venerdì 27 luglio 2012

Artisti e intellettuali.....


Dopo aver affrontato l'argomento in vari scritti, in modo forse mai troppo chiaro e certamente impulsivo, provo ora ad approfondirlo con tempo, calma e decisione.

Unico “pasto” presente in questo pranzo di parole sarà il tentativo di rendere conto di come sento la differenza fra intellettuale e artista. Se mi son permesso di lanciare ogni tanto delle brevi insinuazioni è comunque perché ritengo che siano sufficienti per far intuire un problema enorme della cultura italiana e non solo, che ormai ha superato la soglia del ridicolo....da anni, e attualmente... una volta resi edotti della natura di questo mio e forse anche vostro sorridere triste, con l'aggiunta di un evidenza che si fa concreta, palpabile,spero, con questo scritto, penso che la situazione si trasformi in una farsa stupida, intollerabile, a meno che non si rientri in quella categoria che delle varie espressioni artistiche fa un atteggiamento e uno strumento di autoaffermazione, nascondendo anche a se stessi,reato più grave nel nostro compito non facile di cercare di dare un senso alla vita), nascondendo, dicevo, anche a noi stessi, la bugia sulla quale pretendiamo si regga la nostra personalità davanti agli altri.

Ritengo che l'autoaffermazione, quella vera, positiva, nasca dalla coazione del plauso altrui, quando spontaneo e dato da un “altro da noi” di indiscusso valore e non scelto quindi a nostro comodo, e dalla capacità di dialogare francamente con se stessi. Se si inizia a dire bugie anche a se stessi.... è finita. E bugia colossale è credere che l'intellettuale abbia a che fare col mondo dell'arte.

Inizio raccontando come Tonino Guerra ottenne la sua prima notorietà letteraria. Premetto che ne discussi con lui e di recente, la moglie che in partenza si era dimostrata scettica sul fatto che esistesse una versione diversa da quella che lui conosceva, ha ammesso, come Tonino stesso, che ero “nel giusto”.

Nel 1951, ad Elio Vittorini viene affidata la direzione della collana “I gettoni” di Einaudi. L'anno dopo viene pubblicato “La storia di Fortunato” di Tonino Guerra. Tonino gli fu sempre riconoscente. Gli dedicò anche il libro “L'equilibrio” edito Bompiani. La nostra discussione, (fra me e Tonino ovviamente), nacque quando lui mi prestò proprio quel libro dedicato. Gli feci notare che nulla, ma proprio nulla dell'opera di Vittorini, mi era mai piaciuto. Trovavo che avesse costruito i suoi libri con l'intelligenza e, influenzato da quel che accadde in arte dal primo dopoguerra, si era lanciato nel “gioco” ormai di moda di costruire una tecnica letteraria creata a tavolino.

Secondo me prima si ha l'idea, che si deve saper lasciare sgorgare dal profondo, e poi essa, se si è scrittori o poeti, si trasformerà in parole. E non si tratterà di parole costruite dall'intelligenza, dalla mente razionale. Quello stadio perfetto del pensiero nel quale esso ha l'idea pura disancorata da qualsiasi forma concreta, visibile ai sensi, si trasforma da sé, in parola o colore o musica o altro! E Vittorini progettava l'idea, la sua forma e i suoi significati. Non andava a “razzolare” nel suo io più profondo, in quel luogo dove l'io si fa anima del mondo, dove il linguaggio è simbolo arcaico ed eterno, in quel punto immenso e atemporale nel quale essere divinità e se stessi non presuppone alcuna differenza. Pensare diventa così creare, in modo inconsapevole. Tutto quel che l'artista ha fatto è stato il creare le condizioni perché questo sgorgare spontaneo, accadesse. Leggere e vivere, sono ingredienti che vanno nel crogiolo di quel luogo indefinito, e anche con questi compiti, si plasmano da sé quelle forme profonde. Leggere poi, è un'attività che può essere abissale e che riferisco solo alla letteratura. Si tratta dell'immersione nell'io universale percorso e raggiunto da un altro essere e, se ho l'umiltà giusta e la capacità di arrendermi al flusso del suo dono, posso vivere, anche se parzialmente la grande esperienza della creazione e goderne i frutti. Leggere comunque è come guardare la divinità della vita da uno specchio. Facile sarà confondere destra e sinistra (provate....) e non conta moltiplicare gli specchi. Si otterrebbe solo un infinito che si fa gorgo e perdita di orientamento. Leggere quindi come esperienza profonda, personale, incomunicabile, ma lasciata all'intuizione, al l'anima, al cuore.

Vivere, l'altro ingrediente, si deve. Abbiamo un corpo, se lo trascuriamo o offendiamo, ci presenterà il conto e le visioni che sgorgano dal profondo saranno sane, grandiose se le asseconda la volontà di vivere, di dare un senso alla vita. ma.... vivere non è ovviamente uno sfinirsi nell'essere consumatori o nel “palestrarsi” e nutrire sempre e solo i sensi....il corpo è uno strumento del quale si può diventare schiavi. Non deve comandare, ma essere utilizzato per fini elevati. Così è anche per la mente. Pensare il pensiero per esempio, spaccare il capello in quattro sulla natura e struttura del linguaggio non ha molto senso per un artista che si ritrova a dover trasporre il simbolico profondo in linguaggio concreto....

Tonino, dopo una prima sorpresa causata dalle mie parole, mi disse che in “Conversazione in Sicilia” secondo lui, c'erano delle pagine splendide. Mi chiese se lo avevo letto. Risposi di sì e, poiché non mi dimostrai disposto ad accettare quel consiglio, il discorso cadde, anche perché me ne stavo andando. Tonino sapeva che quel che mi dava da leggere lo “mangiavo” prima di subito e già il giorno dopo mi telefonò per sapere cosa ne pensavo di quella sua creatura. L'avevo vista nella libreria dello studiolo dove di solito si chiacchierava in santa pace e, mentre lui “schiacciava” il solito pisolino del dopopranzo, mi ero steso in giardino, proprio sull'erba, e avevo letto una decina di pagine. Tonino quindi sapeva già che l'avevo trovata interessante e me la diede per saperne di più. Era una delle sue caratteristiche più piacevoli. Lui, che valeva tanto, si metteva in gioco, era curioso, veramente, di quel che ne pensavo. Al telefono il giorno dopo, gli dissi che era sicuramente un buon libro e gli dissi che “quella roba”, esattamente come “La storia di Fortunato” una persona come Vittorini non aveva gli strumenti per comprenderla. Mi chiese perché e gli risposi “vengo domani e te lo spiego”.

“Tonino, tu cosa sei, cosa ti senti di essere?”

“un poeta. Il resto, la sceneggiatura, i quadri, vengono dopo”

“posso dire quindi che sei un artista. Lo sai come la penso sulla definizione. Artista è colui che sa raggiungere e ascoltare la propria voce interiore e la rende visibile all'intelletto, sensibile, palpabile”

“ora..... cos'è Vittorini?”

“uno scrittore.....”

“secondo me è un intellettuale. Lui si limita a ragionare. Per questo i suoi libri attualmente li legge solo chi è costretto dall'università. Può incuriosirti, ma non ti rimane dentro. Non merita di essere ricordato.... come dice Borges”

“ma ti rendi conto che ha scartato -Il Gattopardo- ?

“son cose che possono succedere....”

lo disse con lo sguardo incerto.

“Tonino, tu stai difendendo una persona verso la quale hai un grosso debito di riconoscenza....”

Sorrise. Fu Elena croce, la figlia di Benedetto a dare al romanzo di Tomasi da Lampedusa, la spinta giusta....

Bisogna anche dire che una caratteristica della generazione di Tonino fu di essere riconoscenti a prescindere dalla situazione. Non la si valutava. Mi ha aiutato, lo ringrazierò in vari modi, e questi modi, agli occhi della mia generazione san di servilismo. Era così comunque, e basta.

L'Italia si è affrancata, sulla carta, dalla monarchia, solo con la fine della seconda guerra mondiale. Quel tipo di governo presuppone una struttura clientelare e il re è il grande elargitore. La democrazia italiana, trovandosi per forza di cosa ad utilizzare uomini allevati in quella mentalità, si strutturò in gruppi che elargivano, noti col nome di partiti, ai quali si affiancava la chiesa, potentissima al punto che per esempio, l'accademia militare di Modena, prevedeva, preferibilmente la raccomandazione di un religioso di grosso calibro. Dopo il crollo del Muro di Berlino, si stabilirono nuovi equilibri e quel che si ottenne fu un ridicolo (secondo me) compromesso fra un regno e una democrazia. Attualmente il presidente del consiglio dei ministri (minuscolo voluto...) è un re ad orologeria, a tempo. Accade anche in Francia e non solo...non ci si deve stupire quindi se la mentalità di un uomo che nacque nel regno e visse poi tutta l'epoca dello strapotere dei partiti, abbia agito così. Alla stima si mescolava anche una consapevolezza di potenza. Ti creavano e potevano distruggerti con la medesima rapidità. Tonino ebbe la meritata fortuna di affrancarsi da questo giogo quando personaggi di qualità spesso indiscutibile come Elsa Morante, Flaiano, Fellini, Antonioni, Olmi, i fratelli Taviani, Matroianni, la Loren e suo marito, Visconti, Moravia, Rosi, Forman, Carrière, e potrei continuare per un quarto d'ora, quando queste persone, di valore rovesciarono i ruoli. Non era più necessaria quella sudditanza. Tonino era un talento.

Il suo ideale era di sinistra, ma il partito che avrebbe dovuto incarnare questa idea, oltre ad essere un grande elargitore di poltrone, poltroncine e sedie, pretendeva di dare ordini agli intellettuali. Sì, agli intellettuali, perché all'epoca intellettuali e artisti erano considerati ormai la medesima cosa strumentale. Essere definitivamente riconosciuti come talento permise a Tonino di staccarsi dal partito. Quando diceva di essere un “comunista zen” intendeva proprio dichiarare che lui non si allineava con un partito che pretendeva l'obbedienza. Rimase qualche strascico con traccie fossili inconsapevoli di quel modo di comportarsi ereditato all'epoca dello sviluppo. Quando un bambino si fa uomo sotto un sistema regale e pure dittatoriale, qualcosa rimane, anche se appunto inconsapevolmente. Tonino, davanti alla mia pretesa di separare intellettuali e artisti si rivelò pienamente d'accordo. Gli toccò rivedere alcune categorie, alcuni rapporti che erano segnati dall'amicizia, dall'abitudine della frequentazione, particolarmente a tavola, davanti alle tagliatelle e al rubino del sangiovese. Si rese anche conto che con questa separazione di artisti veri ne rimanevano veramente pochi e lui, che ho sempre considerato artista puro, diventava una delle figura più importanti del dopoguerra non solo italiano, poiché grazie al suo lavoro per il cinema, da fenomeno romagnolo e poi nazionale, divenne di caratura internazionale. Quando per esempio gli dissi che Joyce, ed esattamente il suo “Ulisse”, era illeggibile, mi disse che anche lui era perplesso. Quando poi gli feci notare che Borges stesso lo diceva, e glielo feci leggere, si senti come sollevato da un peso.... allora si poteva dire! Gli regalai un volume di James Stephens, dicendogli che li dentro c'era l'anima dell'Irlanda, non certo in Joyce, che era sola moda e si sa, che finita la moda è finito tutto....

“Tonino, quello era un intellettuale.... poteva pensare, ma non andare oltre.... ha visto nel tuo scritto una tecnica che gli è sembrata nuova e ti ha messo nel mucchio dei pubblicabili insieme ad un'altra fila che ora è destinata quasi completamente all'oblio.....tranne te e appunto poco altro....”

(e dentro di me non potevo non pensare a quel che un amico bottegaio a Minneapolis mi confidò: “Qui negli Stati Uniti, la parola chiave per vendere è: -é nuovo, appena uscito!- , non c'è parola più magica e potente!” e nuova era la tecnica. Il contenuto doveva essere al massimo allineato o indifferente ai diktat di dominante o di partito).

“Ma una tecnica non è mai nuova per chi la usa, e non si emoziona scoprendo che è il primo ad applicarla. In un artista essa sgorga; è semplicemente la forma giusta per quel pensiero.”

Mi rendevo conto che era diventato curioso....

“Mi vuoi dire che mi ha pubblicato senza capire?”

“Esattamente. Ha applicato la gabbia concettuale che si era creato e nella quale si era rinchiuso. Tu rientravi nelle sue categorie perché la tua scrittura era secondo lui nuova, e sicuramente lo era, Tonino, ma tu non l'avevi scelta con l'intento di far notare una tecnica. Lui ha confuso l'uso con lo strumento. Lo strumento-parola, serve per dire qualcosa e il suo uso è sensato e duraturo se supporta un senso, non solo se stupisce.....e da quel qualcosa lui si era autoescluso con la costruzione della gabbia e infilandocisi dentro...”

“Ma... e Calvino, lui ha pubblicato anche Calvino!

“Stessa musica....Lo leggi e senti che è finto come scrittore e veramente grande come saggista.... ”

“E' possibile....”

(su Calvino i dubbi si erano già dissipati da tempo. Esiste una edizione Einaudi intitolata “tra donne sole”,e che contiene anche la sceneggiatura di Antonioni per l'omonimo film e due lettere simpaticissime. Calvino scrive a Pavese che quel racconto proprio non gli piace. Si coglie immediatamente che non ci ha capito niente ma spara le sue stupidate con uno stile spavaldo che si schianta come contro il pugno della breve risposta del grande Pavese. Gli fa capire che è un pivello e noi lettori, se non ci facciamo guidare fuori strada come troppo spesso accade, dai critici, (in questo caso si chiama Ernesto Ferrero, e la mia rabbia non si stempera nemmeno davanti a quel cognome che sa di Nutella!) ce ne rendiamo conto benissimo. Anche la lettera scritta ad Antonioni, che prima “lecca” e poi frusta, diventa, dopo le prime le altre due, una farsa. Si sente che Calvino è diventato qualcuno in Einaudi, dove prima Pavese, gestiva con occhio e anima di artista vero quale era, e si permette di scrivere a nome anche di Giulio Einaudi e di altri non nominati.... Si sa che spesso gli intellettuali amano usare il plurale che spetta ai re perché in fondo è a un regno che mirano, un regno di questo mondo..... e quella lettera era indirizzata ad un altro che era del livello di Pavese, a quell'Antonioni che aveva scelto di fare un film da quel racconto proprio perché ne aveva intuito la grandezza.

Tonino dopo la lettura di quelle lettere, rise. Aveva conosciuto anche Calvino e mi disse che si divertiva ad immaginarlo mentre riceveva la risposta scritta di Pavese. Quando gli dissi che pian piano l'intellettuale Calvino era diventato una potenza che potevi solo lodare se non volevi diventare vittima dell'oblio generale, mi disse che era vero....Gli risposi che certa gente ha una faccia talmente dura che ci puoi schiacciare le noci senza che nemmeno se ne accorgano e secondo me Calvino non ebbe il minimo sussulto davanti a quel foglio che lo “smussava”. La lettera dimostrava e dimostra la sua nullità solo a chi aveva e ha l'abitudine di leggere in indipendenza. Evento più unico che raro all'epoca e quasi chimera oggi, quando il partito decideva anche i tuoi gusti letterari e da “grande fratello” subdolo quale era, ti convinceva della validità anche della robaccia più servile. E poi Pavese non c'era più. Il suo posto, che spettava ad un artista, era vacante, e se lo contesero personaggi che trassero vantaggio dalla confusione di significati fra intellettuale e artista. Dirigere. Decidere. Questo era affascinate! Un simile essere spregevole trionfò anche in Gran Bretagna. Si chiamava Eliot. Mi fa ridere amaramente ricordare che “The waste land”, nella versione originale era di un migliaio di versi. La diede a Ezra Pound da correggere e ne rimase un decimo, pure quello modificato. E il Nobel lo ha vinto Eliot, e non un Dylan Thomas o un Pound appunto! Ma un Eliot.....che più che il poeta ha saputo “fare”, agire, in modo assai poco poetico. Dimenticavo. Se lo dico io sarà considerato da molti un fare supponente, anche perchè li costringo a ristabilire una scala di valori... Io lo penso da anni quel che dico di Eliot. La sua poesia è fredda, le limature di Pound son note a tutti, è quindi questione di ragionare un attimo e di non prendere per oro colato tutto quel che la critica ci propina. Per chi avesse ancora dei dubbi, invito alla lettura di “Party sotto le bombe” di Elias Canetti.....

“Pensa poi che Vittorini è stato il primo a pubblicare Borges in Italia, sempre per quella collana... “

“beh, ammetterai che quella volta ha visto giusto...”

“Era dentro la gabbia..... come per te fu un caso. Borges è stato un grandissimo che infarciva di intellettualità. Era una maschera della sua saggezza. Vittorini vide solo la maschera e e pensò che fosse il volto...e poi, pensa a Fenoglio e Rigoni Stern.. Arrivava un loro dattiloscritto e veniva ordinato loro di correggerlo, di modificarlo un po' quello che accade oggi ad un Andrej Longo, e il gioco si è fatto talmente lurido e scoperto che al termine di “Chi ha ucciso Sarah?”, un giallino pallido pallido, l'autore si trova a ringraziare una editor per aver massacrato la sua libertà .... in poche parole dovevano e devono adattarsi alla gabbia. Fenoglio in un paio di racconti non parlò di guerra e affini, e fece qualcosa di valido....ma non fu libero di essere sé stesso. Stern era molto bravo, ma fu se stesso anni dopo...e Poi fai caso che Fenoglio, Calvino e te eravate di sinistra e reduci chi dai campi che dell'essere partigiani. Il mondo, anche quello dell'arte lo stavano coniando i vincitori.....voi avevate una giusta possibilità in più che però non doveva trasformarsi in proprietà al di là del merito.....”

(Questo discorso aveva per noi due, già un senso che non si rivela così, da questo dialogo. Tempo prima avevo portato a Tonino le fotocopie di un libro edito da Mondadori il 25 gennaio del 1940. avevo tolto l'intestazione. Desideravo mi dicesse cosa ne pensava senza sapere di chi fosse. Mi telefonò qualche giorno dopo: “molto belli. Notevoli! Mi dici adesso l'autore?” ed era Alessandro Pavolini. Ministro della cultura popolare (il famoso minculpop) che fini appeso col duce in Piazzale Loreto.

Rimase di stucco quanto vi rimasi io qualche tempo prima. Lo comperai perché in un mercatino dell'usato costava quanto un caffè e la curiosità poteva valere l'investimento. Partii pieno di preconcetti, aspettandomi qualcosa di polposo e urlante, fra il futurista italiano che non amo e lo sgangheramento fascista da parata.... e invece si rivelò un gioiello. La sua scomparsa, giusta dal punto di vista storico e anche morale, visto che si narra fosse sì un fedelissimo irriducibile ma anche assai cattivello, era sensata dal punto di vista artistico? La medesima insensatezza che aveva fatto fucilare Lorca e Gumilev, e Mandel'stam con la testa spaccata contro un water in un campo in Siberia? E Bulgakov distrutto da Stalin? I loro ideali erano per lo meno puri, pensabili. E Pavolini....? il dubbio rimaneva, ma il valore del libro era ed è indiscutibile).

So che nel silenzio che seguì quelle mie parole su Fenoglio e Stern, ambedue pensammo a Pound e Pavolini...

e poi aggiunsi: “Non ho indagato su Ottiero Ottieri, e Lalla Romano. Anche loro furono” presi” da quella collana. Lalla Romano era indubbiamente sorprendente e interessante, per esempio, ma non si fa così Tonino!”

e lui mi diede ragione. Riconobbe che la sua notorietà partì in quel modo, ma la sua meritata fama prese ben altre vie.

Con Lora, poco dopo la definitiva “partenza” di Tonino, si parlò di queste cose. Il muro della sua diffidenza cedette di buon grado e anche lei disse che era tutto coerente aggiungendo che era molto stimato e fu “spinto” anche da Carlo Bo e Gianfranco Contini. Le ho risposto con le parole di Savinio: “Nessuno farà mai un monumento a un critico...” parole che per ora si son mantenute vere...

Carlo Bo era “Padrone” di una università. Contini dettava legge da una cattedra e si sa che quegli ambienti non brillano di correttezza. Tuttora capita che mi dicano “L'ha detto Anceschi! L'ha detto il tale o il tal altro!”. Frammento di medio evo che ancora sopravvive e che vuol dirci che il contenuto di un discorso dipende da chi lo ha enunciato e non dalla sua coerenza....” mi viene in mente Renato Barilli a Bologna. Mi disse: “perché non fa la tesi con me? Affronteremo il rapporto arte e letteratura!” Mi presentai il giorno dopo e vidi una ragazza uscire piangendo dal suo studio mentre Barilli diceva: “tu devi portare aventi le mie idee, non le tue!”. La portai a bere un caffè e mi raccontò che aveva preparato la tesi, un lavorone del quale potevo vedere la mole davanti a me. Era quasi cubica da quanto era lunga. Ma non era lei a dover crescere, sotto la guida di un “saggio?” e io che allora come oggi, amo trasformarmi in don Chisciotte andai da lui e mi arrabbiai “parecchio” rifiutando di fare la tesi con lui e sbattendogli in faccia la sua scorrettezza. Spiegai a Lora che le università come le scuole superiori vendono certezze e non esiste nulla di più assurdo. Forse mi si può contestare che anche io sembro certo, quasi dittatoriale, ma mi metto sempre e completamente in gioco... provare per credere.... E poi, quante sono le persone disamorate de “I promessi sposi” e di Dante solo per reazione alle istituzioni che hanno saputo solo imporle come un diktat? Caro studente. Questo autore e quest'altro sono bravissimi. Perché? Perché hanno saputo far rime incasinatissime e perché te lo dico io, ma trasmettere il nostro amore per quelle cose quando accade? si insegna al cuore, e poi lui guiderà la mente, e il cuore è in grado di insegnare anche i frutti freddi dell'intelligenza pura.

Esiste poi un altro sottinteso nel dialogo con Tonino, ed è nel ruolo della sinistra nella cultura del dopoguerra. È evidente che l'ha monopolizzata. Il problema è che quando si ragionava per esempio come Vittorini, si andava ancora bene, poiché li c'era almeno la buona fede! Dico, con durezza, che la sinistra ha occupato i posti della cultura ma non ha fatto cultura, non l'ha promossa. Penso poi all'altra nazione che fu e forse è tuttora paralizzata dalla sinistra in ambito culturale, ovvero la Francia. Fate caso che dopo Proust, i francesi hanno prodotto solo saggistica e si sa che quest'ultima è figlia solo dell'intelletto. La gabbia della ragione ha fatto strage di artisti. O ti ci infili dentro e ti adatti, di fatto suicidando l'artista che è in te, oppure sparisci. Penso anche che i due grandi artisti che hanno scritto in francese dopo Proust, vengono dal Belgio....Yourcenar e Simenon e non mi si mettano sull'altro piatto della bilancia i Sartre, Camus e Gide, che nemmeno si vedono! di fianco a quei due grandi! E Gide.... come dimenticarlo.... fece il suo bell'errorino, per me indimenticabile e assai significativo...rifiutò la pubblicazione del primo volume della Recherche! Come fidarsi di lui?

ESSERE INTELLETTUALI E' UN MESTIERE ... ESSERE ARTISTI, UN BISOGNO DELL'ANIMA.

Ecco perché l'intellettuale ha dilagato. Si sveglia la mattina e, sistematicamente, come qualsiasi lavoratore, dedica la giornata al suo mestiere che, se gli va bene, è pensare per sé, se gli va meno bene è pensare per qualcun altro...

L'artista invece è un uomo qualunque che ogni tanto apre gli occhi interni e osserva profondamente quel che gli occhi comuni, fatti solo per le cose, non reggono. Non per niente Omero era cieco e Arsenij Tarkovskij nel 1907 e Levi nel 1945 ne “La tregua” ricordano, a nord del mar Nero, nell'attuale Uktaina, i cantori ciechi ancora esistenti... e non per niente la poesia è ancora quasi sciamanica in Russia, in Ucraina... e qui, nell'Europa tuttora ubriaca di troppo razionalismo, pretendono che si creda alla metamorfosi del poeta in intellettuale! E infatti non li legge nessuno e me la rido perché la gente cerca, desidera il vero poeta e boccia sistematicamente quel che l'ambiente intellattuale tenta di imporre. Non per niente la poesia è sopravvissuta grazie a personaggi che son “scappati” dal sistema intellettuale come Tonino per mezzo del cinema e del contatto diretto col pubblico tramite la sua Fondazione e de Andrè, de Gregori e Vecchioni, che le loro poesie le han cantate..... il poeta, come un tempo, si fa sciamano nel contatto vero, come accadeva a Tonino quando più che fare conferenze, più che pontificare, parlava con la gente. La tivù raffredda Non esisti mai veramente quando sei sullo schermo......e la poesia, come la letteratura in generale, deve cercare il contatto quasi fisico con l'artista. Devono sentire la sua concretezza, la sua sincerità nel bene e nel male. Anche Augusto Daolio (si scrive cosi?) era letteralmente amato, come anche Pierangelo Bertoli, perché potevi viverti la loro genuinità nella realtà sensoriale, in carne ossa e canto! Le persone, che assetate di poesia lo sono, devono essere contagiate dalla sua vitalità. Non ha senso imporli. Anzi, è ridicolo. E finiscono miseramente in quei cimiteri che si chiamano antologie. E se leggi i due versi che un intellettuale ha selezionato, non sai se sbadigliare o cosa pensare, perché dentro niente si è smosso, nessuna magia ti ha catturato. Se invece accade che non ti rendi conto nemmeno che ti applichi solo con la mente e ti ritieni appagato dal misero gioco del pensiero senza nemmeno supporre che si possa “viaggiare” oltre.... beh, forse allora si fa dura. Nessuno accetta di dare una sistematina alle proprie fondamenta se non mentre le si stanno costruendo, quindi in gioventù.... poiché più si accumulano anni, più si sente l'esigenza di nutrirsi di abitudini e rifondarsi dà la sensazione di distruggersi...anche la moda si fa fossile. Vi basta guardare quelle donne sulla settantina che continuano imperterrite a cotonarsi i capelli creando volumi che ci sembrano mostruosi, ma che non fanno altro che riprodurre il concetto di bellezza che a vent'anni avevano elaborato grazie all'imitazione.....

Ora un altro aspetto curioso e, mi sembra, mai purtroppo rilevato. Cerco di spiegarmi andando a spulciare nella vita di Arturo Toscanini. Il padre, Claudio, fu garibaldino e combatté sia sull'Aspromonte che per la conquista di Roma. Da sposato tornò alle battaglie e combatté sempre con Garibaldi, gli austriaci in Trentino. Era un sarto, di umili condizioni. A Parma nel marzo del 1867, quindi si può dire subito dopo l'unità d'Italia, mise al mondo Arturo. Si capì presto che era dotato ma non c'erano i soldi per mandarlo alla scuola regia. Il padre mandò una lettera di richiesta. Ne ho il testo. È evidente che Arturo fu accettato perché era figlio di una persona che aveva lottato per l'unità d'Italia. Questa “spinta”, questo aiutino il suo destino, lo ricevette. Se fosse stato uno a caso della marmaglia plebea, o della corrente opposta, sarebbero stati "volatili per diabetici", …..come disse quel celebre filosofo pugliese (Lino Banfi). Il resto ovviamente ce lo mise Arturo, con la sua memoria prodigiosa e questo innamoramento così precoce per Wagner!

Possiamo vedere quindi come quell'epoca, e giustamente, semplificò la via verso una eccezionale carriera di un grande e meritevole anche se aveva un caratterino che la Fornero in confronto ci sarebbe sembrata Biancaneve....

Essere stati garibaldini o rivoluzionari o figli di questi, fu un grimaldello per molte carriere artistiche e non. È giusto? È sbagliato? Secondo me è semplicemente la storia.

Così accadde nel secondo dopoguerra. Essere stati partigiani o reduci dai Campi o di sinistra (cosa non semplice sotto il fascismo. Ammirevole, lo ricordo sempre, l'esempio dell'amato Emilio Lussu e non solo) o figli di questi, poteva semplificare la vita. E accadde spesso. Il problema fu che la sinistra, distributrice di posti, cariche e onorificenze, presto si corruppe a quella italianità più triste che si chiama raccomandazione. Certi posti dovevano essere occupati. Fare o non fare era secondario. La cosa importante è che non andassero al “nemico” e così nel dopo guerra certe posizioni son state occupate da personaggi decisamente insignificanti e ce ne siamo liberati solo con la loro “assunzione ai vermi”. Quel che doveva accadere era che qualcuno si ritrovasse la strada più libera, più semplice, ma poi, se non valeva, ciao e a casa, e invece se non fosse intervenuta Sorella Morte, sarebbero ancora li... . Ci tengo a dirlo. Non sono ne di destra ne di sinistra e nemmeno di centro che mi sembra voglia dire che si sta un po' di qua e un po' di la a seconda delle convenienze... devo essere libero e penso di esserlo. Scoprirò fra anni se è stata una illusione o se fui libero veramente. Diciamo che ci provo e non mi faccio intruppare da un partito per dire per esempio che Moretti è bravo anche quando non lo è più da anni....e non inneggio a Ezra Pound perché sono di destra, bensì...... perché era un grande.

Questa ondata del dopoguerra ci ha dato pochi fiori e molte erbacce. Il tempo sistemerà tutto, o almeno, ci proverà.

Quel che spero è che gli intellettuali si scannino fra di loro e lascino in pace gli artisti.

E che molti ruoli che agli artisti spettano, e non certo per diritto, ma per esigenza di un popolo, tornino a loro. Solo così forse, fra qualche anno. I ventenni sapranno finalmente dirmi perché sono italiani. Per ora le bandiere sventolano con gusto solo allo stadio e di questa miseria si “lodino” gli intellettuali poiché amare viene dal cuore, non dal cervello col quale vogliono dominare anche in territori dai quali sono esclusi. Ve l'immaginate una farfalla in cima al monte Bianco? Loro ci vogliono far credere a simili insensate bellezze....

e che dire di questa mia generazione e della prossima? Niente guerre che fanno vincere una fazione semplificando le carriere... è un bene' è un male? Io so solo che nel presente l'unico dio è il mercato che di arte non si si interessa. Vende salumi, pannoloni, libri e quadri con la medesima tecnica e in questo mondaccio, chi è artista deve sopravvivere. Coccodrilli i mercanti e coccodrilli gli intellettuali... unico gaudio quindi.... sei sei onestamente artista è dura sempre e comunque.

Un altro esempio del male dell'eccessiva intellettualità: il libro giallo.

Ne sfornano a milioni. C'è il buono, c'è il cattivone e il lettore si sente furbo se scova quest'ultimo prima del momento nel quale lo capirebbe anche un cretino. Son quasi sempre “libri panino”, nel senso che li “mangi” ed è finita così. Un giochino.

Ma se si leggono i gialli del commissario Maigret di Simenon ecco che accade dell'altro. Per esempio “Maigret e il barbone”. Il libro non termina con la scoperta del colpevole. Accade qualcosa d'altro, di molto più elevato. E poi, in generale, Scopriamo con Maigret un mondo, delle vite, e alla fine essere o no colpevoli si riduce all'aspetto esteriore di un “gioco” molto più profondo.

Porto un altro esempio, celeberrimo, e giustamente. “Dieci piccoli indiani” di Agatha Christie. Si ha il sospetto, per un sacco di pagine, che l'assassino, anzi, per essere corretti, il giustiziere, sia Dio.. sembra sempre che si vada oltre il giallo puro e semplice.

La sistematica vittoria sul male, spiegata in migliaia di strategie, faceva bene alla borghesia che amava il senso del possesso e doveva rivestirlo di giustizia, di moralità.

Ma ora, tranne pochi casi come appunto Simenon. La Christie ecc, perché si legge il giallo? Perché tanta gente è stata definitivamente convinta che non esiste nulla oltre ai giochi dell'intelligenza....

….ma sono comunque ottimista. Tonino mi ha insegnato ad esserlo.....

ora potete comprendere perché Tonino fu amato e letto da vivo e lo sarà anche dopo.

Potete anche comprendere perché oggi, in quest'oggi che sta durando da troppo tempo, gli artisti come la Capriolo e Vassalli, appaiono il meno possibile. Qualsiasi contatto con i media e con gli intellettuali falsifica quel che veramente e profondamente sono.

La loro realtà non è ingabbiabile dalle leggi di mercato, ma solo deformabile e il loro essere veri si rivela quando parlano con un pubblico ristretto, a tu per tu..... ma spesso ci si domanda se ne vale la pena …...e si rimane a casa ad accarezzare il gatto.










lunedì 23 luglio 2012

Sebastiano Vassalli: "Un infinito numero"


Tempo fa. Dialogando con un libraio, ebbi la seguente informazione. “Amo i libri di Sebastiano Vassalli”. Mi fidai e presi “Chimera”. Consigliato. Ero diffidente. Un bel po'. Aveva vinto lo strega. È un premio che si assegnano gli editori. Una spartizione banale. Anche appartenere alla rosa dei finalisti fa pubblicità e incrementa le vendite. So solo di un caso nel quale si ritrovò nella cinquina di un premio italiani visibile, che non vuol dire valido.... senza saperne nulla e lui stesso, sconcertato, non sapeva come spiegarsi la situazione.

I premi.... e chi si fida più! Penso a Sakurov che vince il Leone d'oro a Venezia col film “Faust” e scopro, che il suo produttore è il direttore di quel festival... quel che mi dispiace è che la notizia, che mi infastidisce per la sua manifesta immoralità, va a creare un paradosso assurdo. Quel film meritava di vincere. Non ho dubbi. Quindi attualmente che si valga o meno è diventato necessario abbassarsi alla gogna di quel circo? Preferisco la compagnia del mio cane, la semplicità di una passeggiata nella natura e il dialogo con un amico, alla perdita di tempo di essere suddito e di lisciare chi dimostra di amare un ambiente celandosi dietro al vocabolo Arte con la a maiuscola, senza fare quel percorso, solitario, individuale eccetera, che porta alla comprensione delle grandi opere. Come ho sempre detto, per “sentire” il capolavoro” non serve l'intelletto. Questo si fa addirittura lente deformante, gabbia. Se non sei riconoscibile nei suoi schemi rischi di non esistere.

Pazzesco ma vero.

Ebbene. “Chimera” aveva vinto lo Strega. Pessimo inizio secondo la mia mentalità....

Il libro infatti non mi convince. È onesto. Scritto decentemente, ma non spicca il volo.

E poi accade qualcosa..... un dono del caso. Vado a fare la spesa e all'ingresso del supermercato c'è una bancarella che vende libri a peso. Cinque euro al chilo. “butto un occhio” e vedo “Un infinito numero” di Vassalli e “Una luce nerissima” della Capriolo. Quest'ultima ha già la mia stima da anni e accetto umilmente la lezione. Quel caso che raramente fa le cose a caso.... me li ha messi vicino. Vassalli e la Capriolo. Perché.... indago su Vassalli, il primo denominatore comune che mi salta all'occhio è che è schivo. Non quanto la Capriolo, ma abbastanza secondo i miei gusti e si sa,che per il mercato, essere schivi non equivale solo all'essere così di carattere e basta, ma anche anticommerciali. Chi non appare, non autopromuove se stesso. Ogni prodotto commerciale è un marchio che garantisce vendibilità se si mantiene presente, appunto visibile sui mass media.

Vassalli è uno di quei personaggi che in un'epoca come quella attuale, che vive solo di emozioni e di presente, viene dimenticato. E infatti io sono arrivato a lui grazie ad un raro caso di libraio che legge anche, razza in via di estinzione. Il problema fu che non mi feci consigliare su cosa leggere. Forse, ma non è certo, avrei raggiunto prima certi titoli che ora considero preziosi.

E comunque la vita è scandalosamente lunga... e per me che vivo senza tele da una quindicina d' anni, addirittura lunghissima e perdere un po' di tempo non è una tragedia.

Essere schivi nella nostra epoca. Come ce lo possiamo spiegare? Secondo me le vie sono due e possono sommarsi. La prima mi dice che è una questione di carattere, la seconda che è una reazione al fatto che, se lasci fare ai mercanti, ti rimane ben poco per il tempio.... i il tempio è il tempo, che insieme al talento, che in parte è dono di natura e in parte è autoalimentazione.... può portare a frutti degni di essere ricordati.

Le generazioni di artisti precedenti ci avevano abituato a un artista che offre due opere. La vita e l'opera, e ognuna di esse può portare a un reddito. Può essere da anni che non scrivi più ma i media ti chiamano e ti pagano per farti vedere. Ormai sei scrittore, o altro, hai la tua bella etichetta e il fatto che non scrivi più, non è importante....

vi ricordate di D'annunzio? Di Wilde? Si, della loro vita senz'altro. Delle opere forse, dico forse qualcosina. Ebbene. Vassalli e Capriolo, ci danno un'opera sola: “l'Opera”. Ha senso? Si, poiché i risultati si vedono.

Mi permetto un altro esempio. Simenon. Per i mercanti era un pozzo senza fondo. Inesauribile e veramente di valore. Nella vita privata desiderava la semplicità di una famiglia. I media lo “disturbarono” molto. Ne fecero una leggenda. Tutt'ora qualcuno mi dice “sai, si portava a letto una donna diversa ogni giorno!”. E con questo fare da bar sport cosa è accaduto alla sue vera immagine? Alla sua opera? Che Simenon è etichettato come giallista e al nome di Maigret quando lui invece diceva che uno, Maigret appunto, era per campare e lo scriveva a macchina, il resto era “fare sul serio” e lo scriveva a penna. E così accadde che per anni evitai colui che pensavo fosse solo un autore di gialli e, solo il caso di un mercatino dell'usato che vendeva al prezzo di un caffè “Il piccolo libraio di Archangelsk” e “Cargo”, mi diede l'opportunità di scoprire un grande. È ben triste quando nessuno ti consiglia e quando lo fa o è roba usa e getta, oppure squallidissimi prodotti intellettuali, freddi, gelidi già alla prima pagina, inconsapevoli che la misura dell'arte, di quella grande, va ben oltre il pensiero!

Approdai quindi per puro caso ad “Un infinito numero” di Sebastiano Vassalli. La copertina rigida dell'edizione Einaudi sgradevolmente scalfita per passarlo nella categoria detta “seconda scelta” e per il resto nuovissimo.

La sera stessa l'ho sfogliato e ho notato che aveva, non sapevo ancora se per calcolo o per caso, quelle caratteristiche che più piacciono a chi non legge con eccessiva passione. Capitoli brevi, spesso mezze pagine bianche, carattere tipografico abbastanza grande. Diceva un politico italiano che ho avuto il piacere di conoscere (l'unico dal quale, intellettualmente ho tratto questa sensazione...) che a pensar male si fa peccato ma ci si prende sempre”... e ho pensato che Vassalli aveva “fatto” un racconto lungo e l'editore ha fatto il possibile per trasformarlo in un romanzo, intendo sotto l'aspetto sensoriale. La dimensione del libro, il numero delle pagine portano a dire che romanzo è, e invece è più corto. Solite furbizie povere... ma racconto o romanzo che sia, ci deve interessare la qualità!!! e quella c'è... una scrittura estremamente semplice, nitida, pulita e un argomento che sembra del passato e invece ci parla chiaramente del presente.

Virgilio, il poeta, deve scrivere il poema che darà fama a Roma e al suo imperatore, il figlio adottivo di Giulio Cesare, divenuto a dir poco onnipotente. Mecenate, personaggio dal quale deriva quel bellissimo vocabolo.... lo ha aiutato ad ottenere il potere e gli ha fatto anche comprendere che la fama dura nel presente e poi è dimenticata se non viene eternata dai poeti. Virgilio è il prescelto. Lui deve, sia chiaro che è un ordine, sì deve scrivere quell'opera che noi oggi conosciamo e apprezziamo col titolo di Eneide. Il poeta non sa come iniziare e Mecenate lo invita a fare un viaggio in Etruria.... il resto non ve lo dico. L'esito è veramente profondo. La semplicità del linguaggio, quando non è tecnica calcolata a freddo, rappresenta la chiarezza interiore raggiunta da chi sta scrivendo. Ho sempre pensato che quando qualcosa “spinge” e vuole uscire, non sceglie il suo linguaggio. “parla” e basta. E ho la sensazione che in Vassalli sia accaduto questo. Fra le righe c'è la sua, la nostra, la mia epoca. Ha capito molto. Forse troppo per essere gradito ai potenti, ma a noi che il potere lo disprezziamo e non vogliamo saperne di averne nemmeno una briciola, quel che lui dice ci fa bene, ci schiarisce le idee. Non che il malato stia meglio se conosce esattamente il nome della sua malattia, ma fare i conti con qualcosa che potrebbe essere, più che sembrare, una versione della realtà, ci fa bene. Diceva un cantautore che fino a qualche anno fa era decente e ora si atteggia un po' troppo..... “il mio sangue non è acqua, ma fiele, e ti farà guarire”.

Penso che sia uno dei migliori libri italiani di un autore vivente.

Dopo aver letto, e riletto con piacere in questi giorni, l'opera che vi ho appena descritta, decisi di andare in “”biblio e di prenderne una “carrettata”. E ne ho trovato un altro che merita secondo me, di essere letto e riletto: “Marco e Mattio”. Non è al livello, secondo me, di “Un infinito numero” che considero il suo capolavoro, ma ...l'ho già riletto due volte... nulla in me è definitivo. Il tempo non matura solo il vino e le nespole. È possibile che fra qualche anno la compagnia che “Marco e Mattio” ha fatto alla mia mente, me lo renda assai più caro di quel che è per me ora.

È comunque un piacere per me rendermi conto che in Italia, due autori, Vassalli e Capriolo, meritano tanto. Il loro silenzio è una lezione, una reazione, ne sono quasi sicuro, ai media e all'eccessiva superficialità di ormai tutti gli ambienti. Ora i salotti più selezionati si distinguono per ricchezza e per potere, non per desiderio di comprendere. Io ho quindi posso. Questa equazione falsissima attualmente fa sentire autorizzata certa gente assolutamente insensibile a “sparare” sentenze, ma, corpo di mille balene... se ti sei arricchito a fare il bottegaio o l'industrialotto. Se sai fai baiocchi!!!! non è detto che capisci tutto. Sai far soldi, sai ingrassare, ma andare oltre il pensiero....è un'altra musica. Pensare, far mettere il cervello in gabbia, quello possono pagarlo. Le università, le scuole Holden e robaccia simile, servono a questo, ma l'arte è più in la. È un buio che si fa luce solo se ti arrendi alle apparenze che però ti sembrano vere se di esse ti sei nutrito sin da piccolo.

Grazie Vassalli: quando hai tempo, un altra robina così ce la scrivi? Ci, scusate... mi farebbe immensamente piacere.

venerdì 20 luglio 2012

Durrenmatt; "La morte della Pizia"


E' estate. Caldo torrido. Si suda anche a pensare e quando, a sera, forse arriva il fresco, ci si vendica su angurie, gelati e birre dorate e fresche, spesso il fresco non arriva e allora ci si rifugia da mamma aria condizionata... mi viene in mente la Florida. Mi disse un suo abitante che secondo lui è diventata abitabile solo dopo l'invenzione dei condizionatori..... possibile. Dove c'è troppo umido non si respira e si sibila come una vecchia teiera in ebollizione. La palustre Bassa Romagna che in questo istante mi accoglie, per quanto bonificata al tempo del Duce, da Ferrara a scendere, per quanto abbia perso stagni e acquitrini, l'atmosfera l'ha mantenuta intatta.... Ravenna era una Venezia di sette isolotti e l'imperatore non ci si insediò, ma rifugiò, esattamente come toccò in sorte ai fuggitivi di Aquileia che poi fondarono la Serenissima.

Storia di acqua e zanzare.... non c'è più l'acqua, se non di mare, almeno dove io trascino il corpo, e un lago salato a cento metri da me che chiamano Pialassa. Dal veneziano, piglia e lascia. È collegato all'Adriatico, acqua salata e piglia e lascia son le sue composte, minime alte e basse maree... ci sono i fenicotteri. Arrivano dall'Africa che cono rosa, terribilmente kitsch. Nella patria di Armani non è tollerabile e qui sbiancano rapidamente. Mi dicono che è a causa ai gamberetti africani che inrosano e per merito di quelli italiani che sbiadiscono. Qui in Italia comunque, tutti i colori si spengono. Qui tutta l'esteriorità è scelta estetica consapevole. E se guardi le automobili e decidi di contare quelle grigie, quasi finisci i numeri. Gli altri colori sono eccezioni...pensi che siano appena tornati da un funerale, che ci sia un lutto che si esprime così, col grigio delle auto e gli abiti che mai imitano la saggia allegria dei fiori....



In questa patria dell'apparire, per questi italiani che han trasformato il proprio corpo in opera d'arte, e si ostentano per le vie appagati solo per un attimo e poi angosciati dal duro compito di anticipare le mode, meditano un nuovo modo di apparire, e che considerano superate le imbrattature anche ragionate delle tele che li resero grandi, e la grandiosa tradizione musicale culminata in Vivaldi, Domenico Scarlatti e Boccherini, e lo scalpellare dei candidi marmi di Carrara che ora si fan base per lampade e lapidi per cimiteri, mentre prima erano Pietà geniali e Bacchi e veneri danzanti.... In questa terra dicevo votata ormai all'apparire, l'atto di leggere, che è interiore, pudico, individuale, solitario, accade? Quasi mai. Il senso estetico chiede di essere acculturato per gradi imitando, guardando e a volte, in casi rari, anzi rarissimi, osservando.



Leggere abbellisce l'interiorità. Ma quella chi la vede! Ti giri a guardare la donzella con l'abito di Emilio Pucci, non certo quella che ha l'occhio distante che pensa.



Ugualmente immagino in questa terra ,qualche mezzo matto come me che decide di rilassarsi pensando.

Cosa si può consigliare col solleone? Primo, le riletture. Secondo, roba breve oppure anche lunghina ma, con capitoli ben delineati che se giri al massimo due pagine vedi che l'apnea del cervello terminerà presto. Mai come in quest'epoca, che vuole affidare tutto agli occhi, del pensare si è perso il piacere e l'abitudine. Ai sensi bastano le emozioni ma all'Uomo? Al cibo il sapore e il profumo, al tatto la seta delle stoffe o della pelle di lei, al sesso, l'orgasmo.... e poi si è sazi per un po'. Il corpo si riprende dalla sazietà e si riparte, in un circolo vizioso eternamente uguale che per me si fa aberrante, angosciante, sinonimo di morte dell'anima che dei sensi fa uso per porre le basi per un grande viaggio....l'inferno è in ogni forma di ripetizione. Penso al mondo di Walt Disney, alle città di Topolino e Paperino che in Italia si chiamano Paperopoli e Topolinia. Son belle ma ripetitive. Rappresentano un dolore enorme. Senza genitori, tutti, quindi senza complessi di Edipo, quindi liberi sì, di ripetersi eternamente uguali. Walt Disney era un pozzo di sofferenza. Il film Bambi era dolore puro. Speranza. E ci si gettava da bambini su quei giornaletti con gioia. Accadeva. Era giusto che accadesse, perché per un bambino il mondo è statico. Lui è il centro e, se tutto va bene, babbo e mamma sono certezze, pilastri inamovibili. In questo ambiente fatto delle colonne genitoriali che ai suoi occhi sembrano appunto immobili, la vita non si srotola nel tempo. Ogni alba ripete la medesima giornata. Ecco cos'è l'infanzia quando la sorte aiuta. Ecco anche perché, quando iniziamo a sentire il cambiamento, quando la crescita nostra e di quel ci circonda ci porta con naturalezza a considerare diversamente la vita, quei giornalini, senza alcuna nostalgia, tornano in soffitta. Son specchi che si sono offuscati. Rappresentano ormai un mondo di Walt.....non più il nostro.



Immagino quindi un giovane. Sì, mettiamo vent'anni appena diplomato che ha studiato e si domanda, mentre sbuffa all'ombra, cosa se ne farà di tutti quegli studi ai quali si è sentito a volte attirato ma più spesso costretto. Penso per comodità, che abbia fatto il liceo classico. Mi concedo il lusso di questa selezione perché sto pensando a un libro. Immagino che lo trovi su un tavolo in casa, la sera. Nessuno sa di chi è quindi lo prende. È sottilissimo. Appena sessantotto pagine e la narrazione inizia a pagina nove, quindi di fatto 59 da leggere. Antipaticamente non ha capitoli, non ha spazi bianchi, mezze pagine nelle quali riposare gli occhi e tirare il fiato della mente. L'autore ha un nome strano. Durrenmatt, chissà come si pronuncia. Con uno sgorbio di cognome simile sarà sicuramente di area tedesca, come lingua, s'intende. Sarà pesante? Immergere lo sguardo non costa nulla. È un Adelphi rosso, elegante. Una casa editrice che immediatamente dona idea di serietà. “...fa sul serio”, e questa potrebbe essere una sfida. Lui non può sapere, ha vent'anni.... che anche questa casa editrice ha pubblicato qualche corbelleria... la sorte lo ha aiutato fino ad oggi e lo aiuterà ancora. Questo libro di nessuno apparso sul tavolo sarà “vero”.



Ha studiato i miti, i greci, e non sapeva cosa farsene di quelle nozioni. Il titolo. “La morte della Pizia”. Ecco, la Pizia. Sa chi è. Uno a zero per lui. Prima la sorella gli ha chiesto chi era. Forse papà lo sa. Lui sa tutto. Il fatto di sapere qualcosa che non tutti sanno lo rinfranca. Si sente importante. Superiore a qualcuno, ma a chi, e cosa farsene di quella superiorità! Lo pensa. È un buon inizio. È nato e cresciuto in un mondo involgarito dall'etica dello sport. Esiste sempre una classifica, un migliore. Ha avuto un attimo il sospetto che sia una cosa stupida, particolarmente se applicata in ambiti estranei allo sport. Pensa ai premi letterari. Primi anche li. Anche li classifiche. Ai premi scientifici. Si sta perdendo. Non sa ancora elaborare nella stratosfera. Si è appena staccato dal suolo. Ci vuole calma. Tempo.... ed ecco che inizia a comprendere che il tempo.... ma anche questo non è ancora chiaro. E poi, la letteratura. A scuola danno solo certezze, l'ha capito. Devi ripeterle per avere un buon voto, ma non son certezze. Lo ha capito tanti anni fa e quel dubbio tuttora irrisolto torna a galla spesso. Ricorda che verso i dieci anni ebbe un'infatuazione per i libri di avventura. Inciampò nel Moby Dick e qualcosa non funzionò come negli altri libri. Il capitano Achab ogni tanto la notte appare con la rumorosa gamba di legno e lo sveglia. Non dice niente e sorride. Strizza l'occhio destro e si siede sull'unica sedia della stanza. Gli dice “dormi, dormi. Ci penso io a non far entrare brutti sogni” e lui si addormentava con quel mistero ancora irrisolto. Quel capitano aveva perso la gamba per colpa della balena bianca. Nel romanzo la ri sfidava ma si cappiva benissimo e subito che non avrebbe potuto batterla. Ma che senso ha leggere la descrizione di una sconfitta! Che senso ha che il buono non si capisce se è veramente, profondamente buono! È tutto mescolato in quel libro. Che senso ha! Spesso la notte lo avrebbe voluto chiedere al capitano, ma non l'ha mai fatto. Sapeva che era un sogno...



va a letto. La finestra è aperta su un paesaggio di alberi. Rumore di grilli. Un congegno elettrico e lievemente profumato difende dalle zanzare. Non c'è frescura ma stando immobili si può almeno leggere, pensare. Lei da quando il caldo si è fatto insopportabile non striscia più dalla finestra nel suo letto. Non arrotola più il suo sottile e lungo corpo al suo. Quella stretta che esplode in un orgasmo e poi si fa asfittica, non necessaria, lo sorprende sempre. Lo attira all'inizio e si fa repulsione. I suoi occhi brillano nel buio. I denti bianchi, i baci a fior di pelle. Speso si sente cibo e lei a piccoli morsi lo fa impazzire di estasi. Ma poi tutto finisce, e lei senza una parola scivola via. E si perde in quell'immensità di prati, alberi e cespugli. Non ha il coraggio, la forza, la volontà di chiudere la finestra. La attende e poi alla fine la teme. Ma questa sera, ed è la terza, questo caldo folle la terrà lontana. La immagina in questa notte di luna che si bagna nel lago. Dista cinque minuti e inizia con acque basse...

si stende. Apre il libro. Dunque, la Pizia.... ha letto d'un fiato. Ha ritrovato i suoi studi. Gli studi si son fatti base di partenza. Gli hanno permesso di capire, di non affogare nei nomi di Laio, Creonte, Edipo, Tiresia, Omero, Agamennone, Eracle, Delfi, Corinto, Tebe, Cadmo, Armonia, Prometeo, Tantalo, Clitennestra, Leda, Minosse....



“...solo la non conoscenza del futuro rende sopportabile il presente.....”



“...Niente al mondo infatti l'uomo sopporta con più difficoltà della giustizia implacabile. Proprio questa egli ritiene sommamente ingiusta. Tutti i tiranni che fondano il loro dominio su grandi princìpi, l'uguaglianza dei cittadini tra loro, o l'idea che i beni di ognuno appartengano a tutti, suscitano in coloro sui quali esercitano la loro podestà, un sentimento di soggezione incomparabilmente più mortificante di quelli che, anche se assai più ignobili, si accontentano, come Laio, di fare i tiranni, troppo pigri per addurre una qualsiasi giustificazione al proprio comportamento: essendo la loro dittatura lunatica e capricciosa, i sudditi hanno la sensazione di poter godere di una certa libertà. Non si sentono tiranneggiati da una arbitraria necessità che non consente loro speranza alcuna, ma piuttosto da un arbitrio assolutamente casuale che ancora permette qualche speranza....”



ha capito. Ha capito perché ha studiato la storia, e ha provato quelle parole addosso a Syalin, Hitler, Mussolini, Alessandro il Grande, Napoleone, Cesare...

La filosofia. Coi suoi ragionamenti spesso frigidi, esasperati, così puntigliosi da sembrare maniacali, in un letterato si fa viva? Ma chi è questo Durrenmatt.....



“ sui giorni felici non c'è mai molto da dire -aggiunse la Sfinge dopo un lungo silenzio- la felicità detesta le parole”



e ora pensa a lei. Lei che arriva dalla finestra silenziosa e si adagia su di lui, in lui e senza una parola....



ragiona poi sulla razionalità e la fantasia. Due vie che, a quanto pare non hanno permesso a Tiresia e alla Pizia di capire un bel niente della vita....



E quella felicità che detesta le parole....



Chiude il libretto. È notte fonda. I grilli tacciono.



Esce dalla finestra, passi cauti lo portano al lago.



Pensa. “lei tace.... lei è felice. Lei....” e non sa continuare.



Arriva all'acqua. La luna è completa e illumina, ma la sua luce è irreale come nei sogni.

È solo. Si tuffa, nuota. Arriva dove è è profonda. Qualcosa lo sfiora da sotto, lo tocca. Lo abbraccia, lo tira giù.



Esplode il respiro, la luce si fa buia ma intensa, si arrende.



E alla fine lei gli nuota di fianco.



Anche lui ora non parla. Non ne ha bisogno, e non ha più paura ora che il “gioco” è terminato.



Pensa... “è un sogno. Mi sono addormentato con il libro sul petto e nonostante il caldo, dopo tre giorni la desidero talmente tanto che....”



si siede sulla riva del lago. Guarda la luna sereno. Lei è di fianco. Lo sa. Chiude gli occhi cercando di comprendere quanto può essere profonda la felicità.



E nel buio degli occhi il capitano Achab per l'ultima volta lo saluta. Lo capisce perché dice addio e si vede che è commosso.



“Addio. Si, addio mio capitano: ora penso di sapere la rotta”










mercoledì 18 luglio 2012

Vecchioni, Mann, Visconti e ... La morte a Venezia


Nel 1911, Thomas Mann aveva 36 anni. Sicuramente suggestionato da una visita a Venezia e dintorni e dalla morte di Gustav Mahler, scrisse “La morte a Venezia”.

Questo breve romanzo è un gioiello secondo me imperfetto. Troppo pensiero appesantisce una idea eccellente. Definisco la situazione con un raro paradosso. “La morte a Venezia” è un capolavoro ma.....poteva esser scritto meglio. Thomas Mann pensava troppo. Sempre. Ma era un fenomeno, quindi le sue ubriacature di pensiero non danneggiavano mai troppo le sue creature. Secondo me l'arte non deve mai essere troppo pensata. Deve essere vissuta sia per chi scrive che per chi legge. Si deve lasciar fare a quell'io che è veramente il nostro e che spesso deve difendersi da noi, che sappiamo farci male.

Porto un esempio. Immaginate una persona che decide che non vale la pena vivere. Arriva a questo esito perché ha elaborato significati tremendi su quanto gli è accaduto. Potrebbe anche avere ragione, non è questo il punto ma, immaginiamolo che si stende di notte sulle rotaie. Sente arrivare il treno, chiude gli occhi, istintivamente tira tutti i muscoli, sente il treno passare e, misteriosamente è ancora se stesso. Apre gli occhi e scopre di essere in piedi a qualche metro dal luogo del “delitto”. Mi raccomando, non è una favola. Son cose che accadono, ed è il corpo che dice: “ok. Se ti seguo, mente mia, qui si finisce male! Che ne dici se ora comando io?” ed ecco i sensi che si riaccendono. L'olfatto si fa sottile, il tatto curioso e il mondo immediatamente interessante. La mente si arrende all'evidenza della sua incapacità di elaborare un senso e affida alla gioia della corporeità un nuovo inizio. L'importante è che mai mai mai, la mente comandi da sola! E anche che la pura corporeità sia solo un inizio....



Ecco descritto per eccesso quel che sento essere il comportamento di Mann. Il fatto stesso che scrivesse tutti i giorni.... è vero che ognuno ha il suo metodo ma, almeno per me, la scrittura non è e non sarà mai un mestiere! Scrivo quando mi va. Quando ho qualcosa da dire. Se me lo imponessi quotidianamente come faceva lui, diventerebbe per me una nevrosi, una dipendenza che potrebbe diventare ossessione. La vita è già così piena di doveri che almeno la letteratura sia un canto libero!



Comunque lui era così e la visita a Venezia sommata alla morte di un grande, condizionò, rese sensibilissimo il suo essere. La storia è semplice. Uno scrittore arriva a Venezia e vede un ragazzo di una bellezza irreale. Ne è sconcertato e attirato. Per quanto abbia letto che Mann fosse probabilmente un omosessuale mentale (ma esistono?) non credo che il punto di partenza in lui sia stato questo. La morte di un amico addosso, Venezia che più che essere una città è un sogno (Venezia, più inverosimile di ogni altra città....), e la bellezza, questo enigma affascinate che ti gira intorno, inconsapevole di se stessa e per questo pura. È nel guardarla, con la sensazione di morte addosso, nasce una ipnosi profonda. Uno stadio fra la vita e la morte, un essere che non è quel che eravamo fino a qualche giorno prima. Tutto perde senso. Solo la bellezza, in quel palcoscenico irreale che è Venezia, ora ha valore, ed essa è.... “danzante al centro del tempo e dell'eternità”.

C'è un'epidemia. Lo scrittore decide di non partire. Meglio morire con la bellezza che ti vola intorno che vivere da essa distante con la mediocrità della quotidianità che causa questo incontro si è fatta insostenibile.



Ricordo che qualche anno fa lessi una notiziola di circa tre centimetri quadrati. Era morto quel nobile dell'Est che Mann vide e che fu l'idea di Tadzio. Tre centimetri quadrati. Peccato.



Ma quel romanzo ha seminato.

Propongo una domanda. Esiste un film più bello del libro dal quale è stato tratto? Secondo me si, ed è “La morte a Venezia” di Luchino Visconti. In esso quell'aspetto troppo mentale che soffro nel libro, non c'è, la mania estetizzante di Visconti si fa poesia e l'ideale di bellezza pura, palpabile agli occhi. Un capolavoro. Se capitate ad Ischia, vi chiedo di mettere un fiore sulla sua sepoltura posta nella sua casa.



Devo dire comunque una cosuccia su questo comportamento, che giudico malsano, di “estrarre” film da romanzi. Se una sensibilità si è fatta parola, si vede che quella era la sua forma. La successiva metamorfosi in immagini potrebbe essere aberrante e lo è infatti quasi sempre per due motivi; spesso il regista non ha capito a fondo quel che ha letto (quel tipo che ha trasformato tutta l'opera di E.M. Forster in film è per me il caso più triste....) e non ha l'umiltà per rendersene conto.... e, secondo ma non ultimo, come fai a rendere ciò che non è solo trama, ma anche pensiero, profumo della mente e del cuore?

Esiste secondo me un altro film che fa miracoli. Si tratta di “Solaris” di Andrej Tarkovskij. La fonte è il romanzo omonimo di Stanislaw Lem. Accade che la base dell'idea sia la medesima, ma poi film e libro si evolvono in modo quasi indipendente. Due prodotti nati dalla stessa radice ma affascinanti per motivi diversi. Stiamo comunque parlando di Visconti e Tarkovskij, di Mann e Lem due più due fenomeni, universalmente riconosciuti...



Secondo me un film deve nascere per conto suo. Il regista ha un'idea, o qualcuno che lui conosce ce l'ha, e poi la fa crescere in sé o in un gruppo, eventualmente con la collaborazione di qualche personaggio degno di stima. Penso per esempio a Fellini, che oltre ad essere bravo dietro la macchina da presa, cioè nel ruolo specifico di regista, sapeva fare gruppo appunto con le menti più valide che incontrava. Flaiano, Pinelli, Guerra e anche Mastrojanni, che non era semplicemente un attore come attualmente si intende, ne sono un esempio. Essi sono legati a quei film al punto che in futuro si dirà che Amarcord è di Fellini-Guerra e “Otto e mezzo” e “La dolce vita” sono di Fellini-Flaiano e quel capolavoro che è “La notte” che ora si considera di Antonioni, diverrà di Antonioni-Flaiano-Guerra., considewrando che poi che lo zampino del bel Marcello grattava sempre un po' la sua parte e se la faceva aggiustare ovviamente con l'accordo di tutti....



Un'idea per il cinema quindi, secondo me deve essere appositamente predisposta. Prendiamo l'esempio della descrizione di un profumo. Essendo questo senso di fatto escluso sia dalla letteratura che dal cinema, per forza di cose si dovrà agire in modo indiretto, e sarà un esito con le parole e tutt'altro con le immagini. Portiamo ora l'esempio sul vedere; io per esempio vedo qualcosa di meraviglioso. La letteratura deve descrivere e ti mostra dall'interno l'esito emozionale di quel vedere, il cinema ti mostra chi guarda dall'esterno e serve un grande attore, un tecnico luci notevole e un regista non da meno. È tutto troppo diverso, troppo distante per poter credere che l'operazione di travasare un'opera fatta di parole, in immagini mobili, sia un atto non volgare .... ma accade e la superficialità, che ha più vita della sensibilità, sembra che goda nel veder immaginato da altri quel che dovrebbe sforzarsi di creare in sé con le proprie forze. Penso che vedere un film dopo avr letto un libro, sia un atto di pigrizia colossale.....



Visconti per ora, è secondo me l'unico che è riuscito appunto a “travasare” un libro in un film accentuandone addirittura il valore!



Ma... la seminagione innescata dal romanzo di Mann non è finita!

Qualcuno ha scritto una canzone.....



Vi racconto come accadde che me ne resi conto....

Ero in macchina. La radio manda questo brano di un cantautore che stimo. Rallento, alzo il volume e “catturo” le parole una per una, con attenzione e fu subito per me una delle più belle canzoni d'amore mai scritte. Andai in negozio, la comperai e me ne ubriacai letteralmente per giorni senza rendermi conto che....

Decisi, quando ormai quasi la sapevo a memoria, di leggere accuratamente le parole allegate al cd. Ed ecco la mia sorpresa. Non si trattava di una ragazza, ma di un ragazzo. Già il titolo mi aveva insospettito. Era “La bellezza” e dopo, fra parentesi (Gustav e Tadzio). Quindi Mann, pensai, quindi “La morte a Venezia”, quindi si canta un ragazzo e non una ragazza. Io sono etero, ok, ma come ho fatto a non rendermene conto?



Ecco la spiegazione. Frugo nel testo scritto. Solo in un punto il dato diventa concreto. C'è proprio scritto “ragazzo”, ma nel cantarlo, Vecchioni l'ultima vocale se l'è “mangiata” oppure, oppure io ho trovato in fondo non quel che c'era ma quel che desideravo trovare.... ? ho riascoltato e secondo me vince la prima opzione. Vecchioni si è” mangiato” la “o” di ragazzo e io son volato via immaginando la mia Laura, la mia Beatrice.



Ecco il testo:



Passa la bellezza nei tuoi occhi neri, scende sui tuoi fianchi e sono sogni i tuoi pensieri.

Venezia “inverosimile più di ogni altra città” è un canto di sirene, l'ultima opportunità;

Ho la morte e la vita tra le mani coi miei trucchi da vecchio senza dignità: se avessi vent'anni ti verrei a cercare, se ne avessi quaranta, ragazzO, ti potrei comprare, a cinquanta come invece ne ho, ti sto solo a guardare....



Passa la bellezza nei tuoi occhi neri e stravolge il canto della vita mia di ieri; tutta le bellezza, l'allegria del pianto che mi fa tremare quanto tu mi passi accanto...



Venezia in questa luce del Lido prima del tramonto ha la forma del tuo corpo che mi ruba lo sfondo, la tua leggerezza danzante come al centro del tempo e dell'eternità:



Ho paura della fine

non ho più voglia di un inizio;



ho paura che gli altri pensino a questo amore come un vizio;



HO PAURA DI NON VEDERTI PIU'

DI AVERLA PERSA...



TUTTA LA BELLEZZA

CHE MI FUGGE VIA

E MI LASCIA IN CAMBIO I SEGNI

DI UNA MALATTIA.



TUTTA LA BELLEZZA

CHE NON HO MAI COLTO

TUTTA LA BELLEZZA IMMAGINATA

CHE C'ERA SUL TUO VOLTO



TUTTA LA BELLEZZA



SE NE VA IN UN CANTO



QUESTA TUA BELLEZZA



CHE E' LA MIA...



MUORE



DENTRO



UN CANTO.





Un mio racconto già terminava con quella parte di versi che ho scritto in maiuscolo e che considero un vero capolavoro ( i versi ovviamente, non il racconto!)



scopro così che avevo ambiato due significati: uno legato alla O di ragazzO, che ho riportato in maiuscolo anche nel testo, unico “Luogo” che definisce il sesso della figura cantata. L'altro, legato alla malattia. Mi spiego: “tutta la bellezza che mi fugge via e mi lascia in cambio i segni di una MALATTIA”; ecco, dal romanzo si tratta dell'epidemia. Lui rimane per godere di quella bellezza e sarà contagiato. Sa che corre questo rischio ma se ne disinteressa. Io invece, avendo ignorato che si trattava de “La morte a Venezia”, avevo immaginato che la visione della bellezza lasciasse i segni di una malattia, di una follia, di una incapacità di vivere dopo aver bevuto tanto splendore, e la quotidianità che si fa ormai piccola e gretta, insopportabile.

Dovevo cambiare qualcosa nel racconto? No. “Colpa” di Vecchioni che si è masticata una vocale. E a me va bene così? La mia sarà una ragazza e la malattia una lieve follia. Ci sta. Così la sento. Ed ecco che un capolavoro, viene addomesticato a proprio uso e consumo? Solo per la malattia in questo caso, poiché ritengo che la sensazione profonda data dalla visione della bellezza, come dell'amore, al di là del soggetto sul quale la vediamo, sia identica per tutti ed è un'estasi rara che Vecchioni ha descritto magistralmente. In questo caso, questo lieve fraintendere equivale a rendere il testo più universale. Io non riuscirò mai a cantare fra me e me “se avessi quarant'anni, ragazzo, ti potrei comprare”!. No, proprio non va. Si spegne tutto. E tenendo conto della possibile universalità del senso della bellezza quando si fa estrema, conio il mio angelo per avviarmi verso quella visione totale che ancora non mi appartiene....



E poi accade che il fra intendere non sia distorcere. Ricordo che sentivo cantare un'aria da opera. La gente diceva “ah l'amore, l'amore è un dardo” e invece nel libretto c'era scritto “ ah l'amore, l'amore ond'ardo”..... piccolezze. L'importante è cantare.....



E nel caso di Vecchioni, ci prendiamo una scorretta licenza nel fra intenderlo? Direi che devono vivere in noi due interpretazioni, quella che tiene conto del romanzo di Mann e l'altra che con un artificio rende il brano accessibile anche al tipo di bellezza che più sentiamo nostra......poiché, fino a quando abbiamo un corpo, le bellezze la decidono i sensi e, più li dominiamo, e i sensi nel frattempo si addormentano per le loro gioiose fatiche, più, forse, se non moriamo troppo semplicemente di nostalgia, ci eleviamo e la bellezza si fa sferica, immensa, unica.



E quelle tre età!

Se avessi vent'anni ti verrei a cercare

se ne avessi quaranta, ragazza, ti potrei comprare

a cinquanta come invece ne ho, ti sto solo a guardare.



La densità di queste immagini, che contengono l'estasi incontrollata dei vent'anni. Si ama, si parte, solo quello conta. E i quaranta. Ormai sei in grado di controllarti, sei diventato duro, scabro, a forza di urtare e lottare, e pensi che la soluzione sia il volgare atto di “comprare” del prendere. E poi i cinquant'anni, la distanza che si fa invalicabile anche per i soldi, e puoi appunto, solo guardare.



È poesia.



Ovviamente tutti noi conosciamo ottantenni palestrati, griffati e ben viagrati che vanno a caccia senza pudore....ma quando non c'è il pudore, non quello del corpo, quello dell'anima, non ci interessa....



ricordo (vado a memoria) dei versi di Borges che qui calzano divinamente:



La vecchiaia

questo è il nome che gli altri gli danno,

potrebbe essere un periodo stupendo.



Morto l'animale,

o quasi è morto,

restano l'uomo e l'anima....



Questa è l'umanità che vale, che canto, che considero.

Esistono i vent'anni per andare a cercare e poi si trasformano, lentamente, è ovvio, in anni accumulati nei quali si impara a controllare l'animale, e l'uomo e l'anima si giocano la vita.



….e questa è l'unica via nella quale credo per arrivare alla bellezza.....


martedì 17 luglio 2012

Helga Schneider "Lasciami andare, madre"


Esistono libri che covano una potenza immensa. “Lasciami andare, madre” di Helga Schneider rientra in questa categoria.

Tempo fa scrissi parole elogiative per il suo “Il rogo di Berlino”. Questo, che ho letto un anno fa, mi ha marchiato a fuoco e varie volte ho tentato di dire qualcosa, ma mi rendevo conto che ero ancora troppo commosso, travolto, per poter parlare con lucidità.



Devo partire analizzando tutte le variabili in gioco: il Libro e me stesso, in relazione ad esso.



Partiamo da me.



Sono nato a Karlsruhe in Germania, fra Stuttgart e Strasburgo. Mi sento tedesco. Penso di ragionare come loro su tante cose. Forse mi illudo. Esiste una barriera enorme fra ciò che crediamo di essere e quel che effettivamente siamo. Io, di me, posso solo dire quel che appunto credo di essere. Un tedesco. Si. Dentro. E l'Olocausto mi fa un male tremendo. La cultura che adoro, che prediligo, ha commesso un simile omicidio..... non lo tollero. Ho sperato che fosse propaganda, ma non avevo appigli. Ho conosciuto gente dei Campi di concentramento e anche di sterminio, la loro sincerità era vera e non confezionata come quella dei venditori di informazioni (giornalisti e “in-docenti universitari”...). Impossibile sperare che non fosse accaduto. Ho letto lo sgomento dopo quasi mezzo secolo sugli occhi di Mike Buongiorno, e la fragilità dell'esistere che quei momenti creano, in Tonino Guerra, e molti altri nomi si perdono nella vastità della mia curiosità. Boris Pahor per esempio, e gente ormai senza corpo, senza nome, risucchiate da un passato che mi segna prima di tutto perché quella macchia del popolo che sento mio..... pesa un poco come se fosse anche mia.



Mi fa ridere amaramente il modo della nostra epoca di ricordare. “Il giorno della memoria” è ormai standard. È un po’ come andare a messa, ripetere a pappagallo la parte che ci tocca di preghiere, ma nel frattempo pensare ad altro. Non funziona. No, non va.



Penso che la lettura di certi libri invece, valga più di cerimonie smaccatamente esteriori.

Non dico nulla del contenuto del libro della Schneider. Vi parlo della mia reazione. L' ho letto come una febbre crescente. L' ho chiuso e il cervello girava intorno al cuore che si era fermato. Tutto girava a vuoto. Impossibile pensare. Sai che quel che narra è accaduto. È accaduto a lei.



La grande letteratura secondo me non può non essere autobiografica. Possiamo cambiar nomi, situazioni, città, paesaggi.... in fondo possiamo “girare intorno” solo a noi stessi.

Tutta la letteratura è autobiografia. Quel che la rende grande è un percorso verso la lucidità che non si può insegnare. Il suo percorso più noto è quello della sofferenza, ma non è l'unico. Per la Schneider fu comunque quello.



Ci sono eventi, che ci cambiano. Ecco un paio di esempi. Sono imprecisi perché vado a memoria.



Giacomo Leopardi. Gli muore il fratellino piccolo. Anche lui è un bambino, di poco più grande. Lo portano al catafalco sistemato in casa, ecco che vede la morte, la scopre. Prima era solo una parola. Ora è enorme, insondabile. Un vortice che sconvolge, che ti cambia. Ed ecco che da quel momento ogni sollecitazione esistenziale si fa margherita da sfogliare minuziosamente, nella gioia come nel dolore. Ogni accadimento si fa enorme. L' ideale nasce come esigenza di rivalsa verso l'irrimediabilità della morte, la morte resiste, annienta quotidianamente, e quotidianamente Giacomo, ancor bambino, si rialza, si rifugia nella letteratura, annaspa nei corridoi scuri di un'educazione che non spiega, e le pagine son l'unica porta verso un esterno che offre qualche speranza.



Nietsche. Il padre, dopo una breve malattia muore. Qualcosa alla testa. Un liquido scuro che esce dall'orecchio. La fine. Il cervello contorto. Fattosi duro e contratto nella dimensione di una palla da tennis. “e come potevamo noi cantare, col piede straniero sopra il cuore”, cantava Salvatore Quasimodo e con lui la sua generazione. E non era il tedesco, l'invasore, la tragedia, ma la personificazione in esso della morte. Pensiamo al Dada. Nasce con la prima guerra mondiale. Il rifiuto del razionale che ha portato l' uomo a quella follia. Il rifugio disperato nel non senso, in un balbettio infantile automatico, banale, ma libero dal male. Da da da da da... come una nenia autoipnotica.



Ricordo ora, come un lampo, un ricordo non mio. La madre di un' amica. Di Jasi, in Romania. Da bambina le sue bambole erano i cadaveri dei soldati. La campagna, la sua campagna, il paesaggio della sua infanzia ne era costellato e son entrati nei giochi dell'innocenza che ancora non sa.

E Carlo. Un caro amico ormai definitivamente partito che ricorda a Marina di Ravenna un Albero in riva al canale con uomini agganciati per il mento. Infilzati, che dondolavano al vento, e lui bambino che dava una spintarella per farli “ballare” di più al ritmo della sua piccola, innocente, infantile, canzoncina.

E Carlo che si sveglia alla vita con un pugno del destino che non ti cambia ma ti distrugge. Il padre e il fratello sono in mezzo al medesimo canale con la barca. Passano aerei. Mitragliano. Il fratello morto. Il padre quasi tagliato a metà dai colpi. Lui, ragazzino, si butta, prende la corda e a nuoto “tira” la barca a riva. Il padre è accasciato. Alla tempia un po' di cervello. Carlo con tenerezza sconvolta lo pulisce. L'infanzia è finita. La vita è finita. Dopo un simile colpo puoi solo essere un fantasma … in un corpo.



Pensiamo al suicidio del padre di Schopenhauer. La madre che a Weimar e non solo tiene salotti, interessanti, frivoli, intelligenti..... ma basta l'intelligenza per digerire l'indigeribile?

Non basterà mai. È per questo che odio la confusione nata con l' illuminismo, fra intellettuale e artista, che è diventata la norma nel novecento. Il pensiero non basta. Il pensiero è una gabbia e la disperazione-pallina sbatte contro le pareti creando una pressione crescente che si fa disperazione. E poi la gabbia esplode, l'artista, torna a legarsi all'anima del mondo, a qualcosa di più grande, che all'intellettuale non puoi spiegare.



Nietsche pensò, decise, che sarebbe morto come il padre e si imbizzarrì in una fretta di vivere, una fretta di senso da trovare alla vita. E all'epilogo siamo a Torino. La sifilide lo sta corrodendo. Manca poco e la mente si staccherà per sempre dal suo corpo che vivrà come un sacco, un sacco con enormi baffi. Qualcuno in strada picchia selvaggiamente un cavallo. Nietsche scende. Abbraccia il cavallo. Non vuole. Non vuole. Non vuole. Non è giusto. Crolla. Il tunnel della definitiva follia si apre. Il cavallo muore. E vi sembrava pazzo l' uomo che abbracciò il cavallo? O di una sensibilità superiore anche alla soglia della follia? Aveva abbracciato, nella bestia, la vita che aveva disperatamente tentato di rendere sensata. La vita. La vita. La vita..... chi di noi oggi non farebbe come lui....



E ora immaginiamo un padre che si ammala. Il figlio ha sette anni. Il padre diventa creatura da ospedale. Un corpo da contendere quotidianamente alla morte. Il figlio ha sette anni. Il padre trentatré. L'età di Cristo. Come non pensarlo. Dopo tredici anni di lotta, la morte vince. Il padre se ne va. Il figlio resta, ma cosa resta in realtà?

Un' ombra.

Il suo corpo, lo ricordo tuttora con angoscia. era ridotto a poltiglia. Massacrato. Identico a quei cadaveri pelle e ossa che trovarono nei campi di sterminio e nelle fosse in giro per l'Ucraina. Non la medesima guerra. Ma anche senza guerra, il medesimo risultato. E non ero suo figlio. Tentò di donarmi l'essere padre, ma lo soffocò la lotta con la morte. Io crebbi vedendo quella battaglia. Impotente, piccolo piccolo, sempre più piccolo. E l'ho ricreato perfetto nella mia letteratura.



“Ora il tempo è un signore distratto. È un bambino che dorme”.

E Carducci. Il grande e grosso Nobel bolognese..... scrisse poesie come si compilano i cruciverba, ma accadde la realtà, quella vera, che non recita ma vive. Il figlio dante, piccolino, uno scricciolo, muore. E si levò dai suoi precordi quel “Pianto antico” struggente, vero. L'albero a cui tendevi la pargoletta mano....



Mi rifugio spesso in queste parole di De Andrè. Ricordo che quando dissi che meritava il Nobel mi risero in faccia. “è un cantante! Non un poeta!” e invece per me la poesia, quella vera, mi canta dentro, senza rispettare regole, schemi, doni brutali e riduttivi dell'intelletto calcolatore.



Torniamo al libro. Spero di aver creato l'atmosfera pesante, bassa, irrespirabile, che è la realtà di molti, di tanti spesso silenziosi. Chi soffre veramente non riesce più nemmeno a urlare. Si spegne. Cenere. Lo vedi solo se si fa artista. E non sopporto che mi dicano che Nietsche e Schopenhauer siano filosofi. Un filosofo crea un sistema di regole. Loro hanno fatto di più. E Helga anche, e anch'io, umilmente, ci provo.



Conosco persone che hanno vissuto situazioni potenzialmente drammatiche quanto quelle che ho descritto, ma non son state scalfite. Mi rendo conto che si deve avere una superficie più sottile, una corazza imperfetta che da una incrinatura spesso invisibile, mette a nudo la polpa delicatissima, dell'anima. Questi, deglutiscono ogni minimo tagliente frammento, auscultano il dolore col microscopio, non vorrebbero, ma non sanno fare diversamente, perché ben poco, oltre il dolore è stato loro donato.



E Ora Helga, sappi che per me sei sempre la bimba fragile de “Il rogo di Berlino”. Sei la bimba col nastro bianco che, seduta e con la palla in mano osserva, o forse no, dalla copertina dell'edizione Adelphi del 2001 che ho fortunosamente trovato. In quella visita alla madre che hai narrato, nei tuoi pensieri, non sei mai stata sola. Non potevi saperlo. Ho cercato, io semplice lettore, di starti vicino. Ma quel che racconti è oltre ogni immaginazione. Non esiste studio sull'argomento che possa permettersi di “arrivare” dove arrivi tu perché sei un'Anima che parla. Un'anima che non ha maschere. Ad un certo livello cadono da sole. Si fanno insensate. Si fa così urgente l'esigenza di un senso, di un rifugio, che la lucidità delle parole si fa unica.



Mi fanno ridere le scuole di scrittura. Per saper scrivere è sufficiente raggiungere quella lucidità e lasciarsi andare. È l 'anima, non tu, a trovare le parole. Non le devi cercare. Esse nascono, anzi rinascono con una purezza primordiale che alla mente razionale non è concessa. Il linguaggio è ambiguo, imperfetto, impreciso. Incompleto per la razionalità, ma perfetto per il simbolo, per l'arte.



È uno dei libri più veri più grandi, che ho letto e ne ho letti a migliaia ormai. Come Kafka sonda la realtà, la sua, che si eleva a nostra, proprio per questa sincerità senza limiti. “Il processo” per esempio, rappresenta la rottura del fidanzamento con Felice Bauer avvenuto in quella camera d'albergo davanti ad estranei giudicanti e minacciosi. (una con un cognome così.... per Kafka! Ci voleva una Dora Dyamant....non di meno....).Lui ha pulito, scarnificato il fatto personale. Lo ha elevato all'empireo. “il Processo”. Le lettere del titolo, le gusto una per una. La perfezione.



Helga Schneider non ha fatto di meno. Leggi questo libro e non riesci più a muovere la mente. Paralisi. Ti domandi “ma com'è possibile....” e sai che è possibile, che è stato possibile, che è accaduto.



Solo libri come questo sono in grado di creare in noi una vera “giornata” atemporale, indimenticabile, della memoria.



La storia serve a questo, a non dimenticare per non ripetersi, ma la storia la devono raccontare gli artisti.... gli storici zappino la terra.



Quando mi si dice che Stalin riuscì ad avviare l'industrializzazione della Russia, che ci furono quasi quaranta milioni di morti per realizzare il cambiamento e non una corda vibra di sgomento per quella tragedia, e sui libri degli storici accade questo, dico: “storici! Ordinate i dati con la mente, ma raccontateceli col cuore e, se non siete capaci..... a zappare la terra.”