sabato 29 dicembre 2018

Matteo Fantozzi detto Fant


Matteo Fantozzi....

diplomatosi lo scorso giugno (2018) in un liceo della penisola italica, ora sguazza nella palustre e nebbiosa accademia di belle (belle?) arti di Bologna. si lamenta. Mi dice "almeno all'ultimo anno di liceo con qualche prof c'era un dialogo" ...

E ripenso ad una sua opera che da molto mi gira fra nervi e mente:
questo viso .... sovrappensiero lo stava realizzando con la tavoletta grafica al pc. Gli chiedo "hai litigato con la ragazza?" 
F: "si ... chi te lo ha detto?"
io: "tu da quell'immagine ... è conclusa o ci devi lavorare ancora?"
F: "non è conclusa, ma non mi viene da aggiungere altro ..."
io: "allora vuol dire che quel che ti premeva mettere nell'opera è già presente ... il non finito spesso è non finito solo per gli esseri semplicemente razionale, che poi sarebbero coloro che negano l'esistenza di una parte inconscia in noi che comunque ci guida e ci rivela a noi stessi. da quell'inconscio spesso riceviamo messaggi importanti ... ti racconto un fatterello ... ero in università. come sai iniziai per motivi pecuniarii a 29 anni ... capitò che a lezione, in una bella aula legnosa a forma di anfiteatro, sempre, una graziosa donzella si sedesse vicino a me e appoggiasse il braccio sulla mia spalla e cosette simili. Io mi illusi immediatamente ... pensai piaccio! e poi un sogno mi fece comprendere qualcosa. lei aveva testa di serpente, un serpente nero, e mai nel sogno mi guardava negli occhi. Mi sveglio e vado a lezione. sono sconcertato. Attesi in disparte ... di solito entravo fra i primi per accaparrarmi un posto in prima fila per sentire meglio. Lei entrò e si sedette vicino ad un altro . Con lui utilizzò il medesimo comportamento che teneva con me. Non mi vide entrare e la osservai da lontano. dopo un paio di volte compresi. Era interessata solo agli appunti. Quell'altro studente prescelto e io avevamo in comune  ... solo la nitidezza degli appunti. Ecco Matteo cosa si può ottenere da un'opera, poiché un sogno in fondo è un'opera nostra nella quale l'io al completo quindi conscio e inconscio, rivelano te a te stesso ... se ti impegnerai a studiare ... la tua opera"
F: " e qui cosa ci vedi?"
io: "dimmi prima se secondo te veramente non ti viene più da aggiungere altro"
F: "sono fermo ... non riesco a proseguire"
IO: "e allora non devi. vuol dire che, come immaginavo, vi è già tutto. vedi ... spesso ci facciamo sopraffare dalla razionalità, da un certo senso del pudore, chiamiamolo così, e davanti ad un non finito, forse per dovere estetico o chissà che altro ... tendiamo a concludere, ma se non abbiamo più niente da dire, quel che aggiungerai diventerà una fastidiosa incrostazione. i capelli per esempio. quella massa scura così poco definita ... è sufficiente così, perché di quel particolare il senso profondo che viene fuori, non ha alcun bisogno. ora guarda ...

quegli occhi ... sono diversi. uno guarda e l'altro quasi glauco, incompiuto, sembra nemmeno altrove ... un mistero, ma la somma di quei due occhi crea il mostro. si farebbe così uno zombie ...
ora ...

le ombre sotto il naso e sotto il labbro inferiore ... la forma del naso e del mento ... te le ho viste fare in un attimo ... questo vuol dire che hai una mano felice nel senso che oltre a saper fare è direttamente collegata con l'inconscio ... ogni tanto la mano dall'inconscio disegna ... e l'emotività, che spesso domina l'arte attuale insieme all'intellettualismo, giocattolo necessario per chi vorrebbe essere artista ma non sa lasciarsi andare ... e ... dicevo, l'emotività e l'intellettualismo, disarmati giacciono inermi. Nel loro silenzio, dovuto al fatto che non sanno comprendere quel che bolle nel profondo ... nel loro silenzio ecco che tu puoi osservare e udire la mano dell'inconscio che prende la tua mano e la guida. 
ecco che ti riveli a te stesso ...
Quella crepa ... pensaci. Quella crepa si è creata perché lei ha urlato. Lei è andata oltre la normalità e il suo viso si è crepato ... quindi crollerà perché urlerà ancora. 
Sommaci i due occhi diversi, e la sensazione sgradevole di potenziale aggressività che rivelano ... non è la prima volta che si arrabbia ... e il tuo io profondo ti dice che sarà lei a crollare, non tu .... forse perché del motivo delle sue esplosioni non ti senti responsabile ..."
F: "è gelosissima ..."
io: "un poò di gelosia fa bene all'amore, è erotismo, possesso, gioco ... ma se è in eccesso rappresenta una instabilità, un problema in lei che non è detto che tu possa risolvere nemmeno con la massima dedizione .... "
F: "si ... è così ... è da un po' che cerco di rispettare tutte le sue regole, ma aumentano e lei ..."
io: "e lei si riempie di crepe e tu ti senti impotente ...
hai capito ora cos'è l'arte? tu puoi girare solo attorno al tuo io e una parte di esso non lo conosci. Pochi, Kafka, Fitzgerald, Bulgakov, Bacon ecc, sono arrivati ad una elevatissima consapevolezza del loro io e di dove tendesse la loro esistenza. Io penso che l'arte attuale non sia altro che questo. Comprendere se stessi attraverso l'opera ... e l'opera la facciamo, sentiamo l'esigenza assoluta di farla, proprio perché desideriamo comprendere in noi. 
Che sia una relazione esterna, come in questo caso a rivelare qualcosa, può accadere, anche il mio sogno/racconto te lo dimostra. Il risultato maggiore comunque è quando l'io si rivela a se stesso senza l'ausilio del mondo esterno. Ti faccio un esempio: leggi "il cacciatore Gracco" di Kafka. Non sembra ma è tutto semplice, tremendamente semplice. non è semplicemente un'idea originale ...
Un cacciatore, cacciando nella selva nera, muore cadendo dalle rocce mentre insegue un cervo. mette l'abito bianco e sale sulla barca dei morti che però sbaglia strada e quindi è destinata a vagare nel mondo, fra i vivi. La lettura inizia a Riva del Garda. La barca arriva, la salma viene prelevata dalla barca appena ormeggiata e portata nella casa del sindaco della cittadina. Dialogano e il lettore razionale va in corto circuito, mentre quello compulsivo commerciale apprezza l'idea e il piccolo pugno allo stomaco che spesso prova ma ..... ecco cosa c'è dietro. Kafka scopre di essere irrimediabilmente malato ... è fra i vivi quindi, ma è come se fosse morto. Chi sa che deve morire non è più vivo come gli altri... non so se mi spiego ... ecco la sensazione che prova chi ha appena saputo dallo specialista che gli rimangono pochi mesi da vivere ... vivere ... non è più vita. Immediatamente comprendi che il possesso degli oggetti per esempio, attività nella quale ci siamo accaniti per anni, non ha più alcun senso ... e comprendiamo che di fatto ne ha solo se si è eterni ... eccetera eccetera eccetara. Kafka quindi ha potuto decifrare uno stato d'animo che forse si rivelò al primo impatto come una angoscia insopportabile ... poi l'angoscia ... Angst ... divenne parole e comprendendo mi si potrebbe dire che in fondo non cambia nulla, ma non è vero. In barba alla razionalità ... quando confidi un dolore ad un amico, non ad uno psicologo, questi volgari amici a pagamento ... quando ti confidi con un amico ecco che stai meglio. é come se il peso ora lo si reggesse in due ... per un vero artista scrivere, dipingere, comporre, ovvero creare un oggetto che contiene il dolore, equivale ad allontanarlo almeno per un po', a trasferirlo. Come le pastiglie per il mal di testa l'effetto è limitato, è vero, ma almeno qualche attimo, di più all'uomo non né concesso, la leggerezza torna insostenibile a guidarci. 
Ritengo comunque che la grande consapevolezza che "sento" ne "Bartleby lo scrivano", ne "Il cacciatore Gracco", "La morte della Pizia", "Come le mosche d"autunno", "La tragedia dell'infanzia", "Parliamo tanto di me", "il Maestro e Margherita", "La morte e la fanciulla" nell'andante, La scena finale sulla spiaggia di Mastrojanni con la adolescente ne "La dolce vita", tutto Tarkovskij, la Kreisleriana di Schumann, lo studio op 8 n 12 eccetera, ritengo che la grande consapevolezza che queste opere e non solo queste rivelano, donino ai loro creatori una tranquillità, una sintonia col tutto che rende la morte, l'estremo tuffo come un evento fra tanti. Un io forte non sente il timore di disgregarsi davanti per esempio al fatto che il corpo si dimetta. c'è una sensazione di eternità in premio a chi umilmente ha rinunciato alla corsa delle glorie mondane e, cercando di comprendere se stesso, con umiltà rinuncia a se stesso.
In fondo tutte le religioni lo enunciano se rinunci al tuo io non ti annulli ma diventi parte del tutto ... l'arte è quindi la nostra religione individuale e come per il miracolo è inspiegabile. Pensaci ... se ora ti accadesse qualcosa di incredibile, ne usciresti cambiato ... ovviamente lo racconteresti ma nessuno ti crederebbe. Il miracolo cambia solo chi lo vive in prima persona ... e l'arte, quella vera, è il miracolo dell'io che nella consapevolezza totale ... assai difficile da raggiungere come la santità nel cristianesimo, 
e nella consapevolezza totale di te ... ecco che a te stesso puoi rinunciare perché per te sei diventato evidente, semplice, un limite, e solo nell'andare oltre l'io continuerai ad esistere."

Molte di queste cose non le dissi a Matteo. 
Gliele consegno ora sulla carta come attestato di stima. raramente vale la pena parlare con qualcuno ma tu, Matteo, sei un talento e vivi in un'epoca nella quale esserlo non interessa che a pochissimi che incontrerai raramente ....
Ma serve a te ... E' comunque vero che serve anche al mondo ... ma ora, nella mediocre quotidianità hai altro a cui pensare ....





lunedì 2 luglio 2018

L'opera di Luciano Ventrone



Mercoledì 20 giugno del 2018 su “La Stampa” è apparso un dibattito secondo me interessante. Sembra che l'opera del pittore Luciano Ventrone dia molto fastidio e il giornalista Maurizio Assalto. Dopo aver presentato la natura della polemica, affida la parola a due personaggi; Francesco Bonami, qualificato come critico d'arte e Vittorio Sgarbi definito, critico e storico dell'arte. Premesso che non mi interessano le etichette, non m'incutono alcun rispetto … (si possono comprare... e ognuno di noi non esaurisce il suo io in esse ...) veniamo ai fatti.

Prefazione di Maurizio Assalto
Titolo in neretto: “Se questa è arte”.
Domanda lecita … trovo comunque che il titolo sia triste poiché fa il verso a “Se questo è un uomo”, opera per me sacra, espressione di un dolore infinito, inestinguibile, che non può essere spesa così a buon mercato.
Il brano inizia chiedendosi che ne è dell'arte ora che, nell'era della riproducibilità tecnica ha perso la sua aura. Assalto cita, e nomina chiaramente, Walter Benjamin e il suo testo del 1930. Si sappia che chiunque sfiori anche minimamente l'arte del novecento viene costretto a questa lettura, pena l'esclusione dai dialoghi da salotto, e considerato ignorante. Non si tratta solo di averlo letto, quel libro. Si deve anche essere d'accordo … e io non sono d'accordo con Benjamin. L'era della riproducibilità per esempio non è cosa del novecento; è iniziata secoli fa. Quando Raffaello dipinse la “Madonna del Popolo”, immediatamente Marcantonio Raimondi produsse delle incisioni. Al Papa l'originale, al mondo le copie. La diffusione fu così vasta che una di queste fu trovata a Vladivostok. Deduzione possibile: ogni epoca ha cercato di riprodurre l'originale. Il fatto che con l'avvento della fotografia sia divenuto più facile riprodurre il soggetto, ha semplicemente specializzato ancor di più l'arte pittorica che, si potrebbe dire, non deve più perdere tempo per riprodurre alcuni aspetti della realtà. Un ritratto aveva uno scopo pratico, non diverso dai dittico in avorio che ogni console romano faceva fare quando gli veniva assegnato un incarico. Biglietti da visita, ricordi, dimostrare al mondo il ruolo che in esso si ha ... oppure che ha avuto un antenato ... in un'epoca nella quale un antenato decente poteva essere fondamentale. Il ritratto aveva un ruolo decisamente funzionale. Ora è appannaggio della fotografia che fino ad una ventina d'anni fa era prerogativa di un tecnico o di un dilettante comunque edotto, ed ora è riproducibile da tutti.
Se la fotografia ha tolto all'arte una fatica, le sono grato ma non ha eliminato completamente i ritratti pittorici un po' perché gli artisti amano farli e un po' perché i membri di una casta spesso pensano di nobilitarsi con quell'oggetto.
Un altro esempio. I botanici spesso sapevano disegnare ed acquerellare. Ogni spedizione esplorativa che partiva dall'Inghilterra per esempio, disponeva di uno scienziato e di un artista che riproduceva piante, paesaggi ed animali. Osservare quei fogli è affascinante e quel che ci colpisce non è certo (o comunque non solo) l'apprezzamento per la capacità tecnica. La rappresentazione, all'interno del foglio rettangolare bianco, ha di solito due armonie, una compositiva ed una cromatica, che appartengono alla personalità dell'artista e non sono semplicemente una oggettività.
E' comunque certo che la nostra epoca sia attratta, affascinata da una abilità tecnica sopraffina. Che si tratti di una nostalgia che si sta estinguendo, poiché molti fruitori sono ancora nativi artigianali più che digitali? E' possibile. Penso sia facile trovare persone che ricordano l'epoca per nulla distante nella quale gli abiti te li faceva il sarto. Ora è un vezzo elitario che comunque sopravvive bene, ma la stragrande maggioranza compera il pret a porter, il pronto da mettere che, diviso in taglie, non è mai perfetto ma è accettabile perché il rapporto qualità e prezzo lo rende acquistabile quasi da tutti… ma non è solo questo. Se sei una persona del popolo comperi in negozio e i sarti ti sembrano un anacronismo ma, se il tuo livello sociale aumenta, ecco che scopri che farsi fare le cose dal sarto o dallo stilista di grido, è status symbol non meno dell'avere molti figli, la macchina inutilmente capace di fare i trecento e l'orologio meccanico ... in sé ormai un anacronismo visti gli oggetti precisissimi e a basso coso che si riescono a produrre oggigiorno. Ora … anche per l'arte come per la sartoria, esiste quel livello che richiede all'arte di essere costosa perché spendendo molto dimostri di essere arrivato più in alto. Se certe opere costano molto e rivestono, offrono, un livello simbolico e di significato alto, ma tecnicamente si fanno in un attimo come i tagli di Fontana o le sgocciolature di Pollock o le antropometrie di Klein, accade che tuttora parte degli acquirenti di arte, siano legati alla capacità tecnica, e non ci vedo un anacronismo, la sopravvivenza di un dinosauro nell'epoca della riproducibilità tecnica (che di fatto esisteva già, come ho accennato prima, anche se meno capillare, all'epoca di Raffaello).
Io non mi nutro solo di libri e di dialoghi fra specialisti (anzi, che pensano di esserlo). Dialogo molto con le persone, le ascolto, e ho scoperto che a molti interessa il saper fare perché se, per esempio compero un Renoir, ho di fatto acquistato non solo un'opera che dà lustro al mio salotto e al mio nome, ma anche le ore che l'artista ha impiegato per farlo. E' mio non solo l'oggetto, ma anche il tempo che colui che considero grande, ha impiegato. Lui ha toccato quella tela, vi ha messo il colore … ecc. lo “sentite” il viaggio certamente fantastico ma per me interessante che può celarsi dietro ad un'opera? Un simulacro del sacro?
Un altro esempio; un giorno, mentre passeggio col cane, vedo scendere dai sedili posteriori di una Rolls, due bimbetti quasi decenni. Accompagnati dal padre entrano in una cartoleria. Quando escono con quaderni e matite, i bambini si fermano incantati ad uno stand rotante che espone occhiali da sole dozzinali. Ne scelgono un paio a testa e tutti fieri li indossano e salgono sull'utilitaria … si, utilitaria, perché per chi è nato nella ricchezza, essa è ovvia, e l'occhiale non importa sia di Fendi o Tom Ford, ma che piaccia, cosa che invece non accade a chi ancora sente il bisogno di mostrare in queste piccole cose, uno status. Se una persona di questo tipo si invaghisce dell'opera, secondo voi quale criterio usa? Tutti e nessuno: l'investimento solo se il prezzo è in grado di destare attenzione, la stima per l'artista, il significato, anche come può stare in salotto, e... perché no … la relazione quasi mistica, sognante, con colui che l'opera l'ha creata. È come se essa fosse un medium per una relazione, un dialogo personale che ci lega. Io per esempio dico, e so di non essere l'unico, che fra i migliori amici oltre ai cani annovero Kafka, Borges, Isherwood e non solo. Sono morti? Lo è il loro corpo, e questo ci porta al quasi feticistico mercato di manoscritti, autografi e oggetti, appartenuti ai grandi. Philip Roth ha fatto carte false per avere qualcosa di scritto da Kafka, Stefan Zweig ne “Il mondo di ieri”, racconta la sua passione per gli originali degli scrittori e compositori che più amava e la sua collezione era fra le più belle della sua epoca. Tutt'ora esiste una caccia non esattamente all'autografo, ma a qualche parola vergata personalmente da un grande. Mi fa sorridere la recente disputa che stava per diventare fatale quando ci si rese conto, in un kibbutz in Israele, che quella vecchia spazzola era oltre ogni dubbio, appartenuta a Kafka … è il sacro che si sposta, che esce dalla religione che, delegittimata dalla razionalità, richiede uno sforzo ormai incomprensibile per essere vissuta. Se ad Istanbul al Topkapi, si può vedere una impronta del Profeta e la si rispetta e la si vorrebbe toccare, è perché quel che un grande o un divino ha toccato, potrebbe essere un talismano, potrebbe infondere la serenità che ci manca. Penso alle reliquie dei santi e all'agognato contatto con esse che appaga il fedele perché spera nella trasmissione della sua santità nella propria piccola esistenza …
Nell'arte sta accadendo questo. A livello popolare è sufficiente un autografo, un oggetto che un attore o un cantante ha toccato o indossato … ma nel popolo l'emotività fagocita l'esistenza che è quasi animale. Se si accede ad un livello economico più alto e si comprende che i soldi comprano sì oggetti ma soprattutto il tempo, allora si crea la possibilità di poter evolvere lo stadio emotivo in meditazione che non sarà solo ed esclusivamente razionale, ma si staccherà dalle reazioni pavloviane elementari che dominano purtroppo troppe esistenze inconsapevoli. Non è il “penso quindi sono” di Cartesio. Non si è se si pensa, ma se si raggiunge uno stadio di armonia col tutto che per essere percepito richiede di andare oltre il razionale. Già Damasio ci ha spiegato che l'emozione è parte della funzione selettiva della razionalità. Noi nella vita quasi mai passiamo ai fatti in grazia di un semplice sillogismo, c'è di più.
Se per il lettore i soldi sono la possibilità di comprare il tempo e dedicarlo a tentare di comprendere e comprendersi, ecco allora che una via che tende al sacro si rivela, e se con continuità riusciremo a non distrarci da noi stessi, a non ricadere nell'azione reazione compulsiva che fa sì che attualmente, nei casi estremi, si allenti una tensione interiore facendo shopping …se si riesce, ci si sente meglio. 

Tutta questa predica per dire che l'abilità tecnica se poi richiede pure un sacco di tempo, è un attributo positivo che in arte sarà duro a morire. Benjamin si è dimenticato del sacro … se un'opera ha richiesto un mese per essere conclusa, essa diviene l'oggetto che rappresenta un rito, che rappresenta il medesimo sforzo che compie colui che, senza fretta, malattia della nostra epoca, cerca di inoltrarsi in sé stesso.

Maurizio assalto si domanda; “l'abilità tecnica conserva un valore o è fine a sé stessa?”. Penso di avere risposto anzi, di avere dato la mia versione del problema.
In Indonesia capita di vedere una persona che per mesi si dedica, nel tempo libero, a cesellare minuziosamente un pezzo di legno. Quando ha terminato, noi occidentali proponiamo di acquistarlo e capita che ci riesca ad entrarne in possesso per una cifra ridicola … perché noi monetizziamo il tempo e invece per quella persona quel pezzo di legno da limare era un supporto concreto alla meditazione, non diversamente dal rosario per un cattolico. Concentrarsi sul fare, questo esercizio del corpo, crea un ritmo, un'abitudine, un automatismo nell'esistenza. La stanchezza causata al corpo, lo calma, e la ripetitività delle giornate permette alla mente di andare oltre sé stessa. Provare per credere.
Scopro poi, dal pezzo di Assalto, che un'opera di Ventrone è stata censurata da facebook. L'articolo la mostra, una donna nuda seduta su un pavimento bianco. E' di schiena ha una lunga collana di perle. I glutei sono invisibili poiché è seduta e del seno si vede una traccia minima. Bonami, uno dei due critici coinvolti del dibattito, risulta che l'abbia definita una forma di “pornografia artistica”. Mi vien da ridere. La pornografia prevede l'atto sessuale, questo è semplicemente un nudo, che nemmeno osa, ed è pure molto bello.
Bellezza …. parola che i critici amano ed odiano.
In Italia la bellezza è fondamentale. Si guardi un Cristo crocefisso di Cimabue e si noti l'eleganza di quel corpo che è di fatto una curva elegante. Si guardi ora, dell'altare di Isenheim il Cristo dilaniato, massacrato. Per alcuni popoli il contenuto può essere rappresentato anche senza bellezza. Per l'italiano no. Fatevi una passeggiata nella via dello struscio di un qualsiasi paesino italiano e vedrete il popolo più bello del mondo! Al sud questo effetto è ancor più accentuato. Questo non vuol dire che gli italiani abbiano i corpi più belli, tutt'altro! L'italiano sa vestire, sa farsi bello, sa diventare bello e non per niente nella moda domina. Chi dice queste cose non si considera italiano quindi penso mi si possa concedere una certa dose di obiettività …
Ebbene, il mistero della bellezza! I nudi di Ventrone secondo me piacciono, e non poco, perché incarnano non la bellezza come ideale assoluto che di fatto non esiste, ma la bellezza come la considera il nostro tempo e in questo luogo che è l'Italia. Il qui e ora in arte è fondamentale!

Veniamo ora all'articolo a firma Francesco Bonami
Frase d'esordio; “Della bellezza nell'arte, a differenza della libertà nella vita, se ne può anche fare a meno. Anzi, se l'arte non avesse a volte abbandonato l'idea di bellezza ….” ne ho già parlato. Si osservi il corpo della Sibilla Cumana di Michelangelo oppure le opere dell'ultimo Botticelli. Stridono, la loro non bellezza parla. Ma se l'arte può fare a meno della bellezza, è comunque libera di usarla se lo desidera.
il pittore Ventrone con la sua sua maestria pittorica … non spinge lo spettatore oltre ciò che vede”. Non sono d'accordo. Ventrone è definito iper realista perché non rappresenta la realtà com'è, ma in un modo che ci sembra più preciso del reale. Vedere il suo canestro di frutta, le sue ciliegie, le sue angurie, è un'esperienza notevole per l'occhio, poiché per la prima volta vede quegli usuali frutti in modo direi così perfetto. È la luce che infonde nella tela che fa la differenza. Potrei definirla frutta del paradiso, qualcosa che a noi umani è concesso grazia a Ventrone, di vedere almeno per un attimo?
All'arte non va chiesto com'è fatta, va chiesto cosa sa tentando di dirci”.
Immagino Bonami al ristorante. Si ritrova qualcosa di indecifrabile nel piatto, un “assaggino della casa” e … vediamo se non chiede cosa c'è dentro! Si può obiettare che il cibo entra nel corpo … e io aggiungo che l'opera entra nell'occhio e forse nella mente e forse … anche oltre … Se non è fondamentale sapere com'è fatta un'opera si provi a resistere a questa curiosità. Io non ci riesco. Vista un'opera di Ventrone, secondo me è raro trovare qualcuno che non voglia vedere l'artista all'opera, cercare di capire come fa a fare quello che ci conquista. E non si tratta di stupore un tanto al chilo o di spettacolarità circense. Insisto, quei quadri con frutta, sono oltre la realtà. Se a tanta gente basta vedere il virtuosismo, ad altri può piacere vedere il gesto semplice, antico e sicuro, che crea l'opera. Io sono affascinato dai vasai. Vedere il tornio che gira e quelle mani che modellano … un'ipnosi. E il vaso è sia l'oggetto finito, che anche la somma di quella manualità che mi affascina. Questa idea dell'opera contemporanea, che solo il significato simbolico conti, mi sembra una forzatura che fa comodo al mercato. Se un gallerista rappresenta un artista che lavora con una tecnica lenta, potrebbe averne danno. La logica della nostra epoca è massimizzare il guadagno al di là di ogni morale. Se l'artista piace e io gallerista ho settecento richieste, ma l'artista è in grado di fare un'opera al mese, il guadagno immediao sfuma. Posso creare nel tempo un'operazione che puntando sulla rarità dei pezzi manda il prezzo nell'empireo, ma di fatto piace di più il guadagno immediato. Pollok, Mirò, Vedova ecc erano figure ideali per il mercante. Erano in grado di produrre tutte le opere che venivano richieste ed erano riconoscibili da lontano! Guai all'artista che non si mantiene altamente riconoscibile, egli è un trade mark, un marchio commerciale, prima di essere un artista, e ora se il mercato ti sceglie l'operazione, che è standard, ti rende artista polivalente anche se non lo sei. Cosa c'entra Folon, un uomo sottile composto di sorriso e musica di Mozart, leggero come i suoi acquerelli con il bronzo che pesa? Nulla, e me ne parlava ridendo. Cosa c'entra Botero con le fonderie? Idem con patate. Si pensi a Keith Haring … Anche Cesar, mentre si dialogava al Lutetia, sorrideva delle compressioni e aggiungeva serenamente che “piacciono al mercato … e mi aiutano a vivere decentemente”.
Alla fine dell'articolo, Bonami dice: “l'ossessione del sapere e del saper fare impedisce alla fine il saper dire.”... quest accade di solito all'intellettuale. Saper fare con le parole … e ci si sente scrittori, saper fare con le mani , ovvero artigianato, e credersi artisti. Non credo sia il caso di Ventrone che secondo me coniuga il saper fare con alcuni messaggi: la sua idea di bellezza e una visione paradisiaca degli oggetti quotidiani.
Per quanto io non condivida le idee di Bonami anzi, i suoi dubbi, apprezzo la sua scrittura, abbastanza semplice per un quotidiano, poiché non viene letto solo da menti eccelse e mi piace pensare che anche chi si pensa digiuno di arte possa inoltrarsi in questi dilemmi come ho fatto io e cercare la sua risposta.

L'articolo di Sgarbi … già alla prima riga la parola “aporia”, quindi immagino tanti lettori che si allontano davanti ad un testo che immediatamente ostenta il professorese. La prima frase è un doppio carpiato che approda a terra frantumandosi, non rimane nulla. Per trovare la forza di proseguire devo costringermi, farmi violenza. Nonostante il linguaggio assai poco invitante, dice cose interessanti. Non approvo quel suo sbeffeggiare Bonami. Bonami pensa, esprime dei dubbi e ci sta un dibattito, ma ritenere di essere nel giusto in senso assoluto, infastidisce non poco.
Bonami si deve rassegnare; l'arte non è come vuole lui, ma come gli artisti, a loro modo la interpretano. Il critico deve prenderne atto”
giusto. Diciamo che non è Bonami a doversi rassegnare, ma un'epoca. Già al tempo del primo dopoguerra, l'arte era in mano ai galleristi. Se si legge il volume “Renoir mio padre” di Jean Renoir si scoprirà che gli impressionisti non sfondarono fino a quando non decisero di dare l'esclusiva della loro produzione a Durand-Ruel … se non mi si crede che parlino i fatti storici. Diciamo che mediamente, dagli impressionisti in poi l'arte, la qualità in arte, viene decisa da qualche miliardario e dai galleristi. E sui miliardari spesso si può fare affidamento, esempio positivo Menpes amato dai Rotschild e dal re d'Inghilterra, esempio negativo Kandinsky. La storia in un flash. Solomon Gugenheim era sposato Rotschild. Sua moglie conobbe la baronessa Rebay, pittrice, bella e fan di Rudolf Steiner, e le chiese di fare il ritratto al marito. Andò oltre e divenne l'amante del vecchio Solomon imponendole i suoi gusti. Lo portò a Dessau a casa di un altro devoto di Steiner e lo spinse a comperare, per amore … 150 tele di questa persona … ne so altre di cosucce divertenti che riguardano lo strano successo di cose e persone che, come disse Borges, sono della storia dell'arte ma non sono arte. Il gallerista ovviamente è un commerciante e per nobilitare le sue fandonie ha bisogno di … un docente, di un intellettuale, che con belle parole spesso incomprensibili o che girano a vuoto, ma comunque belle, aiuta … l'operazione commerciale. Se questo è il mondo dell'arte, tranne qualche rara nicchia sana quasi invisibile, se questo è il mondo dell'arte, ecco che non si ascolta più l'artista, ma il critico e su questo aspetto c'è da ridere per non piangere. Chi è di fatto, concretamente, il critico d'arte? Colui che viene pagato per parlare bene di te.
Sgarbi fa poi presente che l'arte non è necessariamente progressiva, e certi artisti sembrano in un cero senso, tornare indietro. “in arte non ci sono solo gli innovatori”. Vero, perché se l'aspetto fondante è il contenuto e non la tecnica, il concetto di progresso non ha senso. Io individuo che mi esprimo, in arte ho un messaggio, conscio o inconscio che sia che mi spinge a fare. Non è un mestiere! Tante persone dipingono o scrivono anche se non hanno un successo materiale e questo accade perché nella nostra epoca, secondo me da metà ottocento in poi, si fa, in arte come in letteratura ecc, perché non se ne può fare a meno. Scrisse Fitzgerald nei taccuini: “non si scrive per dire qualcosa, lo si fa solo se si ha qualcosa da dire”, e a quel scrive
posso aggiungere, compone, dipinge ecc, senza comprometterne il significato per me profondissimo. C'è un motivo che spinge l'artista a fare e quello bisogna cercare di comprenderlo. Spesso l'artista medesimo non ne è consapevole se non in parte, oppure non sa spiegare a parole … perché sa dirlo con il pennello o lo scalpello.
Capire l'artista … secondo me viene bene solo ad un'altra persona dotata di sensibilità artistica.
In arte non ci sono solo gli innovatori: altrimenti Angelo Morbelli o Giovanni Boldini non sarebbero artisti perché percorrono una strada diversa da quella dei futuristi.” perfettamente d'accordo. Aggiungo che non mi piacciono gli -ismi, sono operazioni strane, spesso fatte a tavolino. Il Surrealismo per esempio sembra di Breton ma ..., egli ammise che erano tutte idee di Savinio quelle che mise nel manifesto (e aggiungo che Savinio ammise che era vero ma che non lo avevano ben compreso). Di solito dietro ad un -ismo c'è una mente e un branco di pecore che si accoda … del futurismo mi piace “La città che sale” di Boccioni , e qualcosa di Balla e poco altro.
Morbelli e Boldini invece li stimo notevolmente. Su quest'ultimo mi permetto di dire che non è stato ancora compreso. Dopo quella frase di Sgarbi che ho appena citata, egli prosegue con esempi di artisti che sembrano esclusi da una visione (per me assurda come per lui) di progresso in arte. Fra questi nomi spunta Balthus, e qui mi imbizzarrisco perché posso affermare che non solo Sgarbi, ma tutti coloro che hanno scritto di lui, hanno tenuta nascosta, e consapevolmente, la chiave di lettura delle sue opere. Io mi domando … che senso ha “spingere” un artista, promuoverlo, e non dare al pubblico gli strumenti per comprenderlo! E davanti a questo fatto son costretto a concludere perché la situazione si dimostra talmente insensata da non meritare altre parole.

Capisco i dubbi di Bonami, più vittima di un'epoca, che protagonista in essa, non capisco, di Sgarbi quel promuovere senza spiegare, che in Balthus diventa evidente fino al ridicolo, anche se approvo determinati ragionamenti alla base come l'assenza di progresso in arte, termine questo, il progresso, inventato dall'illuminismo per definire la illusoria sensazione di viaggiare all'interno di miglioramenti continui. Un artista va compreso e divulgato con chiarezza. Certi autori sono indubbiamente difficili e criptici, come Domenico Gnoli … e leggere quel che ne ha scritto Sgarbi non aiuta purtroppo a capire. Promuovere ha senso se viene fatto in certi modi, con certi scopi, se dietro all'agire vi è una morale chiara.....Balthus invece non è difficile. I suoi simboli sono culturali e non inconsci. Da quale cultura provengono? Inizi il lettore ad osservare “La Patience”. Vedrà un quadro del quale prenderà atto, ma non saprà cosa rappresenta, a meno che non venga aiutato. Offro una traccia. La ragazza indossa tre colori, verde, bianco e rosso. Si passi ora ai “Tre filosofi di Giorgione” e si notino i tre colori più l'oro nell'abito dell'anziano … e ora la parola che nessuno dice … alchimia. Le tre fasi del processo alchemico. Verde (o nero), bianco, rosso e l'oro del filosofo. Non proseguo, ma invito chi parla di artisti a dire le cose come stanno e non a presentare Balthus come un grande e a non spiegare il suo pensiero.

Di Ventrone … secondo me ci offre una versione della bellezza femminile che ci ammalia. Borges diceva che “la bellezza oggi è comune” ed è vero. Riuscire a definirne una specie che sia in grado di colpirci non è poco in un'epoca di chirurgie estetiche e mode che cambiano ad ogni batter di ciglio. Pochi volti, e fisionomie, reggono il giudizio della bellezza per tempi lunghi. Solo Cleo de Merode, mi sembra resistere …
Le nature morte … brutta espressione che contiene qualcosa di negativo. Per l'Italia conviene tradurre Still life, natura silenziosa. C'è silenzio nelle still life di Ventrone, come in quelle di Morandi che però si sfarinano nel nulla. In lui c'è la visione dell'archetipo, della perfezione impossibile di un frutto, di un dono primordiale e nutriente della natura. Se Eva mi avesse dato un frutto di Ventrone non avrei saputo rifiutarlo e Dio avrebbe perdonato perché avrebbe capito che anche per Lui sarebbe stato impossibile resistere. La tecnica sopraffina? Vi spiego come la penso; quando mi hanno chiesto di collaborare all'organizzazione della personale di un artista, mi son sempre raccomandato che mettesse qualcosa che dimostrasse il suo “saper fare”. Se sai fare ed osi una cosa semplice, ti rispetto, ma se fai una robina da bimbi e di te non so niente, mi viene il dubbio che non sai fare altro che cosine da bimbi! Anche per Balthus accadde. Nessuno spiegò alla mostra di Palazzo Grassi … nessuno, ma davanti a certi disegni a matita la gente, capì che l'artista aveva una mano eccezionale, rassegnandosi a non comprendere perché chi di dovere, per motivi che conosco, tacque. 

sabato 23 giugno 2018

Mosè di Michelangelo: una interpretazione


Caro lettore, ti consiglio, se vai di fretta, di iniziare da dopo l'immagine del Mosè, poiché la parte che precede e che è immediatamente qui sotto, riguarda le solite recriminazioni che non val poi tanto la pena di leggere perché … se minimamente pensi e non vivi solo di emozioni …. già le conosci …

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Iniziai l'Università molto tardi, a 29 anni; non fui io a scegliere ma la vita. Arrivai alla prima laurea, in Storia dell'arte, per passione. Per me, che non avevo mai smesso di studiare le materie che amavo da quando ero un bambino, si trattò più che altro di mettere un po' di ordine in un cervello-crogiolo che conteneva un po' di tutto ma in un modo che all'epoca consideravo assai disordinato. Mi resi conto che il mio caos apparente era di fatto retto da principii esistenziali che col tempo mi si son fatti sempre più chiari. Alla fine, ammisi a me stesso con tristezza, che quel che avevo fatto e che continuo a fare da solo, conta molto più di quel che questa rigida istituzione, offre. Un pezzo di carta per un lavoro … e non sempre. Ormai non è altro. E le mie arti, letterature e storie di varie epoche ... e filosofie, son tornate completamente al mondo morale nel quale credo e son tornate a vivere. Secondo me, senza principii, nulla nella dimensione umana, sia individuale che sociale, ha un valore. Vediamo per esempio l'economia com'è ridotta ... e rabbrividii quando lessi e sentii dire che Stalin aveva fatto fare un salto notevole alla industrializzazione russa … dimenticando i più di quaranta milioni di vite umane che costò. La medesima faccenda per una persona (….persona?) che fa master per gestione d'impresa e parla di “materiale umano” come se fosse senza sentimenti sia lui che quel materiale … e la filosofia poi! Da Kant in poi sei filosofo se sei docente, se appartieni quindi ad una cosca. Solo Wittgenstein rifiutò e andò ad insegnare in una scuola elementare … lui che mai dimenticò che la filosofia è parte dalla vita e non solo elucubrazioni di gente isolata in un inferno autoreferenziale e che crede sia l'empireo. Si sono chiusi in un linguaggio tecnico … il filosofese. Vidi il filosofo Paolo Rossi lodare uno studente che parlava in un modo comprensibile solo agli addetti ai lavori; a quattr'occhi, con calma riuscii a farglielo notare ... quel ragazzo era come certe donne bellissime esteriormente ma che hanno speso tutte loro stesse in quell'apparenza … . Linguaggio tecnico e forse un contenuto striminzito in centinaia di pagine … e la filosofia non ha più un pubblico. Si inventano i festival della filosofia per rimediare. Che tenerezza. E del novecento su nessun libro trovate nemmeno citati quei veri filosofi (che hanno fatto un'epoca) che come al tempo di Platone aprirono delle scuole ed ebbero discepoli ma non ebbero a che fare se non casualmente con gli atenei. 
Un esempio di come la situazione universitaria sia triste la trovate in questo scritto sul Mosè. Quel che spiego lo scoprii alle superiori per conto mio (son diplomato in chimica …). Capitò che un amico, terminati gli studi, mi donò i suoi libri di storia dell'arte sapendo di farmi cosa gradita. Li divorai trascurando gli studi ufficiali e da solo mi inoltrai in letture di arte offerte dal caso e da rari consigli ricevuti. Quando approdai all'università più vecchia al mondo che la più vecchia non è, poiché il record, se mai ha un senso fregiarsene, appartiene alla Schola Medica di Salerno, quando vi approdai dicevo, mi resi conto che del Mosè si dicevano cose che non corrispondevano a quel che avevo maturato per conto mio. Sempre da ragazzo, avevo letto i “saggi sull'arte, la letteratura e il linguaggio” di Freud, libro che contiene il bellissimo e onestissimo saggio su quella scultura di Michelangelo. Questo testo aveva innescato la mia mente portandomi agli esiti che mi appresto rapidamente a narrarvi. Questo scritto avrà quindi una prefazione inutile e lunga ed un testo breve ma forse utile. Se non dissi nulla ai docenti è perché compresi rapidamente che la proprietà del risultato ottenuto, sarebbe passata a loro. Ogni docente è in grado di produrre immediatamente uno scritto che rende ufficiale il fatto che quella scoperta l'ha fatta lui e fui rapidamente messo in guardia su queste rapine culturali. Conosciamo una marea di casi simili. Ricordo per esempio Oliver Sacks che racconta nella sua autobiografia quel che gli toccò subire in proposito. Si sa che gli studenti vengono munti con facilità nelle loro scoperte perché nell'età nella quale la passione vince sulla razionalità, farli fessi è un attimo....

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IL MOSE' di MICHELANGELO



Nel saggio di Freud dedicato a questa statua, l'autore si arrende ammettendo di non riuscire a comprenderla completamente. Chiude lo scritto ipotizzando che in futuro qualcuno troverà opere intermedie di epoche precedenti o contemporanee al grande scultore che ci permetteranno di capire di più.

Sappiamo che: il Mosè si è appena girato e sta per alzarsi. Sembra che abbia visto qualcosa di sconvolgente.
Miei ragionamenti: chi è Mosè, un profeta. Le “corna” della statua lo dimostrano. Esse rappresentano il raggio-pensiero di Dio. Il profeta riceve visioni, quindi la visione non tratta di qualcosa di reale, ma appunto di una profezia e quindi un evento futuro.
Domanda che faccio a me stesso: chi sono gli artisti preferiti di Michelangelo? Vari testi mi rispondono … i fratelli Pisano, e si sa che andò a vedere le sue opere a Pisa. Cerco semplicemente su un testo delle superiori e già trovo quel che mi interessa. Si osservi del Pulpito di Pisa la crocefissione.


Alla sinistra di Cristo stanno i cattivi (alla destra per noi che guardiamo il bassorilievo). Eccolo il medesimo personaggio con la mano nella barba e l'altra sul ventre (questa mano rappresenta un gesto antico, quel tenere la toga che Michelangelo riutilizza).

Esito: Il Mosè di Michelangelo ha appena avuto la visione della morte e resurrezione di Cristo. Ne è sconvolto e nella statua di Michelangelo abbiamo il momento successivo alla visione, quando si è ormai girato e cerca di resistere alla forte emozione.
Si tenga conto che Michelangelo frequentava gli ebrei e fu da essi aiutato per “comporre” gli affreschi della sistina. Ci sta quindi il rispetto per loro, ma anche la consapevolezza di Michelangelo che il Cristianesimo corrisponde ad una crescita del messaggio divino che culmina con la “sconfitta della morte”.


venerdì 2 marzo 2018

Vladimir Nabokov "La gloria"




Ci sono due scritti che amo produrre: i racconti e la presentazione di opere. I racconti non vengono su ordinazione. Se son pensati valgono poco o nulla. Roba da intellettuale, categoria (“avvoltoio”, vedi omonimo racconto di Kafka) che si nutre di quel che il vero artista ( “Cervo bianco” … vedi poesia di Pound in Personae) produce.
La presentazione di opere va per me dal quadro o ad una serie di essi, al brano musicale e al libro, solo se si tratta di un'opera che mi ha toccato.
Recentemente Joshua Singer con “La famiglia Karnowsky”, accuratamente riletto già tre volte, e poi Zavattini con “Parliamo tanto di me”, Sebald con “Austerlitz” e Migrazioni”, hanno meritato la mia emozione.
Quest'ultima è di due tipi, di pancia per esempio; ci basti pensare ai bambini all'asilo. Uno piange e gli altri senza sapere il perché si aggregano al solista e fanno un concerto. Accade anche col riso. Vi è mai capitato di aver a che fare con due persone che ridono a crepapelle e non sapete per quale motivo? Glielo chiedete, ma mentre dimostrate di voler sapere siete già come loro con il volto deformato in positivo. L'altra emozione, quella che mi fa decidere che vale la pena esortare alla lettura … quella è rara. Nasce da un punto inesistente posto fra cuore e cervello. Il suo modo di presentarsi è imprevedibile. A volte rapido come uno tsunami oppure lento come una carie, ma quando arriva al culmine della luminosità sentiamo che la realtà ha allentato la presa, che la realtà non è abbastanza vera … che se posso provare questa emozione allora …. e poi la vita quotidiana torna col suo tic tac di doveri banali ma necessari e quella mània, quella sana follia che si sta aprendo in noi, recede e rimane solo un sentore di ebbrezza della quale incolperemo lo stato di salute, una birra, qualsiasi cosa … e ci crediamo che sia tutto lì ... finiamo con l'esserne convinti … e non conosco altra morte che questa, dalla quale comunque con uno sforzo di volontà si può resuscitare.

In un periodo indaffarato ... ora ... appena conclusa la lettura di “La gloria” di Nabokov, il desiderio di scrivere mi prude le mani. Questo accade perché il libro mi risulta uscito nel luglio del 2017 e quindi è probabile che sia ancora facilmente reperibile.
É vero che male che vada esistono le biblioteche ma, se mai non sono in grado di comprendere la mania di possesso della nostra epoca (e forse anche delle precedenti ma non c'ero …) legata a roba che luccica, vestiti, auto, amori … tutto con un prezzo definibile e sproporzionato al sangue che ci costano i soldi, lo sconcertante divario tra il valore commerciale di un buon libro e l'oro che come in questo caso contiene, rende lecito possedere semplicemente per rendere più facile l'operazione fondamentale della rilettura.

La Gloria” è del 1932. la data in questo caso non è importante. L'ho appena scritta e quindi la lascio ma è ininfluente. Quel che il libro ci narra vale per tutti gli io e per tutte le epoche.
Il protagonista, Martin Edelweiss. I genitori si separano quando lui era ancora un bimbetto ed era di poco più grande quando giunse la notizia della sua morte. Niente tragedie. Il tutto fu digerito con controllata malinconia. Una guerra interviene e nel loro stato scoppia la guerra civile. Devono fuggire e finiscono in Svizzera da un cugino del padre che pagherà al ragazzo gli studi di letteratura (quella del paese in cui è nato e dal quale poi è fuggito) a Cambridge e infine sposerà la vedova.
Nabokov poi ci farà sapere che la separazione fra i coniugi Edelweiss avvenne nel medesimo anno nel quale fu assassinato l'Arciduca. Sappiamo anche che la guerra è la prima mondiale e che lo stato dal quale son fuggiti causa rivoluzione è la Russia, ma questo è pane per povere menti che si appagano nel capire cose solo intelligenti, un po' come colorare diligentemente un'immagine secondo le istruzioni della “Settimana Enigmistica” e poi riuscire ad essere appagati da un'operazione carnale, automatica, per la quale siamo stati addestrati.

All'inizio dell'opera, capitolo due, l'Autore ci descrive un quadro posto sopra il letto del bambino vicino al ritratto-icona di un santo. Un acquarello di un boschetto con un sentiero che vi si inoltra. La madre ha appena letto una favola nella quale un bambino si incammina in un quadro simile dando inizio a meravigliose (per un bambino) avventure (irreali per un adulto).
Il bambino è consapevole di disporre anche lui di un quadro come quello della favola. E' proprio lì, sul letto, e teme che la madre lo porti via.
Ora abbiamo la morte del padre che è anestetizzata dalla distanza, la rivoluzione e la fuga. In quest'ultima il ragazzo scopre il fascino dei paesaggi notturni e rimane incantato dalle lucine che vede in fondo al paesaggio che gli corre davanti. Ogni manciata di luci, come la possibilità di passeggiare nel quadro, è una possibilità, una traccia, una via, per inoltrarsi in un'altra realtà.
Il ragazzo diviene studente universitario. S' innamora di Sonja Zilanov che però amoreggia con Darwin, il suo migliore amico e compagno di studi. Questi è artistoide e per questo stimato in università fino al punto che gli vengono perdonate le piccole infrazioni che compie all'etichetta obbligatoria dei college. Dopo tre anni terminano gli studi; Sonja ha rifiutato la proposta di matrimonio di Darwin e si trasferisce a Berlino. Il nostro Edelweiss persevera nel sentimento a va a trovarla spesso. Non riesce a fare breccia e nel frattempo lei ha un'altra “storia” con Bubnov, artista che pubblica ed è assai apprezzato. Anche lui viene rifiutato. Nel frattempo, dopo essersi visto rifiutato il nostro eroe decide di viaggiare e prende l'amato treno. Di notte scende improvvisamente perché ha visto la medesima manciata di lucine della sua infanzia. La stazione è piccola, attende il giorno e chiede delle luci che ha visto e gli dicono che si tratta del paese di Molignac, che dista quindici chilometri e non esistono mezzi per raggiungerlo. Si inoltra a piedi, arriva e si ferma in una locanda. Si offre come bracciante in una fattoria e qui resta, ritrovando la serenità. Per lui è tutto così semplice e bello che quando vede una casa in vendita decide di scrivere a Sonja per chiederle la mano. Lei rifiuta e lui lascia la fattoria. Curiosamente alla fine di quel capitolo il controllore del treno gli dirà che quelle luci non possono essere di Molignac (pag 202-203) poiché dal treno il paese non si vede.

Fate caso, lo rimarco, come ogni nome di città, ogni data non hanno senso. Possiamo modificarle e spostare questa avventura nell'antica Grecia o nel Giappone medievale … cambieranno nomi, costumi e tradizioni, la la favola universalmente valida resta ...

E ora il finale. Il ragazzo torna dalla madre in Svizzera, medita di andare fino in Lituania e passare in Russia ma decide, poiché passare quel confine è pericolosissimo, di dire che intende tornare a Berlino. La madre pensa che sia per Sonja e approva poiché il ragazzo ha detto che poi tornerà. Se e quando torna gli tocca un lavoro che il patrigno gli ha già rimediato.
A Berlino desidera salutare i genitori di Sonja e anche Darwin, l'amico, che per una piacevole coincidenza si trova lì in qualità di giornalista di una testata importante.
Va a casa della ragazza quando questa dovrebbe essere in ufficio e invece la trova perché non sta bene. Varie vicende e scopriamo che ha lasciato Bubnov che è assai sofferente. Edelweiss riesce finalmente ad incontrare il compagno di studi, manca un'ora alla sua partenza per la Lituania e, dopo una iniziale emozione e un breve raccontarsi le proprie vicende, inizia per il lettore, ma non per tutti, il mistero. Quel che dice, quel dire sospeso di Edelweiss a Darwin, Sconcerta. Se tu lettore non comprenderai cosa vuol fare il protagonista, allora devi meditare su te stesso. Sei forse come Darwin? Che dopo aver condiviso sogni per tre anni col Edelweiss, si fa travolgere dalla vita e solo alla concretezza dell'esistenza sa dare un significato?
Se il ragazzo che scende dal treno perché è rimasto affascinato da una manciata di stelle ti sembra romantico ma stupido … se una persona che preferisce lavorare in una fattoria e rimandare un incarico dirigenziale offerto dal patrigno e anche non fare caso all'opportunità di conoscere pezzi grossi per diventare giornalista che gli offre l'amico, se una persona del genere ti stupisce … quel che ti dice Nabokov si fa duro, incomprensibile.
Il bambino davanti al quadro, la manciata di stelle in fondo al paesaggio notturno, passare il confine con coraggio (e questo è un ritorno alle origini, un ricominciare veramente da zero e non dalla Svizzera del patrigno) e ricominciare sono sensati se della vita non ti basta saziare le apparenze.

Io spero che il lettore affronti questo mio scritto solo dopo aver letto il romanzo.
Lo immagino diviso in due gruppi. Uno sparuto, quasi inesistente, di persone che hanno capito e sorridono. Un altro, una folla imponente (che così numerosa nemmeno Dante pensava che morte potesse aver disfatta …) che con sua sorpresa non ha capito e non sa che pesci pigliare. La via più semplice: lo scrittore è una schiappa … ma la storia e la fama che dura nel tempo e il rispetto che ha accumulato, dimostrano che invece è un grande … allora che abbia sottinteso troppo? E si scoprirà solo rileggendo che il quadro e la manciata di stelle son la chiave di un inoltrarsi in luoghi nei quali non solo l'apparenza si può appagare. Facilissimo sarà essere sconfitti, ma la vita raramente, quando la si valuta retrospettivamente con onestà, si scoprirà di averla spesa degnamente.
Il nostro protagonista sperimenta la paura, impara a controllarla, e quell'avventura montana che si risolve in un consapevole atto di coraggio, è tutta simbolo. C'è lo strapiombo, l'unica via percorribile è stretta, friabile e non certa. Ma questa è la vita, stretta, friabile e incerta, e l'abisso, la morte, verrà comunque ma ci si allena a non averne paura. Se la paura è ostacolo a scelte importanti, vivremo meno di un decimo di quel che potrebbe essere possibile!

Immagino quel lettore che non comprende il finale e dirà che il libro è brutto e non ammetterà facilmente di non avere capito. Fortunatamente questi ragionamenti, se sarà umile li farà a botta calda con se stesso, e perplesso cercherà di andare oltre, ovvero dimenticare, oppure si informerà. Un altro tipo di lettore, lo spaccone sgraziato, si divertirà a screditare quel che non ha capito. Accade in due occasioni, quando non si ha capito e non si ha l'umiltà di lottare per crescere o quando non si conosce e non lo si vuole ammettere. Ricordo una persona che mi disse che Beethoven gli faceva schifo (testuali parole). Compresi che la sua esistenza, forse tortuosa o forse troppo semplice, non era mai passata nemmeno per caso nei pressi dell'opera di quel genio. Gli regalai qualcosa e non ebbe più il coraggio di umiliare se stesso … con dichiarazioni assurde.

Un ultimo appunto.
Chi ha dipinto l'acquerello del bosco col sentiero che si inoltra? La nonna del protagonista. Questo particolare è strettamente autobiografico. Il quadro è della famiglia (in senso non solo concreto, ma atemporale) e inoltrarsi in esso equivale a mantenersi in stretta coerenza con le proprie radici. Alla fine il protagonista torna alla madre Russia, alle radici, per ricominciare? Non solo. Per essere. Le radici vanno rispettate. Uno sradicato, anche se inconsapevole, no cercando di capire se stesso, affronterà la vita a caso.
E qui è la nostalgia struggente di Nabokov che fa capolino, la vera causa che spesso mosse la sua penna. Se l'amore no basta mai per dare senso all'esistenza (Sonja che infrange cuori ma non li appaga), la coerenza, il rispetto dell'origine all'interno della stirpe per Nabokov è la sacra angoscia, l'oro originario del quale è stato privato … si scrive perché cc' qualcosa che ci fa male ed esternarlo anche se in modo criptato (pudore) aiuta a stare meglio per qualche ora, per qualche attimo, e poi l'artiglio riemerge dalle acque scure e ferisce … per sempre.