venerdì 26 febbraio 2016

Bianca (racconto di Liliana Casadei con un secondo finale di we


BIANCA

Di Liliana Casadei

Ricordo che ero stanca quella sera, di una stanchezza ingestibile. Dormii per tutto il tempo che il treno impiegò per arrivare ad Modena.
Il treno di mezzanotte.
Quanto tempo dall'ultima volta in cui ci ero salita! Immagino spesso una situazione surreale ... certi treni rimangono fermi ad aspettarti. Sanno che tornerai e non se ne vanno.

Ero salita con un po' di anticipo sulla partenza e il sonno mi aveva completamente annebbiato.
Mi svegliai poco prima della stazione d'arrivo, per caso.
Misi in fretta la giacca, raccolsi le mie cose buttandole alla rinfusa dentro la borsa e,
avviandomi all'uscita sentii una voce chiamarmi.
Mi girai, ancora mezzo addormentata. Una ragazza bassa coi capelli ricci, di un rosso che sembrava bordeaux, mi stava chiamando.
"Mi aiuti a scendere dal treno?"
Feci cenno di sì, notando nei suoi occhi una specie di disperazione benevola.
Mi fece sentire indispensabile, in quell'attimo.
Pensai quindi che fosse inevitabile prestarle soccorso.
Scendemmo a braccetto e notai immediatamente un difetto nel piede destro.
Lo teneva arcuato su un lato e non riusciva ad appoggiarlo.
Una volta toccato terra, mi chiese di proseguire e di accompagnarla fino alle scale. Non esitai. Non avevo altra scelta.
La richiesta di aiuto continuò fin sulla strada e poi ancora.
Percorsi a braccetto con quella ragazza tutto il tragitto che la conduceva a casa.
Non la abbandonai.
Mentre si procedeva, assai lentamente, le dissi solo che ero stanca e le domandai quanto distasse il punto d'arrivo.
Non distava molto.
Non mi guardava in faccia. La sua timidezza si scontrava con quella sfacciata richiesta di aiuto.
Mi nominò sua madre.
Mi disse che era anziana e che la stava aspettando a casa.
Era una bella immagine ... per una fredda sera di dicembre.

La salutai.

Ritornai a Bologna dopo qualche settimana. Primo vagone. C'era lei. Vidi i suoi lunghi capelli rossi, ma finsi di non averla notata.
Mi misi a sedere qualche sedile poco più in là.
Parlavo al telefono.

E poi di nuovo mi chiese quell'aiuto, come se non ci fosse nessun altro a cui rivolgersi.
Finsi disinvoltura nell'accettarlo, ma stavo fingendo.
Avrei voluto andare via subito, di corsa, come forse avrebbe fatto chiunque.
Correre in macchina e scappare via. A casa. In qualunque posto. Non più lì. Ma dormire, credo.
La condussi di nuovo fino a casa, dimenticando la stanchezza della volta precedente. Pensai che fosse fin troppo vicina la sua abitazione per negarle quell'aiuto. Provai biasimo per la mia pigrizia. Scherzammo. Notai dello strabismo nel suo sguardo.
Non c'era vergogna in lei, ma la piena accettazione della sua condizione.

E poi per più di un mese non presi più il treno di mezzanotte e mezza, in partenza dal binario 14 della stazione di Bologna.

Accade una terza volta.
Decisa, quasi crudelmente, a non sedermi nel primo vagone dove di certo l'avrei trovata, mi allontanai dalla testa del treno.
Ero certa che qualcuno si sarebbe preso cura di lei, e con questa scusa che era acqua sporca, lavavo la coscienza.
In fondo, come faceva ogni sera in cui io non c'ero?
Non potevo caricarmi di quella responsabilità. Il suo dolore non apparteneva a me e iniziavo a credere che appartenesse ad ognuno come un dono ed un fardello, da cui nessuno avrebbe potuto salvare l'altro.
Era il gioco della vita. E nel frattempo questi ragionamenti da filosofa da due soldi mi facevano sentire superficiale.
L'avrei evitata senza far notare la mia presenza e per tutto il tragitto mi dimenticai, o finsi di dimenticare, della rossa del primo vagone.

Una volta scesa. Percorsi i pochi passi che mi dividevano dal sottopassaggio. Scesi velocemente le scale ... ed eccola. Ferma in cima alla rampa opposta che chiedeva aiuto. La diffidenza delle persone, abili nel fuggire dalla sconosciuta aggrappata alla ringhiera, mi spinsero a correrle incontro.
"Ci conosciamo già." le dissi
Lei rise, perché mi aveva riconosciuto.
Sentendola aggrappata al mio braccio, ancora, per la terza volta, ebbi in un lampo la sensazione di conoscerla bene.
Mi guardò e rise.
Le chiesi che ci faceva sempre a quell'ora sul treno.
Mi disse che lavorava per una rivista e che si occupava della rubrica dedicata al cinema.
La cosa mi incuriosì e il dialogo scivolò da solo, su tutti i film appena visti al cinema.
Li aveva visti tutti!
Su uno in particolare ci soffermammo. Il film raccontava della storia d'amore tra un professore universitario e una sua allieva fuoricorso.
Mi confessò di essere stata colpita da quella trama personalmente per aver vissuto una situazione simile in cui però, il professore si era rifiutato di cedere alla passione per una sorta di conformità alla professione. Mi disse che spesso quegli innamoramenti nascono dalla difficoltà di elaborare eventi del passato, spesso legati a problematiche familiari. Nel film era così e pensai che lo fosse anche per lei, ma che fosse stata meno fortunata della bella protagonista, poiché il professore non aveva ricambiato quel sentimento.
E poi mi stupì.
Mi stupiva sempre. Lo aveva fatto fin dall'inizio.
Quel professore era attualmente il suo fidanzato, ma quel rifiuto iniziale l'aveva obbligata ad affrontare i vecchi fantasmi per vivere quella relazione come tale e non come una sorta di compensazione. Decisi di crederle. Perché non avrei dovuto? Cosa c'è di più bello della verità degli sconosciuti? Non ti devono nulla e tu non devi nulla a loro.
Camminammo e mi parlò di psicologia, di una cena accaduta a Bologna quella sera stessa e di un incontro casuale fatto fuori dal ristorante.
Camminammo e mi piacque tanto ascoltarla.
Era fine febbraio e l'inverno sembrava aver ceduto il passo precocemente alla primavera, ammaliando alberi e bulbi.

La salutai come si saluta una persona che si conosce, ma di cui si deve ammettere a se stessi che non si sa molto.
Me ne andai pensando di averle portato via qualcosa e questa sensazione mi sfuggiva, e di essere un po' meno sconosciute.
Di me non le avevo detto nulla, perché ... di me non dico quasi mai nulla.

Il giorno dopo cercai la rivista. Non trovai nessuna rubrica sul cinema. Si trattava di una guida al benessere. Sperai di avere capito male il nome e stavo già dubitando delle parole di una donna che, mio malgrado, non era più una sconosciuta.

Mi aveva detto di essere nata sotto il segno dell'ariete e di avere quarant'anni.
Salutandola avrei voluto sapere il suo nome per ostentare quella familiarità che, di lì a poco avrei certamente detestato.
Decisi di chiamarla Bianca.

Bianca e il suo fidanzato professore, la madre a casa ad aspettarla ogni sera, una rivista inesistente, un piede fallato e l'abitudine, certa come tutte le abitudini, di tornare col treno di mezzanotte e mezza al binario 14 della stazione di Bologna.


Liliana Casadei ha scritto questo racconto. Me l'ha inviato via mail e mi ha chiesto cosa ne penso. Lo trovo buono lo considero la "cosa" migliore che ha scritto.
Gliel'ho detto e poi le ho consigliato di meditarci sopra. I motivi sono due; primo, nonostante descriva qualcosa che è realmente accaduto, se la sua mente lo ha così accuratamente selezionato è perché si tratta di un frutto che l'inconscio ama far suo. Contiene quindi immagini che rappresentano l'io di Liliana e, continuando ad agire sul testo, che comunque potrebbe essere considerato concluso, la matrice inconscia potrebbe diventare non razionale, che equivale alla morte del simbolo, alla sua anestesia, ma intuitivamente compresa. Si ricordi che una autopsia viene eseguita su un corpo senza vita. Quello non è un essere umano ma il corpo di un essere umano. Manca la vita, manca un qualcosa di importantissimo. E così è per i simboli. Non li deve smontare la razionalità, mancherebbe in essi la vita. Devono essere intuiti, non c'è altra soluzione. E perché va fatto? Perché l'io profondo, quello vero, attaccato con le sue radici immortali alla natura ... alla divinità, contiene quel che veramente siamo e quindi la nostra indole, la tendenza esistenziale. Se comprendo allora saprò qual'è la direzione da prendere nella vita.

Secondo punto. Mi piace considerare non conclusa un'idea. É una buona ginnastica per la fantasia ma aiuta anche ad intuire il senso.

Con Tonino guerra questo "gioco" lo si faceva spessissimo. Due esempi sono contenuti nel blog; selezionare anno 2013 e si troverà il post <Tonino Guerra e We "Il Gigante">, un altro è il racconto "Anatroche" che mi sembra di non avere ancora bloggato.

Ho fatto presente a Liliana che sarebbe interessante se pensasse a delle variazioni. Mi ha risposto che non dovrebbe essere difficile poiché dovrà prendere ancora quel treno, e io ho risposto che certo, va bene così, ma deve pensare, immaginare, anche senza questa opportunità che soffre del peso di una eccessiva concretezza.

Nel frattempo ho elaborato un finale. Mentre glielo dico vedo la sua reazione ... colpita al cuore ... al cuore del simbolo. Un sguardo dilatato alla descrizione dell'ultima scena, pelle d'oca sulle braccia. Quindi la via è quella giusta. Ha capito; ora sta a lei, poiché per un artista il meccanismo è sempre il seguente: le prime opere rivelano l'autore a se stesso, la consapevolezza graduale dell'io profondo, porta al capolavoro, entità rarissima che nel novecento "sento" in Kafka, Fitzgerald, Papini, Pound, Proust, Bulgakov e pochi altri. Quel che è difficile è tollerare, resistere alla numinosità, alla potenza dell'emanazione dell'io profondo. La tensione psichica è talmente forte che se ne esce esausti, spenti, consumati. E chi ha provato quella sensazione, questa specie di amplesso nel quale divento Dioniso che riesce ad amare, a possedere Diana, chi ha provato una volta, non cerca altro ... perché altro non esiste.

Ecco ora il finale mio per Liliana:






BIANCA

Finale di we

Che notte. Niente sonno e la mente che deraglia continuamente. Non un pensiero che si annodi ad un altro, non una parola, che scelgo attentamente, che si trasformi in qualcosa di più di una parola. Decido di uscire, è tardi e non so che fare. É sereno. Tutto bello, ma una bellezza che non mi sfiora. Decido allora di fingere di scendere da quel treno di mezzanotte e mezza. Manca un'ora, Parlare con Bianca mi sembra necessario anche se niente di lei mi è certo, a partire dal nome.

Ecco il treno immaginario, salgo e riscendo da un altro vagone come se fossi una viaggiatrice vera.
Ma bianca non c'è ...penso alla magia del numero tre. Tre volte l'ho vista. Oggi niente, e me ne torno a casa delusa perché, affidandomi all'abitudine avevo deciso che quel che era accaduto consecutivamente tre volte doveva accadere ancora. É la scienza che commette questo errore, lo so, ma qui non si tratta di scienza, siamo oltre, sono io che sono in corto circuito. È qualcosa di più vero della scienza.

Seconda sera consecutiva. La mente non va come ieri. Giro a vuoto. É come se fosse accaduto qualcosa che, per il fatto di non essere stata compresa, avesse deciso di affliggermi con questo disorientamento.

Torno in stazione. Niente finto ritorno stasera. La luna è metallica, quasi finta e io sono li, appoggiata al muro che guardo la gente scendere dal treno di mezzanotte e mezza. Bianca non c'è. Non so spiegare il perché ma so che è giusto così.
Torno a casa e mi sento masticata da una sensazione che non è solitudine. No, è qualcosa di più umido, fangoso, sporcante, e sotto ci sono io che non riesco a capire.

Terza notte. La mente in equilibrio sulle punte cade continuamente, e il pubblico che immagino nella mente, sembra essere venuto solo perché quelle cadute piacciono. Ma non soddisfano me, che cado ripetutamente su un palcoscenico polveroso. Sudo per lo sforzo e per il disagio e quindi sono un disastro di polvere che mi si attacca addosso e non mi sopporto più. Il palcoscenico però non ha porte e io sono io e sono appunto la notte. Non so come uscirne e, fra una disperata acrobazia e l'altra, osservo se fra il pubblico, così serio e attento e che compostamente applaude ad ogni caduta, non ci sia un posto libero nel quale rifugiarmi. Ma non c'è e non ha senso, non so perché ma non ha senso. Sono in ballo e devo ballare. Tocca a me e l'unica via d'uscita sembra possibile se riuscirò a stare sulle punte, a comprendere questa danza. Ma se c'è danza c'è musica! Ecco ... nella tensione del cadere e rialzarsi, nel disgusto della sporcizia che mi si accumula addosso, non ho sentito. Devo ascoltare ... e continuare a cadere. Si. Ecco, c'è, ora la sento. Non colgo il ritmo e se non c'è ritmo non è musica ma rumore. Poi mi risveglio da questa visione e comprendo che qualcosa si è mosso in me. Dalla parola equilibrio che mi sono offerta per sfuggire al niente della mente, è sorta la danza orrenda, poi la caduta, poi il sudore e lo sporco, poi il teatro col palcoscenico nero e senza porte, e il pubblico ... e il rumore non udito per disperazione che pian piano si fa musica.

Non chiedo più niente a me stessa, osservo il corpo che si lascia vestire dalle mie mani, e accade con una insolita attenzione ai particolari. Il corpo esce, lo seguo e io sono dentro di lui. So già che andrà in stazione ma non capisco. Ed ecco la luna piena, che ieri ne mancava una fettina, ed ecco il treno misteriosamente bianchissimo. Sono appoggiata al corrimano, osservo la gente che scende e di una, non comprendo ancora se maschio o femmina, vedo un'aura sottile e luminosa del medesimo bianco del treno ... e dalla mia bocca, che ora è finalmente mia, sento chiedere senza umiltà ... finalmente, senza angoscia, senza più paura

"portami a casa ... per favore ... andiamo a casa".