”, “Un medico di campagna” e “Il ponte” di Kafka, “Lo spirito dei Boschi di Nabokov”, “La steppa” di Cechov,  “Cantico dei cantici” di Sholem Aleikhem e  “come le mosche d'autunno” di Irène Némirovsky, solo per citare alcuni  di quelli, dei pochi, che mi sguazzano intorno, io felice di loro e loro pazienti con me,  come delfini che ormai sempre mi seguono e mi guidano nella scia del mio ingombrante corpo-battello.

“Lo spirito dei boschi”. Eccezionale. Chiusi il libro e andai a passeggiare pieno della grandiosità, della completezza di quel che avevo letto. Un uomo è nella sua stanza. Vibra la luce della candela e coglie una presenza. È lo spirito dei boschi che, come lui, è fuggito dalla Russia della rivoluzione.

Quando qualcuno di noi, o uno storico anche di valore, dice che cambiò tutto, che un mondo con la rivoluzione di ottobre finì, non riesce a trasmetterci la portata totale del cambiamento-distruzione che accadde. Ed è ovvio. La letteratura va oltre l'ottica dello storico. Essa vede cosa finisce anche per l'uomo interiore.......

di Nabokov ho letto tutto, o almeno così credo, e tranne “Invito ad una decapitazione”[5] si ha sempre la sensazione di trovarsi davanti ad opere che toccano tasti di un'intimità che non sospettavamo di avere e che ci fa bene scoprire. È stato anche capace di una bella ironia. Mi riferisco a “Re, donna, fante”[6].

“Invito ad una decapitazione” risente secondo me della sconvolgente scoperta che Nabokov fece, dell'opera di Kafka. Ci mise un po' a “liberarsi” di questo colosso....che se non impari a domare ti trasforma in un imitatore. Accadde qualcosa di simile a Sciascia con Borges, a Canetti con Buchner, ma Nabokov, miniera per se stesso di infinite curiosità non solo entomologiche, si riprese rapidamente. Rimane una traccia, quel libro, che dagli intellettuali è invece considerato un kapolavoro.

Forse è il kaso di kiarire (la k la usava Pound nelle missive private kuando si arrabbiava e solo a nominare il termine intellettuale.....). Artista: colui che guidato da sensibilità e intelligenza, ma solo in un secondo tempo, si lascia andare al mondo che ha dentro ri velandolo, si, ri velandolo nel senso che trasformare una pulsazione della sensibilità profonda in parole equivale a velare nuovamente -quel che si è scoperto, disvelato nel mondo, e lo si deve fare perché l'atto dell'emozione interiore sensibile non è trasmissibile.....

Intellettuale. Colui che utilizza l'intelligenza. Un po' poco per pretendere di essere artisti o, peggio ancora di comprenderli ed ergersi a loro giudici.

Esempi: Pavese: scrittore. Calvino, intellettuale.

Andreste a comperare il pane da un tornitore? Ovviamente no. E allora perchè andate a comperare il pane della mente da chi non sa farlo? Ha imparato a venderlo? Nemmeno. Vende indirettamente se stesso e basta......

passata la rabbia auto causata da certi pensieri veniamo al libro di Nabokov che da il titolo a questo scritto: “L'originale di Laura”. Ce lo presenta il figlio di Wladimir. Fa, forse faceva, il cantante lirico. Iniziò con Pavarotti partecipando al medesimo concorso ad inizio carriera. Persona saggia ed equilibrata. Nella prefazione ci dice che i genitori son ombre tuttora presenti dietro di lui e che guidano le loro scelte. Come non pensare ad un quadro di Ruggero Savinio che ritrae un Bambino con dietro questa ombra che per quanto scura non fa paura?

Nabokov chiese di bruciare il manoscritto se la morte fosse arrivata prima di averlo concluso. Il figlio, Dmitri, non l'ha fatto perchè l'ombra paterna gli ha suggerito di non farlo. Ringrazio Dmitri e tramite lui l'ombra del suo geniale padre. “Laura” (si consiglia la pronuncia inglese, Lora, che si fa nome russo...) contiene qualcosa di eccezionale. L'idea del romanzo si accavalla, si moltiplica, si infrange e infine si disperde. Si fa spazio un gioco. Annientarsi prima di morire e Nabokov scrive questo perchè ha compreso che tocca a lui.

“Ho insegnato al pensiero a mimare un neurotrasmettitore imperiale, uno spaventoso messaggero che porti l'ordine di autodistruzione al mio stesso cervello. Il suicidio trasformato in piacere.”

noi leggiamo queste acrobazie di un uomo che sa che sta morendo. E ci vediamo un esorcizzare una paura immensa che prima o poi tocca a tutti. Inizia ad eliminare i piedi, che gli han sempre dato fastidio e dolorini. Piedi che stavano bene solo nelle pantofole, e poi elimina le gambe, ci prova col torace. E quando torna da questi viaggi illusione è integro, ma si è anche in un certo senso, abituato a non avere più una parte di sé.

Penultima pagina: “Cancellare se stessi con il pensiero
                                una sensazione di dissolvimento
                                un evahissement di dissoluzione deliziosa (sostan-
                                tivo prodigiosamente appropriato”

paginetta di un geniale e perfetto trilingue che insiste con quella illusione per non cedere se stesso a un tunnel che da un capogiro irreversibile. Tenere in pugno se stessi fino all'ultimo e decidere che il dissolversi da piacere.

E l'ultima pagina. Verbi incolonnati riportati in originale in copertina
                      
                                          estirpare
                                          espungere
                                          cancellare
                                        sopprimere
                                        strofinare via
                                        annientare
                                        obliterare

tutti più o meno sinonimi di quel primo “estirpare” (efface) cerchiato nell'originale, operazione che da subito dal corpo si fa volontaria della mente, si che nulla, nemmeno la morte non ci appartenga come scelta, come piacere

e poi più nulla.

Si chiude il libro.

un libro ben fatto che di ogni pagina ci offre anche l'originale, dando la sensazione che Nabokov stia qui, vicino a noi, a tenerci la mano, a dirci come si fa.

….e ora, con lo spirito dei boschi, io so dove, canta e ride e fa scherzi e ogni tanto, quando passeggio in Tirolo, mi fa volare via il cappello........

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[1]Catalogo prodotto in occasione della mostra di Venezia, avvenuta poco dopo la morte dell'artista. È edito Bompiani, del 2001. sia la mostra che il catalogo si devono a Gianni Agnelli che era amico e grande estimatore di Balthus. A pagina 67, si può vedere la camera da letto con l'opera posta di lato dal letto si da poterla vedere mentre si è stesi. L'opera si intitola “Alice allo specchio”. Nella medesima pagina troviamo la foto a colori della tela ma, essendo grande quanto un francobollo non siamo in grado di cogliere la profonda impressione che produce quando si vede l'originale.
[2]Hitler ha appena raggiunto il potere e Mussolini imperversa da un decennio abbondante. Quel che nel mondo è cambiato con la spinta della prima guerra non è solo un ordine sociale che teme come un mostro il comunismo e quest'opera rappresenta molto della paura individuale, maschile, di un cambiamento che non rende più padroni dell'altro, ma partner. Un ruolo nuovo e tutto quel che è nuovo spaventa.....
[3]Ne abbiamo un esempio dalla collezione di Paul Eluard visibile a pag 22 del medesimo libro è evidente che i soggetti fotografati son ragazzine.....
[4]Ed Adelphi
[5]Ed Adelphi
[6]Ed Adelphi

giovedì 11 agosto 2011

Helga Schneider: "il rogo di Berlino"

Il libro del quale vi parlo ora, contiene il racconto di Helga Schneider1 che fu bambina nella Berlino della seconda guerra mondiale. Di origine austriaca, il padre, dopo che la sua patria fu annessa al reich (minuscolo necessario e voluto...), fu costretto ad indossare la divisa tedesca e fu mandato a combattere.

È un libro eccezionale. Quando si legge il primo capitolo, appena quarantadue righe, si subisce crollo dentro. Io ho chiuso il libro accarezzando la copertina. Ci sono dei destini impressionanti. Non ve lo narro il suo, raccolto in così poche righe senza perdersi in fronzoli e trovate stilistiche. Son appunto solo quarantadue righe. Fatelo per favore voi, e poi provate a resistere alla tentazione di proseguire la lettura.

Il libro è li. Lo guardate, lo guardavo. Sapevo che contiene una versione pesantissima del male. Non avevo il coraggio ma non era giusto nei confronti del suo destino, di un'epoca, non condividere quell'esperienza brutale, quel peso.

Alla fine vince il magnetismo del libro. Di un triste ma giusto color azzurro spento come il cielo in una giornata pesantemente umida e la foto, della porta di Brandeburgo, uno dei simboli di una città per molti versi eccezionale ma che, essendo stata, all'epoca del racconto, la capitale di un impero folle e la sede finale di hitler, subì una distruzione quasi totale. E la sua popolazione, che come si vedrà, spesso era anche apertamente contro quel dittatore, visse, quando riuscì a sopravvivere, in condizioni atroci.

E noi vediamo tutto questo dagli occhi di una donna che ricorda se stessa bambina, e il tutto si innesca da quel brevissimo primo capitolo che le fa sentire la sacralità l'alto compito che è il ricordare.
Si, ricordare nella speranza che non accada più. Ricordare e comprendere.

Questa operazione, ricordare, oggi è diventata sistematica. Vari eventi tragici, in tante nazioni, hanno il loro giorno della memoria, ma secondo me così non funziona.

Ricordare e basta, con quasi l'obbligo morale imposto dalle istituzioni e dalle scuole, ricordare un evento che non è appartenuto a me e nemmeno alle nuove generazioni, secondo me non è il metodo giusto.

Per loro, per tanti miei coetanei, il passato, che sia di sessant'anni fa o di cinquecento, è ugualmente distante e non comprensibile. Gli ultimi testimoni della seconda grande guerra, stanno lasciando la vita e fanno quel che possono, ma non è nelle scuole che devono parlare. Devono esserci per chi desidera sapere e quel desiderio, da contagiare, è il compito della nostra società, della famiglia in particolare, degli amici. Qualsiasi funzione, qualsiasi pensiero se imposti non rendono, e tanto meno per fatti terribili come questi.

Ricordo Boris Pahor che presenta il libro in una cittadina italiana. Pochi giovani. Una ragazzina che colleziona autografi e che adora gli scrittori e per questo attende l'attimo giusto con il foglio e la penna in mano, pronta allo scatto per non lasciarsi sfuggire l'occasione. Il suo libro più noto, “Necropoli”2 contiene tante sfumature di un dramma proiettato non solo nel passato. Certi aspetti del fascismo sul confine di Trieste e dintorni, il tornare nel campo di concentramento come visitatore, dopo esserci stato come prigioniero e cercare di comprendere quelle masse di visitatori e volere disperatamente trovare quella formula che inneschi un saggio e volontario ricordare.

Ma ricordare serve? napoleone fu sconfitto dal freddo e dalla vastità della Russia. hitler fece il medesimo sbaglio.

Quotidianamente pensiamo che mandare in carcere il colpevole conti qualcosa, ma conta fare in modo che capisca. Se non comprende lo rifarà, e in fondo si relega in carcere perché nessuno sa come fare comprendere l'errore e molte volte di errore non si tratta, ma di necessità o di malcostume secondo il quale “chi la fa franca è più bravo di uno onesto”. E incarcerare sembra la soluzione più economica ma è disumana. Solo perché lo può rifare appunto o per bilanciare un male fatto che nulla può far tornare indietro.

Far comprendere.

Vi offro un esempio. Il fatto è vero. Conoscevo un ragazzo di sedici anni ferocemente antisemita. Era fiero di esserlo. Per lui era una prova di coraggio, un andare controcorrente che avrebbe dovuto confermare la sua indipendenza, la sua forza. Sapevo che non aveva mai visto un ebreo e agii di conseguenza. Si andò a Roma. Dopo aver visto qualche monumento gli proposi di mangiare la pizza al taglio in un posto che a me piace molto e dove, gli dissi, mi conoscono tutti. Si mangiò, chiacchierò di calcio con amici romanisti accaniti e quando mi vide parlare con una bella ragazza, venne e lo presentai. Si chiamava Rebecca. Si rese conto subito che era una personcina di un certo livello. Non abitava in Italia ed era appena tornata da un soggiorno dai parenti negli Stati Uniti. Rispose al telefono parlano in una lingua che non comprese ed era affascinato da tutto. Da quella via un po' troppo larga e che avrebbe potuto sembrare una piazza, da quel dialogare familiare, da Rebecca che era veramente una delizia.... e allora lo chiamai, lo portai alla lapide del Ghetto e l'ha letta. Ha letto di quel migliaio e più che furono caricati dal punto esatto, dove ora lui stava ora, e portati ad essere annientati in un campo. Rebecca era andata via. Gli ho detto che era ebrea, e anche quello della pizza al taglio che aveva parlato con lui di calcio, e il pasticciere e tanti altri.

Era ammutolito. Un ebreo non era più semplicemente un nome, ma un essere umano che non era in grado di distinguere dagli altri, tranne quei due o tre che vide, vestiti di nero, col cappello e i cernecchi. Gli mostrai la Sinagoga dall'esterno. Il caso volle che stava passando di Segni, il rabbino, e gli chiesi chi era. Non lo sapeva. Dissi prima che era un pittore romano, poi gli feci notare che era apparso spesso in televisione, che era la personalità di riferimento di quella comunità.

La cura funzionò. I venti “giorni della memoria” che avrebbe dovuto subire dalla nascita all'età adulta, non avrebbero scalfito le sue insensate certezze....

Non ci si spaventi se si deve prendere atto che per ogni essere umano si riveli necessaria una cura su misura. È così e basta. Intruppare popolo o studenti non basta. Questo crea conformismo, ipocrisia. E se tutti agiscono nei confronti di chi hanno vicino quando “annusano” qualche stortura, ecco che certe “malattie” insensate come il razzismo, l'antisemitismo eccetera, si riusciranno ad arginare.

Anche nel libro di Helga Schneider troviamo un ebreo.
Tutti i personaggi di questa storia vera si son rifugiati in una cantina e un giorno arrivano soldati tedeschi, controllano i documenti di tutti e portano via una persona perché ebrea anche se lui nega. Anche la piccola Halga, come quel sedicenne, ma con più innocenza, non aveva saputo distinguere così, con un colpo d'occhio, un ebreo da una persona normale...

Lei, Helga, nel suo ricordare, non ci dice mai se è antisemita o meno. È una bambina. E' una spugna. Lei ascolta e osserva tutto. Avrà una storia personale banale e sgradevole. La madre non c'è più. Di lei non parliamo, (lo scoprirete leggendo), e il padre si innamora di un'altra donna, la sposa e quando parte per il fronte, la lascia con i due bimbi del primo matrimonio. Helga e un fratellino più piccolo che è una peste allo stato puro. La “nuova” madre si affeziona al maschietto e lo coccola e lo vizia fino a farne un piccolo capolavoro di insopportabilità. La bimba, la nostra Helga, che reagisce male al distacco dalla nonna, con la quale era stata fino a quel momento, non sopporta queste differenze smaccatamente gratuite e tramite psicologi consigliati dalla sorella della nuova madre, che ha un incarico presso il ministero della propaganda, ed è assai influente, viene messa prima in una clinica spaventosa dalla quale verrà espulsa perché rifiuta completamente il cibo, e poi verrà portata nella periferia di Berlino, in campagna, in una piccola comunità per bambini caratteriali nella quale si inserisce bene. Questa comunità si chiama Eden. E diventa toccante quando qualche tempo dopo, quando è nella cantina-rifugio con gli altri, osserva il fratellino e pensa che lui dalla vita non ha avuto nulla e lei invece almeno quei giorni al collegio a contatto con la natura e con la possibilità di relazionarsi civilmente. È si. Quando si è al buio totale, brilla anche un cerino. E brilla come l'occhio di un dio....

Verranno a riprenderla e si ritroverà in una Berlino bombardata quotidianamente. Le capita anche, grazie all'influenza sempre della sorella della matrigna, di incontrare hitler. Sono lei e il fratellino insieme ad altri bambini, che vengono ospitati per qualche giorno nel celebre bunker, fino all'incontro che ci farà divorare pagine su pagine per farlo nostro perché, anche se si tratta semplicemente del ricordo di una bambina rielaborato in età adulta, tutto quel che concerne il folle di Braunau, interessa eccome.... chi resiste alla tentazione di conoscere il male! Ne “L'uomo senza qualità”, il mostro si chiama Moosbrugger e anche noi lettori non resistiamo al desiderio di inoltrarci nei meandri della sua mente. Capire il male. E si scoprirà sempre quel che disse la Arendt, ovvero che dietro al male non troveremo altro che banalità, e io aggiungo, spesso una sofferenza tale che si muore dentro e quel che rinasce è una belva che cerca di essere più forte di quel che ha subito.

Torniamo ad Helga. Torniamo a Berlino. no. Anzi, tornateci voi. Ho detto anche troppo.

Solo su un punto desidero soffermami un po'. Ho detto in altri scritti che raccontare e inventare una trama, una situazione, son prove letterarie di livello diverso e ho espresso la mia preferenza per l'invenzione.

Ma c'è raccontare e raccontare. C'è chi, come può esser stato un certe pagine Casanova nella storia della sua vita, ama trasmettere tramite i fatti una immagine di sé, e chi sfronda qualsiasi particolare superfluo e cerca, nel limite dell'umano possibile, di trasmetterci la realtà vissuta. È sempre un atto soggettivo, filtrato e deformato dalla grande e viva massa di tempo che separa il momento dell'esperienza vissuta da quello della scrittura. Nel caso di Helga son passati decenni. Ma è l'agire ch più ci colpisce, che più ci travolge. Si può parlare in questo caso di assenza di stile. Vedete, quando si soffre, quando la realtà è troppo grande, invadente, pesante, cadono gli aggettivi, cade tutto quel che non è necessario nella parola sia scritta che orale. I fatti son rappresentati con frasi ridotte all'osso. Mi fanno ridere coloro, ovviamente i critici e i docenti, quando mi parlano di ermetismo. L'ermetismo vero non è un agire tecnico ben definito e riproducibile da chiunque. Quella è finzione. L'ermetismo è il linguaggio della sofferenza. L'esempio più nitido è Ungaretti con le sue poesie sulla guerra. Montale in confronto è un imitatore. Gioca. Ungaretti parte che è interventista. Vuole la guerra. Ci crede. E poi, la realtà dei fatti in tutta la sua durezza lo annienta. Poche parole riescono a contenere quel che prova. In pittura accade qualcosa di simile. La tavolozza si riduce a pochi colori. Si pensi al Picasso del periodo blu o al periodo fatto di giallo e marrone di Munch. Si semplificano colori e poche linee parlano chiaro. Sorrido delle tendenze minimal attuali che usano il linguaggio della sofferenza per bilanciare vuoti e pieni, rendere atmosfere rarefatte... per la mente, ma che al cuore non arrivano. Fredde e basta.

E ci stupirà questa notizia che apprendiamo già da quel breve, fortissimo primo capitolo. Ci stupirà perché tutto è nitido, palpabile espresso in un unico colore scuro e con due colpi d'ascia secchi, decisi identici a come lei visse la situazione descritta. Anche i suoi stati d'animo sono resi in modo oserei dire perfetto. Accade che li vivi, li soffri, ne sei travolto. E un pugno di parole è tutto quel che hai da dare ma bastano e saranno indimenticabili.

Io personalmente, che spero sempre di riuscire a leggere in un modo superiore che non so identificare, mi son trovato legato al destino della ragazzina che si chiama Erika. Per quel che mi conosco, per la mia fascinazione sempre subita per la femminilità minuta, fragile, penso che se mi fossi trovato adolescente in quella cantina, me ne sarei innamorato e sarei morto per difenderla quando.....quando non ve lo dico. Il finale di quel capitolo che lo racconta, anche stanotte l'ho rivissuto. Lo splendore da incubo di questa personcina fragile, della quale Helga ci dice che era quasi trasparente, lo miseria e la grandiosità di lei che si solleva dal giaciglio e ringrazia tutti e per ultima la madre....
...c'è da perdere le parole. Niente può definire come mi son sentito nel leggere quelle righe, nel vivere quel destino.

Da libri come questi e come per esempio da “Devo raccontare” della Rolnikaite o il diario di Anne Frank o della Hillesum o da “In quelle tenebre” di gitta Sereny, dobbiamo imparare che attuare il male è senza rimedio, dalle piccole azioni alle grandi, fare il male segna e il perdono non conta. È come un peso posto sulle spalle di una persona. Spesso non ce ne rendiamo conto ma dieci grammi oggi e un etto domani e ci ritroviamo con un essere non più umano che crolla, e da certe esperienze, se sono enormi come quelle che questi libri raccontano, tornano degli esseri umani? Ci sembra impossibile crederlo, e invece un passo del libro ce lo rivela. Helga quando scrisse quelle pagine era ormai sposata, in Italia e con un figlio. Quando assisterà a due stupri di ragazzine compagne di disavventura nella “sua” cantina, lei dirà che non ne vorrà mai sapere di uomini, lei che si è salvata per un pelo, solo perché quando il soldato ubriaco l'ha palpata e non ha sentito il seno, l'ha lasciata per sceglierne un'altra più sviluppata.

Ecco che Helga, che ha sulle spalle l'immagine di un padre negativo, dei soldati violenti, di hitler che sapeva essere tremendo, riuscirà a sposarsi, a vivere con un uomo e, per il carattere che nel libro ha espresso, nessuno di noi dubiterà che l'ha amato. E io penso che tutto questo sia opera di una sola persona, del nonno, di Opa, che oltre il resto non è il nonno naturale ma il padre della matrigna. Quell'anziano signore fu gentile, diede affetto anche in una situazione nella quale, Helga ce lo ricorda, l'affetto era l'ultimo dei pensieri. Davanti al terrore, alla fame, alla sete, alla morte, l'affetto sparisce e sembra non necessario, e invece il nonno acquisito, il vecchio Opa, non dimenticò mai di donarlo e quella piccola luce nel buio di un'infanzia assurda, l'ha secondo me salvata, ha reso possibile il suo matrimonio e quel figlio che hanno confermato in lei e in noi la voglia di vivere che comunque per sopravvivere a qualcosa si deve attaccare. Anche la voglia di vivere può essere annientata. Conosco persone di oggi, ne ho conosciute di ieri, che sopravvivevano e basta e non per il tenore di vita scadente. Alcuni erano e sono anche assai benestanti.

Ricordo per esempio quel signore magro amico di mio padre che mi mostrò con un sorriso assurdo, i numeri tatuati sul braccio. Viveva con la moglie. Per un paio d'anni rimase fra la vita e la morte, una volta uscito dal campo di concentramento. Era talmente pelle e ossa che non riusciva più ad assorbire, a trasformare il cibo in energia. Mi raccontò qualcosa del campo. Io ero un bambino e non fui colpito dalle sue parole ma da un altro particolare. Mentre mio padre dialogava con la moglie, lui si alzò e lentamente uscì dalla sua casetta. Se sedette sulla panchina appoggiata al muro della facciata e si godette il sole. Ma non lo fece come avrei potuto fare io, o tu che forse stai leggendo. Era solo un corpo. Un corpo svuotato, senz'anima. Solo le sensazioni epidermiche, animali, gli erano rimaste. Quel sole sul viso e sulle braccia, o il cibo che gustava quasi con estasi tenendo il boccone senza inghiottirlo fino a quando non aveva perso tutto il suo sapore. E l'acqua. La sete che aveva patito la sentii tutta mente seduto al sole, per più di un'ora, con quel sorriso animale stampato in faccia, contemplò il getto trasparente e rumoroso che si gettava nel tronco scavato dove bevevano i cani e le mucche. Io non ero percepito. Quello sforzo per lui non era più possibile. Vedere, sentire, concepire l'altro non esisteva più per lui, che si spendeva tutto, concentrandosi in quello che per me, per noi, è l'aspetto più superficiale delle sensazioni. Era un monumento vivente. Era una pietra viva che non aveva bisogno di raccontare. Il suo esistere così, come lo vidi io bambino, è per me il simbolo del male assoluto che annichilisce, distrugge l'uomo, e lascia un involucro senza più un'identità, un senso.

Solo per la moglie era vivo. Solo per lei, che aggiungeva a quel che mancava al suo uomo col ricordo che aveva di lui, e lo amava intensamente, come si ama solo nei sogni, nelle favole, e lui, ormai inconsapevole di tutto, grumo del paesaggio scolpito dal male, di tutto quell'amore non sentiva più nulla.

E in Helga ho ritrovato l'acqua adorata dall'amico di mio padre. La sua sete e il primo giorno in piscina, davanti a quella massa immensa che la sbalordisce.

Leggere per ricordare. Ma non per ricordare semplicemente l'evento cruento. Leggere invece per diventare consapevoli che è facile, troppo facile fare male. Basta non pensare a quel che si sta facendo, a volte. Fare il male. Caricare anche se solo di un grammo il peso sulle spalle di qualcuno. È questo che dobbiamo temere, che dobbiamo imparare, da Helga, da Gesù, da Maometto....dai ricordi nostri e di altri..........................

Rileggendo questo scritto, che essendo nato come gli altri, di getto, può contenere involontari strafalcioni dati dal fatto che le due dita che uso per battere sulla tastiera non sanno essere veloci quanto il pensiero e in questo inseguimento nascono errori a volte anche divertenti, dicevo, rileggendo, mi sono reso conto che ho consigliato quattro testi che hanno due denominatori comuni.

Primo, il fatto che siano tutti siano editi da Adelphi, non deve asssssolutamente far pensare che io abbia qualche contatto con “loro”. E' un caso, e un caso che deve farci pensare. Come ho più volte ripetuto, secondo me, scegliendo un libro di questa casa editrice abbiamo un buon novanta per cento di probabilità di incappare in qualcosa di saporito. C'è comunque quel dieci per cento che va a toccare tasti che mi danno un fastidio!!! Come se per tutto lo spazio che offre il mio corpo, qualcuno decidesse di dare un colpettino proprio sull'unico sensibilissimo callo, che nella realtà non ho.....

Nessuno è perfetto e, se ricordiamo questa massima elementare e vera, dobbiamo riconoscere che il fatto di pubblicare così tanta “roba” interessante merita comunque, nonostante il mio callettino del dieci per cento, la nostra stima.

Il secondo punto. Premetto che ho citato Boris Pahor, che ho avuto il piacere di conoscere, con l'intenzione di portare certi esempi e gli altri quattro testi che sono appunto della Adelphi, per un'affinità nel modo di arrivare al dunque senza tanti fronzoli. Ho scoperto, appunto rileggendo, che si tratta delle opere di quattro donne. È un caso che va meditato. Quando si ha a che fare con la realtà, loro sono più concrete, più nitide. Levi, con “Se questo è un uomo” e “La tregua”, è grande, ma un po' filosofo... e dopo aver letto i testi di Frank, Hillesum, Rolnikaite e Sereny, ci si renderà conto che mediamente, le donne, se non hanno messo un piedino in quel letamaio che si chiama università, nel ruolo di indocente..., ci si renderà conto dicevo, che le donne, anche quando parlano di grandi principii, di ideali, lo sanno fare in un modo che noi maschietti sentiamo inspiegabilmente, fastidiosamente più concreto. Secondo me è nell'invenzione che l'uomo, che sa vivere con i piedi per terra e la testa fra le nuvole, sa dare il meglio di sé, e con questo non vuol dire che in questo campo sia migliore delle donne. Non c'è gara. Le gare sono stupide, e già solo ricordare la Woolf, la Yourcenar e la Morante, ci basterà per non pensare più ad un primato di fatto inutile. L'uomo che racconta un fatto reale, non riesce a non “piegarlo” ai suoi ideali e all'immagine, ovviamente vera solo nella sua testa, che di sé vuol tramandare. Questo è secondo me un dato di fatto per ora inoppugnabile. Il pane che porta ai figli deve attraversare praterie di simboli e significati e invece per la donna deve fare solo il percorso dal forno a casa. Si badi bene. Queste caratteristiche son valide o sgradevoli a seconda delle situazioni! Abbiamo bisogno sia del pane vero che di quello ideale. Non c'è lotta, non ci deve essere, ma solo coazione verso un senso per la vita, che è secondo me l'estrema forma della bellezza.