martedì 24 maggio 2011

Leggendo un'intervista a Kiefer

24 maggio 2011

Su “La Repubblica” trovo un'intervista ad Anselm Kiefer. Personaggio interessante.
È mentalmente libero, ma potrebbe esserlo di più. Dice che non fa quadri piccoli, per intenderci, delle misure che potrebbero stare in un salotto, per andare contro le leggi del mercato. Questo è limitare la propria libertà.

Un artista secondo me, può “vendersi” per risolvere la quotidianità, sperando che abbia sufficiente cervello da non farsi irretire da tutto quel che si può comprare. Una volta che è divenuto padrone del suo tempo, e per ottenere questo risultato non servono certo i centomila euro all'anno... il mercato, lui, può permettersi di ignorarlo. Questa è libertà. Immagino Kiefer che ha un'idea da un metro per due e per un preconcetto simile, contrastare il mercato, non la esegue.
È folle.

Ho poi già spiegato altrove che la misura grande è troppo meditata, costruita. Ci si lavora di braccio, di spalla, di gambe anche, allungandosi o piegandole.
La misura piccola, quella che Anselm Kiefer definisce da salotto, corrisponde invece al rapido movimento delle dita, del polso.
Immaginate l'idea che esce febbrile da quella tana indefinita che è la somma di cuore e pensiero. Si, il dato è urgente, vuole spazio. Ha trovato il suo momento e vuol calarsi in una forma, che sian note musicali, o parole scritte o oggetti, nulla cambia. Un dato intellettuale ha la caratteristica di essere calmo. È solido, concreto, cristallizzato in norme e leggi che sappiamo ritrovare sempre e quindi si può “buttarlo giù”, dargli forma con la metodicità quotidiana e rispettosa di certi orari, come se si trattasse di un lavoro perché...in fondo di un lavoro si tratta.
Il dato artistico invece, è spontaneo. Sgorga, spinge. Immaginate un parto. Quando è il momento non si deve rimandare, altrimenti rimaniamo con una idea forse buona ma abbiamo perso l'esatta forma nella quale essa intendeva concretizzarsi.

Bellissimo è in proposito, un aneddoto che riguarda Antonio Vivaldi. Si narra che, mentre diceva messa, piantò tutto lì e nella adiacente sagrestia, si mise a buttar giù note....
Non si consideri una romanticheria questa considerazione sull'ispirazione artistica. È un po' come quando, da non innamorati si sentono parole d'amore; le si troveranno ridicole.

Ci son altri aspetti della creatività che son soggettivi.
Ricordo per esempio che nel dialogo che ebbi con Aldo Busi, si parlò anche di qualcosa del genere. Mi chiese dove abitavo. Accennai, senza far nomi, ad un paesino in riva al mare immerso nella pineta aggiungendo che quello lo consideravo il mio rifugio, dopo aver fatto incursioni nella vita, poiché per scrivere mi serviva tempo e calma. Mi rispose “balle! Si può scrivere ovunque! Io scrivo anche sulla panchina di un parco ma non lo faccio perché ormai tutti mi riconoscono e mi disturbano!”.
Vi prego di notare l'incongruenza contenuta nella risposta. Scriverebbe seduto alla panchina di un parco ma non lo fa... gliel'ho fatta notare e poi ho detto che non siamo tutti uguali e se lui riusciva ad isolarsi ovunque fosse, lo invitavo a considerarla una sua caratteristica.
L'importante è cogliere il momento, rispettarlo quando si presenta.
Di quell'incontro ricordo anche qualcos'altro. Ero al caffè Boifava a Montichiari. Avevo appuntamento con lui verso le undici. Entro e, dopo essermi guardato intorno e non averlo visto, chiedo con la proprietaria con la quale ero ormai in buoni rapporti, se si fosse visto. Mi indicò un tavolino. Era seduto e leggeva il giornale. Aveva una berretta di maglia di color grigio chiaro, fatta ai ferri, calcata fin sotto le orecchie e un indumento che era una via di mezzo fra un cardigan lungo e un cappotto corto, fatto sempre ai ferri e di grana molto grossa. Non lo avrei mai riconosciuto. Gli feci notare quindi, dopo quella sua reazione non troppo meditata, che così “sistemato” poteva mettersi a scrivere in Galleria a Milano che nessuno lo avrebbe disturbato. Mi ero comunque reso conto che quella reazione, calcolatamente forte e impulsiva, equivaleva alla volontà di voler prendere con decisione le redini di un dialogo che, lo sentiva, gli stava sfuggendo. Gli avevo fatto un paio di domande che lo avevano lasciato interdetto e intendeva recuperare terreno. Ma, il punto era che a me non interessavano o interessano le sfide, ma il dialogo. La persona famosa, solo per il fatto di esserlo, non mi dice niente. Se avevo desiderato incontrarlo era per porgli certe domande riguardanti i suoi libri, quindi per un mio effettivo e sincero interesse. Troppe schermaglie. Ho tagliato corto. Quando mi ha chiesto se ci si poteva rivedere, gli ho detto che mi sembrava che non ci fosse stato nulla di produttivo, almeno per me, in quel dialogo e quindi era meglio chiudere così.

Vedete come si smonta da sola una finzione...? Gli atteggiamenti son maschere ben visibili a chi fa sul serio. Potrei raccontarvi altre finzioni, ma sarebbe un ripetersi.

Torniamo al discorso. L'idea deve poter uscire quando le pare e noi dobbiamo fare del nostro meglio per crearle la condizione che desidera. Nel caso mio si tratta di solitudine e silenzio. Per qualcun altro del tavolino di un caffè o di un giro in macchina parlando a un registratore.

Torniamo a noi. La libertà di Anselm Kiefer, che è molta, non è comunque totale e potrebbe accadere che egli faccia “male” a certe sue idee che, se forzate troppo nel momento della nascita, potrebbero risultare deformi, anche di pochissimo, e si sa che in arte, anche quel minimo scarto fa la differenza.

L'opera di Kiefer ha comunque un qualcosa che vivo come un problemino e che desidero spiegarvi.
Partiamo da una considerazione mia, che penso possiate condividere: pensare è come bere vino, esiste una misura giusta. Se si eccede si perde lucidità, ci si inoltra in sentieri contorti che non appartengono più a chi ci si è inoltrato, ma alla malattia. Il soggetto non è più chi percorre quella via ma la via stessa.

Le sue opere son “troppo pensate”. Mi raccomando! Questo non vuol dire che non lo apprezzo. Tutt'altro. Se so di una sua mostra ci vado. Non agisco certo così quando vengo a sapere di qualcosa di Kounellis o Fontana, tanto per citarne due. Si entra in una sua mostra, consapevoli che si esce sempre e comunque con un arricchimento. Ma è faticoso...
E' un po' la questione delle opere grandi fatte di “braccio e gamba” e quelle piccole fatte di ”polso e dita”.

Avete fatto caso che per gli artisti, la sede dell'idea, il disegno, avviene quasi sempre su fogli da salotto? (utilizzando la soda immagine di Kiefer. Ma ci sarà pure un motivo! Ed è questo. La distanza che l'idea deve percorre dall'anima (pensiero più cuore) al foglio non è certo immediata, qualcosa lungo la strada si è perso, si perde, e la perdita è maggiore se si allunga il percorso... L'idea pura è perfetta quasi sempre, ma sta nell'anima. Qualsiasi uscita da essa è un calo di tensione, di livello.

E non mi si dica che son platonico. La pensavo così anche a quindici anni quando scrivevo già (tutto cestinato...) e Platone era ancora solo un nome affascinante e il suo maestro, Socrate, aveva già si, il volto di marmo bianco col naso camuso, ma anche la barbetta e la magrezza di quell'eccezionale brasiliano suo omonimo che giocava nella Fiorentina.
Spesso non si è platonici perché si è letto Platone o qualche suo confratello come Ficino. Le concezioni platoniche, non tutte, sono come un lago che troviamo in alta montagna dopo aver percorso un lungo sentiero fatto di pensiero (la rima! Che bello) e possiamo prendere e fare nostra un po' di quell'acqua, come un altro che, passando per altri sentieri approda a Nietsche o a Gesù. Non vi è mai accaduto di leggere un filosofo o uno scrittore, averci trovato un pensiero e rendervi conto di averlo già pensato? Molti quindi, sono i platonici che non devono nulla a Platone come per tanti altri, spesso solo finché son giovanissimi, poiché in quell'età si ha un senso di durata che rasenta l'eternità, come tanti altri dicevo, potrebbero dire, senza aver mai letto Nietsche e nemmeno sapere che è esistito, che “dio è morto”.

Torniamo all'opera di Kiefer. Quel che vi dico è un piccolo male nel caso suo, perché la sua opera comunque vale, solo che, come ho accennato, essa si offre imponendoci una fatica in più. E poi, ultimamente, ci aggiunge pure delle considerazioni alchemiche... quindi non basta osservare l'opera, ma ci si deve informare e questo mi piace poco. Ho sempre pensato che a “parlarmi” debba essere l'opera, senza intermediari.

Solo quando si frappongono fra noi ed essa due ostacoli, ci si deve aiutare con qualcos'altro.
E si tratta del tempo che ci separa dalla sua realizzazione e il mondo nel quale è stata concepita.
Esempi. Un'opera rinascimentale ci sfugge quasi sempre se non sappiamo nulla del rinascimento. Per quel che riguarda il “mondo” nel quale un'opera è nata, la situazione si fa più complessa. Una volta, anche solo nell'ottocento, un'opera giapponese, per esempio affascinava per il suo esotismo e quella parola vuol dire semplicemente che l'oggetto ci piace perché è inusuale, estraneo alla nostra cultura. Inusuale poi vuol dire che i codici interpretativi non possiamo condividerli perché non li conosciamo.

Si può dire che nel mondo attuale, quell'incomprensibilità che rende esotico l'oggetto straniero, si è talmente attenuata da essersi ormai ridotta quasi sempre a un atteggiamento, una finzione.
La dimensione esotica, da scoprire, si è fatta quindi caratteristica di piccoli gruppi o anche di singoli e quindi capita di poter comprendere bene un'opera francese ma di non disporre dei codici interpretativi di qualcuno che abita nel palazzo di fronte.
Ragionando così sembra che io sia caduto in contraddizione, ma non convengo.
L'opera che “mi parla” senza aiuti esterni, è quella che preferisco e può anche accadere che ciò si realizzi con l'opera di un altro tempo e cultura1. Mi rendo conto che spesso questo non accade e considero quelle opere, spesso buone, ma di un livello inferiore di quel che si potrebbe raggiungere.

Provate a guardare due quadri di Picasso: il ritratto del padre e quello della madre. L'uomo che li dipinse era un ragazzo. A quattordici quindici anni, quando li realizzò, possedeva già una capacità che conteneva tutta la cultura occidentale della quale divenne la punta di diamante. Forse non ve ne siete accorti ma vi ho offerto un dato che si pone in modo deformante perché emotivo, fra quelle due opere e la vostra visione che per essere eccellente, nel mio modo di vedere, deve essere senza interferenze o avere solo quelle temporali e del “mondo” che, come ho detto prima, capita che siano strettamente necessarie. Il tranello nel quale vi ho attirato, è il seguente: vi ho detto l'età di Picasso quando li realizzò. Ho inquinato la vostra osservazione abbassandola di livello. L'ho portata dalla fruizione spirituale, interiore a quella del fenomeno da baraccone. Ma, fateci caso, ora che il dato lo avete masticato e deglutito e lo stupore non c'è più, vi rendete conto che quelle due opere sarebbero state stupende anche se le avesse fatte a settant'anni? E' un po' come quando ci mostrano un pianista bambino che suona bene. Dietro allo stupore della sua età, perdiamo la concentrazione, la lucidità che ci farebbe apprezzare una buona esecuzione e ci tocca chiudere gli occhi per recuperare un po' di coerenza.

Si può dire che esistono tanti capolavori che, anche se vecchi di secoli, e pure appartenenti alla nostra cultura, sanno rivelare la loro altezza senza intermediari. Quel che Raffaello ritraeva per esempio, è sempre toccante perché egli disponeva di un talento innato per l'equilibrio compositivo , ma non solo. E non c'è bisogno di citare solo nomi antichi e consolidati. Si prenda Henry Cartier Bresson e la sua fotografia. Si “sente” che c'è qualcosa che funziona e non è solo l'intuizione compositiva come certa semiotica vuol dirci. E in letteratura? Chi legge “Il Maestro e Margherita”, se è attento e concentrato comprende tutto senza bisogno di sapere nulla della telefonata che Bulgakov ricevette a sorpresa da Stalin e senza sapere che era perseguitato (ovviamente Bulgakov e non Stalin che amava invece perseguitare....). Tutto questo si sente semplicemente leggendo.
E poi ci son casi come Kafka. Era ebreo e, diciamocelo chiaro, per molta gente e particolarmente per gli antisemiti, l'ebreo è un'ipotesi, un'idea e poi son capaci di parlare con un tipo, trovarlo simpatico e “in gamba” e non sapere che è “uno di loro” perché in fondo, in nulla sono diversi esteriormente da noi, se non, e di rado, nell'abbigliamento. Essere ebrei è però un mondo, e quindi ci sta che per comprendere Kafka ci si rimbocchi un poco le maniche. E farlo non è semplice. Dovete sapere che le opere enigmatiche, oscure, sono amate visceralmente da certi avvoltoi che comunemente si chiamano critici e docenti universitari. Bisogna capirli, devono pur campare. Per quale motivo si può spiegare altrimenti il fatto che, i titoli pubblicati per aiutarci a comprendere Kafka, son più di cinquemila? Perché la sua enigmaticità permette di dire tutto e il contrario di tutto, di spaccare il capello in quattro su un dato secondario. E gran parte di quella enigmaticità risiede nella differenza dell'origine culturale. Una prova semplice semplice? Si legga prima “Joshe Kalbe” di Israel Joshua Singer e subito dopo “Il processo”. Vi accorgerete che tanti falsi enigmi della critica si scioglieranno come neve al sole...
Allarghiamo un attimo questa parentesi per un'altra utilissima considerazione: se la “roba” diciamo enigmatica piace agli avvoltoi dell'arte, cioè critici e “indocenti”, il mercato la teme. Se si vende ovviamente la vende, ma preferisce la “roba” semplice, quella che “va giù” come un bicchier d'acqua. Questo spiega l' esistenza di certi best(ial) seller e la certezza che un Proust oggi verebbe evitato come se avesse la peste. Avete compreso ora perché gli avvoltoi dell'arte e della cultura amano Kafka, Celan e Hegel? Per la loro difficoltà e non perché li “sentano”. Sarebbero capaci di dirvi che l'elenco telefonico è un romanzo che ha per protagonista tutta una città e non ha trama perché in fondo la vita non ce l'ha se non hai un'ideale che ne tira le fila... bella questa, quasi quasi la mando a Barnaba Maj (questo non è un avvoltoio. Ascoltatelo. Merita.)

Perché vi dico tutto questo? Perchè anche Kiefer è una preda gustosa per critici e “indocenti” che, non come buongustai ma come jene, si accaniscono sul corpo morto dell'opera trasformata in oggetto, in una “cosa” solo logica. La soggettività di Anselm Kiefer è forte e complessa e si concretizza in opere molto meditate. Come ho detto prima, nella nostra epoca un'opera brasiliana o statunitense non è più incomprensibile come poteva risultare anche solo un secolo fa. La questione è diventata appannaggio di nicchie di pensiero e di stile di vita di piccoli gruppi o singoli e quindi, per comprendere l'opera di Kiefer come per esempio quella di Balthus, diventa necessario studiare l'alchimia e non solo. E io qui non mi arrendo totalmente, ma un po' sì. Lo farò, ci ragionerò sopra, ma non ora, e quindi in fondo non so se lo farò mai perché quando per qualche motivo rimando.... Di Balthus il caso mi ha offerto un libro di alchimia di suo fratello, l'eccentrico Balthazar. È in casa da anni, ma non mi attira. Ci incespicherò certamente in una notte insonne, ma l'istinto mi fa preferire, forse a torto, opere che “parlano da sole”. E pensando a Rodin, a Desiderio da Settignano, a Luca della Robbia, a Brueghel, a Waterhouse ecc, “sento” di avere torto, ma anche ragione.

Ora per favore, prendete il secondo volume Meridiani Mondadori di Borges e leggete “Una spada in York Minster”. Non vi serve altro che leggerla quella poesia. Il norvegese avrà un volto ideale, antico, rude e fiero. La sua antichità sarà comunque nitida e anche indefinibile. Forse trecento anni fa, forse mille, ma non conta, va bene comunque. Quella mano... quell'attimo allucinato nel quale prenderà eternamente l'elsa, Borges l'ha vissuto e con quei versi ci fa rivivere quel che sentì, scuotendoci con un tocco colossale di gong al cuore. Quei versi parlano da soli.
Ora cercate nell'indice “Una rosa e Milton”. Ma cosa c'è di più bello. E che Milton fosse un grande poeta non importa saperlo. Milton fu semplicemente colui che meditò la rosa.
Ora chiudete il libro e ditemi cosa sono se non scaracchi quelli di Sanguineti, tanto per fare un nome...
E ora trovate, per favore, fatelo, “La morte e la fanciulla2” di Franz Schubert. Sedetevi e scuotete le vostre ali, ormai rigide per il disuso. Preparatele mentre ascoltate, anche con leggerezza, con un orecchio solo, il primo movimento, e poi, quando arriva il secondo, lasciatevi andare. È sconvolgente. Si vola. Si va via. Si sente che essere umani, profondamente umani fino a rasentare il divino è possibile. E questa sensazione, con un nodo alla gola, ci giunge incontaminata, pura, altissima, da un altro secolo. Non abbiamo bisogno di scoprire nulla della vita di Schubert e in fondo nemmeno di sapere che quel secondo movimento è stato concepito da un determinato essere umano. È più facile che, alle guerre e agli sconvolgimenti, resista qualche foglio che non una torre o un palazzo e se, fra secoli, si trovasse solo quel secondo movimento, ormai senza paternità, non sarebbe ugualmente un dono enorme per l'anima?

Anche una “forma” di Brancusi arriva molto in alto. Anche una scarna figura scura di Giacometti. E non c'è bisogno di sapere nulla. È solo questione di lasciarsi andare, di soffermarsi a guardare, disposti interiormente, disponibili alla possibilità, se si offre, del volo .

Però guardatele le opere di Kiefer e non su internet, ma dal vero, mi raccomando. Merita. Si esce più ricchi, più incerti a proposito di tante false certezze e questo non ci fa certo male.
Per apprezzarlo, se temete lo sforzo intellettuale che comunque da quelle opere un po' ci allontana, scorrete un momento le immagini delle ultime “robacce” di Damien Hirst su internet. Troverete il teschio di neonato esposto a Hong Kong e tempestato da migliaia di diamanti rosa e poi.....quel pene enorme fatto di barre d'oro col glande coperto da quasi duemila diamanti e in più uno azzurro di valore spropositato. Sorridete di quel cinismo che dice di essere arte ma è solo mercato, spegnete il computer e avviatevi ai Magazzini del Sale a Venezia. Dopo un tale bagno di volgarità, gettatevi nella mostra e vedrete che, come quando vi gettate in Islanda in pieno inverno nelle acque della Laguna Blu, ne uscite, e ricoprendovi al più presto; si, in quell'attimo, mentre vi passano un accappatoio caldo, e siete già coperti da un strato di ghiaccio che sorprende ma non fa male, sì, come nel caso della laguna blu, dopo l'immersione nelle volgarità commerciali di Hirst, sarete corazzati di ghiaccio contro certe cose che distraggono solo e non danno nulla e, pronti nel pensiero sensibile, che è un vento freddo, voi, così ben difesi e preparati, sarete pronti per respirare un senso.

Ed è giusto che a volte si paghi un prezzo che non si esprime solo in denaro. In fondo, quando camminate in alta montagna, accettate la fatica in cambio della promessa di un panorama stupendo che non è sempre garantito. Potrebbe farvi un dispetto qualche nuvola, ma voi salireste ugualmente, perché ormai siete lì ed è un peccato non provare.

È la medesima faccenda. Ormai siete qui, nella vita, quella salita che porta all'arte potrebbe schiudervi ad un senso. È vero che potrebbe rovinare tutto qualche nuvola, ma ormai, insisto, siete qui, nel mondo, nella vita e bisogna provarci.

1L'icona della trinità di Andrej Rublev è uno di questi casi. Nessuna opera, come questa riesce a rendere l'idea dell'unità della trinità divina del cristianesimo, con altrettanta efficacia. Provate poi a cercare quelle delicatissime opere fatte dai poeti filosofi nella Cina antica(periodo sung e immediatamente precedente). Balthus li amava e su quella linea ideale fece i paesaggi di Montecalvello.... e io non li amo meno di lui. Osservate quei paesaggi e comprenderete qualcosa. Quando andrete a leggere le spiegazioni vi sorprenderete perché quel che leggete è simile a quel che avete pensato e se non pensato, almeno intuito. Ricordo che quando portai il libro con quelle opere, a Tonino Guerra se lo mangiò con gli occhi e come si fa a non donarlo a uno come lui che su quelle cose ci cresce, visto che dipinge pure...
2Vi consiglio l'edizione della Deutsche Grammophon eseguita dall'Amadeus Quartett titolo esatto in tedesko: Der Tod und das Madchen

sabato 21 maggio 2011

come si può fare per Scrivere bene....

Cercherò ora di dare risposta ad una domanda che mi viene rivolta spesso.

“Si può imparare a Scrivere?”

Si noti che si tratta, per me, di un saper Scrivere con la esse maiuscola.



Prima esigenza: definire cosa vuol dire, ovviamente secondo me “saper Scrivere”.



Per essere chiaro agirò in modo negativo e per esempi. Cercherò cioè di definire in cosa consiste “non Scrivere” con la esse maiuscola. Non ho Scritto “non saper Scrivere” perché chi “sa Scrivere” con la esse maiuscola può volontariamente o involontariamente scrivere anche con la esse minuscola. Un esempio. Quando affondò l'Andrea Doria, apparve in prima pagina in Italia un articolo firmato da Dino Buzzati1. Varie sue opere sono Scritte con la esse maiuscola ma quando si scrive per un giornale, per una serie di motivi, la esse diventa minuscola. Conosco solo un caso, eccezionale nella sua unicità; si tratta di Alfred Polgar2. Di solito il giornalismo ha a che fare con la quotidianità, con il qui e ora. Ha una dimensione emotiva forte poiché è “attaccata” agli eventi che descrive o che cerca di comprendere. Ne la “Recherche”, il barone di Charlus dice che “leggere il giornale è come lavarsi le mani”. Pensateci. È vero. Una notizia finisce con la sua lettura e viene immediatamente soppiantata da un'altra sul medesimo argomento. Quando ci laviamo le mani sappiamo già che ripeteremo quel gesto di li a poco. È ovvio dimenticarlo come è ovvio dimenticare un articolo di giornale. È la notizia in sé, l'evento, che dagli articoli scaturisce, che può durare nel tempo e attualmente, il lettore è talmente calato in senso negativo nel presente che è sufficiente che una notizia non sia più supportata da una catena di articoli che essa viene completamente dimenticata.

Amo definire il giornalismo “parole che durano un giorno”. È vero che esistono i settimanali che fra tonnellate di pubblicità tentano di porsi in modo più distante dalla notizia. Sono quindi, di poco, meno emotivi dei quotidiani. Tutto qui, non c'è altra differenza. E la lettura è leggera leggera. Ve la sentite per esempio di fidarvi degli economisti che scrivono sui quotidiani? Io no. Se uno di loro “ci prende” allora è ricco e non farà certo il giornalista economico o l'economista. Questi loschi figuri campano di consigli che danno ma che non applicano esattamente come i maghi e le cartomanti. Prevedono ed è ovvio che su cento che guardano nella sfera magica per mezzo di formule e teorie semiserie, qualcuno ci prende alme3no un paio di volte nella vita. Se scelgo venti persone e le invito a fare un pronostico sul risultato di una partita di calcio vi meravigliereste poi così tanto se qualcuno “ci prendesse”? Direi di no perché è evidente che il caso farà la sua parte....



Sul giornalismo e sui mass media è importante fare un'altra precisazione che sarà assai utile per definire il campo assai ristretto, ma di valore eccezionale, della Scrittura con la esse maiuscola: Ci è necessario dare una definizione al termine “REALTA'”.... Non è assolutamente vero come dicono certi oscuri personaggi chiamati filosofi che la realtà non esiste. Esiste eccome. Essa è il frutto di un processo di comprensione che varia a seconda delle epoche. Se ben poco siamo in grado di dire sui tempi passati3, sicuramente l'epoca presente, se non le permettiamo di travolgerci sempre sempre sempre, e ogni tanto ne usciamo sedendoci sulla sua sponda e ci mettiamo ad osservarla mentre scorre, può dirci qualcosa di non completamente definito e forse incerto, ma sicuramente più interessante delle mani vuote...

Secondo me LA REALTA' oggi, PER LA MASSA, E' QUEL CHE I MASS MEDIA DICONO.

Un fatto per esistere non ha più bisogno di accadere. È sufficiente che i mass media lo narrino, lo descrivano. Esempio celebre fu il caso di un certo regista americano che anni fa disse per radio negli Stati Uniti, che i marziani stavano invadendo la terra. Ci fu il panico. Si trattava del grande Orson Wells. Egli intendeva solo dimostrare la potenza dei mezzi d'informazione e dovette smentire al più presto una notizia che stava sconvolgendo la nazione. Ecco, vedete, in quel caso fu considerata realtà, la notizia. Il fatto diviene quindi un qualcosa di secondario e altamente manipolabile.... La massa, l'uomo comune, dispone quindi di una realtà concreta che consiste nel mondo che vive ed esplora personalmente, per intenderci il suo spazio visivo quotidiano, e una realtà diciamo discutibile per non dire irreale, fornitagli dall'esterno, e che dovrebbe provenire, così almeno egli crede, da quelle distanze alla quali i suoi sensi e la sua elaborazione mentale non possono arrivare.



Ho parlato di massa, di uomo comune.

Esiste poi l'uomo (e anche donna, mi raccomando, è un'aberrazione della lingua italiana utilizzare il termine uomo sia per definire il maschio che il genere umano) che riesce a non farsi semplicemente travolgere dalla sua epoca. Egli si distanzia, come ho già accennato, si siede sulla riva del tempo e lo guarda passare, lo osserva. Accade così un fatto curioso. Invecchia il corpo, non la mente. Essa si rigenera. Possiamo quasi dire che ringiovanisce, si ri impossessa di se stessa e, se lo comprenderà, mirerà a raggiungere quel livello massimo nel quale tutte le briciole di tempo sono equidistanti intorno a noi, come se fossimo al centro di una sfera e non, come accade e tristemente, quando non si vive ma ci si lascia vivere, quando il tempo si fa sentiero col passato che irrimediabilmente ci sfugge, si allontana, e il presente che ci inghiotte con la sue mille bocche, le sue mille voci che distraggono da dimensioni più interessanti.



Immaginate una folla che sbraita poi, per un qualche mistero, improvvisamente si zittisce. Ecco che si potrebbe sentire l'usignolo, e per noi il tempo non si farà più calendario, orario di lavoro e altro, ma tornerà, con quell'oro squillante, al ritmo delle stagioni. Si annuserà di nuovo la natura, un'anima potrà di nuovo guidarci e tutto questo il rumore appunto ce lo nasconde. Rumore di mercato, di acquisti, di esigenze non necessarie...

Ricordo una bella lezione di Mafalda, il mio cane. Per lei, che si salisse su una macchina scalcagnata o su una Ferrari, oltre alla scomodità di quest'ultima essendo lei quarantacinque chili, era la medesima cosa, perché l'importante era essere insieme. Tutti capiamo e conosciamo questa lezione, ma raramente la si fa nostra ed ecco che si schiavizzano anni di vita in rate per un oggetto funambolico e spaccone perdendo occasioni di relazionalità …. e di usignoli.



Tengo a precisare che nell'esempio della folla, questa non deve essere immaginata di persone. Si tratta di una metafora un po' strettina ma ormai ho preso il dritto e la userò ugualmente. La folla è l'insieme di stimoli che riceviamo e che dobbiamo imparare a selezionare e deviare se non necessari. La vita, lo sapete, è fatta di giornate di ventiquattro ore. Immaginiamo otto ore di sonno notturno più una pennichella di mezz'ora dopo pranzo, che io adoro. Rimangono quindici ore e mezza di attività mentale che arrotondiamo per comodità a quattordici. Di queste ore otto minimo se le succhia il lavoro. Quando si lavora di solito la mente non è libera, ma appunto deve lavorare. È vero che chi per esempio raccoglie mele, può agire “in automatico” e pensare ad altro, ma penso che questi lavori sian pochi e a me non sono mai capitati. Quattordici meno otto. Abbiamo sei ore per noi. Una miseria, non credete? Penso che sia ovvio ora dire che l'oro sia il tempo. Vedete, i soldi cosa sono se non possibilità? Bene, se così la pensate, non compratevi la borsa o il borsello di Louis Vuitton, ma del tempo, si, del tempo per sedervi alla riva del tempo e pensare....



Penso che ormai sia chiaro quanto sia stato necessario e utile definire il termine REALTA'.

Per saper Scrivere con la esse maiuscola e non solo per quello, ma per qualsiasi operare artistico, è necessaria questa consapevolezza e, si badi bene, non basta saperlo, si deve anche strutturare la propria vita in funzione dell'acquisizione dell'oro vero che è appunto il tempo.

Avete due case? Vendetene subito una e vivete vivete vivete. Senza sprecare in idoli stupidi. Anche le donne non si comprano. Non fate finta di non saperlo. E per parità di diritti, poiché ormai si sa che anche le donne vanno a far viaggetti per comperare....uomini, si sappia che son corpi e sfamano solo corpi. Ma noi non siamo solo questo ed è un volerci male accontentarsi di questo. La somma di cuore e pensiero si chiama anima e la seduzione attuata tramite questa ci può offrire un partner affascinante perché completo....



Dicevo, vendetela quella roba che non vi serve e col tempo che potrete acquistare ...pensate, guardate in voi stessi. Se tutto va bene troverete quelle parole che diventeranno poesia, letteratura. Roba vera, che meriterà di essere ricordata.



Ora, quali son le parole e le cose in generale che non meritano di essere ricordate? Quelle della moda. La moda è un mostro orribile e pericoloso. Spesso ci rende ridicoli e non ce ne rendiamo conto. Essa si impone e per assecondarla rinunciamo ai nostri gusti. É pazzesco, non trovate?

Ricordo che anni fa andarono di moda, per una sola stagione degli stivaletti da donna inguardabili, un po' pitonati e un po' no, con punte aggressive e colorini che andavano dal fucsia alternato all'azzurro per finire in certi arancioni esasperati. Roba oscena. Accadde che l'anno dopo nessuna più le portava. Una personcina di mia conoscenza ammise poi candidamente che erano improponibili e si domandava dove potesse aver trovato il coraggio di metterle. E noi lo sappiamo dove quel coraggio ha invece trovato lei, nella moda... ebbene, essa non si limita a vestirci in modi ridicoli e a renderci tutti uguali come tanti soldatini, ma ci condiziona in tutto, nei cibi, nelle letture e perfino nei modi di scrivere.



Un caso per me tragico ed esemplare accadde in Italia nel secondo dopoguerra. Una generazione di autori si sentì in dovere di scrivere “Il Testo” che esaltasse e rendesse mitica l'esperienza partigiana. Si sapeva che non era strettamente necessario (parole non mie, lo disse Italo Calvino, che i “sinistrati” se la prendano con questo loro discepolo...) poiché altri eventi storici non furono trasformati in parole dorate dalla grande letteratura. Non tutte le epoche hanno degli Stendhal e degli Hugo pronti al via.... Davanti alla consapevolezza che i “mostri sacri” della letteratura, per intenderci, Flaiano, Pavese solo per dirne due, non riuscirono o non trovarono interesse a cimentarsi in questa operazione, la retroguardia di mediocri, che ha sempre la mamma incinta, ha sfornato pseudo capolavori pompati a dovere. E cosa si inventarono per mascherare la loro povertà si badi, non di intelletto, ma di sensibilità artistica? Un linguaggio. Dopo “L'Assomoir”4 di Zola, la tentazione di pescare fra le bucce e gli avanzi degli ultimi, di rotolarsi con gusto in gerghi triviali spacciandoli per veri, questa tentazione dicevo, ha dato un gran prurito a chi non aveva altro da offrire se non la tecnica letteraria. Si sommò in quel periodo l'esigenza di vivere una stagione che, causa il fascismo in Italia, fece solo qualche magra compoarsata, ma che era assai sentita; si trattava dell'espressionismo, che in Germania nel primo dopoguerra caratterizzò l'arte e la letteratura con decisione5. Effettivamente, sia nel cinema che nella pittura e nella letteratura, intervenne una dimensione surreale posta in direzione del caricaturale grottesco.

Ci troviamo quindi davanti ad un'epoca che ha incensato l'opera di mediocri che nascosti dietro ad un gergo popolare e partigiano, ha occultato un nulla che ha durato, come la moda, una stagione. Son libri che se te li consigliano li leggi certamente, ma assai raramente li rileggi e questo nostro comportamento dovrebbe insegnarci qualcosa. Quei testi furono deformati da una propaganda di parte che ora non “sentiamo” più. Era la fine di un'epoca nella quale in politica, a differenza di ora, si scontravano ideali e la battaglia richiedeva lo sforzo di tutti. Qualcuno disse che il letterato deve suonare il piffero (o era il tamburo?) della rivoluzione. Ora che, dopo tanti anni, rimangono quelle opere senza l'atmosfera che le ha richieste e incensate, ora sono insipide. Strani documenti storici messi giù in un linguaggio che si sente che è costruito. Con questo, mi raccomando, non si vuol certo dar contro ai partigiani! Diciamocela chiara. Fra fascismo e comunismo non so quale fosse la tragedia migliore. Certo è che all'epoca, del comunismo russo, così feroce, ben poco si sapeva. Era al suo ideale che si inneggiava e, per quel che mi conosco so che sarei stato rosso fin nelle mutande e avrei fatto del mio meglio per difendere la mia idea. È vero che col senno di poi san far tutti, ma si osservi questo blog...esso è una battaglia persa in partenza in favore di qualche grande ideale...non credete? Non so se avrei preso la via dei monti, ma per me, la mia vita del singolo, vale poco. Vale invece quella dell'umanità e quindi propendo a pensare che sarei andato. Il fatto curioso, per quel che riguarda la letteratura su quei fatti, è che le pagine migliori sono alla fin fine, secondo me, proprio in “Pavese”. Per esempio, ne “La casa in collina” che è fortemente autobiografico, egli descrive questa lotta fra gli ideali e la paura del protagonista che non sceglie di essere rosso o nero e di combattere, ma riconosce la sua vigliaccheria. Ed essa ha in sé qualcosa di arcaico e positivo che è il desiderio di sopravvivere. Penso che in Pavese, questo aspetto, abbia lavorato come un tarlo, creando un senso di colpa che, sommato alla tragedia dei suoi rapporti col femminile, che nella sua opera è sempre un enigma tremendo, fece scattare il grilletto di una pistola da lui medesimo tirata. Ne “La luna e i falò”, libro eccellentissimo, quando la gente parla male dei partigiani perché trova cadaveri sepolti un po' ovunque e si lamenta della non legittimità della sua azione, il personaggio principale dice ad un certo punto: “In quell'anno, dissi, ero in America. (silenzio). E in America che è in America, dissi, i giornali hanno stampato un proclama del re e di Badoglio che ordinava agli italiani di darsi alla macchia, di fare la guerra, di aggredire i tedeschi e i fascisti alle spalle. Più nessuno se lo ricordava...”

Ecco, vedete, durante una discussione, in un attimo, il movimento partigiano è reso legale e coerente con la storia d'Italia. Questo lo si sente in Pavese come senso vero e chi in quell'opera lo dice è l'italiano che non c'era, quello che era in America a lavorare.



Per quel che riguarda il danno fatto dal linguaggio artefatto, questa scatola che spesso quando la apri è vuota e tutto il suo mistero è nella forma, per quanto riguarda il linguaggio, porterò come esempio Beppe Fenoglio. Ho letto varie cose sue e non le amo, poi ho scoperto che vale, che aveva delle possibilità e spero non se le sie bruciate nel dare all'editoria e al suo tempo quel che essi chiedevamo. Vi spiego cosa mi è accaduto. Dopo aver letto varie opere, approdo, ormai rassegnato, alla raccolta di racconti “I ventitré giorni della città di Alba”. Leggo più annoiato che mai e poi il racconto “Nove lune” sveglia il mio torpore. Qui non c'è la guerra. C'è la vita, ed ecco che Fenoglio brilla. Anche il linguaggio è cambiato. Ci siamo, mi dico. E quel racconto è affine nei contenuti a “Il carcere” di Pavese. In questo libro un uomo dopo il carcere deve andare al confino in un paese della Calabria. Non sapremo nulla dei motivi che lo hanno condotto li. Ci ritroveremo invece a “vivere” un uomo che ha pulsioni che diventano quasi primitive e angoscianti. C'è la sua lotta con la fame del corpo e con la solitudine in un mondo che di quella primigena pulsione sembra l'espressione vivente. Notevole. Un gioiello. Ecco che Fenoglio si muove sulla medesima lunghezza d'onda. La dimensione storica si fa corteccia esterna, diventaq sfondo, valore secondario. Quel che non cambia mai è l'uomo e la sua continuità, è la forza che lo salva. Una primitività sensuale che viene imbrigliata dalle convenienze, in quel racconto di Fenoglio. Un istinto che è il nostro convivente mai sazio per anni. Vado avanti nella lettura con le antenne ben dritte e trovo che anche “Pioggia e la sposa” meriti di essere ricordato.



Nel '40, Balthus, rifugiato in Svizzera e ferito, dipinge un quadro sorprendente. Un albero di ciliegie e una ragazza su una scala che le raccoglie. Al primo impatto verrebbe da domandarsi “ma cosa c'entra un soggetto simile col suo dolore di un mondo, di una Parigi perduta, di amici spariti?" C'entra eccome. La consapevolezza che, nonostante la violenza furibonda che gli uomini stanno esprimendo, la primavera tornerà sempre, ancora. Questo vedere un segno nel ritorno ciclico del fiore, del frutto, è un indice di speranza. La medesima cosa accade nel protagonista di Pavese che culla i suoi sensi ne “Il carcere” e la vigliaccheria dell'uomo de “La casa in collina” diviene sensata se intesa come desiderio di vivere un'altra primavera, di vivere quella positività della natura che mai soccomberà, questo loro pensavano, all'uomo. Oggi qualche dubbio in proposito iniziamo ad averlo....



Torniamo a noi. La moda nella letteratura e nelle arti. Un altro esempio che non si può ancora dire senza finire con l'essere insultati ma lo dico ugualmente..... Renato Gruttuso (l'errore è cercato...non lo reggo) fu fascista e poi si adeguò meravigliosamente alla nuova “ondata” diventando la bandiera dall'arte sinistrata (e come chiamarla diversamente quando inneggiava senza memoria a chi prima si nutriva al tavolo del fascio ricevendo premi e facendo dediche su opere che poi scrostò, riscrisse per nuovi leccaculismi...). Oltre a farmi ribrezzo l'essere voltagabbana in modo così scoperto (almeno il pudore please) per due idee che fanno a botte fra loro, era pure un cane col pennello. Fu una moda a lanciarlo e a fare il tutto. Ora la moda è finita...



Altri casi? C'è un regista che ha fatto tre film che lisciavano il fascio e poi è diventato uno dei padri del neorealismo....



E poi? Per altre vie è passata la moda. Manzù ebbe solo la fortuna di essere amico di un papa (Paolo IV)che era suo compaesano e se lo portò a Roma riempiendolo di commissioni importanti (la cosa ridicola è che anche i suoi parenti lo ammettono serenamente).



E lo scultore Mastroianni? La sua rendita migliore furono monumenti ai partigiani che sicuramente ne meritavano, ma quei suoi ammassi di ferraglia non dicevano nulla anche a chi doveva esserne fiero ed era presente (si tenga conto che il nipotino, certo Marcello Mastroianni, l'ho conosciuto personalmente e ne abbiamo parlato). È sufficiente quel che ho citato per mettere a nudo solo alcuni dei danni fatti dalle mode?



Quando una corrente politica o un milionario che hanno fame di eternarsi anche come mecenati, assalgono un artista, esso non deve dimenticare che è un vendersi. O si ha la fortuna di Tiziano che si ritrovò l'imperatore Carlo quinto che gli disse fai quel che vuoi e io pago, oppure bisogna avere paura. Se li lasci fare hai un finto presente che soddisferà il palato e la gloria. Fami fittizie che devi continuamente nutrire e che ti vogliono schiavo.



Vi è mai capitato di pensare “ma come fa questo schifo ad essere qui in un museo” oppure di un libro “ma come è potuto accadere che l'abbiano pubblicato”? Io ho avuto occasione, alcune volte, di chiederlo direttamente con gli autori di quelle robacce. Cesar per esempio. Si chiacchierava all'hotel Lutetia dove abitava a Parigi e sul tavolino faceva brutta mostra di sé una piccola compressione di barattoli di coca cola. quel parallelepipedo rossiccio, glielo dissi, non mi diceva niente. Mi rispose che anche a lui era indifferente, però serviva a pagare le spese e ci riusciva egregiamente...e tornammo a parlare di Folon e altri artisti che come me, amava.



Esiste poi qualche autore che volontariamente o meno, diventa un idolo perché rappresenta qualcosa di maledetto, di proibito. Mi è capitato spesso di informarmi su cosa pensassero altre persone di Pasolini, per esempio. Non ho mai trovato riscontri positivi se non fra gli addetti ai lavori e i sinistrati. “Ragazzi di vita” per esempio viene a noia quasi subito. Il suo cinema, con rare eccezioni è visto come troppo violento, una violenza che non viene capita. Il curioso è che anche persone che lo conoscevano, al massimo, quando vanno proprio di fino, sospendono il giudizio. Cito due fonti dirette: Tonino Guerra e Francesco Rosi. Andarono insieme a vedere “Salò”. Uscirono senza parole. Solo Tonino osò dire, “forse lo capiremo fra anni”. Gli ho fatto presente che mi sembrava una scusa per lavarsene le mani e ha ammesso che è così. Ebbene, quel che penso è che, dire di essere omosessuale e pure masochista, in quell'epoca era forte, troppo forte. Lo si voleva vedere, odiare, amare nella sua maledizione, poiché così era sentita. Aveva anche un'altra aura che ormai si è persa. Quando uno del suo “giro” aveva per esempio la gatta che partoriva, lo chiamava e diceva che ci pensava Pierpaolo, che lui era magico in quelle cose. Oggi, lo dimostra il caso di qualche outing recente fatto da qualche celebrità, che rivelare di essere gay, non fa più notizia. Si pensa “sono affari suoi” e se è belloccio, il clan degli etero brinda perché c'è un concorrente in meno.

Per darvi l'idea della situazione, sempre Tonino mi raccontò di quel che un giorno discusse mentre era in macchina con Pasolini, Visconti e Moravia. Gli feci notare che era l'unico eterosessuale e gli chiesi se aveva, per l'occasione, le mutande di ferro. Ha riso e mi ha detto che Moravia era un po' “tutto” e sapeva anche di sue storie con donne oltre alle sue scappatelle con le tasche piene di soldi sui colli romani a caccia di ragazzini. Ma erano tranquilli. Si vivevano la loro sessualità senza clamore. E Pasolini' gli chiesi? Anche lui, mi disse, era tranquillo, solo che non perdeva tempo a nascondere nulla...

Ovviamente non è l'unica fonte di cui dispongo. La più importante comunque rimane l'opera. Se essa non ci “parla” è finita. Il tempo toglie tutte le finzioni delle mode. La sua aura magica che faceva sì che lo si chiamasse se un animale partoriva è già polvere. Crollerà anche il resto. Rimarranno i testi e per me son muti....



potrei continuare con altri esempi. Ma ha senso?



Si! ancora per uno il senso c'è, poiché imperversa smodatamente nel nostro presente. Avete “in mente” Damien Hirst? Oltre le chiacchiere ridicole dei critici pagati bene per parlar bene, sapete perché ha messo uno squalo in formalina? Quest'opera, che l'ha consegnato alla fama internazionale, nacque per una scommessa. Quell'uomo, artista non mi viene... voleva dimostrare che attualmente si può comperare qualsiasi cosa. Decise di farlo pretendendo di riuscire ad ottenere uno squalo. Ci divenne quasi matto perché, contrariamente alle sue pretese, non era proprio facilino. Si stava rassegnando quando uno specialista australiano gliene spedì uno....

E l'arte dov'è?

E ora veniamo al Cranio del settecento tempestato di diamanti che mentre scrivo dovrebbe essere ancora esposto a palazzo Vecchio a Firenze. Vi racconto com'è nata quella “roba”. La Lobby dei diamanti va da Hirst e gli chiede di inventarsi qualcosa. Servono oggetti da vendere per soddisfare personaggi che vogliono spendere un centinaio di milioni (che sian dollari o euro poco importa) in un colpo solo. I Picasso del periodo blu e precedenti, chi li ha se li tiene, i Raffaello, Tiziano e mostri simili idem come sopra. Per Caravaggio si è arrivati a dire che le tre tele che si dice siano andate distrutte durante il bombardamento di Berlino nel '45, “forse sono reperibili”...che tristezza, non trovate? C'è pure odore di falsi, ma il mercato ha fame di roba che verrà comperata, se si trova, da una certa fascia di clienti facoltosissimi e per niente stupidi quindi, quando la “merce” non c'è, bisogna inventarla... ed ecco che nasce il teschio, che è seguito da altre cosucce fatte coi diamanti. Vi spiego una cosina. Il mercato dell'arte ha lanciato artisti che han durato una stagione. Compri il quadro, lo paghi una fortuna e poi, terminata la moda non sei più capace di rivenderlo. Ora, col teschio la musica cambia ed è per questo che considero quei facoltosi acquirenti, molto svegli.... se passa la moda e quel surplus di valore che viene dato all'opera dalla firma dell'artista, si annulla, prendo il cacciavite, mi metto con cura a staccare i diamanti e un buon ottanta per cento del valore l'ho recuperato. Provate voi a scrostare una tela di Pollock o a rattoppare un taglio di Fontana e vedere quanto "tirate su" per salvare le spese e la faccia.... La fonte mia è certissima. Ad un mio conoscente, Hirst ha confidato di domandarsi quando scopriranno che è tutta una farsa. La risposta è presto detta. Mai. Anche scriverlo qui non conterà. Vedete, chi compera quelle badilate di diamanti, un valore effettivo lo possiederà e deve agire così perchè l'arte contemporanea nel novantanove virgola novecentonovantanove per cento dei casi è solo un'operazione commerciale che dura poco e una volta venduta l'opera per i galleristi il discorso è chiuso. L'idea funziona meglio di una tela imbrattata con secchiate di colore o pennellate date come uno spadaccino come faceva Karen Appel6. Io non ho nulla da dire se qualche riccone desidera il water tempestato di pietruzze e perché no anche la carta igienica. Però mi dà immensamente fastidio che tutta questa operazione la si voglia mascherare per arte...


Via la moda, e non è facile distinguerla quando ci sei dentro nella vita e vivi la quotidianità ovviamente come tutti, con tutti...Ci può capitare di sentir puzza di bruciato, di renderci conto che sta accadendo qualcosa di completamente frigido. Scovare il perché di queste operazioni raramente ci è concesso. Ci tocca subire. Sapete qual'è il ruolo della gente nelle mostre? Solo quello di pagare il biglietto, e se non capiscono sono etichettati come ignoranti, ma da chi? da coloro che attuano operazioni commerciali mascherate....



E mi viene in mente anche Sanguineti. In Università a Bologna, mi dicevano degli studenti, che è impossibile laurearsi senza “subire” almeno un esame su di lui. Non è amato. Non è “sentito”. Me ne han dette da forca e da galera sui professori che non lo propongono ma lo impongono e che, quando qualcuno chiede di fare dell'altro viene maltrattato. E questo gruppo '63? pompato dall'università e basta e chi dovrebbe averne fatto parte se ne dichiara fuori come Eco e Vassalli? Come dire che erano passati per caso in quella stanza quella sera mentre stava accadendo qualcosa che non ricordano bene, ma loro erano appunto, ci tengono dirlo, erano solo di passaggio...



E Achille Bonito Oliva che in una intervista alla radio disse di essere stato un enfant prodige er ora è un prodige? Che tragedia del ridicolo, non trovate? E ci si deve far spazio fra tutta questa spazzatura modaiola o mercantesca, dopo che si ha lottato per comperare l'oro del tempo.

È chiaro che non basta averlo, il tempo. Ci vuole poi qualcuno di cui potersi fidare, che dia consigli e ci lasci fare, e dialogo con altri esseri che han scelto, come noi, con l'oro, di comperare il tempo.



Iniziamo a comprendere ora perché le “scuole di scrittura creativa” non possono insegnare a Scrivere con la esse maiuscola?



Ora tocca alla tecnica della scrittura.

La letteratura è l'unica espressione artistica che sembra, volendo, che non abbia bisogno di troppa attenzione per il suo mezzo espressivo. È ovvio dover prendere lezioni di pittura o di musica o di scultura o di fotografia. Si può fare anche da autodidatti, ma siamo consapevoli che un po' di “gavetta” con la tecnica la si deve fare. La scrittura invece, con il fatto che ce la insegnano a scuola sembra che possa “camminare da sola”. E purtroppo non né così. Premetto che non è necessario conoscere tutti i tipi di rime. Se li sai bene, se non li sai puoi andare avanti ugualmente per la tua strada. ...ma occorre il pensiero e una fonte alla quale attingere per le idee.



Non è poco e non è molto. È tutto....



L'intelligenza deve intervenire solo dopo. E quel prima è il grande mistero.

La mia idea, e almeno per me così funziona, è che si deve vivere, leggere, ascoltare musica vera, dialogare ma non al bar di calcio, amare, e lasciare che tutto si mescoli dentro il crogiolo dell'anima che, lo ripeto, è la somma di cuore e mente. Da quel bollire che noi non cogliamo, ma che vi garantisco, accade, nascono le idee, questi germogli che bisogna rispettare e lasciar crescere dentro di noi. Raccoglierle troppo presto è come ucciderle. Bisogna tenerle “d'occhio” pensandole, lasciandole vivere, una volta nate, nel pensiero. Quando son cresciute non cambiano più e questo vuol dire che è giunta la maturazione. Accade ora come per la madre col suo pancione. L'idea deve, vuole, sente l'esigenza di uscire da noi, altrimenti, si, altrimenti muore e muore perché abbiamo terminato di viverla e. la stiamo superando Quel che accade in noi quando quell'idea si è fermata e ha ultimato la sua crescita, appartiene già a un futuro che la esclude.



Mai ho scritto qualcosa perché lo volevo fare consapevolmente e mai mi son tediato perché non “mi veniva niente”. Può capitare che per molto tempo la mia anima (si ricordi, la somma di cuore e mente...) non si esprima e accetto il suo silenzio senza rancori e struggimenti. La vita va vissuta e quindi da fare, ce n'è sempre. E poi, per me leggere è una miniera nella quale scopro come le altre anime hanno vissuto certi aspetti della vita, che ho a cuore. La letteratura (e non solo, tutta l'arte è inclusa) mi ha anche insegnato ad essere sensibile che non vuol dire secondo me altro che affinare la capacità di osservazione e non rinunciare mai a pensare a quel che ho fatto, si fa, si legge, si vive.



Credo poco nei talenti. Ci sono eccezioni. Simenon per citarne uno. Ma non credo che La Yourcenar per esempio lo fosse. Il genio, diceva Alberto Savinio “è una lunga pazienza”. In questo credo, e chiunque, se decide di percorre una ben definita lunga pazienza, raccoglierà, da se stesso la Rosa.





1Da “Corriere della sera” di Venerdì 27 luglio 1956. prima pagina a destra. Titolo dell'articolo: “Un lembo di patria”

2Ed Adelphi – collana “Biblioteca” n. 291. Merita di essere letto...

3Un esempio di percezione della realtà. Nei testi omerici, è la mano a colpire, a sfuggire alla volontà dell'uomo. Ettore non fugge di sua volontà, sono le sue gambe a fuggire e lui, essendoci attaccato, non può non seguirle. La percezione di sé in quell'epoca era quindi diciamo “scomposta”. Si può notare che nella vasistica greca dipinta più antica, i corpi sono non rappresentati come un continuo strutturale, come accadrà dal quinto secolo a.c., ma come, per intenderci, composti da parti, tipo le formiche o certi bambolotti smontabili che piacciono tanto ai bimbi piccoli. Per loro il cuore era il luogo nel quale si accendevano le emozioni e accadeva per esempio che le gambe, per paura per esempio davanti all'invincibile Achille, scattassero impaurite, oppure che la mano agisse per vendicare un torto percepito appunto nel cuore. La mano aveva come una mente sua. Ricordate qualche mesetto più tardi, nell'antica Roma Muzio Scevola che disse “punisco la mano che sbagliò il colpo?” siamo davanti al residuo archeologico rimasto presente nel linguaggio, di un pensiero più antico. Tante parole, tante frasi che usiamo contengono reperti antichissimi.
Un altro esempio di percezione della realtà che è cambiato e quindi siamo in grado oggi di cogliere... Per noi, per quasi tutti noi, il sogno non ha nulla a che fare con la realtà. Anticamente la persona sognata, viva o morta che fosse era secondario, poteva anche essere semplicemente in un altro luogo, la persona sognata dicevo, era considerata vera nel senso che la sua apparizione in sogno rappresentava l'urgenza di consegnare un messaggio importante. Ora per noi il sogno non ha a che fare con la realtà, rimane qualche strascico nella dimensione magica, per esempio numeri del lotto o premonitoria, ma a tutti capita, quando va tutto male,di attaccarsi anche alle immagini di un sogno per impossessarsi di una speranza....

4Grazie al cielo la critica, o almeno una sua parte, riconosce oggi che l'operazione tentata da Zola con quel romanzo suona di falso. A me ha dato questo effetto senza attenuanti. Si tenga conto che di solito prima leggo l'opera e poi la roba di chi ci ronza intorno e se ne nutre in modo spesso tristemente universitario. Ebbene, “L'assomoir” rappresenta la visione che degli ultimi aveva (in questo caso operai, artigiani e bottegai dei quartieri periferici di Parigi) il borghese medio. La sensazione che i poveri fossero poveri perché la loro tempra morale fosse poco consistente, permetteva di considerarli colpevoli del loro destino e così il benestante poteva essere fiero di esserlo poiché la sua opulenza era la prova di una dirittura morale premiata. Abbiamo così davanti agli occhi un libro intelligente, calcolato. E la sensibilità dov'è? E quando Zola si è fermato davanti al fiume del tempo per rimeditare i suoi luoghi comuni e riconoscerli come tali? Non certo con questo testo che proprio per questa carenza di pensiero non”pescato” nella propria interiorità, e a causa della volontà pseudo scientificheggiante di dare dimostrazione con quell'opera ad una teoria allora in voga, è qualcosa di finto.

5Per chi non approva se la prenda nuovamente con Calvino. Nella prefazione che allegò a “I sentieri dei nidi di ragno”, disse queste cose. Curioso personaggio Calvino. Come scrittore non lo reggo. Lo sento artificioso, costruito. Anche la sua presunta fantasia è prodotto non di una sensibilità sentita ma dell'intelligenza. I saggi invece ci rivelano un uomo notevole che merita attenzione. Quante volte è capitato e capita nella cultura italiana che una persona di valore non ha la possibilità o la volontà di ricoprire il posto che gli spetta. Il caso più eclatante è Roberto Benigni. Non è attore, Non è Regista, legge dante in modo banalissimo e infatti lo danno in pasto alle folle che “mangiano” tutto, anche la cultura, come un panino.... e cos'è allora questo folletto toscano? Dalla lingua inglese prendo in prestito una figura. One man show. E non è poco. Lo si deve mettere su un palcoscenico, possibilmente da solo e invitarlo a parlare di tutto ma non di politica. In questo caso, nel suo habitat più congeniale, eccellerà e diventerà irresistibile.....

6Vedere filmatino su Google e ridere please

martedì 17 maggio 2011

"Il Bounty" di Angelo Solmi. "l paradiso ritrovato

Dal 26 ottobre 1788 al 4 aprile 1789, mentre in Francia scoppiava la Rivoluzione, abbuffata di morte senza ideali legata alla fame del popolo, sbarcavano a Tahiti dei marinai inglesi. Ci era già passato Cook nel 1779 nel viaggio che gli costò la vita.
Una nave vi era giunta per prendere pianticelle dell'albero del pane coll'intento di trapiantarle nelle Indie Occidentali, esattamente in Giamaica, per di sfamare così, a costo men che minimo, gli schiavi delle piantagioni. Era comandata da William Bligh che con Cook, all'età di ventidue anni, si era imbarcato come ufficiale in quel terzo viaggio che, per la prima volta, aveva portato degli europei in quei luoghi.

Stettero su quell'isola circa cinque mesi, un tempo sufficiente per integrarsi con una popolazione che, fra le tante cose, non sapeva cos'era il pudore. A loro sembrò un paradiso. Alcuni marinai pensarono che, dopo aver vissuto quella libertà, non solo nel sesso ma anche nella relazione, sarebbe stato impossibile accettare ancora, la vita della madrepatria.

Quando intrapresero il viaggio di ritorno, nel giro di poco tempo l'equipaggio si ammutinò.
La storia, noi, preferisce credere che si trattò di nostalgia del “paradiso ritrovato”, ma in realtà si trattò di qualcosa di più umano e meno poetico.

Il capitano Bligh divenuto insopportabile, diede la sensazione anticipata di un ritorno alla vita inglese e comunque europea, fatta di subordinazione violenta senza scampo.

In un aspetto sbagliarono gli ammutinati. Diedero al capitano la possibilità di salvarsi lasciandolo su una scialuppa con altri uomini, munito di sestante, qualche carta geografica, acqua e cibo.

Scattò così la giustizia della civiltà europea e per la ciurma di quella nave, che oltre il resto apparteneva alla marina militare, si trattò di una procedura che non accetta certo come attenuante  la descrizione di  un qualsiasi vero e raggiungibile paradiso.

I cosiddetti colpevoli, furono considerati dall'opinione pubblica, delle vittime. La fame di ideale, sempre giustamente insaziabile, malcelata in persone costrette ad obbedire a qualcuno sempre e a non poter mai vivere semplicemente si scatenò.... E poi un dio che imponeva anche lui obbedienza, che invitava a considerare la sofferenza come un'opportunità elargita per dimostrarsi degni, una volta defunti, di un paradiso che aveva però il difetto di essere solo immaginato e non provato e che offriva il solo piacere, che risultava non troppo attraente, di contemplare e adorare la divinità.....si, anche quel dio ebbe partita persa.

E ovviamente, come poteva reggere il confronto, quel paradiso immaginato e accessibile solo per mezzo della sofferenza, si, come poteva reggere il confronto con quello vero, che era stato visto e descritto e indicato su una mappa?

Alcuni aspetti poi, davano una dimensione di purezza strana e piacevole. Quelle donne, quella gente, per quanto primitiva, si lavava tutti i giorni. Ci voleva della fantasia a considerarsi puri quando si puzzava come dei caproni e....giungere li, fra gente che in  confronto era quasi inodore, scoprire che l'odore di femmina è buono, che ….. e il resto viene da solo. Una sensazione di purezza concreta. Un bel dono che avvicina i corpi-sentieri, che se ben percorsi possono portare anche all'anima.

E questo paradiso dava soluzioni concrete anche a tante altre faccende spiacevoli della vita quotidiana. La natura dava cibo e affrancava dal lavoro e il clima era sempre delizioso. Ma più di tutto affascinava il fatto che amare non soggiaceva ad alcun contratto e il desiderio rispondeva solo ad un altro desiderio.

...il più celebre “illuso” in questa strana favola, che nella realtà non mancò di morti impiccati e condannati, fu  forse Gauguin che poteva permettersi di lasciare tutto anche se quel tutto era Parigi. Si trattò  in fondo scegliere fra un paradiso artificiale e uno ideale decantato con nostalgia da Rousseau.

Lasciò tutto e comprò il biglietto per il paradiso.

E chi non poteva permetterselo? Sognò.

Sognò le donne e i personaggi dei quadri di Gauguin che diedero forma visibile non certo alla realtà, esattamente come l'immagine allo specchio rappresenta solo una parte di noi. E le sue opere furono preferite anche alle incisioni degli esperti che rendevano tutto troppo crudo, appunto troppo vero. Ci vuol tempo per comprendere che c'è più fascino in un amore sognato che non in uno vero, e prima o poi, a questa consapevolezza, tutti ci arriviamo, se ci impegneremo a dominare almeno per un secondo al giorno, gli istinti. Nelle tele di Gauguin il selvaggio non sembrava un selvaggio, ma un essere consapevole, si, del paradiso.

Ecco forse, il motivo del successo di un artista in fondo mediocre.

Per questo lo ringraziarono ammirando in lui la fortuna di esserci andato da vivo in paradiso, e mostrando il piacere non certo solo carnale, di una pace, e la sua possibilità concreta, che è il miglior biglietto d'ingresso nel sogno.

Si legga di Faber, “Il petalo cremisi e il pallido” per esempio. Descrive assai bene la Londra di qualche anno dopo. È una mostruosità nella quale è difficile, trovare un po' di poesia. Oggi non sembra così male? In un presente così intenso nel quale si arriva a sera senza fiato e con nulla nella mano del cuore? Penso spesso che ora una persona con un macchinario è in grado di fare quel che una volta faceva una folla, ma ugualmente ci ammazziamo di lavoro e niente ci basta mai. C'è una fame che non sembra nostra e che domina questa epoca? Si, ma dobbiamo renderci conto che è anche nostra. Quando entriamo in un negozio e non resistiamo alla tentazione di comperare, ecco che inneschiamo quel meccanismo subdolo che ci rende schiavi di quantità spaventose di superfluo. È così che diventa insensato quel singolo che è in grado di fare da solo per esempio mille scarpe al giorno quando in un ieri non lontano ci volevano forse mille persone per ottenere il medesimo risultato. Ed è così anche, che nemmeno l'evoluzione tecnologica è più in grado di darci una tregua che poi consisterebbe nel rendere possibile il dono più grande e voluttuoso, il tempo. Perché per amare la bella tahitiana o la vicina di casa, serve tempo e invece ci riduciamo spesso a credere che basti un bel dono eventualmente costosissimo o direttamente i l contante....

Dopo il Bounty ci furono altri ammutinamenti? si. Un'epoca lo fu. Il sessantotto, e poi di generazione in generazione quel momento nel quale gli adolescenti comprendono quale esistenza g toccherà loro e tentano di reagire, di protestare arrendendosi in alcool e droga prima di morire di vita regolata che ti vuole consumatore trionfante e fintamente felice.

Veniamo alla lettura consigliata.

Si tratta de “Il Bounty” scritto da Angelo Solmi ed edito dalla Rizzoli. La prima edizione è del giugno del 1983. Non so nulla in proposito di edizioni successive.

Immagino la sorpresa di molti davanti al consiglio di un testo così datato. Il punto è che non mi interessa se è una novità o, come si dice oggi di qualsiasi cosa che è al mondo da più di un mese, se è “roba” vecchia. È difficile trovarlo? Non lo so e nemmeno questo problema non mi sfiora. Io non l'ho cercato. L'ho trovato. Era in un mercatino dell'usato ed è costato meno di un caffè. Sul primo momento mi ha attratto perché c'era una cartina all'interno che segnava il viaggio del Bounty. Sfogliando ho visto qualche immagine seria. Riproduzioni di incisioni dell'epoca e foto in bianco e nero dei quadri di alcuni dei protagonisti. Sul primo momento ho pensato, anche a causa del formato, che si trattasse di una lettura per ragazzi e non ne ero per nulla dispiaciuto. Ce ne sono molte che son gradevolissime. Quando ho iniziato a leggerlo, mi son reso conto che invece per affrontarlo, era il caso di essere maggiorenni, problema che ho risolto da qualche mesetto...
Alcune descrizioni è meglio se vengono recepite da chi ha ormai una certa esperienza della vita. Un libro serio quindi, che cerca, nel limite del possibile concesso ad ogni epoca, di essere oggettivo e di non scandalizzarsi gratuitamente. I fatti son fatti e basta, sembra leggersi fra le righe. Una volta terminata la lettura, è il caso di aggiungere del nostro. Di pensare un bel po'. Ecco come nasce un mito che ha affascinato per più di un secolo. Ora è superato o meglio, quasi dimenticato. So che ne han tratto vari film. Non li ho visti. Penso comunque che, prima di vederli, o anche dopo, se il destino ci ha colti di sorpresa, sarebbe il caso di leggere questo libro che permetterà di partire dalla realtà per apprezzare meglio i sogni ad occhi aperti spesso gratificanti del cinema.

Sulla probabile difficoltà di trovarlo, come ho già accennato, non mi pronuncio. Non mi interessa e basta. Se siam capaci di dedicare pomeriggi e serate intere per vedere una partita a calcio o per scegliere un maglione, possiamo anche sobbarcarci la, per me piacevole fatica, di cercare un libro via internet, nei mercatini dell'usato e parlandone con gli amici. Se non lo si troverà si potranno attuare due strategie. La prima, mettere il titolo nella memoria del cervello e, perché no, nel telefonino; la seconda, inoltrare via e mail una nota all'editore nella quale si invita a ripubblicare l'opera. Mi risulta che, se ricevono un discreto numero di solleciti, diventano affettuosi e sensibili, come certe prostitute che, davanti alle grosse cifre, riescono ad far finta di amare in modo sorprendentemente vero.....

venerdì 13 maggio 2011

"La solitudine dei numeri primi",Lettura consigliatata (ma con beneficio d'inventario)

Rinnovo la premessa del blog. Parlo di qualcosa se, secondo me ne vale la pena. Parlar male è troppo facile e attualmente in Italia sembra uno sport nazionale.



“La solitudine dei numeri primi” è un pessimissimo romanzo. E allora perché decido di dedicargli comunque la vostra attenzione? Perché qualcosa di buono anzi, più che buono c'è ma è mascherato, massacrato in modo apparentemente inspiegabile. Questo testo rischia di essere percepito come qualcosa di simile a “Jack Frusciante ecc”, a “Volevo i pantaloni” e “Melissa P”. Questi tre titoli, che hanno fatto un successone, ma son delle robacce allo stato puro, son state concepite, secondo l'editoria, per un target di pubblico adolescente. I primi due hanno funzionato, commercialmente, in questo senso, il terzo è stato un must per i quarantenni arrapati che muoiono dalla voglia di vivere certe avventure erotiche e pensano che gli adolescenti di oggi facciano di tutto senza preoccupazioni; si ha quindi una generazione che ha vissuto la sessualità in un'epoca nella quale questa sottostava ancora a qualche regola e che pensa che i giovani attuali non ne abbiano e i tardoni nutriranno di quel testo, la loro fantasia. Bella idea quella di una minorenne che pubblica un'autobiografia presunta vera. Ve li immaginate i genitori che acconsentono? Mi vien men cheda ridere. Ovviamente c'è dietro dell'altro, dell'altro che non si può dire...



Il libro di Giordano secondo me è stato costruito in modo per nulla spontaneo e lui è stato forse obbligato. L'editoria spesso dice ai suoi schiavetti “o così o niente” e poiché il “niente” ha odor di denaro e potrebbe essere che l'esordiente ne abbia bisogno come l'aria, ecco che la robaccia nasce.



Ma qui qualcosa brilla! Ed è quasi perfetto....



Provate a leggere il secondo capitolo così, in modo indipendente dal resto! Vi accorgerete che è completamente “staccato” dal resto dell'opera. Non abbiamo bisogno di alcun dato presente negli altri capitoli e la conclusione, grandiosa, è buona così. Qualsiasi aggiunta la uccide, la banalizza.



Veniamo alla descrizione.

Abbiamo due gemelli, Mattia e Michela. Si scopre che Michela non è normale e non parla. Si assomigliano, ma il cervello è come se fosse scollegato. Mattia sarà suo compagno di classe e poiché nessuno vuol starle vicina, ci si metterà lui. Lui è anche l'unico che riesce a calmarla e qui la scena è bellissima, con quel dimenar le braccia che sembra un batter d'ali “come una falena in trappola”. Lui la abbraccia da dietro con dolcezza e le dice “ecco, non hai più le ali”; lei si calma e noi sentiamo una sintonia che ha una bellezza notevole. Il peso però è presente. La vita di Mattia potrà prendere il volo con quella sorella che di fatto, anche se è moralmente squallido ammetterlo, è pure un ostacolo? Lo capiremo con poche altre scene scritte in un linguaggio necessario e sufficiente, che non si atteggia e arriva al contenuto in un modo diretto, puro.



C'è la festa di compleanno di un compagno di classe. Mattia è finalmente invitato, e anche la sorella. Lui prova a chiedere alla madre “Michela deve proprio venirci alla festa?”, si aspetta una sberla, ma arriva solo una risposta: “certo che viene”.



Partono insieme. “Guardò la sorella che aveva i suoi stessi occhi, il suo stesso naso, il suo stesso colore di capelli e un cervello da buttare e per la prima volta provò un odio autentico”.

Ecco forse l'unico aspetto che mi permetto di criticare. Non era necessario esplicitare l'odio anche perché non esattamente di odio si tratta e comunque aleggia nell'aria quella tensione. È come girare in una puzza infernale e quello di fianco a te dice “ma che puzza!” Non ci sta. La sentiamo benissimo anche senza quelle parole....



Segue una frase perfettamente ambigua che ci introduce al comportamento negativo che si sta definendo: “Fu mentre attraversavano che gli venne un'idea. Lasciò la mano della sorella, coperta dal guantino di lana, e pensò che però non era giusto.”



Il lettore pensa che intenda causare un incidente, ma sentiamo che stona, che è troppo forte.

e “Poi, mentre costeggiavano il parco, cambiò idea un'altra volta e si convinse che non lo avrebbe mai scoperto nessuno”.



Capiamo ora che aveva pensato ad altro e ci troviamo nel freddo di un parco, e Miche la invita ad aspettare li, su quella panchina. Lei non ha il senso del tempo quindi non si renderà conto di nulla. Mattia va, la festa funziona e trovo buona anche l'idea del gioco con la benda nel quale tutti sanno che lui da sotto, vede e glielo fanno capire, ma ugualmente si impossessa delle caramelle supplementari che rappresentano il premio. Si tratta di un piccolo riscatto per quel che la vita non gli aveva dato fino a quel momento.



Ad un certo momento della festa decide di andare via. Non è ancora stata tagliata la torta ma l'immagine della sorella coi suoi guantini bianchi al freddo domina, in lui e va. Non la trova. Si fa buio e gira per il parco che sembra essere più grande di quanto immaginava (bella metafora del mondo).



Raggiunge un fiume “che taglia in due il parco”. Ricorda ora che “una volta papà li aveva portati sulla riva”, per insegnare a tirare i sassi in modo che rimbalzino sull'acqua. La sorella, nell'acqua ci era entrata perché ne era irresistibilmente attratta e il padre la fermò mentre avanzava.



Mattia comprende cos'è accaduto. Si siede sulla riva, trova un piccolo pezzo di vetro e se lo conficca e rigira ripetutamente nella mano.



Fine del racconto-capitolo



È una tragedia vera, verosimile e colossale. Ci vedo il malato terminale con i familiari, tanta gente con i loro “matti” che la società fa finta di considerare ma che te li trovi completamente sul groppone e poi non ce la fai più, la vita ti scappa via, il tempo sgocciola e non hai vissuto.



La Vita di Mattia inizia così, con un vero peccato originale. Qualsiasi concretizzazione di quella vita futura non può reggere alla sensazione che ci pervade quando quel capitolo si conclude. Non c'è più niente da dire. Si deve chiudere li, far due passi e pensare a cosa realmente è la vita, alle sue fortune, alle sue disgrazie che quando si presentano offrono sempre due soluzioni, una egoistica ma vitale, l'altra di sacrificio e insofferente.



E quanto è grandiosa l'idea della bambina che non parla, come un animale, e come questi è attratta dall'acqua. Un essere quindi, più naturale del fratello, più in sintonia col tutto che mi fa sentire la festa di compleanno, la socialità della classe, che li viene narrata, come qualcosa di degradato e individualista. Lei, la sorella, ci fa “sentire” quel che profondamente non siamo.

Il compagno che organizza la festa è egoista. I compagni di classe pure. In Natura si è così solo davanti alla fame. Per il resto si è “socievoli” e la sorella lo è, e si incanta a guardare particolari che invece son malattia per il nostro modo di vivere.



E la scrittura! Lo ripeto perché desidero che la osserviate, la soppesiate. Non c'è spazio per la tecnica. Non accadranno “robe” finte alla Gadda, alla Pasolini. “Non si scrive per dire qualcosa. Lo si fa solo se si ha qualcosa da dire “ scrisse Francis Scott Fitzgerald nei suoi taccuini. E questo Paolo Giordano lo ha fatto.



Ora. Ma cosa ci fa quell'altra robaccia li di fianco? Immaginate di vedere un quadro che è di van Gogh sul lato destro in alto e ci incanta, e per il resto è robaccia tirata li col secchio da mistificatori a buon mercato come Vedova, o bruciacchiato alla Burri!



È evidente che qualcosa di “storto” è accaduto. Forse con troppa fantasia, ho immaginato che davanti a questo racconto, Paolo Giordano sia stato invitato (costretto) a “tirarci dentro” e fare un romanzo. Perché può essere accaduto? Sempre di fantasia immagino quanto segue. Con un racconto che è dodici pagine e mezzo nell'attuale libro, e con un carattere grafico che se fosse più grande farebbe comprendere che lo si voleva “allungare” artificialmente, un libro proprio non lo si poteva fare. Come utilizzare un prodotto che comunque è stato riconosciuto per valido? Allungandolo.



Secondo me gli hanno pure proposto (imposto) di far vedere Mattia adolescente e non per esempio adulto o vecchio che “si gira indietro” e guarda il suo passato dopo quel personale “peccato originale”.



Non so spiegarmi diversamente il divario fra quel secondo capitolo e il resto.



Immaginiamo un concerto di Pino Daniele, col suo stile e le sue ben note capacità, e in esso Nino d'Angelo che interviene e canta le sue “robine” insulse.... un insulto a Pino Daniele e ai nostri orecchi. Il punto è che vi ho chiesto di immaginare un fatto quasi intollerabile ma...che è realmente accaduto. E com'è andato a finire? Che Nino d'Angelo ha raccolto insulti, pomodori e altre verdure che gli han gettato e ci ha fatto insalata per un anno. Ogni tanto la giustizia esiste....



Si tratta più o meno della medesima situazione.



Sapete come viene definito questo libro? Un long seller, ovvero un best seller che dura a long....



ma questa è una di quelle definizioni che rappresentano l'interesse appagato dell'editore e non del lettore! A noi cosa ci viene in tasca se un libro è long o brev seller! Un bel niente. Come al solito l'editoria cura i suoi interessi senza rispettare il lettore e, tanto per cambiare, lo scrittore, che non è mai libero quanto desidererebbe o quanto la creatività gli impone di esserlo, non sta meglio di noi.



Vi consiglio quindi di leggere solo il secondo capitolo e rileggerlo e rileggerlo perché penso che sia una delle “cose” più belle della letteratura italiana degli ultimi grami anni.

martedì 10 maggio 2011

come rimediare libri

Se dico “come rimediare libri” è perché comperare un libro deve essere l'azione conclusiva di un processo meditato. La domanda diviene quindi per ora la seguente: Perché si desidera possedere un libro”. Per comprenderla a fondo analizzo ora il verbo possedere che è fetentissimo e mette a nudo molte nostre malattie dell'anima. Non si pensi al significato che ci offre il vocabolario. Scaviamo un po' di più. Un esempio. “Si possiede in amore?”. No, mai. Si condivide. Possedere l'altro ha al primo impatto un significato sessuale che involgarisce immediatamente quel che si pensa o si spera dai sentimenti. In amore non si possiede, ma una giurisprudenza di origine religiosa e non solo, ereditata dagli antichi e ancora presente nel linguaggio ci fa dire “è mia moglie”, “è mio marito”, “è il mio ragazzo” ecc. Di fatto l'altro non è nostro e se consideriamo così il patner si finisce col massacrare un rapporto. Nemmeno me stesso è mio. Mi illudo che sia così, ma sia dal punto di vista legale che psicologico quante volte scopriamo noi stessi in una reazione che non avremmo mai pensato di avere e che misteriosamente è uscita e ben coordinata in parole e gesti? E poi, ero mio quando mi arrivò la cartolina per partire per fare il soldato? no. Ero di uno stato che dichiarava di vantare sulla mia persona un diritto che, se disatteso, mi sarebbe costato caro. Sono solo due esempi. Quel che mi interessa trasmettere è la sensazione che la vita ci fa comprendere qualcosa che è duro da ammettere. Si può possedere qualche oggetto, non c'è dubbio, e spesso, come per una casa, non è un possesso semplice, totale. Non si possiederà mai una persona, nemmeno se tornasse ad esistere la schiavitù, poiché in un angolo ben nascosto della sua mente, quello schiavo sarà indipendente da chi pensa di possederlo totalmente. E un cane è nostro? Ma quant'è brutto e insensato dire “il mio cane”! Un esempio chiaro lo si trova nella curiosa storia di Lump, il bassottino nero focato di Picasso. Questi apparteneva di fatto ad un fotografo giramondo che era sempre su e giù dagli aerei. Quando Lump, così si chiamava il bassottino, si ritrovò ad Antibes, a casa di un signore che viveva con una capra e altri interessantissimi animaletti, disponeva di un giardino intriso di odore di mare e sembrava poco propenso a prendere aerei quasi tutti i giorni, decise bene di nascondersi quando il suo “padrone” si accinse a togliere il disturbo, dopo qualche ora di chiacchiere. Lo cercarono ma non si fece trovare. Picasso gli disse “te lo prendi la prossima volta che vieni” e così il “padrone” se ne andò solo. Tornò, ma Lump si nascose finché si decise che avrebbe vissuto col Pittore che nel frattempo ne era stato letteralmente conquistato al punto da dedicargli una serie di opere.

Può bastare questa storiella?



Possedere è anche una esigenza indotta. Noi non sappiamo nulla di un certo shampoo rigenerante che fa bene alla circolazione, rilassa, tonifica e chissà cos'altro. Interviene quel demone che è la pubblicità ed ecco che “vogliamo” quel prodotto anche se, con ogni evidenza gli attributi che gli son stati dati dal venditore, son men che ridicoli. Va così. La pubblicità è invadente e fastidiosa. Il suo compito moralmente tollerabile sarebbe quello di informare coscienziosamente su nuovi prodotti dotati effettivamente di certe caratteristiche. Ma esiste un ente affidabile che controlla? no. Esiste la possibilità di difendersi da questo eccesso di stimoli visivi e uditivi spesso sommati? no. L'unica possibilità è insita involontariamente nel nostro cervello. L'eccesso di informazione porta ad uno stress che viene automaticamente risolto con una curiosa disattivazione dei sensi. Accade comunque che molte persone non si rendano conto di aver la vita riempita da sollecitazioni assolutamente secondarie e non necessarie, e percepiscono, nella reazione non meditata a queste, la loro vita come viva e piena. Diventano invece degli “acquistatori” emotivi, (quel che viene espresso di solito con il termine shopping compulsivo). Ma pieno, impropriamente riempito è il nostro tempo, non certo l'esistenza....



Ci si può rendere conto ora di quanto sia malamente influenzato l'atto del tentare di possedere?

Il libro per esempio va per prima cosa letto. Il suo possesso può acquisire un senso solo dopo un processo che si dovrebbe attuare gradualmente in noi e che fra poco spiegherò

mi si permetta prima un parallelo che mette in luce le conseguenze sgradevoli di un agire da acquistatore emotivo. Pensate al vostro armadio di vestiti o alla vostra scarpiera. Quante cose avete comperato e non vi servivano e prova ne è che le avete indossate un paio di volte o anche meno?



E com'è potuto accadere? Semplice, non vi siete controllati. Vi piaceva e avete ceduto ad un impulso superficiale. Impulso mai sazio, e infatti vi è molto difficile tornare a casa a mani vuote dopo una passeggiata in centro. Comperare non appaga se non nel momento dell'acquisto. La scarica di qualche sordido liquido nel cervello è della medesima natura di quella del giocatore d'azzardo e, non lo dico per inorridirvi, è scientificamente dimostrato, del maniaco sessuale. Si parlava prima, di essere in possesso almeno di se stessi.... ed ecco che si scopre che anche per un'operazione semplice come un acquisto, le variabili che ci dominano non sono quasi mai nostre. Ebbene, almeno per i libri proviamoci.



Domandona: “perché si compera un libro?” cos'ha di sano, di coerente il suo possesso? Si sa che non basta possederlo per averlo compreso. In più quasi sempre lo leggiamo una volta sola. Il libro panino.... e poi, che ci fa in casa un libro che eventualmente, se ci pensiamo un attimo, sappiamo bene che non apriremo più? Secondo me ci allontana sempre più da quei pochi libri che veramente amiamo. Mi fanno ridere quelle persone che dicono di amare i libri solo perché ne hanno una quantità notevole. Il possesso non fa l'amore per il patner come non lo fa per il libro. È talmente evidente! Uno dei punti chiave è il seguente. Vantarsi della casa piena di libri dà di noi l'immagine della persona intellettuale, che legge, che pensa. Equazione ridicola: tanti libri uguale tanta testa e di conseguenza, sensibilità, autorità e stronzatine varie. Accade poi anche che li comperiamo convinti che li leggeremo in futuro quando ci basta meditare un attimo per constatare che non sarà così, testimoni fra le altre cose, i libri che non abbiamo letto e che si impolverano sulla libreria di casa.



Esiste poi un altro fattore più ridicolo che mai e lo spiego con un esempio. Incontrai Umberto Eco e gli feci i complimenti per “Baudolino”. Non era leccaculismo d'altura. Mi era piaciuto veramente. In presenza di altre persone mi disse che non mi credeva perché lui non ha lettori. “I miei libri vanno di moda e si devono esibire sul tavolino del salotto o in altre posizioni ben visibili!” Lo invitai ad interrogarmi e mi chiese come si chiamava il cavallo del padre del protagonis...non aveva finito la domanda che avevo già risposto. “Pagnufli, un nome che fa sentire tutto l'affetto che riceveva”. A questo punto mi strinse la mano con un fare misto fra l'ironia e la serietà e mi fece alcune domande perché non si deve mai dimenticare che se il lettore è curioso dell'autore quest'ultimo sbava dalla curiosità di sapere quel che ha colto un Lettore non qualsiasi ma con la elle maiuscola .

La moda quindi la fa da padrona non solo nella scelta dei vestiti. Esiste poi una frase magica che fa preferire quasi sempre un oggetto ad un altro e i libri non si salvano da essa: “è nuovo”. Quindi Faletti batte anche Virgilio.....

Questa considerazione, “è nuovo”, che fa comunque parte della moda, non era esattamente quella che colpiva per esempio Umberto Eco. Per lui, la schiavitù della banalità aveva scelto una via più assurda: quella politica. Come una persona di sinistra non può non amare e quindi vedere i film di Moretti, così non poteva (attualmente non so), no dichiarare di stimare Eco. E questo accade perché in Italia abbiamo tuttora una sinistratissima sinistra che occupa i posti della cultura non praticandola quasi mai. E non si pensi, dopo questa considerazione, che sono di destra, del centro, cordigliere, laburista papista o milanista. Non mi interessa la politica, posso dire che la odio e la temo e non sopporto quando mette le sue luride zampacce in settori che non possono non uscirne inlordati. Che la destra si sia impossessata di Ezra Pound è di una stupidità abissale. Pound è geniale in sé e basta e nel frattempo questa destra non ha mai colto la bravura di Alessandro Pavolini in “Scomparsa d'Angela”. La destra, non potendo reclutare vivi decenti, si impossessa dei morti che indifesi si ribaltano nella tomba indignati. La sinistra invece, crea idoli vuoti che vengono creduti non in quanto validi ma per la pressante presenza alla quale il pubblico viene sottoposto con i mass media. Se è vero che non ci si abitua a tutto, è comunque fuor di discussione che ci si abitua a quanto non ci interessa eccessivamente ed ecco che un autore di sinistra diventa un'emanazione sonora e un volto che è meglio riconoscere perché a poco prezzo si farà la figura degli intellettuali.

Vedete quanto è complesso e oserei dire quasi impossibile essere un lettore libero, veramente libero?


Torniamo a noi. Il libro, è importante prima di tutto, leggerlo. Se ci ha colpito profondamente allora merita di essere riletto e di conseguenza di essere comperato. Come si fa per leggerlo senza comperarlo? si va in biblioteca o si chiede agli amici. Un altro canale che amo è l'acquisto nei mercatini dell'usato. Mi si potrebbe criticare che questo è un comprare e dico che è vero, ma i prezzi talmente bassi che ci si trovano, ho pagato certe cosine interessantissime meno di un caffè, annullano l'aspetto triste dell'acquisto emotivo.


A questo punto si legge. Se non ci piace lo si restituisce al mittente (vale anche per i mercatini).

Una volta, fino alla fine del secondo dopoguerra e poi ancora per qualche annetto, non ci si ritrovava come oggi che un libro lo si compera in poche parole “a scatola chiusa”. Dei critici pagati per parlar bene, parlano bene, la pubblicità pone fascette, e poi madagliette che son premi letterari, ma è solo roba che luccica e che attira l'occhio sul prodotto che ti vogliono rifilare. I libri che vincono i premi sono i migliori? Così come nel cinema i film che vincono gli Oscar i festival di Cannes, Venezia e Berlino, sono “sicuri”, garantiti come livello qualitativo? Oggi come oggi proprio no...

Una volta, non tanto tempo fa, chi scriveva si rivolgeva a quotidiani e riviste, da Dickens a Kipling a Mussolini, accadeva che si iniziasse così. Se poi quelle cosine a puntate piacevano, ecco l'editore che si rivolgeva al prodotto già testato dal quotidiano per essere più sicuro di non rimetterci. È vero che si poteva inviare un dattiloscritto all'editore, ma erano casi rari quelli che finivano bene e ben raccomandati, come un certo Fitzgerald che dice al suo editore che “Per chi suona la campana” merita”, oppure eccezioni assolute come quella della Nemirovsky con l'editore Grasset (ne parlerò in seguito). La via solita e preferita anche dagli scrittori era il giornale o la rivista poiché ci scappava anche un piccolo guadagno che permetteva di arrivare a fine mese. Accadeva poi che anche un autore già affermato avrebbe inviato le sue opere ai giornali e non solo perché così si attuava un canale di guadagno aggiuntivo che precedeva il contratto con l'editore.

E oggi come va? A scatola chiusa appunto. Anche per il cinema accade. Un provino striminzito che raccoglie a volte le uniche scene passabili e quando si esce dal cinema non si è per nulla appagati.

Accade così che gli unici dati affidabili per la scelta di una lettura, sono i consigli di pochi amici fidati. Una miseria. E come esito accade che il novantanove per cento delle volte, se siamo lettori che attivano oltre ai sensi anche una qualche briciola di pensiero, siamo delusi.

Il bello è che l'editoria cerca di inventarsi strategie per incrementare le vendite, ma si è fossilizzata su metodi di marketing che non fanno alcuna differenza fra la promozione di un pannolino o un testo letterario.

Ora. Abbiamo letto un libro reperito in biblio o prestato o acquistato a prezzi stracciati al mercatino; ci è piaciuto e scatta l'intenzione di rileggerlo. A questo punto ha senso comperarlo!




E si tenga conto che non basta il fatto che ci sia piaciuto. Un giallo per esempio, una volta che ha rivelato l'assassino è come un regalo già scartato a meno che non sia scritto bene come per esempio accade con “Dieci piccoli indiani” della Christie o qualche indagine del Maigret di Simenon.

Io ho pochi libri in casa, pochi ovviamente se si relaziona il dato con il mio ritmo di lettura, e quando un libro mi fa proprio ribrezzo mi capita anche di “donarlo” al bidone delle immondizie.

Tengo e rispetto solo ciò che amo.