domenica 8 marzo 2015

"MACCHIA UMANA" di Philip Roth





- Premessa - 

Questo saggio ha una forma per nulla canonica. Non sopporto da anni gli scritti nei quali una persona si limita a giudicare. secondo me deve accadere dell'altro. Un testo mi colpisce, colpisce me, e io sono essere altamente individuale, definito da una storia personale, un qui geografico e un'epoca. Ci si deve mettere in gioco. Il lettore deve poter cogliere di quale natura è la soggettività che gli parla. Non importano i titoli. Tutto si compera, da una laurea ad una cattedra universitaria, e si sa che anche cariche più alte hanno un prezzo esprimibile in soldi e dignità spregiata. Nessun titolo quindi, ma un io che tenta di essere sincero e cerca di spiegare come e perché pensa di essere arrivato a certe considerazioni leggendo uno o più libri. buona lettura. 

Perché ho scelto questa forma estrema ma spero discorsiva:
Ho acquistato di Finkielkraut "Un cuore intelligente". Sembrava una guida alla lettura e quasi tutti i testi consigliati li conoscevo, ma già alle prime righe sono entrato in crisi:. Eccole per il lettore: "L'opera d'arte, diceva in sostanza Alain, non appartiene alla categoria dell'utile. Se vogliamo determinarne il valore non dobbiamo quindi chiederci a che cosa possa servirci, ma da quale automatismo di pensiero possa liberarci." Ebbene. in questo inizio vi è una contraddizione.  Ve la smonto: A) l'opera d'arte è inutile. E poi ... B) l'opera serve per liberarci da un automatismo di pensiero. A e B sono in contraddizione evidente. In A l'arte è inutile, in B l'arte serve a qualcosa. Perché accade questo? Al solito perché Finkielkraut è un intellettuale e non un artista, e di fatto si cimenta con  opere che hanno un tasso di intellettualità assai elevato e che con l'idea che ho di opera d'arte hanno solo l'apparenza. Leggendo le opere che consiglia si fa un viaggio nella storia dell'uomo, non nell'Uomo, e allo scrittore secondo me la storia, particolarmente quella vista troppo da vicino, serve solo se allontana la carne e porta alla purezza dell'ideale, come accade per esempio in Primo Levi o in certe opere di Pavese. Lo scrittore è spinto a scrivere da motivi diversi da quelli che portano l'intellettuale a parlare di intellettuali e artisti, e il fatto stesso che mescoli le due categorie fino a confonderle dimostra che non ci siamo ... l'arte è nella categoria dell'inutile ... l'arte serve a liberarci da un automatismo di pensiero. L'arte non SERVE a niente .. l'arte SERVE a qualcosa ... questo cortcircuito di un intellettuale è la sua morte, e cerco di dimostrarlo anche con questo scritto.


QUANDO FUI AIACE


Il cucchiaino della marmellata, sfuggendomi dalle mani, macchiò la tovaglia peraltro già sporca. La si cambiava la domenica, giorno del bianco. Dal lunedì al sabato si usava quella stampata oppure le tovagliette di materiale dozzinale, a colori. Ricordo che ognuno sedeva di fronte ad una favola. Sotto la mia tazza c'erano Hansel e Gretel. Venivano spinti nel forno dalla strega cattiva. Su quella tovaglietta o tovaglia, ora non ricordo, la favola non proseguiva. Eternamente i due bambini finivano nella bocca a semicerchio, bordata di mattoni rosa. Il loro urlo, per me, sovrastava il cinguettio della primavera appena nata. Per me, quando cadde il cucchiaino, iniziarono ad esistere solo la bocca del forno, il ghigno di stoffa e l'urlo, sempre di stoffa, rosso, potente, fino a diventare nero. Sangue del buio.
Il cucchiaino della marmellata dunque, cadde e macchiò. Volò uno schiaffo. Poi un altro. Sapevo che se, minimamente avessi cercato di evitarli, sarebbe stato peggio. Si sarebbe arrabbiata di più.
Immobile, attendevo che terminasse il rito. Il terzo di solito era l'ultimo. Con una delle belle unghie laccate di rosso mi ferì vicino all'occhio destro, quello più distante dal cuore. Lo vide. Vide il sangue. Cercai di dire che il segno c'era già, che ero caduto prima in camera, ma era tardi per tutto. Ogni parola, ogni azione avrebbe solo peggiorato la situazione. Lo sapevo bene.
E le sue parole … e le sue mani …
“Alzati!”
“Come ti ho fatto ti disfo!”
Detto senza rancore, con calma.
“Se stavi fermo non sarebbe successo! Io ti punisco ma lo faccio con attenzione. E lo sai perché lo faccio? Dimmi, lo sai?”
Sì, lo sapevo. Se avessi risposto, ripetendo il suo pensiero, non si sarebbe calmata perché dimostrare di sapere e perseverare nella colpa era un'aggravante. Se tacevo avrei dimostrato di voler resistere al senso di quelle parole.
“Voi uomini andate addomesticati finché siete piccoli! Altrimenti … “
E oltre non andava mai, con le parole.
Mia sorella guardava o non guardava? Non l'ho mai capito. Continuava a fare colazione e guardava oltre me, fuori dalla finestra, il vasto cielo azzurro che all'undicesimo piano sembrava a volte entrare, carnoso denso, pulito e inodore. E poi venivo mandato in camera. Colazione terminata per me. Sentivo ora il loro dialogare sereno, qualche lieve risata, come un cinguettio quella di mia sorella, come una cascatella quella della madre. Senza la mia presenza, ecco oltre la porta della punizione, una scena di civiltà.
Una volta ho trovato il coraggio di aprire pian piano la porta, e pattinando solo coi calzini sul pavimento di marmo grigio, sono arrivato vicino a loro, dietro all'ultimo stipite. Talmente vicino che tentai di guardare. Avevano liberato il tavolo della mia presenza. La tovaglietta, la tazza, il piattino con la fetta imburrata e la marmellata di albicocca. No, non era tutto. Riconobbi la mia fetta, tagliata in due. Erano all'ultimo boccone. Non potevo sbagliarmi. Le mie fette le riconoscevo. Tagliavo il bordo scuro con precisione, facevo finta di mangiarlo e lo mettevo in tasca. Lo avrei poi sbriciolato sul davanzale esterno della mia camera, per i piccioni che ormai mi aspettavano.
La mia fetta mangiata … Chiacchieravano. Sentii con la mano il pane nella tasca e, sempre pattinando sul calzini sul marmo lucido, cosa bellissima da fare e non solo perché era proibita, tornai in camera mia. Mia mia mia … no. Non mia. C'era la serratura, ma la chiave la teneva lei, e da quel buco spesso mi spiavano per controllare anche se veramente studiavo. Mi diceva che era suo dovere farlo perché i maschi si masturbano. Io nemmeno sapevo cosa voleva dire e per questo ogni mia azione, che non consistesse nel girare la pagina o scrivere, stando compostamente seduto, mi preoccupava. Forse questo era masturbarsi? Questo riempire le O e farci gli occhi e la bocca che sorridono? Oppure era il dondolarsi mentre leggevo?

Mattina. Otto marzo 2015. Sereno. Un po' di vento gelido. Fra un paio d'ore sarà caldino al sole e freddino all'ombra, ma potrò indossare la mia amata giacca tirolese verde da mezza stagione e passeggiare un po' col cane.
Non è ancora primavera … secondo gli uomini. Ma è festa. Una festa strana. Un po' ipocrita, un po' di sinistra e decisamente troppo convenzionale. Un po' come quando dicono che il tal giorno si deve essere buoni. E a me sembra che invece di promuovere una qualche versione della bontà, intendano promettere trecentosessantaquattro giorni da orchi. Morirono in tante in una fabbrica, negli USA. Allora non è festa, ma un giorno della memoria per i crimini sul lavoro. Ma l'umanità è molto indietro e ancora deve convincere tutti che bianchi neri rossi e gialli sono uguali se non davanti a un dio, almeno davanti alle leggi. E poi, donne contro uomini. E questa parità che non sarà mai se non nell'apparenza perché i due generi sono purtroppo nati per fingere sintonia e combattersi. Semplicemente la finzione deve crescere d'intensità, la carta pesta deve essere lavorata con più virtuosismo e un uomo deve sembrare un uomo e una donna una donna. E poi, a lavoro ultimato dovrebbe essere promosso l'essere umano che, maschio o femmina o gay o trans o interista poco importa, dispone comunque quasi sempre di una tale carica di aggressività che prima o poi emergerà e distruggerà se stesso e l'altro e il mondo. Otto marzo. E le gemme non sbocciano ancora ma ci stanno seriamente provando nonostante il vento gelato e i telegiornali ipocriti. Medea e Achille popolano il pianeta.

Non è ancora primavera secondo il calendario degli uomini, ma nel corpo di tutti gli esseri viventi la metamorfosi già accade. Le giornate si sono sensibilmente allungate. La luce entra dagli occhi e, quando supera un certo “peso”, riesce a schiacciare un pulsante delle ghiandole. Gli ormoni allora si moltiplicano e così, artificialmente, chimicamente, e non per un pensiero liberatorio, viene la voglia di fare che sembra voglia di vivere. Nel centro Italia, dove in questo momento mi trovo, il primo segnale lo si sente già a febbraio con i gatti in amore. Il loro grido, la loro sofferenza, l'urlo della carne che le femmine placano solo facendosi ingravidare e i maschi ingravidando fino a ridursi pelle ed ossa …
Gli alberi e tutte le piante urlano coi colori e i profumi.
Gli umani cambiano odore ma non ne sono più consapevoli, e si vestono come i fiori ma non se ne rendono conto. E poi ci sono i modi di camminare e di parlare … cambia tutto in primavera.
Ogni senso ha il suo “rumore” che si desta o intensifica. Controllarsi in questo caos sembra stupido, ma è saggezza o così almeno si pensa d'inverno. In autunno è ancora stanchezza e paura ma poi il cappio del freddo ferma il respiro del corpo e riesci forse almeno a pensare. Ma la primavera annienta le buone intenzioni e si riparte per tornare ammaccati. A meno che … a meno che, l'urlo di Hanse e Gretel dalla tovaglietta non sia presente in te e se c'è, è per sempre.

Come ho raccontato, un'unica volta uscii per vederle, per cercare di capire cosa accadeva di buono nella loro vita durante la mia assenza. Poi decisi di costruire la mia. Avevo i pezzi di pane in tasca. Aprivo la finestra, li sbriciolavo e poi li appoggiavo sul davanzale. Poi dovevo chiudere. I piccioni venivano per il cibo. Non per me. Mangiavano tutto poi volavano via. Potevo solo guardare la vita attraverso un vetro, una porta socchiusa. Se aprivo il vetro, se andavo oltre la soglia, qualcosa di sbagliato accadeva sempre. Qualcosa che non sempre capivo. E poi non era un capire. Si, la reazione era certamente legata ad un fatto preciso, isolabile dal contesto, come per esempio il cucchiaino sporco di marmellata che cade sul ghigno della strega. Ma se ci ragionavo, se mi avventuravo oltre, solo una risposta resisteva, almeno in casa. E sembrava che la mia colpa fosse di essere un maschio. Ma, per esempio a scuola … Ero diligente, lo ammettevano. Ma c'era qualcosa in me di imperdonabile che mi sfuggiva. E dal prete, al campetto da calcio, le poche volte che riuscivo ad andare, mi facevano giocare perché con me era più facile vincere, ma spesso, quando ero distante, fra di loro bisbigliavano, mi indicavano con lo sguardo e sorridevano con un sottilissimo ghigno. All'inizio ben disposto da quella specie di sorriso, mi avvicinavo, ma sempre loro si dissolvevano, volavano via come i piccioni quando aprivo la finestra.
E poi ci fu la festa di carnevale a scuola. Ero vestito da Arlecchino. A tutti diedero o una spada o una clava di plastica o una bacchetta magica con in cima una stella. Il bidello decise che ad Arlecchino nulla si addiceva se non, vagamente, una delle clave di plastica morbida, perché era assai colorata, in tinta quasi, col mio costume. In fondo aveva un buco con un fischietto. Se colpivi non facevi male ed usciva un suono divertente. Si decise di fare un torneo di duelli. Io ero al terzo turno. La prima coppia duellò bene. Gli altri, e anch'io con loro, facevano il tifo. Ricordo quanto era divertente scegliere chi incitare. Uno studente piccolo e grasso, che per questo chiamavamo Buddino, inesorabilmente lento in qualsiasi gioco, ascoltò la tattica che gli proposi. Gli dissi: “poiché dopo due minuti di incontro, il vincitore lo decide il pubblico ai voti e tu hai poche speranze, devi farti furbo. Limitati a parare i colpi e mostrati più imbranato di quel che sei, il tuo rivale si farà sempre più sicuro di sé, si scoprirà e tu devi concentrare tutto te stesso su un solo colpo ma potente”. E così accadde. Il rivale saltava come un grillo e lui, Sancho tragicomico, accentuava la sua incapacità. Ogni tanto mi guardava e io gli facevo cenno di attendere e poi gli feci il segno convenuto e come un fulmine, la clava colpì lo snello rivale proprio in mezzo alla fronte. Il fischio della clava fu enorme, le risate che seguirono fecero il resto. A nulla valsero gli attacchi successivi del saltellante. Sancho aveva vinto e fu per un attimo, re del carnevale di classe. Poi toccò a me. Io, piccolo e magro, sapevo di essere veloce e instancabile. Avevo capito le mie potenzialità giocando al calcio. In Germania, nella squadretta dove giocavo, la palla la si toccava solo dopo un'ora di allenamento. In Italia invece la si prendeva subito e, se erano più abili di me di piede, erano comunque senza resistenza. Di solito nel secondo tempo delle partite io diventavo un campione in mezzo a una massa di gente cotta che faceva fatica a fare due passi di corsa. Decisi così di lasciar sfogare il mio rivale per un minuto e mezzo e scatenarmi negli ultimi trenta secondi. Ma accadde qualcosa di imprevisto. Il pubblico, che era appunto anche giuria, iniziò in modo prima debole e poi sempre più travolgente, a insultarmi. Ero sbalordito. Mi difendevo dal duellante e ascoltavo. Ecco di cosa parlavano sorridendo quando ero distante. Ero “il tedesco”. Ecco il problema. Ma per quale motivo essere tedesco era degno d'insulto non riuscivo proprio a comprenderlo. Non persi comunque il controllo della situazione. Scattai negli ultimi trenta secondi e la mia superiorità si dimostrò netta. Ma la vittoria andò all'altro con un giudizio unanime. Mi allontanai senza parole. Non capivo. A casa avevo concluso che non era colpa del cucchiaino sporco di marmellata, poiché anche davanti agli altri le macchie non mancavano. Potevo comprendere i piccioni che non si lasciavano avvicinare, poiché sapevo che c'era gente che li mangiava e forse i piccioni lo sapevano e pensavano che la mia intenzione fosse di attirarli con le briciole per poi metterli in pentola. Ma qui, anche qui un enigma. Un enigma non fra animali, ma fra umani, che sussisteva, sia qui a scuola che a casa. Andai da un'insegnante che, con ogni evidenza, dalla posizione in cui stava, aveva assistito alla scena e chiesi se poteva spiegarmi il senso di quel che era accaduto. Mi disse che i tedeschi, in Romagna e non solo, erano mal visti per via di quel che era accaduto durante la guerra. E io cosa c'entro! Risposi. Io non ero nemmeno nato! L'insegnante sorrise e rinunciò al suo comodo posticino, stravaccato ad una finestra con la schiena al sole. Mi dimostrò così il suo consenso a quanto era accaduto. Ricordo fior di lezioni sui partigiani, sull'Italia che aveva vinto la guerra, e io, che già allora studiavo più di quel che mi era richiesto, sapevo che non era vero … la mia reazione a quell'assurdità, fu altrettanto assurda. Andai in bagno. Tolsi il tappino-fischietto alla clava di plastica e la riempii d'acqua. Tappai poi in qualche modo alla buona e tenendo un dito sul foro precario che era il punto debole del mio piano, mi avviai verso quel pubblico che mi aveva insultato e tolto ingiustamente la vittoria. Urlai che li sfidavo tutti insieme. Si lanciarono e nel giro di due minuti erano tutti a terra doloranti o in fuga. Con mia sorpresa scoprii di non aver agito da solo, Sancho, il mio piccolo Sancho, mi aveva osservato e aveva “caricato” anche lui la clava. Lui non aveva un motivo. Non aveva un perché per me comprensibile, ma la sua soddisfazione fu quasi più grande della mia. Solo più tardi, mi fece comprendere che si era vendicato di anni di beffe e che mi rispettava perché io, quando scherzavo, si capiva che lo facevo per gioco, senza cattiveria. Tutti stesi, tutti ammaccati. Nessuno, nemmeno gli insegnanti, osarono avvicinarmi. Chiamarono mia madre che ascoltò la loro versione, poi la mia, e poi disse agli insegnanti che erano una massa di deficienti. Mi aspettavo che si sarebbe arrabbiata con me e la celebre minaccia del collegio stavolta si sarebbe concretizzata, e invece mi difese. Anche a casa mi trattò come un eroe. Ero disorientato. Ma cosa c'era in quell'azione che mia madre potesse tanto apprezzare! Ed ecco, con gli anni affiorare e prendere forma, le risposte. Il nonno paterno era fascista e fu parecchio turbolento. Lo uccisero alla fine della guerra. Per lei, in quella mia reazione contro “i partigiani”, c'era un poco di vendetta per un ideale suo, che non era forse fascista, ma legato al dispiacere per il padre morto con un colpo di pistola alla stazione di Bologna. Compresi poi altre cose, come tasselli di un puzzle che, una volta entrati nella memoria, da soli si mettono al posto giusto. Le quattro zie, sorelle di mia madre, finché le gambe glielo permisero, mai rinunciarono al pellegrinaggio annuale a qualche sacrario dei caduti. Non è difficile immaginare un parcheggio pieno di autobus che arrivano da tutta la nazione. Con essi toccano il suolo della distesa di croci, coloro che erano giovani durante il fascismo, coloro che a scuola indossavano divise del partito e amavano in esse in fondo, più di un ideale, la loro giovinezza, fatta di vita gregaria e poco ragionamento. Se inizialmente ci “caddero” anche personaggi come Vitaliano Brancati e Curzio Malaparte, che erano essere finemente pensanti, loro che erano solo future chiocce cosa potevano fare ...
Se la reazione di mia madre al mio comportamento, mi fu chiara col tempo, mi domandavo comunque perché, nella mia mente mi paragonai da subito, non ad Achille o Odisseo, ma ad Aiace. Amavo già i drammi greci. In essi mi affascinava, ora ne sono consapevole, più l'antichità, del senso e della poesia. La poesia la trovai dopo in altre opere. Ma sentii di essere stato Aiace, strumento degli dei che non accetta il suo destino, e non meritevole quindi io come lui di stima quando “sterminai” un “gregge” di bambini, innocenti nella loro banale ignoranza.
Il dato immediato che più mi fece soffrire fu, una volta rincasato e finalmente solo, questa enorme quantità di violenza che era scaturita dalle mie mani, dal mio corpo, dal mio pensiero che, sfuggito alla mente si era affidato a qualcosa che riuscivo solo a chiamare follia.
Nei giorni successivi, a scuola accadde l'inverosimile. Gli insegnanti ignorarono completamente l'accaduto. Nessuno ne parlò, nessun genitore venne a far drammi, e i miei compagni iniziarono a trattarmi con un rispetto che per me non aveva alcun senso. Sempre cercavano il mio consiglio. Nei giochi ero il primo ad essere conteso e le ragazze, beh, le ragazze mi mandavano bigliettini e sguardi conturbanti. Solo in me era presente la consapevolezza che era accaduta un'enormità, che ero sfuggito a me stesso e mi ero trasformato in una belva.
Non ci capivo niente.
E poi, col tempo, la vita inserì altre esperienze, altri pezzetti che misero ogni senso al suo posto. Accadde così che compresi che in mia madre c'era un'esigenza di violenza che saltuariamente le era necessaria come sfogo. Forse perché mio padre era malato e non poteva più “ammansirla” nelle battaglie del letto? Mio padre aveva il suo bel da fare con la tigre che lo consumava nella carne...
questo lo compresi con gli anni, ma c'era in me una colpa che precedeva, agli occhi di mia madre, il desiderio di violenza? Non sapevo e forse ora so, ma quel che mi turbava allora e mi spaventa oggi, è questa esigenza umana, insopprimibile in quasi tutti i suoi rappresentanti, di dare prima o poi sfogo alla violenza. E quale fu l'esito sconcertante nel mio caso? I compagni mi elessero a capo e saggio. Io, nel mio piccolo, se avessi subito una simile lezione invece di darla, avrei isolato il violento. Avrei costruito la mia giornata escludendo il più possibile quel massacratore che ero stato. E invece no. Eroe e capo. Eroticamente appetibile per molte mie compagne. Era tutto assurdo. Non mi bastava allora. Ma ora mi basta. Ora so. Tutto è violenza. E il mio primo compito consiste nell'agire su me stesso per evitare di diventare di nuovo quel folle Aiace. Così sei senza amore, senza sudditi, ma sei te stesso, sei più forte della violenza. E questa sensazione vale la vita.
Ricordo quella volta che vidi due anatre copulare. Di fatto fu uno stupro. Mi disse, il vecchio zio che mi accompagnava, che le anatre fanno così. Il maschio sottomette la femmina con violenza. Sembra più un tentato omicidio che una copula. Gli uccelli sono assai primitivi. Ma in fondo noi umani, se si toglie il peso dell'educazione, che ad altro non serve se non a tentare di controllare gli istinti aggressivi, siamo identici. Spesso ho definito il rapporto sessuale come la compensazione di due egoismi. Ognuno è convinto di prendere, tutto sembra armonia, ma è solo precario equilibrio. La carne per un poco si accorda, e la primavera aiuta, dosando le valvole che squilibrano la nostra capacità di autocontrollo, di pensiero, di educazione, di rispetto, di spiritualità, di, sì, di vita. Tutto è tentativo di sottomissione. Raramente nei drammi e nella storia, dei e padri, coi figli, non vengono alle mani. Il padre dei padri, Urano, viene eliminato da Saturno. Saturno da Giove e quest'ultimo viene alla fine dimenticato. Ma Saturno evirò il padre, gesto che vuol dire fine della fertilità, della vita, e poi dopo, Saturno, per paura che i figli eliminassero lui, li divorava. Non esisteva ai primordi la sottomissione, ma l'annientamento. Così però non era possibile vivere anzi, organizzarsi forse non proprio per vivere poiché allora il problema principale era sopravvivere. Vivere è un lusso che tutt'ora a pochi è concesso. La sottomissione crea la comunità. Ma la sottomissione è possibile solo con la forza, la violenza. Dopo due guerre colossali e un secolo, il ventesimo, pieno di stragi e genocidi, l'essere umano ha iniziato ad avere paura di se stesso, della sua capacità di follia, come io ebbi paura di ricadere in una reazione come quella che ebbi a scuola. Vinsi, divenni il beniamino con servi e odalische, ma il mio io era strutturato diversamente. Altre erano le sue intenzioni, le sue ambizioni. Io ancora ricordo e invece la mia epoca ha già dimenticato le due grandi guerre e i genocidi e questo deve spaventare un mondo che non vuole e non sa ricordare.

Ora, apro la finestra, metto le briciole e i piccioni vengono. Non hanno più paura di finire in pentola. La volpe la notte viene, mangia il cibo che le preparo e sta a pochi passi da me. Mi osserva. Lei è tranquilla, io sono tranquillo. Nessuno sottomette l'altro, o peggio, lo evira, come faceva con me mia madre ogni giorno, o lo mangia, come fanno quasi tutti quotidianamente. Ho anche compreso in cosa consiste, in fondo in fondo questa idea così apparentemente assurda, del peccato originale. La vita degli umani si basa sulla morte di altri esseri. Indubbiamente si tratta quasi sempre per nutrimento. La caccia è un residuo medievale tremendo. Non è uno sport uccidere. Se in natura ogni essere ne mangia un altro per sopravvivere, l'essere umano, ritrovandosi il pollice opposto alle altre dita, iniziò a possedere una tecnica, e con essa un pensiero, e ora è in grado di vivere senza più uccidere. Il cibo lo può costruire. E non solo quello. Nel giro di un tempo che non so quantificare ma che sento essere breve, potrà costruire corpi migliori, produrre quei cambiamenti genetici che prima secondo Darwin erano frutto del caso con un prezzo in sofferenza individuale, altissimo.
Ma a qualcosa l'essere umano non riesce per ora a rinunciare. Si tratta di una aggressività che spesso si fa violenza pura, sangue, strage. E va ben oltre le paure di Saturno e di Urano. All'origine ogni essere umano era per l'altro, solo cibo. Poi si raffinò e l'altro divenne, fra umani, da sottomettere, e gli animali sempre e ancora cibo. Per me, in me, l'errore, in relazione a questa epoca, è che non mi interessa sottomettere e gli animali non sono cibo. Tutto vibra della possibilità dell'affetto, del pensiero. Un alone di affetto possibile che non posso umiliare con la regressione alla violenza. Spesso comportamenti umani mi hanno portato alla soglie di una ripetizione di quella volta che fui un Aiace, ridicolo in fondo solo a me stesso, ma sufficientemente ridicolo da resistere e non cadere più nel tranello della violenza, che della sottomissione è l'unico strumento. E violenza non è solo usare le mani, i coltelli, le pistole, le bombe, ma consiste anche nell'illudere, manipolare menti, creare leggi che di fatto costringono ad essere schiavi di una banca, di una organizzazione, di una mentalità, di una tradizione.
Nelle sere d'autunno, le porte e le finestre aperte, le foglie secche che entrano, il vento muove tende sottilissime. Non ho porte. Non amo le porte, se non quella d'entrata, come anticamente nelle caverne dove un sasso, uno messo di guardia o il fuoco, aiutavano ad esorcizzare la paura del buio. Il sangue nero degli incubi, più veri della realtà.
E per me, non esiste soddisfazione maggiore del vedere che l'animale spegne davanti a me a poco a poco, la sua diffidenza. Solo così può nascere la civiltà. Questa è la vera non violenza.
Vedo il mondo degli uomini come un palcoscenico di cartapesta. Finto più di quanto nemmeno Fellini potesse immaginare. Ogni sedia la si vuole trasformare in trono e tutti cercano il centro sul quale devono, assolutamente devono, convergere gli sguardi di tutti.
Da questo palcoscenico, da anni sono sceso. Ogni tanto scrivo e vivo una piccolissima vita.
E di recente ho scoperto di non essere l'unico ad avere capito queste cose.
Philip Roth nel suo libro “La macchia umana”, arriva a queste parole: “chiunque abbia l'audacia di far questo, non vuole semplicemente essere bianco. Vuol essere capace di far questo. E' qualcosa di più del desiderio di godersi una beata libertà. Ha qualcosa in comune con la ferocia dell'Iliade, il libro preferito da Coleman, sullo spirito barbaro dell'uomo, dove ogni delitto ha il suo carattere, e ogni strage è più efferata della precedente.”

Coleman, il protagonista, è di origine nera, da parte di madre. È assai “sbiadito”. Per chi non se ne intende potrebbe passare per bianco. Il padre è ebreo. L'idea di Roth, ha radici quotidiane. Ricordo che a New York girava una barzelletta che raccontava di un gay che si lamentava di essere discriminato. Una persona gli fece notare che era nero, ebreo e omosessuale. I newyorchesi ridevano. A me non faceva ridere per niente. E Roth è riuscito a farci un libro. Non un capolavoro, ma una cosa interessante, che fa pensare, e pensare è meglio di niente.
Coleman decide quindi di negare le sue radici per avere le possibilità sociali di un bianco. Tutto scattò da un evento di gioventù. Fu buttato fuori da un bordello per bianchi poiché la prostituta lo aveva riconosciuto per quel che era. Per realizzare questo “sogno-incubo” deve rinnegare le origini e quindi la famiglia. La madre è nera. La madre lo adora. La madre deve dimenticarlo. Lui diventa preside di facoltà in una università americana e insegna la materia più “bianca”, ovvero letteratura classica. E ora torniamo a quelle righe di Roth. “ chiunque ha l'audacia di fare questo, non vuole semplicemente essere bianco. Vuol essere capace di fare questo. … ha qualcosa in comune con la ferocia dell'Iliade”. Ecco, ci siamo. Roth, per un attimo, ha “sentito” che la questione di fondo non si spiega con il bisogno di realizzare una vita piena. Coleman potrebbe realizzarla solo in qualità di bianco? No. E per un attimo Roth ci dice che la realtà è un'altra. Ti butti nella mischia. Devi essere più forte dei forti. E da ragazzo questo Coleman fu anche pugile. Questo sport, ormai tramontato, fino agli anni novanta era la perdizione. Era adorato. Per questo un lettore attuale non può comprendere in pieno la portata di quella descrizione. Nel novecento il top dell'intelligenza, quasi divina era rappresentato da matematici, fisici e giocatori di scacchi. Lo sport preferito, prima dell'intervento dell'organizzazione dei college che preferirono gli sport di gruppo e poi dei media, fu il pugilato. Per vedere un incontro dei pesi massimi in Europa si facevano delle levatacce assurde. Era triste se non vedevi quegli scontri titanici in compagnia. Era triviale, antico, possente. Con un piede nelle primordiali sfide dell'Iliade e l'altro nel presente. C'erano regole. Ci si lavava la coscienza con quelle, ma si attendeva la morte per un colpo proibito che andava contro tutto, contro l'essere umani, cristiani, divini o anche solo bestie. E un uomo solo era lassù, che si chiamasse Clay o Einstein o Fischer. Erano i padroni della psiche, di un mondo. Ora, Coleman da ragazzo, da bravo ragazzo, di nascosto si sdoppia e rivela il lato aggressivo. In fondo quasi tutti gli sport hanno questo compito. Che l'idea del migliore si sia fatta in alcune specialità, sempre meno violenta, non cambia il concetto di una graduatoria di valore fra gli umani che presuppone un rispetto che è forma latente ma non troppo di sottomissione resa evidente da un cronometro, da una pallina che è finita o fuori o dentro o sulla riga. E nella boxe Coleman era il migliore. Poteva esserlo senza ferire, con stile, nel modo più elegante e moderno, Il maestro gli diceva di essere elastico e di mettere a segno piccoli colpi magistrali. Avrebbe sempre vinto ai punti, ma non gli bastava. Vinse per ko. Poi, una volta all'università passò professionista, e anche li gli consigliarono di andare piano. La gente paga il biglietto. Non fargli vedere solo un round, fanne passare qualcuno. Buttalo giù se proprio non resisti, verso la fine. E invece al primo round il rivale era già al tappeto. Lasciò il professionismo perché … e questo perché Roth non lo dice, ma è nell'aria … perché Coleman ha bisogno di lotta primitiva, feroce, che dimostri la sua “belvità”, e pretende che questa sia premiata.
E in questo romanzo chi vince realmente lo scontro? Se proviamo a dare dei punti ai vari personaggi, Quella professoressa di origine francese che approda al college, assunta dallo stesso Coleman, innesca una scena teogonica ben nota. Coleman-Urano, viene evirato-distrutto dalla neoassunta-saturnina, che cerca un partner per figliare un Giove ecc. accade che lei il partner non lo trova e scopre suo malgrado che l'unico adatto per potenza era proprio colui che ha distrutto. Questa complicazione aggiunta abilmente (e che stimo), dall'autore, ci mostra la sfida impazzita di tutti contro tutti e anche l'aspetto generazionale e il vincolo erotico che deragliano nel non senso, nel caos.
Ma per quale motivo Roth sfiora due volte la chiave di quel che ha scritto, ma non va oltre? Perché non ne è consapevole se non a sprazzi, a brevi illuminazioni che probabilmente lo spaventano. Penso anche che con l'età, abbia risentito di sconfitte dal punto di vista erotico e probabilmente di stima, non tanto dalla massa e dalle vendite di libri, ma da qualche individuo che avendo ricevuto un poco del suo disprezzo, ha saputo non temerlo e reagire.
Penso che, calato troppo nel compito consapevole di mascherare una sua realtà personale e vissuta, non abbia saputo superare se stesso.
Mi spiego. Si leggano “L'avvoltoio”, “Nella Colonia Penale” di Kafka e si “sentirà” una certa atmosfera di sopraffazione e annientamento incombente, inesorabile, irrimediabile. In essi è presente il sangue come limite superato, punto di non ritorno, della violenza che si fa primigena. Ecco il pugile che fa sanguinare l'avversario ma che per esigenze di spettacolo deve trattenersi e stare al gioco di una finzione che la ferocia primordiale non può sopportare. Essa si esprimerà nel ruolo “civile” del preside di facoltà spietato. Ricordo un passo, sempre in questo libro di Roth, che parla di arrivismo e di come siano stati gli ebrei ad avere portato questa battaglia all'estremo nelle università americane … e io penso a Paul Nash, che a Princeton si trovò inserito in un dottorato gestito da un personaggio ebreo con le mani ustionate del quale ora non ricordo il nome, che non voleva sentir parlare di voti. Quelli te li garantiva da subito. Pretendeva che lo studente frequentasse le lezioni che preferiva, liberamente e senza obblighi, e poi producesse materiale di valore. L'ora del tè, che si svolgeva fra gli studenti dottorandi e i loro professori, serviva a creare un'atmosfera di competitività che rasentava l'ossessione e spesso sfociò nella nevrosi. Ecco il mondo che Roth da per scontato nel libro, ma che al lettore non nordamericano va spiegato. La facoltà era la selva feroce. I morti erano coloro che in qualsiasi modo venivano esclusi, e la neoassunta professoressa di origine francese, riesce ad annientare Coleman che è il suo datore di lavoro. Lui non accetta la sudditanza erotica inclusa nell'assunzione e lei lo distrugge. Come? Non ha importanza. In un mondo nel quale la morale è solo una facciata, proprio non importa.
Ma Roth, per l'ennesima volta ha mancato il centro del bersaglio, e ormai penso che sia accaduto perché ha paura di quella consapevolezza latente che appare e scompare come scrittura automatica nei suoi libri.
Terminando la recente rilettura de “La macchia umana”, mi tornava continuamente in mente “Mr Vertigo” di Paul Auster. Non capivo perché e poi la risposta è arrivata nel sonno. La mia idea di letteratura è la seguente: descrivere una realtà che ci turba per mezzo della fantasia. La fantasia non usa la sola realtà, ma tutto tutto tutto. Non importa se un asino vola o si limita a camminare e nemmeno se è rosso e fa chichirichì. Importa che il significato arrivi al cuore, che il cuore ci esploda e che si debba ristrutturarlo a nuove irrinunciabili consapevolezze. Roth ha sempre usato solo la realtà per descrivere la realtà. Ricordo solo un racconto dal titolo “il seno”. Una cosina triste che non parte e non arriva da nessuna parte. Ma che legga “L'avvoltoio” e mediti la possibilità di lasciarsi andare ai suoi mostri … basta arrivismi e erotismi. Ormai è solo, in un carcere che è il corpo, che invecchiato, non è più trionfo di potenza adulata ma sudditanza estorta. Si deve andare oltre, (anche lui l'ha intuito ma non ha il coraggio di renderlo esplicito), ed è la rivelazione della paura della violenza, scoperta che accade in noi stessi, e l'esigenza del continuo annientamento dell'altro come soddisfazione mascherata ma inesorabilmente dominante. Basta lotte fra uomini e donne. E basta all'insensata fame di dominio, di superiorità, di soldi, tanti soldi fino a non accontentarsi mai, dimenticando che i soldi sono possibilità, che oltre un certo limite perdono ogni senso nella dimensione individuale (e, se non si riesce a diventare altruisti, donando possibilità ad altri, si diventa mostri, caricature).
In “Mr Vertigo” Auster, ha inventato qualcosa di irreale che rappresenta magnificamente la realtà che “sente”. Più passa il tempo e più amo quel libro. Più passa il tempo e più rifuggo chi sa scrivere e non affonda la lama in se stesso fino in fondo … per paura di soffrire, per paura delle proprie radici primordiali. Ma solo l'artista può farlo, solo il vero artista ha questo coraggio. Ci vuol più forza interiore ad essere un carrierista di successo che descrive con abilità la superficie delle cose oppure a rinunciare ai tanti, troppi cavalli di un'auto come non seppe mai fare Brecht? E in quei medesimi anni, in silenzio, senza riflettori, un Kafka, nella medesima Berlino toccava il cuore umano, lo descriveva e lo metteva davanti allo specchio, per sé stesso, per me, per tutti!
E penso al Miller del teatro americano con opere come “Morte di un commesso viaggiatore”, nel quale la finzione americana si sgretola, oppure “Erano tutti figli miei” nel quale invece esplode e fa molto, troppo male. Ma a quel male chi è andato oltre? Per ora nessuno dopo Kafka, purtroppo. Ci stava arrivando Camus, ma un incidente stradale gli ha tolto la possibilità di terminare “Il primo uomo”. Con fantasia stupenda Strindberg e Bulgakov hanno abbozzato, aperto vie, ma se l'artista non si libera di erotismi e arrivismi, malattie epocali che fanno volare basso, troppo basso quel che in noi va oltre il pensiero … allora la letteratura, in mano ai commercianti, ha finito di esistere.
L'uomo messo a nudo, che osserva le sue radici e le ri-fonda. Questo deve accadere. E quando, come accade a me, la violenza ti invita con doni di sudditanza ed erotismo, si deve resistere, perché c'è di più, e non può comprenderlo chi non ha mai atteso umilmente di essere accettato da una volpe, da un merlo, dal riccio. La violenza, nelle sue varie forme porta al successo si, ma nella carne, nella solitudine. Ti offre qualcosa di perennemente transitorio e che qualcuno con altrettanta violenza ti porterà via. Ma c'è qualcosa di più. Esiste un'armonia che se solo ti sfiora ti fa tremare in tutto il tuo fragile esistere, e sentirai che essere vivi è solo una tappa enorme, infinitamente infinita, e che da serenità, e ti fa ridere di chi vuole arrivare primo dimenticando che non esiste gara, ma un percorso che sembra a tappe, che abbiamo trasformato in tappe perché l'infinità, in tutte le sue forme ci sembra spaventosa e inafferrabile.


amen