venerdì 4 settembre 2015

Amantea (terza parte: alcune opere di Salvatore Tonnara)

Alla galleria Amantea, nel periodo che ho soggiornato come ospite del suo proprietario mecenate, esponeva un personaggio assai particolare: Salvatore Tonnara.
Se non ho scritto di lui fino ad ora, è perché trovavo difficile affrontare determinati argomenti senza offendere un modo di pensare assai radicato, ma poi ho compreso che stavo esercitando il rispetto verso la superficie, l'atteggiamento, l'ipocrisia, e mi son detto, vado a ruota libera senza preoccuparmi se qualcuno si offende. Ed essendo i critici, gli “indocenti”, insomma i mestieranti delle varie arti, coloro che son disposti a spaccare il capello in quattro, chiusi nella torre d'avorio del loro ruolo e impiccati ad uno stipendio, io che scrivo senza altra spinta che non sia un'esigenza esistenziale, me ne lavo le mani delle loro sofferenze ... anzi … ammetto che un po' ci godo.






Veniamo al dunque. Me lo presentano. La mostra apriva la sera verso le nove e mezza se non ricordo male. Anziano, magro e assai energico, arrivava a chiamare i conoscenti che vedeva al balcone della galleria che era al primo piano e io all'inizio ero un poco imbarazzato da questo comportamento che mi sembrava ledesse la libertà di andare o non andare ad una mostra. In un piccolo paese, ci si conosce tutti e non potevano certo esimersi o trovare una scusa. Una capatina la facevano, spinti dal dovere di amicizia, dal fatto che dire di essere andati ad una mostra fa sempre “altolocato”, e dalla curiosità per quel palazzo della Amantea alta che da rudere che aveva comunque ospitato un papa e un re, era stato riabilitato e verniciato di bianco e ocra. Vedere come era sistemato quel gigante di pietra era a dir poco irresistibile. La visita partiva quindi per tre curiosità alle quali si sommava la presenza dell'artista che in fondo non interessava molto, perché i visitatori pensavano di conoscere già le sue opere. Ebbene, immaginate il primo giro per vedere le sale, i muri ben restaurati, il paesaggio dalle finestre e dedurre che sì, nella piccola Amantea un privato (e chi altri in questa Itaglia che Gianni Agnelli chiamava giustamente la repubblica delle banane”!) era riuscito a fare qualcosa che sembrava non essere finzione. Poi, nell'ordine interveniva la sorpresa dei quadri, che il narcisismo, quello lo si esercita con calma nei giorni successivi al caffè, e due chiacchiere chiarificatrici con il pittore era elegante farle fra quelle storiche mura che hanno il potere di nobilitare tutto, pubblico, artista e pure le opere, che avevano stupito queste ultime, chi pensava di conoscerlo ormai a fondo. Camilla, la padrona di casa, aveva selezionato le tele da esporre, secondo un criterio semplice ma azzeccato. “Salvatore! Prendiamo delle cosette da casa tua, di quelle che la gente non ha mai visto!”, perché Tonnara, che da questo momento chiamerò semplicemente Salvatore, ha un'abitudine tipica a molti artisti; certe tele le tiene per sé. Non le mostra se non a coloro che, in un certo senso, passano un piccolo esame di sensibilità. Si tratta di entrare veramente nella privacy, nell'anima più schietta. Porto un esempio recente. Un artista di Roma che stimo, di recente mi ha chiesto un pezzo per una mostra che terrà in Lombardia. Gli ho domandato quali opere porta e mi ha detto che da qualche anno, complice la crisi, l'essere diventato padre eccetera, ha rallentato con le idee, quindi troverò pochi cambiamenti. Gli ho ricordato quattro bronzi alti circa un metro e trenta, che io considero i suoi capolavori. Ha sorriso e ha detto che sono ancora in un magazzino sui colli romani e che rimarranno là. Lo capisco. Il padre finì in ospedale per un ictus, lui, coi famigliari uscì dal quel edificio fattosi incubo con un responso intollerabile. Aspettare... Forse sopravviverà, forse rimarrà un corpo senza più identità, forse …. solo dei forse. Cristiano, così si chiama, “scappò” da solo al suo studio, vi si chiuse dentro, ed esorcizzò quel tempo assurdo lavorando con carta pesta e gesso. Fu un lavoro automatico, senza scampo come sincerità e nitidezza. Il padre si salvò, sta benino e le opere, fuse nel bronzo, stanno lontane da chi le ha plasmate, perché ricordano una sofferenza intollerabile che la loro vista ri innesca. Questo caso è certamente estremo ma deve farci pensare a quel che l'artista ci mostra. Se siamo un io della folla che per qualche attimo prende forma individuale, ci mostrerà roba leggera, se invece si diventa qualcosa di più, un io pensante può già bastare, allora quell'invito, che sembra all'inizio sorprendente e inatteso, ci rivelerà qualcosa di più intenso. Nel caso di Cristiano, il suo agire fu inconscio e gentile. Mi invitò a bere un caffè in sant'Agata, posticino che amo in Roma, e poi mi disse che doveva recuperare una testa per un cliente. Lui cercava fra le casse e altra roba ammucchiata e io mi trovai davanti a questi quattro urli angosciati, a questi corpi che stavano scivolando nel nulla.

Bisogna ora spiegare qualcosa di Salvatore. Era un insegnante col mitico posto sicuro in una Milano che per anni è sembrata essere la capitale della cultura in Itaglia (errore voluto), ma che, esattamente come la sinistra sia in Itaglia che in Francia, ha occupato i posti della cultura ma non ha fatto ... cultura ….
Correva l'anno 1982 quando decise di “mollare tutto”. Dipingeva già da dieci anni e questa scelta, radicale ed intollerabile per un italiano medio (mediocre … altro che medio!), rappresentò la punta dell'iceberg di una sequenza di scelte nient'affatto minori. Fu studente universitario prima a Napoli e studiò fisica ed ingegneria elettrotecnica poi, senza concludere, si iscrisse a scienze biologiche a Bologna e alla fine decise di non laurearsi. Gli ho chiesto il perché e mi ha risposto candidamente “perché volevo una mia cultura!
Grande risposta, insopportabile per un qualsiasi umano medio (mediocre, insisto) dell'occidente industrializzato. Mancava qualcosa in questi cicli di studi? O c'era qualcosa di sommamente fastidioso? Bah! Io gli do ragione per un'infinità di motivi. Ne elenco alcuni. In Itaglia si diventa docenti grazie ad un iter che offende anche la mafia, che male che vada in minimo di morale, che ovviamente non condivido, ce l'ha. Si esce poi come dei polli di batteria, con una messe di nozioni trasmesse come certezze e zero capacità di pensiero. Se sei un minimo indipendente ci metterai anni per smontare e rimontare un castello grottesco, per trasformarlo in un giaciglio minimo ma accogliente e veridico. Per dare un'idea della situazione vi racconto di un certo indocente di Bologna che imperversava e imperversa nelle facoltà umanistiche. Si chiama Renato Barilli. Mostrò in aula magna, presente qualche centinaio di polli di batteria e un terrorista (io …), la seguente opera del Beato Angelico.







La spiegò cercando di dimostrare come in essa conviveva la mentalità medievale della costruzione dell'immagine e la nuova tendenza figurativa. Il problema che avevo colto era uno specifico che gli dava sì ragione, ed era una delle rarissime volte, ma nel frattempo dimostrava una capacità di “vedere” l'opera, assai limitata. Dissi: “trattandosi di un Giudizio universale”, ci dovrebbe essere il Padre, il Figlio e il piccione … ma dov'è il piccione?” fui sgridato perché battezzai lo Spirito Santo com irriverenza e da sempre auguro un attacco di colite atomica a chi manca di umorismo, comunque, sia il caro indocente, che una massa enorme di studenti, si misero a cercarlo nella enorme diapositiva. Non lo trovavano e dissi “cercate bene! C'è!”. Dopo una decina di minuti che avevano fatto letteralmente saltare la lezione, il prof mi chiese di dire dove si trovava questo benedetto Spirito Santo, ma gli dissi “se mi da il suo posto glielo mostro!”, La lezione finì in una risata e gli studenti pensarono che nemmeno io lo sapevo e che forse, caso rarissimo, non c'era. Divertiva il fatto che ero l'unico che riusciva a tenergli testa a quel professorone, e tutto accadde da quando, dopo il primo giorno di lezione, contestai fortemente una sua posizione veramente stupida. Il prof Renato aveva dato il programma d'esame alla prima lezione; io che per il momento lavoravo, non ero riuscito ad andare e alla seconda mi disse, in malo modo, che non poteva girare tutta la vita coi programmi nella borsa quindi avrei dovuto andare apposta per riceverlo, in orario di ricevimento poiché lui, unico del dipartimento, all'apposito bidello non lo dava. Avrei dovuto perdere una mattina. Morale, il tempo degli altri non vale niente. Al termine di quella seconda lezione, mi recai, più veloce di lui, nel suo studio, e quando arrivò gli dissi che me ne sarei andato solo col foglio del programma. Dopo un'oretta, per liberarsi di me me lo consegnò, adirato, ma nel frattempo promosso nel suo io aggressivo, poiché l'avevo ripagato con la moneta che preferiva. Accadde poi, durante una lezione, che chiese se sapevamo chi era lo scrittore che aveva prodotto tre romanzi senza concluderli; stava spiegando il “non finito” in pittura. Dopo vari tentativi, l'uditorio era ormai silenzioso e lui indignato. Io, memore del fatto che aveva scritto un libro su Kafka, ebbi il sospetto che intendesse il praghese. Lo nominai e mi fece i complimenti. Dovetti purtroppo controbattere che i tre romanzi in questione erano terminati. Forse Kafka non ne fu soddisfatto, di quei finali, in fondo non lo era mai, ma alla lettura, che nel mio caso fu ed è una rilettura che dura da una vita, i finali c'erano eccome … e non sapevo come spiegare a questo prof che il non finito in arte invece, nasceva dallo studio delle opere orientali che andò fortemente di moda della fine dell'ottocento ed ha una forte valenza filosofico religiosa … era e fu ben possibile che il non finito in occidente, alla fin fine, fosse diventato un altro modo per essere superficialmente originali, ma non era il caso di discuterne con lui durante la lezione. Ne parlammo a quattr'occhi e si dimostrò d'accordo, senza comunque rendersi conto che il condividere equivaleva ad annullare il senso della sua lezione. Mi disse poi chiaramente che desiderava che io facessi la tesi di laurea con lui. Argomento, arte e letteratura. L'idea in fondo non mi dispiaceva. Mi ero iscritto a ventinove anni, quando, dopo viaggi molto studio e vita bohemienne, avevo deciso cosa fare del mio esistere e accettavo tutto ciò che mi sembrava costruttivo. Ma accadde che, in attesa una mattina per definire l'argomento, vidi uscire una ragazza in lacrime, con in mano una voluminosa tesi in gestazione. Lei mi disse che doveva rifarla. Lui le aveva detto senza mezzi termini che doveva portare avanti le sue idee (sue di Renato Barilli!!!) e che non gli interessava quel che pensava la studentessa. Io, da sempre più don Chisciotte che Alessandro il Grande, mi avventai come una furia facendo presente al malcapitato che lui aveva il dovere e veniva pagato per far crescere il nostro io e non il suo che oltre il resto, la metà delle volte diceva cose discutibili e l'altra metà ovvie! Mi rifiutai di fare la tesi con lui. Non era il caso. E' vero che ambedue amavamo la letteratura oltre che l'arte, ma non potevo sopportare certi diktat che fanno male alla libertà di pensiero, alla crescita interiore, alla vita. E non si pensi che fosse l'unico essere discutibile di quell'ambiente. Ricordo un prof di Storia della scienza, era la mia seconda laurea, in filosofia. Gli feci notare, con l'intenzione di farci una tesi, che i concetti di tempo e spazio, nella storia della fisica, erano in relazione stretta con la religione imperante nella mente dl fisico creatore. Per Newton, cristiano, Dio era in un luogo ben definito, misurabile e raggiungibile. Per Einstein, dio era impalpabile, irraggiungibile per quanto esistente e parzialmente visibile esattamente come il tempo che lo spazio che si dilatano in certe opere di Kafka (i due si conoscevano pure...). Attualmente la fisica si lega alla metafisica induista … e il prof Pancaldi, annoiato, mi disse che conosceva un docente in Norvegia che poteva essere interessato. Mi diede la e mail che provvidi a cestinare subito. Era e forse è ancora, solo un buon organizzatore di convegni … E veniamo ad un pesce grosso. Il filosofo Paolo Rossi. A lezione disse che i malati mentali venivano isolati totalmente come i lebbrosi e che non si ha traccia di certi fenomeni come l'epilessia eccetera. Gli feci notare che spesso erano nei conventi e che il loro stato di malattia ben riconoscibile dai sintomi, quando avevano le crisi acute, era considerato sacro. Mi disse che ci volevano le prove, e le prove, che esistono, e gliele diedi immediatamente con qualche riferimento bibliografico. In un'altra lezione disse che i fisici non erano più le grandi menti come una volta, che ora era tutto un lavoro di equipe. Contestai chiedendogli cosa ne pensava di Hawking, Penrose, Bose eccetera e mi rispose, pensate un po', che questa cosa la diceva Feynman. Mi chiese se lo conoscevo, risposi che era askenazita. “Lo conosce! E' un grande, non trova?” “certo”, risposi. E lui di rimando per chiudere, “bene, allora siamo d'accordo!”, e invece non eravamo d'accordo proprio per niente perché questa “botta e risposta” rivelava solo una incoerenza non mia. In compenso, poiché aveva colto che per la seconda volta ci eravamo scontrati, a fine lezione venne da me, mi strinse la mano e dopo due chiacchiere attaccò un adesivo sul mio notes, col suo numero di telefono di Firenze, invitandomi a rivederci da lui. Ma ero inorridito. Trovavo veramente ipocrita che mi si riconoscesse un valore a quattr'occhi ma pubblicamente mi si fregava con dialoghi insensati come quello appena descritto. E poiché non mi sentivo a mio agio e non sopporto lisciare i potenti per una viscida ed italianissima raccomandazione, mai lo chiamai.
Ne ho un treno da raccontare di queste situazioni. Per la seconda laurea, il pro rettore, mio prof di storia della filosofia, mi chiese espressamente di fare la tesi con lui. Mi dissero che era un'onore, che quasi di tesi non ne faceva più. Per quanto avesse tenuto solo un paio di lezioni e le altre le avesse fatte fare a suoi galoppini e alla sua amante, che erano decisamente di serie b, accettai, perché mi sembrava comunque in gamba, con un linguaggio nitido e semplice che ambivo come una meta, per la mia scrittura. La tesi andò bene. Accadde però una cosa spiacevole, ed ora purtroppo non posso fare nomi perché quel prof agì da furbo. Dialoghi privati e quindi niente di dimostrabile. Rischierei la querela. Comunque, mi propose l'insegnamento in Università a Bologna, ero stupito. Avevo capito che era un ambiente feroce nel quale non vinceva certo il migliore. Se me lo aveva fatto chiedere dal suo portaborse di Rovereto … era perché mi stimava e in fondo così, anche in modo indiretto, mi sembrava una cosa pulita perché non mi si chiedeva niente in cambio se non la mia qualità che sembrava riconosciuta. E invece no! Quando dissi che mi andava bene, che potevo provare anche se l'ambiente di filosofia mi sembrava troppo nervoso, il galoppino, dopo avermi dato una pacca sulla spalla, che voleva dire “ora sei dei nostri”, mi chiese se avevo la tessera del PD. Dissi di no e mi rispose “falla, e da lunedì sei qui”. Testuali parole. Non la feci e comunque mi accorsi che alcuni prof si erano fatti scontrosi e maleducati con me. Capii poi successivamente, quando fu chiaro che avevo rifiutato, che mi consideravano ormai della “cosca” del potente pro rettore e mi dissero anche che aveva diretto l'istituto Gramsci e da quell'ente aveva travasato suoi adepti in quantità, in università … può bastare? Insisto, ne ho a quintali di cosucce da raccontare e, con tre lauree e una specializzazione posso dire di avere visto le corna del diavolo e, se mai valgo qualcosa è per quell'aggiunta che ci metto di mio, che da quando ho l'età della ragione, leggo e medito tanto e in aggiunta, un poco ho pure vissuto e grazie al gentil sesso, che gentile non è, ho pure sofferto.
Torniamo a Tonnara. Io sono molto diverso da lui. Ho terminato gli studi perché prima di arrendermi all'evidenza ho dovuto sbattere il naso fino a sanguinare e ora ho il dente avvelenatissimo verso una categoria che tratterei peggio dei mafiosi (anche perché non vedo grandi differenze). Salvatore invece, quando ha capito che terminare un ciclo universitario di studi, equivaleva ad avere un cervello omologato, tristemente troppo simile al nozionismo, semplicemente pieno di cose spesso non sensate ma solo di moda ... e la moda esiste anche nelle scienze e perfino nella matematica …
Ecco, Tonnara, ha deciso di lasciar perdere e di proseguire da solo. Il risultato è che lui, tornato ad Amantea, si è innervosito meno e ha fatto scelte sì estreme in fondo come le mie, ma molto più sensate e senza perdere troppo tempo e ora io maledico gli anni buttati via a Bologna. Se fossi re per un giorno … la Alma Mater la chiuderei definitivamente. Covo di raccomandati superbi! Irnerio si chiamava il fondatore e il nome era il mio. Werner, che divenne Wernerius poi Irnerius e ora appunto Irnerio. E ammetto che mi piacerebbe spianare via Zamboni e farci un bel giardino. In Più, contrariamente a quel che si crede, non è la più antica, che Federico secondo a Salerno, di qualche decennio la anticipò con la scuola medica.
Salvatore non ha rabbie in corpo. E' serenissimo e dice che con la sua opera vuole seminare serenità. Io, all'apparenza ho fatto la cosa giusta, terminando gli studi e facendone così tanti. Ma so che ho solo tante medagliette senza senso, che i fatti, quel che io effettivamente sono, non sono nati dagli studi di Bologna, ma dall'innesco dell'io che avvenne per ben altre vie.
Che il lettore non si stupisca troppo del mio modo di scrivere. Egli potrebbe pensare “ma guarda questo! Dice che parla di Tonnara ma poi parla di se stesso!”. Ma ha un senso agire così. Il mio io si rapporta in modo individuale, soggettivo, con Tonnara. Mi fa ridere chi pretende di essere oggettivo, freddo, razionale! E particolarmente in arte e letteratura che son scienze umane e come ogni cosa umana …..
Se poi si pensa che la religione ha condizionato per millenni la nostra percezione del mondo fisico, penso che non si possa più dubitare che niente, sia oggettivo, almeno per ora, nella cultura umana. Si può fingere di esserlo, ma un'ipocrisia condivisa non mi piace e fa male a quella irraggiungibile realtà che desideriamo almeno avvicinare.
É quindi la storia della mia esistenza che si misura con la storia dell'esistenza di Salvatore e, per anni, per quel che riguarda lo studio, ha vinto lui, perché ha capito prima il totale disvalore dell'università italiana, e ha deciso di fare da solo.
Ha più di settant'anni e vive in un modo tutto suo ma che è coerentissimo con i suoi principii. Casa sua, mi hanno detto, è disordinatissima. Mi hanno raccontato che non si capiva dove fosse il letto e che una volta individuato, la domanda era “ma come fa a dormirci con tutta quella roba sopra!” e io deduco semplicemente che ha altro a cui pensare e che il concetto di ordine non deve essere apparente. Se lui in quel caos trova subito quel che cerca allora si tratta di un caos apparente o, che è la stessa cosa, di un ordine con regole che ci sfuggono. Sembra che ci siano libri dappertutto, ma non è uno di quegli uomini, nati nel libro che trovatisi in internet da adulti e non hanno saputo adeguarsi. Lui tende al misticismo, e le sue ricerche, che attualmente avvengono tutte per mezzo del computer, vanno verso la meditazione di quelle teorie della fisica che sembrano avere la possibilità di rivelare quel che secondo lui la scienza non è disposta ad ammettere. Mi raccontava per esempio, con fascinazione, di un video nel quale le molecole d'acqua reagivano in un modo elegante e rilevabile visivamente. Masaru Emoto, scienziato ovviamente giapponese, dimostra che la cristallizzazione dell'acqua cambia a seconda del tipo di musica alla quale viene sottoposta. Cambia perfino in relazione alla voce umana. Vi basta digitare quel nome su youtube per deliziarvi.
E ora noi ragioniamo su Salvatore Tonnara. Non ci interessa e non ci deve interessare come lui interpreta un esperimento scientifico, ovvero in modo mistico, ma il perché.
E per questa via, vedrete che pian piano approdiamo ad alcune delle sue opere che secondo me meritano spazio e rispetto.
La tendenza al misticismo e l'arte come suo sacerdozio, si colgono in ogni suo pensiero. Egli si sente partecipe di una universalità divina.
Dopo aver iniziato vari corsi universitari ad indirizzo tecnico scientifico, li lascia perché la scienza gli sembra fredda e insensata, senza anima. E non si pensi che la scienza non ne abbia bisogno. Newton diceva che l'universo era un grande meccanismo che Dio aveva ideato, gli aveva dato delle regole e che ogni tanto dava una spintarella perché altrimenti si fermava. Hawking e non solo, dice che un'entità che qualcuno chiama Dio, ha innescato il big bang e poi si è seduto e si guarda lo spettacolo dell'universo e delle nostre vite come fossero fuochi d'artificio (scherzo ma più o meno la pensa così). Insomma, in un certo periodo, la fisica è stata atea, non sentiva il bisogno di Dio. Si chiamava positivismo. Vi invito a ricordare Il romanzo “Frankenstein”. Uno scienziato romantico (non per niente lo scrisse Mary Shelley su un'idea partorita dal marito con lord Byron …) riesce a sconfiggere anche la morte! Il problema comunque sarà nel fatto che, l'essere che torna in vita, non è più esattamente quello di prima. Questo tentativo, poi fallito, e che sarebbe la meta estrema tanto desiderata dalla scienza, la ritroviamo nel romanzo “Il Golem” di Gustav Meyrink. Qui il rabbino Low (Leone) di Praga, realmente esistito, con i suoi studi sacri, riesce ad ottenere un essere si vivo, ma senza senso, al quale manca quel qualcosa in più che lo rende umano e che solo Dio può aggiungere. Un altro libro, assai più recente, ri mette il dito nella piaga. Stephen King, in “Pet Sematary” del 1983, immagina una donna che muore causa un incidente stradale. Il marito che non resiste al dolore, la porta in un cimitero degli animali vicino a casa, nel bosco, poiché risulta che gli animali che qui vengono sepolti, riappaiono. Così era accaduto al loro gatto che comunque non era esattamente quello di prima. Frankenstein, il Golem e quest'ultima idea, si “sente” che sono nate da un desiderio troppo umano dell'uomo, che viene effettivamente realizzato solo nel misticismo religioso e attualmente anche, in una forma che non esito a definire misticismo laico. Si potrebbe obbiettare che si tratta di una illusione, che di fatto le religioni promettono l'immortalità ma non ne danno altro che l'illusione (che comunque è meglio che niente), che la vita eterna, la vita oltre la morte eccetera, siano aspetti indimostrabili. E io confermo dicendo che la mentalità scientifica è fortemente emancipante dal punto di vista materiale. Non nego che ci abbia semplificato e allungato la vita, ma è anche una gabbia tremenda. Se non rispetti le sue regole sei fuori dal senso e sei ridicolo ma … vi faccio un esempio scientifico, anzi due, assai semplici.
Primo. Un chimico che collaborava ad inizio carriera in una equipe americana di prestigio, ipotizzò che in una fase della cristallizzazione il materiale osservato sia diciamo gommoso. Fu irriso dai colleghi che gli regalarono libri di testo che in teoria avrebbe dovuto avere letto, e il grande capo gli diede proprio dell'imbecille. Scrisse pure delle robacce su un foglio che il nostro povero giovane portò con se per tutta la vita attaccandolo in ogni laboratorio dove si trovava a lavorare. Com'è finita? Che aveva ragione e per quel ragionamento, poi dimostrato, ha pure vinto il Nobel! Secondo esempio; il Bosone di Higgs. Si tratterebbe di una particella senza massa. Strano! Già linguisticamente stona. La particella ha massa per definizione! Che casino! In poche parole la scienza, con le sue regole ferree impedisce addirittura anche a se stessa di progredire e se accade è ancora troppo spesso, per mezzo di grandi sofferenze individuali. Giordano Bruno e Galileo non furono i primi e non saranno nemmeno gli ultimi a pagarne le consegurnze. Bose, grande fisico, che arrivò a concepire il quarto stato della materia (a ridosso dello zero termico assoluto), e che fu approvato da Einstein, era profondamente religioso, per esempio. Per lui le sue scoperte altro non erano che la rivelazione di un frammento in più del tutto che si identifica con Brahma.
Penso di avervi un poco ubriacati, ma ho dovuto farlo per dimostrare che la scienza, come ogni pensiero umano, è umanissima e risponde in fondo non ad un astratto senso di realtà, ma ad un bisogno appunto umano.
Altro esempio (e tre ...). I numeri nascono dal bisogno di contare le pecore e le staia di grano, poi per misurare gli edifici eccetera. Una esigenza pratica. Disponiamo di una matematica pura, fine a se stessa? Direi ancora di no. Essa viene varata tuttora per soddisfare esigenze concrete. Esiste una matematica per la fisica quantistica, come esiste una matematica per quella newtoniana, ma è legata ad un uso specifico e no è una matematica per tutto. Non si tratta di matematica pura. Un esempio elementare. La diagonale di un quadrato è, in relazione al lato, un numero incommensurabile (infiniti decimali, esempio più semplice, radice di due è la diagonale di un quadrato con lato uno), ma noi di fatto vediamo un segmento che ha un inizio e una fine, vediamo un oggetto definito! Questo per me dimostra semplicemente che la matematica che usiamo non è ancora in grado di emanciparsi dal conteggio delle pecore. E lo zero poi! Un unico segno per due significati diversi. Ma questo non crea confusione? Zero sta per quantità nulla, quindi un niente e se il numero è una quantità come fa lo zero che rappresenta l'assenza di una quantità ad essere considerato un numero? E poi, si osservino questi due numeri. 101 e 1001. Si vede che qui lo zero rappresenta una posizione. Ci si potrebbe mettere d'accordo e metterci un altro segno. Che vuol dire colonna delle decine o delle centinaia. Quindi un segno, lo zero, rappresenta una posizione che non contiene nulla oppure il niente e spero che si “senta” che si tratta di due cose diverse.
Lo zero divenne importante da quando Fibonacci portò la partita doppia come calcolo aziendale dal nord Africa nella sua Pisa, e da qui si diffuse in tutto l'occidente medievale. Lo zero divenne l'incubo del commerciante perché rappresentava il bilancio in pari! Prima del milleduecento lo zero compariva e spariva. La sua presenza assai scostante ci deve rivelare molto e la sua fama è quindi di natura commerciale!
Perché vi affatico con queste cose? Per dimostrare, se non scientificamente, non ambisco a tanto, ma con un filo sottile e discutibile di coerenza quotidiana, che non è impossibile mettere in discussione le basi della scienza. E un mistico poi, categoria della quale Salvatore fa parte anche se è dotato di competenza scientifica, ha il diritto di illudersi esattamente come fa il fisico. Ricordate quanto segue: se lascio l'oggetto che ho in mano, andrà per terra. Se lo rifaccio accade ancora e ancora e ancora. Ma dedurre da questa ripetizione che è una regola fissa, è pura illusione innescata dal nostro bisogno di abitudini, di regole. Diversamente si tende alla follia. Si pensi al personaggio di Charlie Chaplin in “Tempi Moderni”. Nel rapporto con la macchina, regola pura, l'uomo non ha più scampo perché non serve più pensiero. Questo genera alienazione. Ma questo accade anche nel suo opposto che è la totale assenza di regole. Per questo l'uomo tende a cercare la ripetizione, codificarla, e lo fa solo per semplificarsi la vita, per non diventare matto, perché solo nella regola è possibile definire un'azione che se ripetuta diventa scienza o tradizione (oppure sono sinonimi con ambizioni diverse ma la medesima base? Meditate gente...)

Ora alcune opere di Tonnara.
É accaduto, nelle sere che feci compagnia all'artista durante la mostra, che alcune opere fossero particolarmente apprezzate dai giovani. Non si permettevano di applicare assurde regole di estetica enunciate da esperti prezzolati. La più celebre spesso me la sento dire da anni dagli artisti, ed è in fondo una forma di difesa. “io l'opera l'ho fatta e ognuno ci vede quello che vuole!” che è un puro assurdo. Un artista fa un'opera perché ha un motivo! Diceva Fitzgerald: “non si scrive per dire qualcosa. Lo si fa solo se si ha qualcosa da dire”. A “scrive” possiamo sostituire in questo caso “dipinge” e il senso regge ugualmente. Ebbene. Cosa vuol dire l'artista con questa opera? Domanda legittima che molti giovani appunto, in barba al filosofese e agli atteggiamenti scientificheggianti della semiotica dell'arte, hanno posto ad un Salvatore Tonnara che vedevano ben disponibile e chiacchierino.
Va aggiunto che la situazione era assai particolare. Ad Amantea, che per semplice assonanza ho deciso essere il luogo di nascita della gentile capra Amaltea, ci sono circa quindicimila abitanti e tutti conoscono questo pittore che ama definirsi pittore di marciapiede poiché, nella centrale via Margarita espone quotidianamente dalle 19 alle 24 (tempo permettendo). È presente poi la domenica mattina perché è giorno di mercato. Mi ha detto che non ne vuole sapere di contratti e mercanti e che ha accettato per la prima volta di esporre in quel modo, in uno spazio espositivo organizzato e coperto, poiché gli è stata garantita la totale libertà che sente essergli necessaria. Le opere poi, spesso le regala, poiché sente come un legame con chi la acquisisce. E' un poco come chi ha una cucciolata e i nuovi nati non li da per guadagno ma solo se è sicurissimo che vanno a stare bene. In questa situazione, con questo tipo di rapporto con la sua cittadina, egli è noto a tutti, tutti lo salutano e fargli una domanda non presuppone, anche nell'apparente ufficialità di una galleria d'arte, un rituale che in altri contesti si fa necessario. Direttamente quindi, molti giovani chiedevano su una certa opera che è la seguente:



Tonnara allora si profondeva in una spiegazione semplice e con implicazioni etiche forti. Lui da ragazzino amava i film con gli indiani. All'inizio erano i selvaggi da eliminare e nei giochi per le vie della sua infanzia invece, l'indiano era per lui, un essere emanato direttamente dalla natura con diritto alla vita più delle giubbe azzurre. Poi col tempo anche nel cinema, l'indiano si è trasformato, da selvaggio pericoloso in vittima. 




Nell'artista, per anni, una volta che scoprì che erano stati relegati nelle riserve e di fatto annientati come cultura, si sommò, alla precedente preferenza già controcorrente poiché erano a contatto con la natura più dell'uomo bianco, si sommò dicevo, un senso di impotenza che divenne in lui immagine ricorrente. Prima dipinse i primi piani di indiani (quasi mai puro individuo, ma la coppia che rappresenta il minimo plurale che è simbolo del plurale assoluto che è la comunità), poi folle, nelle quali ogni individualità rimane a sé ed è rimarcata dal colore che è sempre diverso e disposto pure diversamente. In più alcune caratteristiche, come la piuma, e la collana, passano per una astrazione che li semplifica all'estremo. Diciamo che sarebbe necessaria una mostra che parte dai doppi ritratti degli indiani nei quali ogni volto è un io grazie alle caratteristiche somatiche, per approdare all'astrazione e alla folla, al popolo indiano che diviene un insieme armonico.
In altri scritti ho spiegato che spessissimo l'arte contemporanea la si può comprendere non con l'opera singola ma con la serie che parte dall'idea per giungere al risultato. Esempi celebri sono il toro di Picasso che da figurativo tradizionale, si fa segno rapido fino ad essere espresso in modo completo e avvincente da tre pennellate e basta. Se si mostrasse solo il risultato finale, quel toro quasi astratto, non si apprezzerebbe lo sforzo compiuto dall'artista, e nemmeno il ragionamento che ci sta dietro. Un caso simile accade con l'albero di Mondrian.
Anche Salvatore Tonnara ha necessità di questo tipo di esposizione per essere compreso. Il quadro da solo, esposto alla mostra, appagava per il senso che lui spiegava e che ha un alto valore morale, ma il pubblico giovane era attratto dalle cromie, dalla tendenza iconica, dalla folla, che a è una dimensione attuale che spesso è vissuta come annullamento. L'appagamento dal punto di vista visivo, ci sarà solo con l'esposizione dell'intera serie e penso anche che non sarebbero più necessarie spiegazioni. Si può dire, come è giusto che sia, che l'opera di un nostro contemporaneo, calato nel nostro medesimo contesto sociale, ci parla senza bisogno di mediazioni.
Si ricordi sempre che è lo scarto temporale che richiede l'intervento dello storico dell'arte, e attualmente anche un'opera di vent'anni fa ha bisogno di una spiegazione che riguarda un mondo che non c'è più, del quale forse abbiamo un ricordo e basta. Si ricordi anche che solo le opere espresse dal nostro “branco” possiamo comprenderle con immediatezza. Tonnara in questo momento, che non sappiamo quanto dura, ci offre un azzeramento del tempo che quindi viene ad identificarsi col presente e, in più fa parte del nostro gruppo sociale. L'indiano anche per noi è vittima ed è sentito come un peccato originale, non l'unico, della cultura occidentale industrializzata.
Aggiungo che questo quadro, unico con questo tema nella esposizione, staccava troppo dagli altri, che erano assai più, diciamo, tradizionali e proprio per questa sua “solitudine” espressiva, attirava.

Delle altre opere non parlo. Tonnara ama i fiori, ama la tradizione, con le processioni in una luce che solo il sud sa dare. A me, che forse non sono più giovane, piacciono i suoi indiani che ha riscattato purtroppo solo sulla tela.

Amen

dopo l'amen mi è venuto in mente che devo fare una precisazione. Vi è qualcosa di mentalmente primordiale, arcaico, nel fatto che Tonnara abbia espresso uno, due e poi molti. Mi spiego. Gli indiani in un'opera come la seguente,





esprima una identità più una. Da una più una, la sua mente è passata alla moltitudine.
Ora il riferimento con l'origine del calcolo nell'umanità, verificato nel novecento ancora in alcune tribù. Essi contavano così, uno, due e poi molti. Si badi che contare uno e due è dovuto a due fattori. In noi molto è doppio, quindi abbiamo necessità per esprimere noi stessi con completezza. Una mano, un'altra mano, si trasformò in una mano, due mani. Il passaggio è notevole. In esso si cela il gradino successivo, che consta nei multipli di uno e due, quindi II – I che è III, quindi tre, nuovo numero accessibile a chi ha imparato a gestire uno e due. Poi II – II che è IIII ovvero uno dei modi di rappresentare il quattro sotto l'impero romano. Dopo quattro ecco molti. Questo passaggio dal quattro in poi, Già diviso in sé in due più due, è moltitudine perché in un solo colpo d'occhio già il cinque lo scindiamo in tre più due.
Per quale motivo vi “rompo la testa” con la matematica delle origini? Perché è quella che usa l'inconscio. Se Salvatore ha usato uno, due e molti è perché non ha meditato l'immagine, ma l'ha sentita e riprodotta da una dimensione primordiale, originaria dalla quale già il tre (che divverrà simbolo divino e quindi gerarchico) e il quattro, simbolo delle direzioni, non sono ancora stati concepiti.
Altro pensiero e poi chiudo. Non è esistito il vocabolo grande e il suo opposto, piccolo. Ma grande e non grande che successivamente si sono trasformati in vocaboli distinti. Una particella privativa, quel non, alla quale ricorriamo senza renderci conto, quando sguazziamo malamente in una lingua straniera. Immaginiamoci in Germania, stanchi per il viaggio. E chiediamo una birra. Ci chiedono se la vogliamo grande come di solito accade ... ebbene, se non ci viene a galla subito la parola che sta per piccolo, che è Klein, ecco che ci scappa, quasi in automatico, un nicht gross! Che ottiene, con meno competenza, il medesimo risultato. In un altro brano ho spiegato la base comune di significato, a livello di psicologia del profondo, per Black e blanco che, se si rispettano le consonanti, son troppo simili per non dare da pensare. Che la b possa diventare v e accidenti simili è poca cosa, sta di fatto che una radice consonantica comune deve accendere una lampadina nel nostro cervello!




E tutto questo materiale, in pittura o in un racconto, quando appare con insistenza in superficie, ci dimostra che la mente sta pescando nell'io più profondo, che le convenzioni sociali almeno per un momento in noi sono impotenti e che una verità, prima nostra e poi universale, sta emergendo.