domenica 25 agosto 2013

Simenon: "Maigret e il corpo senza testa"




Nel presente blog, il lettore interessato potrà trovare altri riferimenti a gialli di Maigret. Il mio interesse per l'opera di Simenon è da sempre notevole perché il valore che vi scopro va ben oltre quanto l'autore medesimo supponeva. Egli amava ricordare che certi scritti li realizzava con la penna, altri direttamente con la macchina per scrivere e questi ultimi servivano semplicemente per far quadrare il bilancio famigliare. Accade però che ogni essere umano non può far altro che “girare intorno a se stesso” e rivelare la sua visione del mondo. Per Simenon era la famiglia. Opere di qualità eccelsa scritte a penna come “il Libraio di Archangelsk” o “cargo”, hanno ovviamente un respiro maggiore, un più vasto raggio d'azione, poiché non sono vincolati alle esigenze minime richieste dal giallo, almeno secondo Simenon. Per lui, a differenza dei colleghi specialisti del genere, non si tratta di una lotta fra il bene e il male. Abbiamo apici eccellenti come “dieci piccoli indiani” di Agatha Christie che per una discreta manciata di pagine ci fa venire il sospetto che l'esecutore della messinscena e delle esecuzioni sia la divinità stessa, oppure, passando al cinema, il commissario Callaghan interpretato dal grande Clin Eastwood. Amo ricordare sempre che dietro alla sua scrivania fa bella mostra di sé il poster di un film con quel protagonista e il sottotitolo dice “il buono è quello col distintivo”; nel film in questione, fra poliziotto e assassino, fra male e bene avviene infatti una colluttazione sconcertante e disorientante per lunghezza e durezza. Il messaggio è chiaro. Nella lotta fra bene e male, le due parti, poiché spesso ricorrono alla violenza e sempre ai suoi simboli (sempre per il bene, il poliziotto è armato. Almeno l'arma di certi detective come il celebre tenente Colombo, è in prima istanza il cervello minuzioso …), nella lotta fra il bene e il male dicevo, è la violenza spesso a decidere del trionfo del bene e questa macchia, questa incoerenza, questa incapacità di ristabilire il bene solo col bene, è il corto circuito sottolineato da Eastwood e non solo.

Come agisce invece Simenon? Ovviamente ci deve essere il fattaccio moralmente esecrabile. Già questo però non è semplice da definire. Se quasi sempre Simenon ci mostra un omicidio è perché esso rappresenta una criticità, una problematica che egli sente non essere espressa in modo corretto dalla morale a lui contemporanea. Il caso chiave che rivela è “Maigret e il barbone” in esso, più chiaramente che negli altri gialli del commissario, l'omicidio si fa lecito, giusto, sensato. La legge scritta della civiltà, ovviamente condanna, il barbone no e decide di non testimoniare. La trama è rapida. Un barcone che porta merci sulla Senna e dintorni. Lo governa un padre ubriacone che osteggia il rapporto della figlia con l'unico marinaio-operaio a bordo. Nell'ultima scena del libro vediamo un bimbo che gioca sulla barca. La famiglia si è formata, la natura ha avuto il suo corso ed essa, per Simenon, agisce in un sistema morale semplice ma rigoroso.

Possiamo paragonare “Maigret e il barbone” con il presente “Maigret e il corpo senza testa”. Il luogo della genuinità, la campagna, subisce una modifica negativa. Un amministratore di beni di una persona ricca riesce ad arricchirsi. Diciotto fattorie e un castello nel quale andrà ad abitare. Questo passaggio di casta, di vita, porta ad un disorientamento di valori. Colei che reagisce in modo estremo è la figlia che a diciassette anni, dopo aver tentato varie volte di dar fuoco al castello, fugge incinta e non si fa più trovare. Bella ed enorme come profondità, anche se non universale, è la seguente meditazione del commissario: “Maigret aveva già tentato di convincere altri, anche uomini di grande esperienza, che chi scende la china, chi prova un piacere morboso nel cadere sempre più in basso e infangarsi, è quasi sempre un idealista.” questa ragazza tremenda che si chiama Aline Calas, Fugge e la troviamo alcolista quarantenne mentre gestisce un bistrot col marito che è il medesimo della fuga. La sua vita è, nell'ottica di Maigret-Simenon, uno scempio, un esempio di negatività. Non si pensi che la sessualità promiscua di Aline, così accuratamente rivelata, sia per Simenon riprovevole nel senso più semplice del termine. Il problema non è che la donna sposata abbia rapporti anche con altri. La vita stessa dell'autore, ce lo spiega nelle prime pagine delle sue “Memorie intime”. È l'agire di Aline per vendetta, quello sporcare se stessa per macchiare il padre, che non viene accettato. La china dell'errore, della non naturalità dell'esistenza, legge questa spesso in contrasto con quella degli uomini, viene percorsa fino in fondo e il delitto, di conseguenza, è il più truce possibile. Un corpo smembrato e la testa buttata non si sa dove. Siamo davanti all'annientamento totale dell'umano. Simenon ci fa notare che davanti a pezzi di corpo la pietà non si innesca. Essa appare davanti ad un morto identificabile; diversamente siamo nel ridicolo, nel grottesco. Il braccio, trovato inizialmente, non è umano se non per il medico che lo analizza. Questo simbolo rappresenta la sconfitta totale, massima per l'essere umano, la resa ultima, la totale mancanza di dignità, di morale, il non essere nemmeno più riconosciuti come umani.

Ho accennato in vari brani su Maigret, che l'intento secondo me inizialmente inconscio, di Simenon, consiste nel salvare il salvabile secondo la legge di natura.

Qual'è il personaggio moralmente corretto del libro? Lucette Calas, la figlia di Aline. La sua fuga di casa all'età di quindici anni all'inizio ci disorienta, ma poi scopriamo che ha studiato, ha un lavoro decente e che sta per sposarsi col primario del suo reparto. La sua fuga si fa quindi sensata. Il padre picchiava la madre ed era un ozioso che vagava nel Bistrot e ai tavoli da biliardo di altri locali, tutti i pomeriggi. La madre beveva e in quei pomeriggi senza il marito si dava ad amori occasionali vendicativi, nel retro del bistrot. Questo era il mondo della quindicenne. Mi permetto di dire che l'idea di far fuggire una quindicenne perché risulta essere consapevole dell'immoralità della sua famiglia, del suo ambiente, è geniale. Ad una persona solamente intelligente può sembrare irreale se non impossibile, ma Simenon sa che quel che accade in letteratura deve rappresentare una visione personale del mondo e non, come con le esagerazioni spesso sgradevoli per esempio di Zola, solo la descrizione del reale che è comunque e sempre un'opinione, una relazione fra quel che si percepisce e i propri principi. Chi pensa che possa esistere una letteratura, un'arte puramente descrittiva, dell'arte non ha capito nulla. Perfino la scelta dell'inquadratura da parte di un fotografo, fatta su un oggetto qualsiasi, è un atto arbitrario che influenza il valore, il senso dell'oggetto medesimo. Questa consapevolezza, che in me è profonda, direi estrema, mi porta a non tollerare la mia immagine fotografata. Non sono io. È un involucro che mi somiglia e basta …

Torniamo a noi. Che senso ha quindi presentare una quasi impossibile fuga di una quindicenne per incompatibilità morale col proprio nucleo famigliare?

Il fatto che secondo Simenon, in noi, quando i sensi si svegliano nell'adolescenza, la guida morale è inclusa. La legge di natura è in noi, ma può venire fuorviata da eventi esterni. Quel che al tempo della filosofia greca era chiamato riminiscenza, è presente qui come messaggio che è nella carne. La riminiscenza, e si sappia che odio le parolone, quindi mi scuso se ne sto presentando una, la riminiscenza, dicevo, rappresenta tutto un sapere che dobbiamo ritrovare, che abbiamo dentro. La definizione, resa in modo così generico, funziona anche per quel che guida il gesto di fuga della quindicenne, ma con una caratteristica a se. La legge di natura si rende consapevole in noi col risveglio sessuale. Lei, la figlia di Aline, sa cosa fare perché ha una sua percezione di giusto e sbagliato che è ben diversa da bene e male. È male non obbedire ai genitori. È male scappare di casa primo nei confronti dei genitori e poi della legge che non tollera certe cose dai minorenni. Il male e il bene in parole povere sono ciò che è giusto o sbagliato secondo la morale stabilita dalle leggi scritte e spesso dalla tradizione. a Simenon non ha scelto un'età a caso. I diciassette a anni della fuga della madre Aline, incinta della figlia vanno così computati. Nascita alla femminilità a quindici anni, sesso agito per ferire il padre, concepimento e mancato rispetto delle apparenze (=aborto) come altro ferimento, non altro che esaltazione di una protesta che diventa abiezione. I quindici anni della figlia rappresentano quindi, in egual modo che per la madre, il momento del passaggio da bambina a femmina. In questo frangente si rivela la legge di natura, si ha consapevolezza della negatività e la reazione di fuga.

Per Simenon i bambini sono indifesi e quindi da difendere a spada tratta, ma colui che non è più bambino, ha acquisito col cambiamento, una morale, e diventa responsabile delle sue azioni. Si noti un aspetto curioso. Simenon agisce in un mondo laicissimo, senza alcuna divinità … ma questa legge di natura, così come lui la sente e descrive, la ritroviamo nelle religioni monoteiste; per esempio il Bar Mitzwah ebraico, se non ricordo male, all'età di tredici anni, rende responsabile e adulto davanti alla comunità, il maschio. Un ruolo simile aveva la cresima nel cristianesimo. Per la femmina, in generale, il momento, spesso non festeggiato se non nel gineceo, poiché si trattava di culture al maschile, corrispondeva al primo menarca.

Secondo me, le regole più antiche, delle più antiche tradizioni religiose e tribali, contengono tracce o interi frammenti del momento cruciale nel quale la legge di natura venne imbrigliata nelle regole sociali e pian piano modificata spesso fino alla nevrosi. Apro una parentesi che spero faccia meditare. Attualmente la maggior età è a diciotto anni. Questo vuol dire che per un periodo che varia mediamente fra i cinque e i tre anni di tempo, abbiamo degli adulti nel corpo che vengono trattati davanti alla legge, come bambini … ha senso? Non è il caso di produrre una giurisprudenza diciamo di transizione? Per un omicida di diciassette anni, una condanna a decenni di pena non sembra esagerata. Fa invece effetto se si tratta di un quindicenne. Questo secondo me dimostra che riconosciamo che si tratta di un momento di passaggio per il quale “la legge per i bambini” sembra insufficiente e “quella per gli adulti” esagerata. Meditare …

Torniamo a Simenon. Ho sempre asserito e dimostrato che Maigret, non agendo nell'ottica della giustizia della civiltà, ma in quella della natura, spesso si permette comportamenti diciamo illegali, sporchi per un rappresentante della legge civile. In questo caso non ce n'è bisogno. È il caso che rimette le cose a posto. La madre colpevole crea una condizione futura più che eccellente per colei che rispetta la legge di natura. Erediterà fattorie, milioni e il castello del nonno. Il giusto, riceve giustizia …. utopia meravigliosa ma spesso presente in Simenon-Maigret.

Un altro particolare. Nelle prime pagine, abbiamo un barcone che si chiama “I due fratelli”. Spesso Simenon ci parla della vita delle famiglie sui piccoli battelli da trasporto della Francia e del Belgio. In questo caso l'immagine che se ne ottiene, quando parte col suo carico di pietre da taglio, è meritevole di una meditazione e di un sorriso. Vado a memoria e mi sembra che i figli dei due fratelli che governano il mezzo siano cinque. Uno poppante e una madre sia in dolce attesa, quindi un totale di sei cuccioli! Abbiamo il massimo di vitalità e quindi, per Simenon, di bellezza poiché per lui la famiglia armoniosa era la grande meta che purtroppo tragicamente, nonostante la ricchezza e la fama, non raggiunse. Questa situazione così altamente feconda, ci farà sentire ancora più arida, ingiusta, distante, la pseudo famiglia del morto e ci fa comprendere che per Simenon, avere un solo figlio è ancora indice di sconfitta, di sterilità.

C'è un in questa immagine, anche un altro particolare che rappresenta la perfezione della vita, secondo l'ottica di Simenon. Egli non era, non riusciva ad essere stanziale. La vita che ha rappresentato in queste prime pagine, la vita sul barcone “I due fratelli” era il suo ideale. Viaggiare per il mondo col lavoro, che è ad esso legato.

Nella vita degli umani questo però non può accadere. Anche l'immagine dei due fratelli è falsata, è un fotogramma, un attimo di una situazione che non può durare. I bambini hanno l'obbligo scolastico quindi sappiamo che il domani di quella immagine deve comunque non allontanarsi mai troppo da un punto fisso. Così fu nella vita di Simenon. Dovette scendere continuamente a compromessi con la stanzialità per i figli, ma la sua natura, la natura originaria dell'uomo, e quindi la sua legge di natura … è raminga. Nella realtà della sua contemporaneità, e anche nostra, nei suoi macrocosmi che sempre “sente” come malati, come potenzialmente devianti, e che si chiamano città, sente la necessità della figura di un Maigret che, viaggiando ben oltre la legge dell'uomo, cerca di ristabilire un equilibrio che, causa l'impossibilità di essere nomadi, sempre porterà all'annichilimento della legge di natura e alla crisi umana.

Si noti che i due fratelli del battello quasi non parlano, si capiscono sempre al volo. E chi non parla? L'animale ... Egli utilizza i segni vocali e corporei minimi poiché, essendo completamente nella legge di natura, di più non gli serve. Egli quindi sa e la parola non ha senso.

Altro e ultimo particolare da sottolineare. Di Maigret sappiamo che fu figlio di un amministratore di campagna, esattamente come il capostipite di questo libretto. Sappiamo anche che ebbe una figlia ma che morì prestissimo. L'idea, la situazione creata da Simenon è bellissima. Egli, Maigret, per traslato, sarà il nume tutelate, il padre di riserva di tutti quei destini cuccioli che hanno la sfortuna di iniziare la vita in contesti troppo negativi.

Il morto, l'assassinato diventa quindi un opposto perfetto di Maigret, e questo “gioco”, percepibile ai lettori di decine di suoi casi, esalta ancora di più il senso paterno eccetera, del commissario.

Simenon scriveva questi libretti sul commissario, con la macchina per scrivere … e contengono tanto di quell'oro che passa inosservato se si cerca solo il colpevole …

ovviamente molti non la penseranno come lui, ameranno la stanzialità e troveranno giusto condannare sempre e comunque l'omicida, ma penso che anche solo per una frazione di secondo qualcosa dentro loro comunque vacillerà, penso che le certezze, creature assurde, si sentiranno a disagio e annuseranno un accenno di sgretolamento. Solo chi non ha certezze può accettare i cambiamenti senza traumi ….

amen



Aggiunta del 26 agosto 2013 (ovvero il giorno dopo quanto avete appena sopportato...)
Ho terminato, ieri notte, la lettura di "L'amica della signora Maigret". Se in questa opera seguiamo la figura del bambino, scopriamo che, in un gruppo che non si salva e tutti, ma proprio tutti finiranno o in galera o al bordello o impiccati per suicidio, in un gruppo come quello, il bambino di due anni, risulta un estraneo e un problema ingestibile. La ragazza che scopriamo essere la madre, conosciuta casualmente la signora Maigret che, avendo un appuntamento dal dentista e essendo sempre in anticipo per paura di arrivare in ritardo, si è seduta ad una panchina che da su una piazzetta che permette di vedere l'uscita del paziente che solitamente la precede, la ragazza con l'abito blu e il cappello bianco, improvvisamente, lascia il bimbo per ore ad un'estranea, ad una signora, appunto la moglie del commissario, conosciuta e vista su quella panchina un paio di volte. questo inizio del giallo, serve a definire la totale abiezione, incapacità morale della donna-madre che ci introduce pian piano alla conoscenza di un gruppo completamente senza senso per la legge di natura. se in essa il figlio è l'apice, il motivo, il sorriso, il senso, per questi malviventi vivere un duenne come un intralcio è un segnale chiaro. tutto quel che accadrà sarà senza misericordia. il male puro. e infatti come per "Maigret e il corpo senza testa", abbiamo un ucciso che viene poi smembrato e bruciato in una stufa oltre che una signora anziana uccisa con un colpo di pistola alla testa, in fondo senza un motivo valido, e poi gettata con l'auto, in un fiume. il disprezzo totale per la vita, espresso dall'annientamento del corpo dell'ucciso e dalla esecuzione di un'anziana, ha un terzo rinforzo dal trattamento che riceve il bambino. Merita una meditazione anche la pagina finale. Qui scopriamo la conclusione di tutti i destini negativi e la salvezza del bambino. La madre, ritrovata in un bordello, non dirà mai a chi ha lasciato il figlio. Maigret-Simenon ci da solo un'informazione che comunque rappresenta un mondo, una filosofia. Il bimbo è stato dato a dei contadini. questo è importantissimo, poiché dimostra e conferma che per Simenon, la morale naturale ottiene rispetto nelle sue origini, in ciò che anticipa il caos dell'inurbamento, della città. antecedente al contadino sarebbe il vagante, qualcuno che assomiglia nello stile di vita ai due fratelli di "Maigret e il corpo senza testa". Capita poi di trovare frasi del tipo: "come si può allevare un figlio in un quarto piano di un palazzo". quel che al palazzo manca, e per esteso alla città, è la relazione con la natura che sa direzionare la vita. Si osservi poi che Simenon, in "L'amica della signora Maigret", ci offre anche una chiave di lettura sul come ci si può inoltrare nell'abiezione. Il punto è un'infanzia povera fino alla fame, nella quale i sensi primari si fan nemici. lo scopriamo dall'origine dell'esistenza del falsario-rilegatore che, ci viene detto, partito da una povertà negativa, angosciante, si è evoluto in direzione dell'accumulazione di denaro per non ricadere nello spettro della fame e dell'indigenza più nera.
La possibilità del male, male secondo la legge di natura, sta quindi sì, nell'inurbamento che porta all'incapacità di ascoltare la nascita in se, nell'adolescenza, della legge di natura, ma anche dalle distorsioni provocate dall'indigenza forte.
Sempre di più, mi convinco che Simenon ha agito in un'ottica di crisi epocale che fu resa malissimo, in modo solo intellettuale, per esempio, da Pasolini. Fine della vita rurale o raminga, inurbamento e perdita di valori importanti. Simenon, a differenza di Pasolini, non ha costruito a freddo, da borghese che distrugge in relazione a regole che comunque son sue. Egli è partito dalla naturalità, dall'esigenza di coerenza con le leggi di natura che sentì sorgere in se e, agendo, come suppongo da tempo, inizialmente in modo inconscio, ha rivelato con onestà artistica totale, la sua fragilità, i suoi timori, che si son rivelati essere poi quelli di un'epoca.

mercoledì 21 agosto 2013

Oprah Winfrey e la borsetta razzista...




Ora che il ciclone della “tragedia” zurighese di Oprah Winfrey ha spento l'ultimo briciolo di clamori, ne parlo.

Riassumo il dramma. Questa signora arriva a Zurigo perché si sposa l'amica (Tina Turner) e alla vetrina del negozio di lusso Trois Pommes, vede una borsa che le piace. Entra e chiede di vederla. A questo punto le informazioni in nostro possesso si fanno poco chiare. I fatti che possediamo come certi sono i seguenti: 1) la cliente esce senza aver comprato e si lamenterà poi nel programma di Larry King (sul canale statunitense Cbs), “di essere stata trattata con sufficienza dalla commessa che si è rifiutata di mostrarle una borsa; -è troppo cara, non se la può permettere-” ( così leggiamo sui quotidiani del 10 agosto 2013). i vari giornali ci informano anche che l'articolo costava ventottomila euro e che si trattava di una borsa che Tom Ford avrebbe progettato per Jennifer Aniston.

Veniamo al sodo. Per quanto io mi sforzi, di razzismo non ne vedo. Colgo invece la tigna esasperata di una signora famosa e viziata che si è offesa per vari motivi e primo fra tutti il non essere stata riconosciuta. Mi permetto anche di dire che le commesse di negozi di alta gamma sono addestrate ad essere educatissime e ad una conoscenza minuziosa del prodotto. Da un altro articolo scopriamo che la commessa avrebbe elencato storia e caratteristiche della borsa in questione facendo presente che esiste in vari formati e materiali. Sappiamo anche che la proprietaria del negozio ha difeso la sua dipendente dichiarando che agito come di consueto.

Come ho già detto, io di razzismo non ne vedo e, davanti all'atto concreto della difesa della commessa da parte della datrice di lavoro, deduco che la Winfrey ha agito per motivi apparentemente non deducibili dalle informazioni date. Si può comunque meditare sulla faccenda....

Io ipotizzo varie cosucce: 1) far notizia per finire di nuovo sui media e mantenere alto il valore d'immagine. Si sa che non conta la veridicità dell'informazione. Non importano banalità come pure il bene e il male. Importa che si parli …2) effettivamente, la Winfrey si è rattristata e quindi stizzita una volta che ha compreso di non essere riconosciuta. 3) la Winfrey ha fuso per il caldo di Zurigo … oppure … nonostante il ruolo, non ha un grande spessore e non sa controllare la sua emotività.

Punto Uno. Le notizie fasulle o vuote di contenuto sono una marea. Ricordo per esempio dei titoloni dello scorso anno: “Chi vuole uccidere i cani della regina?”. Vai a leggere e scopri che nel paese a ridosso del castello per le vacanze della regina Elisabetta, un virus ha fatto qualche vittima fra i poveri cagnetti. Il titolo era completamente fuori luogo. I casi si sprecano e farne un elenco non fa bene alla salute di nessuno, non migliorerà la situazione. Cito comunque un celebre attore che, “lo potete vedere nei film “Quattro matrimoni e un funerale”...) consapevole del calo della sua immagine, si fece pescare in una via centralissima se non ricordo male di Los Angeles, in macchina con una prostituta. Ci furono lievi conseguenze penali ma ritorni d'immagine planetari....

Punto due. Quando una persona che si considera nota, non viene riconosciuta, se è banale, e accade spesso ..., se ne angoscia. Un esempio che mi accadde qualche tempo fa. Colli Romani. A casa di un'amica per salutarla e mi ritrovo in una folta festa di compleanno di non so chi. Intorno alla piscina mi presentano delle persone che sembrano fare gruppo a sé. Mi chiedono se li riconosco. Dico serenamente di no, divento un reietto e vengo trattato come un malato di mente. Erano gli attori di una nota soap opera italiana.... uno di loro è venuto da me poco dopo dicendomi che evidentemente scherzavo e che alcuni di loro ci avevano creduto. Io, con un pizzico di sadico piacere, ho fatto presente che non ho la tivù da ormai vent'anni e certe cose le ignoro. Rise. Per lui sembrava che io volessi tenere, per gioco, quella posizione estrema. Amen.

Avrei altri esempi ma penso che questo sia sufficiente. Per loro, ma fortunatamente non per tutti, il pubblico adorante diventa una droga e quindi si ha una dipendenza che diventa patologica. Immaginiamo la Winfrey che scopre di non essere riconosciuta a Zurigo e commossi partecipiamo al suo dolore ma, se così fosse, di razzismo non si può parlare. È certo comunque, che la commessa non sapeva si trattasse di una star.

Punto tre. Questo mi affascina poiché ho avuto esperienza varie volte della metamorfosi assurda che deforma le persone che fanno shopping. Un esempio senza far nomi è il seguente. Si entra in una delle più note boutiques italiane. Le commesse la conoscono e una, la solita, si prende cura di lei. Sì, si prende “cura”. Ho “sentito” immediatamente la dimensione della persona malata che viene vezzeggiata. dicasi anche "nutrire il narcisismo". Le verrà detto tutto quel che si immagina che ami sentirsi dire in funzione di uno scopo per il quale si riceve una percentuale, ovvero vendere. È una finzione grottesca. Addirittura il tono di voce della cliente cambia e si fa ridicolo, con le erre un po' più mosce e le esse che scivolano fino a diventare uno stridio. Anche il passo si fa più accentuato per non dire ridicolo. La metamorfosi della bambina-donna che viene vezzeggiata non perché vale ma per essere accuratamente spennata, è avvenuta. Il “gioco” è evidente alle parti, ma si deve fingere di non saperlo. La o il, commesso, deve avere l'abilità di comprendere l'umore della cliente. Questa/o potrebbe avere i nervi a fior di pelle perché il suo cagnolino non ha fatto esattamente i ventitré grammi di cacca mattutina o perché ha scoperto un capello bianco sul cuscino … dura la vita … il o la, commessa, deve quindi essere psicologa, intuitiva e rapida. Sbagliare qualcosa è facile e se per caso il livello di nervosismo della cliente è tale che solo una sfuriata la calma, niente è più adatto di un o una commessa per recuperare l'equilibrio. Uscire fintamente offese equivale a traslare, spostare su un altro l 'incrinatura della propria momentanea agitazione e domani loro quelli del negozio, hanno il sacrosanto dovere di sorridere e di avere dimenticato.

Posso dire anche che nelle boutiques di lusso l'attenzione al cliente è estrema e, a meno che non entri un personaggio tipo i coatti per nulla inventati da Verdone, (e anche con loro recitano pazienza), paroline sibilline non ne scaturiscono.

Ricordo da “Bottega Veneta” a Milano … un russo giovane e noiosissimo che si atteggiava a dio in terra e in fondo era solo ricco. Era da calci nel sedere per quanto era antipatico e sbruffone, ma hanno assorbito tutta quella negatività in modo esemplare. C'era poi il tipo di colore, con jeans accuratamente stracciati e cannotta che sembrava quella del nonno di Noè. Ha chiesto ed è stato accontentato senza che accadesse nulla di tragico. Tocca a me e nasce un equivoco. Sarei interessato ad una ventiquattro ore. La commessa mi mostra cose belle ma non sono quel che immagino. Le spiego che anticamente, dieci anni fa forse, una ventiquattro ore era una valigetta rigida con combinazione. Sono stato sibillino ma lievemente. Comprendiamo entrambi che il vocabolo ha cambiato, di poco, significato. Ora esso intende, almeno per quel negozio, una cartella di pelle morbida. Si arriva al chiarimento e tutto fila liscio. Era possibile che, davanti all'incomprensione che aveva creato quel piccolo problema di comunicazione, se mai il mio cane quella mattina non avesse provveduto regolarmente con i suoi cinque etti (è grosso....) di prodotto interno molto lordo, è possibile dicevo … che mi sarei inalberato e me ne sarei andato infuriato? No … a me non sarebbe accaduto perché ho altre malattie ma non quella della star o dell'essere supremamente viziato dalla famiglia o dalla carta di credito. So oltre il resto che quando si entra in certi negozi si ha a che fare con la sfera del non necessario, quindi anche se non si trova quel che si cerca, l'esistenza non subisce un tracollo. Wilde disse che nulla è più necessario del superfluo; in un certo senso aveva ragione e tendo a credere che si riferisse non ad accessori di lusso ma all'arte ... ma anche se non fosse così e stesse pensando a certi guanti color pulce senza i quali per esempio non osava uscire, son necessità rimandabili e non è la loro immediata soddisfazione a massacrare l'esistenza.....

Morale. Penso che questa notizia sia palesemente finta nel senso che non si tratta di un caso di razzismo. Dovrebbe vergognarsi la Winfrey per questo, ma so che certa gente non ne è capace. Vive solo la sua emotività e basta. Che si informi sul vero significato di quella parola e rispetti il dramma di chi dal razzismo è stato annientato o ridimensionato veramente. Non essere riconosciuta è stata secondo me la sua tragedia del momento. Appartenere ad un certo ghetto, perché attualmente una certa elite (non tutta ovviamente) è talmente chiusa che non altro che di ghetto si può parlare, a lungo andare diventa patologico, e a questo aspetto, sommo un particolare orrendo. Chi ha molti soldi …. può permettersi anche le sue “malattie”. Semplicemente non le chiama così. Bere e sfasciare macchine e corpi altrui si dice “avere alzato un attimo il gomito”, insultare e offendere era un momento di rabbia … Ricordo il racconto di un amico avvocato. Una certa persona aveva appena schiacciato un ignaro viandante contro un muro con la macchina. Era riverso sul cofano. Chi guidava, chi ha commesso il fatto, secondo voi chi ha chiamato immediatamente col cellulare? L'ambulanza? Sbagliato … l'avvocato, non quello che mi raccontava sconcertato, il fatto, avvocato che è arrivato come un fulmine dicendo che lui era presente e aveva visto tutto..... Nel frattempo quella persona stava morendo …

Solo rari eccessi di quel ghetto diventano casi da tribunale. Il resto si insabbia a suon di denari.

In questa tragedia-farsa della Winfrey vedo tanti, troppi mali, che come un eisberg mostrano solo la punta e nascondono il corpo enorme sott'acqua. La notizia che notizia non è, e un giornalismo malato che da esse non intende difendersi; e poi ricchezza e fama che si offendono di un'inezia, che agiscono nel ridicolo senza rendersene conto.

Manca spessore, anima, vita.

Manca la vita.




venerdì 16 agosto 2013

Franz Kafka: Lettera dall'aldilà




Il giorno che giunsi quassù avevo la gola secca. Quell'essere, bianco in tutto, che per primo qui mi vide, strappò un pezzo di nuvola, mi disse “tienilo in mano un po' e si farà acqua”, e una volta bevuto, sospirai di sollievo. Mi venne voglia di stiracchiarmi come appena svegliato, mi venne voglia di muovermi, di camminare un po', dopo tutto quel tempo a letto a Kierling. Mi venne quasi improvvisamente un certo appetito e il mio corpo, mai come da quando fui ragazzo, non lo sentii, esattamente come deve accadere di un corpo sano. Ma … mi dissi, se questa è la morte, io col corpo, qui in questo blu indescrivibile fra nuvole da bere e un uomo candido che non assomiglia a nessuno della Bibbia e dei Vangeli … io qui cosa faccio? E l'uomo candido si avvicinò. Mi disse che si doveva andare da Lui e mi venne un brivido. “Non so la strada...” “Tu sei Franz Kafka tu sai tutto...”. Io, sapere tutto! Ma se la mia vita fu indecisione, paura e altre simili disgrazie! Qui mi si accusa, o onora di aver capito … capito cosa? Il candido gigante, con un gesto del braccio, mi rivela una moltitudine. Non erano nuvole, era la moltitudine … e di uno di loro mi son dissetato. Mi disse che attendevano il mio passo poiché sapevano che io so il luogo esatto dove siede Dio. Ma io non sapevo di sapere e li guardavo intenerito e preoccupato. Non ho mai saputo esattamente cosa fare di me e ora loro, la schiera infinita, con sguardo supplice attendeva. Decisi allora di lasciar fare ai piedi. Quel luogo era senza alto e basso, senza direzione e per me senza un senso comprensibile. Il Paradiso, se non lo riconosci ti sfugge, il Paradiso ha un'entrata e una via, suppongo, e i piedi obbedirono alla mente che non sapeva che fare. Ero l'unico col corpo. Un onore o una penitenza? Ovviamente temevo quest'ultima. E questo Dio, per favore oh vita! che non assomigli a mio padre!

E arrivai in un luogo fatto di un nulla per voi, ma infinitesimamente completo che mi accolse. Dico per i vostri sensi, con parole che non bastano per le cose divine, quel che mi accadde. Immaginate una spirale e al centro Lui. Ad ogni metro uno scranno e ad ogni scranno un candido si siede. Io mi domando come fanno a comprendere che è il loro posto ma so che hanno ragione e non immagino il mio. Son troppo vicino al centro, non lo merito, e all'ultima proprio all'ultima possibilità ecco il mio posto, accanto a lui, che ha in mano un foglio dal quale leggo il titolo “L'avvoltoio”, quella breve immagine, che scrissi angosciato, consapevole che era una parabola chiusa e senza vita, ma col desiderio di vivere, e Lui me ne vuole parlare.

Mi disse che ero andato oltre la bellezza e la verità degli uomini. Che avrebbero macinato anni di mestiere fraintendendo, spesso volutamente. La mia opera sarebbe diventata una Babele, un mestiere e, se risolta sarebbe dispiaciuta ai mestieranti e si sarebbe dissolta. Non intendere permette anche di fraintendere, ma io lo so che ero il primo a macinare in forma di parabola il dubbio, ed erano dubbi semplici.

Ricorda lettore che la spirale che ti ho descritta non esiste, e nemmeno gli uomini candidi e gli scranni, ma come spiegare il nuovo, l'assolutamente nuovo, se non inventando nuove parole che puoi coniare solo se il nuovo che descrivi si è fatto sensibile... descrivere l'indicibile mi è stato concesso sembra, ma solo quassù lo comprendono. E mi hanno chiesto di decidere la pioggia e il vento e la quantità di dolore d'ognuno e Atropo mi vuole per consorte. Io che temo la relazione, l'enigma dell'altro, esattamente quanto la solitudine!

Tre cose ti dico, mortale che mi stai sognando. Due aspetti per riportare alla semplicità almeno l'idea dalla quale certi miei scritti son nati. Tu domattina svegliati e scrivi. Ricorda e fallo sapere. Io son partito dalla semplicità, dalla mia vita.

Primo appunto. “La metamorfosi” una volta spiegata è una semplice e posso dimostrarlo solo … spiegando. A Praga vedevo spesso ebrei dell'est in lunghi caffettani, con cernecchi volgarità nei modi, almeno così mi sembrava e un alone di odore che mi sembrava cattivo … e invece era solo antico. Io ero si ebreo, ma solo di nome. Ero un cittadino benestante, e quelle persone venute dall'est, devote a rabbini magici, mi sembravano sfuggite alla macchina del tempo, scappate da un'altra epoca. Sapevo che i quattrocento chilometri che separavano Praga, la civile Praga in giacca e cravatta, da quegli spettri che erano il passato della mia famiglia, distavano invece ben quindici giorni di viaggio. Tempo e spazio si prendevano gioco della regola con la quale li vivevo, e loro, mi dissero, erano il mio passato, erano mio nonno e il mio bisnonno, io che giravo in moto e giocavo a tennis. E poi qualcuno che conoscevo, qualcuno della mia età, che con me giocava a tennis, partì in giacca e cravatta e tornò dopo mesi in caffettano e ricci alle tempie. Cantava inni, mangiava solo verdure esagerando con la cipolla, e la famiglia, la sua famiglia non volle riconoscerlo. Arrivò a casa e stette isolato, reietto, nella sua camera, cucinando da solo e mangiando, ormai vegetariano, cose troppo odorose, di un odore che per i famigliari era puzza. Accadde a qualcun altro, ma io non ebbi il coraggio. Sembra così difficile ora immaginare una persona che si sveglia diversa e reietta come loro erano loro per la famiglia, per Praga, una volta tornati? Ho immaginato una situazione nella quale tornare indietro fosse impossibile, perché molti di quei miei coetanei invece, indietro ci tornarono e dopo mesi o anni rimisero la cravatta. Qualcuno scappò dalla famiglia, dalla stanza, dall'ormai raggiunta e invalicabile incomunicabilità, andando in Israele, terra promessa che ho sempre desiderato.

Se viene difficile accettare questa spiegazione si pensi ad un marocchino che, nato in Europa da genitori ancora nord africani, mette al mondo un figlio. Questi ha amici che in un'Europa che crede solo nel denaro, torna alle radici, va in Marocco, e cambia abito, cibo e pensiero. Ha trovato una fede diversa dal denaro e non ci si deve meravigliare se la preferisce, lottando con i parenti ormai distanti, nel tempo, nello spazio, dalle radici.

Quel ragazzo per la sua famiglia sarebbe un problema. E' un problema. La sorella difficilmente tollererebbe la sua presenza che potrebbe avere ogni tanto anche i risvolti di una coscienza morale che silenziosamente, anche solo con l'esserci, ti fa capire che sbagli, quanto sbagli. … E a Praga, la mia Praga, contava ormai solo il redito, il matrimonio azzeccato, la posizione.

Ebbene, io ero il ragazzo che non ebbe il coraggio di prendere il treno e andare alle origini. Avrei voluto, ma non ebbi la tempra. Mi nutrii della cultura distante dei miei antenati. Divenni vegetariano, tornai alla Bibbia e alla Sinagoga, ma non ebbi il coraggio …

da questo nacque “La metamorfosi”.

Secondo appunto; e questo è quasi un consiglio. Quanta gente si è spaccata la testa per comprendere perché gli uffici del Tribunale erano all'ultimo piano di un palazzo … perché non sapevo dove metterli! e l'unico spazio vuoto era quell'ultimo piano dei palazzi praghesi che sempre era vuoto, fatto di enormi stanzoni dove la gente stendeva spesso la biancheria o accumulava cose, come in un solaio collettivo.
Terzo appunto: l'idea per "Il castello". Io son nato in un'epoca di imperatori, duchi contesse e marchesi, e chi medita la mia opera troppo spesso lo dimentica. I castelli erano i loro, e ogni nobile che si rispetti ne possedeva più d'uno. Era quindi facile trovare e il castello, assai difficile vederne il signore. I servitori c'erano tutto l'anno. Solo loro erano la relazione col contado. E così accade ancora oggi per i pochi regnanti rimasti. La regina Elisabetta seconda d'Inghilterra, si è recata una sola volta in vita sua nella sua grande residenza romana che si trova vicino a San Giovanni. L'idea quindi, di un castello popolato da una gerarchia di servi e col signore assente, alla mia epoca era di facile appropriazione, perché la vedevo sempre. Io ci ho messo di mio l'irraggiungibilità, che è quella di Dio, l'essere accettati come meta che è dell'ebreo nella comunità nella quale vivevo, che aveva si molti diritti, ma mai tutti e sempre in balia dei pogrom. ... ma l'idea è nata così, semplicemente, dall'esser circondato da castelli senza signori .... 

Sono stanco. Parlare con te, per ampliare al voi, è per me un guardare indietro. Lui me lo ha chiesto. La vita oltre la morte è un cammino, un'intensità, una pienezza, e di tornare, o anche solo guardare indietro non senti l'esigenza. Non è concesso a tutti questo dopo, e pochissimi siamo ad avere il corpo. Chi ha assecondato solo il la e i sensi, rimane carne e la putrefazione lo annulla. Chi ha ipotizzato di più, chi ha dato di più a se stesso e alla vita, lui eternamente cammina.

ciao


La generazione maledetta (circa 1930-45)






...La generazione di coloro che al tempo della guerra erano bambini.... Quando aprirono gli occhi videro del mondo sopratutto uno spettacolo, la mobilitazione generale della violenza, e così vistoso e così imponente, così invadente era questo spettacolo che pareva velare ogni altro, anche quelli della bontà, della generosità, dell'intelligenza, del sacrificio, che pure fiorirono in quegli anni, come sempre. Quella violenza pareva trionfante, sicura di sé. Aveva andature allegre, perfino sportive; arrivava a simulare una sorta di giovanile innocenza. La sua legge era il disprezzo di ogni legge, la sua caratteristica sociale era il disprezzo di ogni società e il trionfo dell'individuo audace, cinico, privo di rimorsi. Si capì presto infatti, quando la generazione bruciata si affacciò alle cronache con una serie impressionante di delitti ….”

Queste son le parole che una voce fuori campo introduce nel film “I vinti”. Soggetto, sceneggiatura e regia di Michelangelo Antonioni, aiutato dalla eccellente Suso Cecchi d'Amico e con un aiuto regista come Francesco Rosi. Per chi trova noiosetti e lenti i film dell'Antonioni degli anni settanta, invito ad andare alle radici della sua opera. “I vinti” è del '53 ed è un gioiello che fa pensare … e tanto.

Facciamo due conti. “La generazione che al tempo della guerra erano bambini”, così dice la voce. Li immagino nati negli anni trenta e, se la mente, all'età di tre, quattro e cinque anni è ritenuta in grado di relazionarsi, aggiungerei anche la prima cinquina degli anni quaranta. Se poi si analizza cosa fu dell'Europa nell'immediato dopoguerra, si comprenderà che allargare anche fino al '46 e '47, non è così esagerato come può sembrare. Tutto era distrutto. Vendette, lotta per il cibo eccetera. Una babele che, dalla violenza insensata e sbruffona dei fascismi, passò a quella della sopravvivenza.

Domanda. Esiste ancora quella generazione? Quella che Antonioni, Rosi e D'Amico chiamano la generazione bruciata? Pallottoliere alla mano la risposta è si …

Oscillano dagli ottant'anni per quelli degli anni trenta, ai settantacinque per quelli degli anni quaranta. Se, come ci dice quella voce, una parte finì sulle cronache, chi non ci finì e in qualche modo è arrivato ai nostri giorni, con quell'educazione alle spalle, cosa può aver combinato?

Ci si potrebbe domandare perché desidero parlarne ed è semplice. Io di quella generazione che considero non bruciata, ma maledetta, sono un figlio.

Vedete, la violenza non si esprime solo con le botte, con una sottomissione guidata dalla forza. Essa si maschera pian piano in botte private, senza testimoni, poiché la facciata va pur salvata, e in guerra psicologica (questa la violenza invisibile e possibile in una democrazia. Il femminicidio, ultimo atto di azioni per il novanta per cento sommerse, ne è un segno e sembra che quel sommerso nessuno abbia fretta di regolamentarlo...).

Ma noi, figli della generazione maledetta, eravamo bambini e poi adolescenti! Bambini di una generazione senza regole e abituata alla violenza, al sopruso! Ed ecco che vedo padri e madri che rubano, si, rubano il futuro ai figli cercando di prendere tutto fino all'ultima goccia, e i figli, o han ceduto e, abituati da sempre solo a quella subdola sottomissione, non si rendono ancora conto della vita non vissuta che vivono … oppure, oppure se ne son andati. Hanno spaccato tutto, legami intendo, e spesso dal nulla hanno ricominciato tenendo a distanza … la generazione maledetta.

Accade però che nella vita quotidiana li incontri quando meno te lo aspetti. Altrove ho narrato quel che mi accadde in una libreria-edicola a Roma; entro e prendo quel che mi serve. Mi avvicino alla cassa e aspetto il mio turno dietro ad un signore. Nel frattempo arrivano altre tre persone, di quella maledetta generazione, si servono e mi passano davanti come se io non esistessi. Sbalordito, mi son chiesto se son diventato invisibile e, al quarto cliente di quella generazione che entra veloce, prende un quotidiano e mi supera e ignora, son sbottato urlando “Io esistooooooo!” Si son bloccati stupiti. All'inizio mi han preso per matto e uno ha chiesto cosa intendevo dire. Quando ho spiegato si è scusato dicendo che non se n'era reso conto, risposta che non lava un bel nulla ma mette in risalto cosa a quella generazione manca perfino nelle più piccole cose.

Accadde ancora in un altro locale. Feci notare al “maledetto” quel che aveva fatto. Aveva ignorato una folla. Anche lui ha risposto che si scusava ma non se n'era accorto... ma intanto io so, anche perché conoscendolo di vista ho potuto rivederlo in azione, sempre lui protagonista, che fra un attimo, dopo, domani e per sempre finché camperà, anche nelle più piccole cose, vedrà solo se stesso.

Spesso mi son domandato se mi riusciva di inventare una situazione che mettesse completamente a nudo questa malattia. Ed ecco che la realtà mi ha offerto quanto la fantasia ha saputo redigere solo in un racconto scritto anni fa (si intitola “creatura” ed è stato pubblicato in tiratura limitata) e che ritengo talmente violento, per quanto narrante un fatto accaduto, da non avere nemmeno più il coraggio di rileggerlo o pensarlo.

Ecco cosa mi è successo questa mattina.

Vado in un caffè con il mio cane. Un educatissimo Beagle a nome Lolita. I cani possono entrare e quelli del locale li amano veramente, non accade come spesso mi capita, che il cane è ammesso solo perché siamo in tempo di crisi e si fa di tutto per racimolare clienti. Si tratta in questo caso di una scelta morale. Sono al banco, quindi in piedi, e al tavolino più vicino, una coppia della generazione maledetta, sta consumando la colazione e leggendo il giornale. Lolita è ad un metro di distanza e assai composta. La signora della generazione suddetta, improvvisamente impone, con voce dura: “tenga lontano quel cane!” Sono stupito. Lolita non ha fatto nulla. Ora comunque la guarda, incuriosita da quell'abbaiare umano con tono aggressivo. La barista, con la quale stavo chiacchierando, è ammutolita. Io ho reagito dicendo “spero non le dia fastidio anche il fatto che il cane la sta guardando”. Ho scelto il sarcasmo perché la situazione era talmente assurda da non meritare altro approccio. Lei ha risposto dicendo che la mia battuta non faceva ridere ed era fuori luogo. “Ma il mio cane non ha fatto nulla e non le era nemmeno troppo vicino e lei non può imporre così!”

Ha reagito il marito chiedendo se ero nervoso. “Guardi che il cane non ha fatto nulla, è educatissimo e imporre così, con durezza questa esagerazione....” A questo punto la signora ha dato la classica risposta che un cane la morse e che non li vuole vicino. Il tono era irritatissimo. Le ho fatto presente che comunque esistono e il mio era abbastanza distante per rendere inconcepibile la sua reazione. Davanti all'evidenza dei fatti, che probabilmente si erano resi indifendibili anche ai suoi occhi, ha inventato qualcosa merita di essere analizzato attentamente. “Se lei non la smette io non verrò più in questo caffè”. Nella sua mente è accaduto quanto segue; io non posso più difendere la mia posizione quindi passo all'attacco in altro modo. Se non la smette, per colpa sua il locale perderà due clienti, me e mio marito. Per mettere a tacere la situazione che le è sfuggita ha attuato un ricatto. Io creo un danno a terzi se non … mi sottometto. Le ho fatto presente che è un'italiana, e non rimpiango di averlo detto. Sapete che Montanelli era anche scrittore? Leggeteli i suoi racconti. Eccellenti ma mal sopportati perché lui, italianissimo, aveva prodotto uno specchio fatto di parole che per l'italiano è insopportabile … ma vero. E in più essere della generazione maledetta! che nel film a scene è diluita in Francia Italia e Gran Bretagna. Rispondo che non può imporre la sua volontà senza rispettare le regole e in generale gli altri ed esco. La signora si scatena e fra le altre cose dice di aver chiesto “per favore”, di allontanare Lolita. Son rientrato col fumo al cervello. Le ho urlato che lei non ha chiesto per favore e non sa chiederlo e oltre il resto non si chiede nemmeno “per favore” per una cosa senza senso!

Sono uscito. Stavo male. E penso ai governanti italiani. Da Berlusconi a Monti a tanti altri di quella generazione maledetta che fino all'ultimo secondo della loro vita vedranno solo se stessi … con loro, come con quella signora, la gentilezza è inutile. Si rapportano con la sottomissione e non hanno regole, non hanno una morale se non quella di spuntarla comunque e sempre.

Quel che vi ho raccontato non può funzionare in un film. Tutto si svolgerebbe in un modo troppo rapido. Servono parole scritte e rileggere per comprendere l'enormità di quel passaggio di livello nel quale la signora, consapevolissima di essere nel torto, inventa seduta stante una situazione che sottomette e basta. Il locale perderà due clienti se la situazione non finisce. Tentare di zittire non con la ragione sul caos ingiustamente innescato. Quella generazione, quel massacro quotidiano, anche, come in questo caso, nelle più piccole cose.

Uscito dal locale, la mia generazione, e quelli più giovani che nonostante la crisi economica hanno occhi che sorridono più di me, e noi scampati e malridotti, spesso incapaci di vivere e di fare cose semplici perché sistematicamente annientati, passeggiamo coi cani, ci fanno sorridere e li accarezziamo. Per noi il cane è affetto, è una via di fuga in una relazione sincera.

E ora più che mai, eviterò la generazione maledetta che più invecchia, trovando ingiusto invecchiare e morire, quindi lasciare uno scettro osceno che nessuno vuole, che più invecchio, più si fa lapalissianamente feroce ….

Una generazione maledetta alla quale tutto è dovuto, anche la sopportazione per un odio sempre più a fior di pelle solo perché il soffio del tempo se li porterà via.

Ma per ora, forse ancora venti o trent'anni, loro con le pensioni d'oro ottenute sulla nostra pelle, semineranno.

Come l'impressionismo fu anticipato dai macchiaioli, che spesso dimostrarono un valore superiore ai posteriori colleghi francesi, così il termine “Gioventù bruciata”, che ci ricorda l'America, James Dean e il suo omonimo e celebre film, deve la sua origine a una triade di grandi italiani. Strana terra quella, nella quale nascono artisti eccellenti che sopravvivono come possono in una cattività esagerata...

Ricordo una notte a Roma. Dei gatti randagi. I celebri gatti “de Roma” e una signora anziana con una sporta che parla con loro e mette cibo in piccole ciotole di scarto. Anch'io giravo sempre con qualche bustina di cibo per loro e con una sorta di pudore, quando nessuno vedeva (e vede...) metto li il cibo. Lei parlava con i gatti. Era un cervello ormai al limite, saturo, stanco. Era Suso Cecchi d'Amico. Le parlai senza guardarla, dicendo che mi sembravano sazi per questa sera. Lei mi disse “è la compagnia che sazia e qui passano ma compagnia non ne fanno”. “Ognuno per sé, quindi”. “Si, e qualcuno che va dai gatti....”. Ero in Largo Argentina. I ruderi. Dicono che qui fu ucciso Giulio Cesare. La luna brilla con decisione ed eleganza. Suso mi guarda e sorride; “Comunque la vita è bella!” sussurra come per non agitarmi con una frase difficile da dimostrare. Le dico “ma siamo due marziani a Roma...” questa volta mi scruta attentamente.  e leggo il pensiero dei suoi occhi; Flajano. è troppo giovane per quella letteratura.... ma forse... “Se ai queste cose dentro sarà più facile...”, “più difficile" rispondo. Le sorrido e la saluto di nuovo allontanandomi.
Roma questa sera, non elargirà la grande pernacchia che stupì il marziano. Roma ha da fare. La notte è lunga e fiotti di popolo sciamano verso Campo dei Fori e piazza Navona. E lì, ad accarezzare gatti, la grande Suso Ccchi d'Amico e nessuno la vide.
La pernacchia è ora un silenzio smisurato e assurdo....

E penso a Michelangelo Antonioni. Quanta gentilezza. Quanta capacità. E la sua bella casa a Trevi, da lui disegnata, e i quadri suoi e di Enrica, che rispetterò per sempre. E Francesco Rosi, solo, troppo solo dopo la irrimediabile e assurda fine della moglie. Abita vicino a Piazza di Spagna. Si sale la scalinata e le gambe la via la sanno da sole.

E quella grande pernacchia del silenzio, e una generazione maledetta ...






giovedì 15 agosto 2013

Alda Merini: "lettera dall'aldilà"




DALLALDILA’ 5 (Alda Amerini)
(Alda Merini l'ho conosciuta e merita che sia ricordato come l'incontro accadde. la poetessa Vittoria Palazzo, amica di Sarte, Camus, Quasimodo (non quello di Victor Hugo, ma il Nobel), Montale eccetera, mi mostrò dei suoi dattiloscritti con parti autografe e mi raccontò come si conobbero. Chiusi i manicomi, Alda si ritrovava, vagante per Milano, munita di molte sporte e senza meta. Vide che in una sala una bella donna con una folta chioma rossa, Vittoria, stava tenendo una conferenza. entrò e si tenne sul fondo. era consapevole di essere impresentabile. al termine dell'incontro, timidamente, si avvicinò e disse a Vittoria che anni prima lei, Alda, vinse un premio. Fu vittoria a candidarla e a consegnarlo. Vittoria ricordò e rimase sgomenta quando, nella sala ormai vuota, Alda raccontò da dove era uscita, ovvero il manicomio, il perché, e tergiversò su dove vado ora. vittoria comprese e se la portò a casa per un mesetto, rivestendola e accudendola. rimasero amiche. Vittoria, come me, non amava le poesie di Alda e mal sopportava che venisse "usata" così, senza riguardo. erano amiche e si parlavano chiaro. Ad Alda invece, le poesie di Vittoria piacevano. Vittoria mi invitò ad andare da lei nel suo appartamento in un casermone sui navigli. voleva sapere cosa ne pensavo io. poi se ne sarebbe parlato. esco dalla casa di Vittoria che era vicino a piazza sei febbraio e coi mezzi pubblici arrivo all'indirizzo. suono e il cancello fa clak. entro e vago per corridoi lunghi e monotoni. mi sorprende una porta tutta tappezzata di santini e con un grande poster di padre Pio. Proprio da quella porta, mi accorgo che, socchiusa, un occhio mi osserva. "Chi cerchi?" "Alda Merini..." "Sono io ... ma chi ti ha aperto?" "Lei signora ... ho suonato di sotto e il cancello si è aperto" "Ah bene. è stata l'anima di mio marito. questo vuol dire che puoi entrare". E così entrai in quell'appartamento che un appartamento non sembrava. la tivù accesa, ma lei non la guardava. era stesa in un'altra stanza, nel letto grande. era in camicia da notte con collanine dozzinali in plastica, roba da bambine. mi dice che ha male ad un fianco e che desidera stendersi. Mi siedo di fianco al letto dopo aver scalciato inavvertitamente varia immondizia che ricopre il pavimento lurido. vedo che ci son soldi ovunque. ricordo che erano verdi, quindi pezzi da cento euro. se ne nasconde un paio in seno e mi guarda intimorita. le dico che ne ho più di lei e che mi sono indifferenti. si tranquillizza. si passa al tu. mi fa sapere che è senza mutande e che se volessi violentarla .... le dico che son venuto a salutare la poetessa. mi dice che allora in quella casa non c'è nessuno. una finestra sbatte. mi dice che è sempre suo marito che si fa sentire sempre, notte e giorno. per lei ogni rumore non immediatamente spiegabile, ogni evento fraintendibile come quello del cancello, va in quella direzione. si dialoga un po'. mi tolgo i guanti senza dita, è dicembre. Milano è umida e freddina. desidera che le tenga la mano. arriva una donna di colore molto bella che ha le chiavi di casa. dovrebbe sistemare un po' o farle compagnia. Non capisco. Ci lascia soli a dialogare. dico che devo andare e lei mi chiede se ripasso, se a Natale passo a salutarla. mi commuove la sua angosciante solitudine. la sconfitta ricevuta dal maschile che l'ha inabissata nella sua lucida, consapevole follia. dico si, ripasso, ma non a Natale che sono all'estero. la mia partenza per lei si fa angosciante, ennesima sconfitta. mi ha appena conosciuto e io per lei non ho età. lei non è anziana ai suoi occhi e io sono atemporale, così mi vede. E ripenso al suo destino. il marito che la tradisce, e con qualcuno della famiglia. Alda che non accetta, che non si rassegna, che non china il capo. E lui che va dal medico, bastava andare dal medico. Due righe e giù nel gorgo macellante del manicomio. Lei si sentiva così. Sconfitta dal maschile, e ogni uomo, bello o brutto, giovane o vecchio, era una possibilità di riscatto che per come lei la poneva, diveniva sconfitta già col dirle ciao, ora devo andare. Qualche telefonata di notte, sentivi di essere necessario ma mai sufficiente alla sua solitudine. un altro saluta, e un odio mio personale verso questa Italia che l'ha usata. Prima toccò a Dino Campana, ora a Lei. i Francesi avevano i maledetti e gli italiani, invidiosi cercarono qualcosa di simile costruendoci intorno un castello di parole dotte e spinte mediatiche. castello di carte. Lei era vera, lei soffriva. ascoltate la canzone per Alda Merini scritta da Vecchioni. Lui che le era amico, l'ha compresa a fondo. Diceva Borges che da Byron in poi, ogni artista, consapevolmente, crea due opere: la vita e l'opera. Alda Merini ebbe tristemente una vita che fu un'opera orribile ma importante. Lei era il segno vivente della tradizione maschile che non aveva alcun rispetto per la donna. la sua tragedia fu la sua forza. la sua rovina, il suo vagare e parlare com'e un'ombra, la necessità del colpevole per meditare, tentare di cambiare. un Femminicidio, come si dice oggi. Morta l'anima che irrimediabilmente sconfitta, esplosa e sola, abitava un corpo che non aveva più la forza per un riscatto.
Non diversa da alcuni reduci dai campi di sterminio che conobbi, lei vide veramente la coda del diavolo. Ho sempre detto e pensato che chi subisce un trauma, un trauma vero, non sarà mai mai mai più se stesso. qualcosa si rompe definitivamente. Lei, come quei reduci col tatuaggio sul braccio, quindi ebrei, e poi gli zingari, i gay e i preti eccetera, tornarono in veste di ombra. memento mori. Ricordati che devi morire, ma ricordati anche e soprattutto, che puoi morire dentro e vagare nella vita degli altri come il Kafkiano Cacciatore Gracco sulla sua barchetta che ha smarrito la direzione e non sa più raggiungere il regno dei morti. Con Alda, fu un dialogo con un morto che chiedeva l'oblio del corpo. mi è capitato ancora, ma lei, lei, mi ha toccato veramente. La sua opera, quell'esistenza assurda, come i campi di concentramento e di sterminio, non deve essere dimenticata.... ciao)

Ciao. si, sono io. sono Alda. No. Per favore no. Non mandarmi via. continua a dormire. Parliamo. Non sei più venuto. Ti aspettavo. Si. Anche se avevo capito che.

Eppure di me sapevi molto. Direi tutto. Vittoria ti aveva raccontato. Ti ha dato l’indirizzo. Sei arrivato con una curiosità negli occhi che ho capito subito. Volevi vedere colei che per tanti è una poetessa. Avevi appena letto le mie cose e non ti erano piaciute. Quando mi hai parlato di Vittoria ho capito molto. Anche lei pensa anzi, pensava come te. Le devo molto.

Una legge oscura e irresponsabile quanto quella che ha sostituito, mi ha buttato fuori dal manicomio che in fondo era ormai per me un mondo. Sai, essendo circoscritto da mura, con un numero limitato di stanze anche se sgradevoli, era controllabile. Accettabile. Mi hanno messo fuori nell’infinito delle vie con le mie sporte che contenevano cose di anni prima e ormai insensate. Secondo loro sapevo dove andare. Ma io sapevo che non era così. Arrivo a Milano. Giro così. Mi guardano storto perché tutta l’Italia teme l’ondata, l’invasione dei matti.

Vedo attraverso una vetrata che una donna con una fiammante chioma rossa sta parlando. È bella perché è sicura di sé. È bella perché ama, si vede subito. È bella perché, ora ricordo guardando meglio mentre sono dentro e sondando le modulazioni roche e sensuali della sua voce, si, anche perchè anni fa mi premiò. Lei per prima. Ricordo che mi strinse la mano e li suo sorriso era caldo, vulcanico. Un incoraggiamento che rimase in me, slegato da tutto, da lei medesima. Smarrito nelle stanze e nelle strida del labirinto che mi rinchiuse. Sentivo questo suo seme che premeva. Era piccolissimo, direi quasi invisibile fra le pietre di quella solitudine. Era uno dei pochi semi e quindi immenso.

Finì di parlare. Andarono via tutti. Io ero seduta in fondo, mischiata in un groviglio di sedie. Ero pulita, pettinata, ma bastavano il mio sguardo e i sacchetti per capire. Venne da me, mi strinse la mano. Era ancora calda come allora. Le dissi di getto da dove venivo. Mi guardò sconvolta. Le ricordai che anni prima mi aveva premiato. Mi chiese, una volta uscita da quella sala, dove sarei andata. Tacqui. Mi prese la mano e per due mesi stetti a casa sua. Già dopo due ore, pettinata da lei, e con un suo vestito addosso, mi sentii normale. Che sensazione ragazzi! La provo ancora qui nella selva dei morti.

Dopo me ne andai e divenni famosa. Lei odiò questo. Non me. E io so quanto avesse ragione. La mia epoca, che ora è la tua, crea i personaggi e più son squinternati più li succhia nel midollo delle apparenze.

Ma cosa facevo io? soffrivo. Io donna, io nata per l’amore. Io nata per l’amore vero, ero stata buttata nel carcere della mente da un certificato chiesto dall’uomo che amavo, che amavo e che mi aveva deluso. Te l’ho detto, ma è indescrivibile. Lo trovo a letto con lei. Una parente. Una che tutti i giorni era li. Non faccio più nomi. Anch’io ora con te, forse per l’ultima volta lo indosserò il nome, e poi lo getterò così.

Nuda veramente nuda sarò, senza corpo senza occhi e forse finalmente senza dolore.

Lui voleva salvare le apparenze ma io stetti male male male male. Lui andò dal medico e fece fare il certificato. Bastava chiederlo, e mi rinchiusero.

Tu sapevi tutto quando hai suonato in quel casermone in via Navigli.

Fu tutto così strano. Non ho aperto io. Ti vedo nell’immenso corridoio tutto uguale che vaghi ma sei interessato più di tutto dalla mia porta con il poster di Padre Pio e altri santini. Sbircio. Hai forse qualcosa in più di trent’anni e sei elegante. Chiedo cosa vuoi. Mi dici che cerchi Alda Merini. Che hai suonato e che io ho aperto. Ricordi? Ti ho detto che è stato mio marito. Non io. e se lui ha voluto anch’io ti faccio entrare. L’appartamento era un antro di disordine. Per terra barattoli di birra e roba che nemmeno io sapevo cosa fosse anche se l’avevo raccolta e ammonticchiata e una televisione accesa che baluginava luce e parole.

Ti dico che mi stendo perché ho male qui, da una parte. Sono in camicia da notte, ho collanine e disperazione perché capisco subito che di nuovo, davanti ad un essere maschile vorrei tentare il riscatto da tutto. Domando cosa ti porta da me e dici che desideri conoscere con la poetessa. Sei subdolo. Sai che in me non c’è nulla di quel che dici. Lo leggo a chiare lettere dalla tua schiena irrispettosamente curva tipica di chi non si cura di piacere. Scrivi anche tu, si capisce. Guardi intorno. Hai visto pezzi di cartamoneta di grosso taglio in tutte le stanze e ho fatto l’errore grossolano di prenderne un paio e nasconderli in un quaderno anche se si vedeva che non ti interessava niente. Non ti ha toccato. Ho capito che anche tu sei un abisso. Sei come me anche se ancora curi l’apparenza e hai bei guanti di pelle nera senza dita che dimenticherai sul tavolo in cucina e che dormiranno fra i miei seni per giorni e giorni fin quando, anche l’evidenza del calendario, confermerà l’ultima illusione. E per Natale non sei venuto. Si. Non sei venuto. Ma eri stato leale. L’avevi detto.

Quando vedo nei tuoi occhi il mio buio decido di donarti un attimo di verità. Ti dico che il letto è grande, che devi fare l’amore con me. Che importano i miei settant’anni superati da un po’, che importa tutto. Potevi, dovevi amarmi almeno tu. Toccare un corpo, e da questo baciarti l’anima che avevo vista. Tu solo, ultimo fra i vivi potevi comprendere e darmi finalmente quella pace. Quel riscatto. Non ti sei mosso. Hai detto che no ti interessa il corpo. Cerchi un’anima. Ho capito che dicevi sul serio. Non mi hai umiliata. Stavi tentando di andare oltre. Ho tremato dentro. Era tutto così bello, così semplice. Ti chiedo cosa scrivi, parli. E non è quel che dici, ma la passione tua che mi disseta. Ti alzi. Devi andare. Ti chiedo se torni. È il quindici dicembre. Cosa fai a Natale? Mi dici che abiti lontano e che non sguazzi nell’oro. Ho capito. Saresti venuto. Non ti faceva pena o ribrezzo questa vecchia che ci prova e si fa compatire troppo spesso. Quella notte tu non lo sai, o forse, si, hai dormito con me. Mi hai amato con forza, freschezza. Mi son sentita viva.

Ora che sono morta. So tutto. Sei passato da Vittoria. Non hai raccontato se non la superficie e il giorno dopo sei partito. Eri seduto in treno. Non riuscivi a leggere e l’hai detto. Si, l’hai detto, e piango ancora dalla soddisfazione, ora, dal mondo dei morti nel riviverti. Ti dici “non ho niente da perdere. Sono solo vestito meglio. Lei vive il suo vuoto fuori e dentro. È più vera di me anche se non apprezzo la sua poesia. Avrei dovuto amarla. Avrei dovuto stendermi di fianco a lei in quel letto enorme e sporco come la vita, avrei dovuto farla urlare, farla felice. Baciarle la bocca lodare i capelli, giocare con le collanine. Chi non ha niente da perdere può tutto e deve almeno, donare.”

Ora, con queste tue parole muoio finalmente davvero. Definitivamente. Mi hai dato la chiave per l’oblio. Le divinità più grandi dicono che conta l’intenzione e ti ringrazio.

Per te non so che dire. Troppa lucidità, troppa nitidezza. Niente compromessi. Giusto così, ma sarai e sei in esilio ovunque. Quando non sai che fare chiudi gli occhi e stenditi di fianco a me in quel letto che ora è candido. Ora sono bellissima e le carezze dei miei fili d’arpa, ti accarezzerebbero l’anima.

Sorridi per favore, sorridi almeno quando mi pensi. Il tuo per me non era amore. Forse non sai nemmeno più cos’è, ma era l’intenzione di donare senza pretendere niente se non di cadere in due nel vuoto del tempo.

Ora anche Vittoria è qui. Ci siamo abbracciate. Senza le regole della vita qui, ci si capisce al volo. Ti mandiamo un bacio. Ci dissolveremo nell’infinito domani. Ce lo siamo meritate. Grazie di tutto, da me, da Vittoria. Chiudi gli occhi. Elimina il tempo, il corpo. Solo pensiero. Così, in bilico, arriverai anche tu e diventeremo un infinito immenso.

Ciao


Melville: lettera dall'aldilà




Questo è il primo di una serie di lettere giunte dall'aldilà. Piccolo gioco fra il critico e il letterario che intende rendere note alcune informazioni che ritengo interessanti. Il primo caso riguarda Davide Rondoni

 

e Hermann Melville. Quest'ultimo mi ha comunicato di essere assai arrabbiato con Rondoni e mi ha “dettato” questa lettera. Chi sia Davide Rondoni lo scoprirete su internet. Quel che posso dire personalmente è che il ridicolo ha dei limiti e mi permetto tale affermazione poiché lo incontrai un giorno, in un teatro. Aveva appena parlato dal palco atteggiandosi in un modo così smaccato da farmi sentire a disagio. Avevo deciso di incontrarlo e di fargli una domandina. Accadde e, disgrazia volle, per lui, che non ero solo (quindi ho testimoni di quanto affermo). Gli chiesi se era veramente convinto che Melville, come aveva scritto in un articolo, avesse trattato un enigma indefinibile, se veramente lui e Dostoevskij hanno parlato di un male oscuro … ma non sappiamo cos'è..... ebbene. Negò di averlo mai scritto. Gli dissi che avevo l'articolo in tasca e se voleva potevamo controllare insieme quella sua affermazione, perché dire che Dostoevskij e Melville... ma non avevo terminato la frase che era già sparito nella ripetendo comunque che lui assolutamente no non aveva scritto quelle cose eccetera. La finzione, com'è ovvio, non può reggere un contraddittorio e men che meno se ci son testimoni. ..... l'arte, la letteratura son ben altro da questi personaggi dello spettacolo.....

. ma Melville, la notte mi parlò, ed era assai arrabbiato. Qui riporto quanto mi dettò.

Questo fatto innescò in me queste “comunicazioni”. E così anche Caravaggio, Picasso, Alda Merini e Duchamp, “scrissero” qualcosa per i vivi. Sembrava che la comunicazione potesse continuare, ma vi fu silenzio. La coscienza dei morti, non meno di quella dei vivi, ha bisogno di meditazione e di tempo. Penso che qualcuno in futuro si farà ancora sentire, come è vero che molti di loro vengono a farmi compagnia, con Mafalda, Tata, Sophie e i miei antichi gatti, nelle notti troppo lunghe da sopportare rimanendo nel corpo. Giuro su quel che ho di più sacro, il mio cane, che non bevo (giusto una birra ogni tanto), non faccio uso di droghe leggere e nemmeno pesanti, non fumo e non leggo Novella 2000. Quindi, certificarmi come malato mentale, per quanto non sia impossibile, è comunque abbastanza impegnativo...

Delle persone che “mi hanno scritto”, solo Alda Merini, ho potuto conoscere personalmente. Mi fece una tenerezza infinita. Roberto Vecchioni, con la sua “Canzone per Alda Merini”, l'ha descritta perfettamente. Ne lui ne io abbiamo pensato alla sua poesia, ma al dramma che visse e che la sbriciolò.

Per quel che riguarda Picasso, non conobbi lui per questioni anagrafiche, ma suoi conoscenti e amici. Uno di questi Franco Passoni, era uno studioso artistoide di Milano che mi trattava con paterno affetto. Spiegherò meglio quel che accadde nei nostri dialoghi, e che è secondo me assai importante per comprendere l'opera di Picasso, al termine della lettera di Picasso.

DALL'ALDILA’ 1 (Melville)

Sono Hermann Melville. Non si sorprenda per cortesia. Anche in Paradiso arrivano i quotidiani e, ovviamente, quando qualche collega mi comunica che si parla di me la curiosità ancora, fa il suo gioco.

Scopro che lei viene intervistato sulla mia opera ora più celebrata e dice delle cosine che mi hanno stupito.

Non immaginerà mai chi mi ha dato questo brandello di pagina 5 di giornale datato 26 luglio 2003: un certo Dostoevskij che lei cita. Sa, lui e io non ci vediamo spesso, Fiodor ama la città e io la campagna e il mare.

La sua citazione che ci ha unito nelle sue parole, ci ha riuniti davanti ad un buon bicchiere e abbiamo deciso in comune e fraterno accordo, di spiegarle un paio di cosucce.

Lei dice: “ Il fascino di quest’opera uscita in America nel 1851 sta innanzitutto nel fatto che il suo enigma è indefinibile, ci parla della balena, di un male oscuro, ma non sappiamo dire cos’è tutto ciò. Siamo alle stesse altezze di Dostoevskij.”

Bene, in un colpo solo ci ha fatto arrabbiare in due. Lei avrebbe dei seri problemi qui da noi in Paradiso e comunque pensiamo che il buon Dio, che tiene molto alla nostra serenità (ce la siamo guadagnata!), provvederà a darle ben altra sistemazione.

Riteniamo che quanto stiamo per dirle sia a dir poco banale, ma sembra necessario.

Le sembra possibile enunciare che “l’enigma è indefinibile?”, e che “ci parla della balena, di un male oscuro, ma non sappiamo dire cos’è tutto ciò?”

Quel “ci” presente in “ci parla della balena” mi tira in ballo personalmente ovvero io, Hermann Melville, vi parlo; e . . . . . corpo di mille balene, secondo te io scrivo di qualcosa che non so cos’è? Vi parlo della balena, di un male oscuro e non so cos’è? Ma come sei ridotto ragazzo!

Dialogavo ieri con Francis Scott Fitzgerald di queste tue assurde considerazioni e lui mi ha consigliato di citare una frase che lasciò a voi mortali nei suoi taccuini: “Non si scrive per dire qualcosa; lo si fa solo se si ha qualcosa da dire.”

Sono stato chiaro? Il male è oscuro per te che hai dei problemi di comprendonio, ma conosco altri lettori che hanno capito. Ora mi domando. Hai dei problemi a casa? Un’infanzia infelice? Sei stato un pollo di batteria? Dimmelo sinceramente. Potrei capirti, però smettila di dire queste corbellerie. Se le tue parole possono apparire su un quotidiano sii un po’ più responsabile.

Il caro vecchio Friedrich Nietsche, che finalmente si è tagliato quegli orribili baffoni, mi ha rammentato, per consolarmi, che in Germania questi fatti accadevano già nel 1873. Nelle “considerazioni inattuali” non esitò a definire la cultura tedesca “senza senso, senza sostanza, senza scopo: nient’altro che opinione pubblica”.

E’ curioso, mentre sto scrivendo queste righe gli amici che si aggiungono alla mia tavola stanno diventando più numerosi dei bicchieri che tengo in casa. Fiodor, Francis, Friedrich e io osserviamo altre ombre che si appressano alla porta socchiusa. Ne hai fatta arrabbiare di gente ragazzo mio.

Il caro Franz Kafka, mi ha appena detto che se al tuo giornale giunge una lettera nella quale cito il nome di un partito, si penserà che io sono della corrente opposta e mi invita a stare sul generico… Il caro Franz, come Oscar Wilde, ha sempre ragione.

L’articolo dice, che sei poeta e questo passi! In un periodo di “opinione senza cultura” questo può accadere, ma ci risulta anche che tu diriga il Centro di Poesia Contemporanea dell’Università di Bologna e la rivista ClanDestino. Hai trentanove anni e ricopri questi incarichi? Allora sei un genio! Mi viene più facile pensare ad un pollo di batteria che inizia pulendo i tavoli di una “festa” e con una annosa, mediocre, costante militanza alla sede del partito e succursali varie ha avuto diritto ad una fetta di . . . . torta. E non dimenticare che lo sappiamo anche qui in Paradiso che l’Università di Bologna, è …. Franz mi dice che anche questo non lo posso dire! Ma che strano! C’è troppa gente che occupa i posti della cultura ma della cultura comprende ben poco. Ecco, si. Questo è abbastanza generico. Franz, che ha studiato legge anche se non di recente, dice che così può andare. Le risposte che hai dato al giornale sommate alle cariche che copri danno come risultato tanta tristezza. Vergognati. Torna a casa e leggi la mia opera e non fregiarti del titolo di poeta perché sappiamo anche quassù, che la pubblicazione di un testo da parte una buona casa editrice, non dimostra assolutamente nulla.

Dimostra di più il fatto che non sai qual’è il “male oscuro” del mio libro.

Se tu leggessi “Bartleby ” oppure “La torre Campanaria” o “Il venditore di Parafulmini” potresti forse allenare i neuroni e avvicinarti al “male oscuro” che anche in quei testi narro.

Parli poi delle mie poesie e ripeto imprecando, corpo di mille balene, che anche lì c’è la chiave. Concludo aggiungendo che anche Fiodor che ha un buon temperamento russo, è arrabbiato anzi arrabbiatissimo.

Dici che lui e io siamo alle stesse altezze e poi dici che non hai capito un’acca! Ma “fatti un orto” oppure vai un po’ per mare! Assaggia sulla tua pelle un po’ di vita dura razza di rammollito! E lascia quegli incarichi invocando per te stesso e per la tua epoca che un vero poeta ti sostituisca, ma è anche vero che ad un Poeta con la P maiuscola non gliene fregherebbe niente di un centro di poesia contemporanea per giunta gestito da un’università.

Un brindisi ora alla tua vanità e lasciaci in pace.










martedì 13 agosto 2013

Goliarda Sapienza; "L'arte della gioia"




Ed eccovi me a quattro, cinque anni in uno spazio fangoso che trascino un pezzo di legno immenso. Non ci sono né alberi né case intorno, solo il sudore per lo sforzo di trascinare quel corpo duro e il bruciore acuto della palme ferite dal legno. Affondo nel fango sino alle caviglie ma devo tirare. Lasciamo questo mio primo ricordo così com’è: non mi va di fare supposizioni o d’inventare. Voglio dirvi quello che è stato senza inventare niente.”

Questo è l’inizio, e di così totali, grandiosi … e completi, ne troverete ben pochi nella vostra (e mia) vita. Ora vi chiedo di agire come feci io la prima volta che lessi quelle parole. Per favore, provate anche voi a leggere e rileggere, con calme quelle poche righe. Resistete dalla tentazione di proseguire per qualche ora. Lasciate che quelle parole si sciolgano dentro.

Fate caso che dopo quel che ho trascritto, nel libro, segue un punto e poi un a capo. Si tratta di un salto. Di un vero salto alla riga successiva che rappresenta l’inizio della narrazione. Questa immagine che precede, così separata dall’accapo, e che ho trascritta, osserviamola, gustiamola, lasciamo che ci entri dentro con la minor dose di pensiero che ci riesce e ripetute, attente, lente riletture si permettano il compito più banale, ma non completamente inutile, in un secondo tempo, di ragionare.

Dicevo … l’inizio di quel brano è un’immagine, e per quest’epoca, che da qualche decennio è quasi esclusivamente visiva, sembra per questo, facile.

Ora immaginiamo ….

Io ho visto un bianco abbacinante, piedi nel fango, una bimbetta chissà perché striminzita, scuretta di carnagione e che trascina un nervo di legno, qualcosa come un ramo di ulivo che per lei è quasi tronco. Ho poi rimeditato questa immagine e l’ho “pulita” di quanto ho aggiunto arbitrariamente … so che chi ha scritto è una donna, quindi ho immaginato una bambina. So che è nata a Catania e quindi l’ho immaginata abbronzata e, anche il ramo, per quel motivo, era un ulivo. Sbagliato. Ho condito troppo e male aggiungendo cultura in un impasto che sento essere istintivo, primordiale, subcosciente. Rileggo e mi rendo conto che si tratta invece di un esserino antecedente la divisione sessuale. Un bambino. Strano l’italiano. Gli articoli maschili “il” o “un”, per un vocabolo, “bambino”, che si percepisce come neutro! Preferisco il “mio” tedesco, che dice, con l’articolo neutro “das”, e il vocabolo “Kind”, qualcosa di più vero. Kind, che ci riporta alle barrette Kinder, bambini al plurale, una squisitezza appunto per cuccioli. E penso a quando prendi in mano un gattino di una settimana e non sai se è maschio e femmina. Davanti alla vita, nel suo corpo, nella sua percezione, altro non è che una cosina neutra lanciata nella vita e che vivrà fra cambiamenti suoi ed esterni.

Bene. Ho già riletto una volta per scoprire un bambino, das Kind, per l’esattezza.

Ha quattro o cinque anni.

Passiamo alla scena; “uno spazio fangoso” è la prima traccia, poi il nulla che sta dietro e intorno a das Kind, è reso con la negazione di oggetti concreti. “non ci sono né alberi né case intorno”.

Immagino ora la sensazione di circolarità intorno a quel nulla che non è casuale, ma un nulla di case e alberi, che quindi immagino e, come suggerisce il brano, poi elimino. E quella circolarità, come il nulla creato per eliminazione, son geniali o almeno, così io li sento.

Frugo ancora fra le parole. Quel che mi colpisce ora è lo sforzo, anzi, la naturalezza .. che esce da questa “visione” data con poche parole, e accede alla, per noi inusuale, sfera degli altri sensi e della corporeità. L’assenza del paesaggio, espressa dalla coppia “alberi” e” case”, è affiancata da un’altra coppia; “sudore” e “sforzo”. Segue poi la coppia, “duro” del legno e “bruciore” delle mani. In quell’immagine iniziale, che “vedo” con bianco abbacinate e fango marrone alle caviglie, entra il sudore … Ho fatto caso quanto in Murakami Haruki sia presente il sudore, con quella sua attenzione costante ad un corpo ben allenato. A me la sua percezione manca quasi totalmente, e a molti di noi. Per noi attualmente il sudore non è un odore, ma una puzza, e va debellato come un veleno che ci intride la pelle e quindi non lo conosciamo come accade per qualsiasi cosa che, per educazione ci repelle. In quel brano il sudore è il simbolo di una fatica. Potrebbe esserlo del sole e del suo caldo e son di nuovo deviato, ma per un solo attimo ma nuovamente, perché so appunto che l’autrice nacque a Catania, sinonimo di caldo (e certi squisiti dolci alle mandorle …. ma quanto è difficile dominare il sensuale cervello!!!). il sudore è legato allo sforzo. Per noi questo accoppiamento, sudore-sforzo, sa di palestra e raramente ormai in questo senso lo rintracciamo. Anche chi lavora di braccio deve ammettere di averne un ricordo vano, piccolo piccolo. Penso ai faticatori per eccellenza della nostra mente educata agli stereotipi. I camalli, gli scaricatori di porto. Attualmente con muletti, nastri trasportatori eccetera, faticano certamente, ma un decimo di quel che accadeva una volta. Ricordo per esempio il mio stupore quando ho scoperto che il trattore di con ruote alte quanto me, aveva l’aria condizionata e lo stereo! Fatica da contadino … una volta … Vedete … l’immagine di quelle prime righe è atemporale. Nessuna traccia la depone nel novecento o nel milleduecento o nel … 1909, come poi si scoprirà. Solo quel rapporto sudore-sforzo tradisce una datazione non attuale …. Ma nascendo questo indizio da un eccesso di pensiero la colpa è mia e non dell’autrice.

L’altra coppia riguarda la sensazione; “duro” e “bruciore”. Duro del legno che in relazione a das Kind, fa un certo effetto, che sarebbe sminuito se si trattasse di un adulto. Il bruciore alle mani, causa la durezza del legno, ci pone nel tempo. Lo sforzo compiuta da Das Kind, è prolungato, diversamente non ci sarebbe il dolore. Dolore nel tempo. Grande e giusto.

Affondo nel fango fino alle caviglie ma devo tirare, non so perché, ma, lo devo fare”.

La sensazione di un non luogo dal quale ci si deve affrancare, e ci si porta dietro l’unico oggetto “duro”, concreto oltre noi stessi. Ecco che sento che “sudore”, “sforzo”, “duro” e “bruciore”, son tutte tracce che confermano l’esistenza a das Kind. Andare, muoversi, è esistere. Le sensazioni del corpo ne son conferma in quel nulla, unico stimolo e aiuto a non arrendersi e farsi nulla nel nulla, fango nel fango, relitto, tronco di corpo morto alla deriva, poiché la nerezza, che sento fortissima, abbacinate quanto lo sfondo che immagino bianco, è morte da evitare ed evitabile solo se ti senti vivo, e la vita è rivelata da sforzo, sudore, duro e bruciore, abc del primigeno esistere.



Veniamo ad un “gioco” linguistico che aiuta a “toccare” la forza di quella frase che anticipa l’inizio dell’opera; Black e blanco basterebbero, ma aggiungo bianco e Balnc tanto per gradire e il ricordo che in Europa il bianco è per i vivi, per i matrimoni e i bambini. Il bianco è purezza, che si oppone al bianco dei crisantemi giapponesi e al suo legame col culto dei morti.

Black e blanco … la medesima radice in quel “bl”, che sta per assenza di colore. Ecco la primordialità della misura visiva di quella frase espressa col più arcaico “scuro”!

Vedete, dello “scuro” del ramo siamo certi poiché viene detto, ma quello scuro rende abbacinante, quasi luminoso e fastidioso quel nulla di sfondo creato con la negazione di alberi e case.

Quel bianco livido è spuntato in noi, come una diurna nebbia maligna, a contatto col ramo, ammettiamolo … e “sentiamo” che quella frase che anticipa l’inizio del libro, rappresenta la vita del protagonista, una vita ancora fuori dal tempo, dal sesso e dallo spazio. E poi, lasciando lavorare l’immagine dentro di noi, e “sentiamo” che quell’immagine è completa, universale, sua e … nostra.

Istruzioni per l’uso di quella caterva di imbecilli che scrivono senza umiltà ….

Goliarda Sapienza non ha costruito quella frase. L’ha “sentita” e poi trasformata in parole. Quel che si deve comprendere è che il Saper Scrivere non può nascere nelle scuole di scrittura creativa e nemmeno nell’ambizione, che anzi, ne è una nemica ed estrema assassina. Ci si deve lasciar andare … e le immagini verranno, e saranno sempre più pure in ragione del nostro sforzo di arrenderci a tutto quel che l’apparenza della vita, l’esterno, chiede a chi scrive. Non esiste morale in questo “viaggio”. Scoprire noi stessi è il primo gradino. Deve seguire poi l’accettazione anche di quegli aspetti che di noi stessi non accettiamo. Solo quando il nostro io non trova ostacoli, avrà il coraggio di parlarci, poiché esso risente troppo del nostro giudizio. Se vi riuscirà, operazione comunque assurdamente difficile, se vi riuscirà, dicevo, il pudore interverrà in voi stessi nel senso che diverrete gelosi di quanto avete ottenuto. Che siano parole, quadri o altro, poco importa. Ogni frainteso su quell’io puro, lo sapete, vi ferirebbe e quindi dare in pasto al mondo vi pesa. E allora dovete scoprire che quell’io puro trasferito nell’opera, si deve lasciarlo andare poiché era un io in un momento del tempo e voi che continuate ad essere ne saggerete la distanza sempre più grande da quel divenire che siete. Dovete ignorare quindi, la sua esistenza. Per voi deve importare il credere, sperare, che quell’io possa essere purificato ancora un poco e ancora un poco e ancora un poco, fino al ricongiungimento estremo, al momento magico nel quale, abbandonato il corpo che è diventato uno strumento insufficiente, nell’infinito che continua, se siamo stati veramente sinceri con la vita, ci congiungeremo all’immagine che lo specchio dalla nostra arte ha rivelato.

Ovviamente il libro di Goliarda Sapienza vale non solo per quel grande inizio, ma come per altre letture, ad esempio “Lolita”o “Tropico del cancro”, dobbiamo saper rinunciare alle nostre moralità, ai nostri limiti. È un naufragare nel mare della vitalità che ha precedenti più mascherati ma illustri sempre nel novecento ma anche nel castigatissimo ottocento. Il mio caro Simenon è, per esempio, un inno alla vita. Per lui quando la vita chiama non esiste legge dell’uomo che la possa imbrigliare!

Vi porto altri due esempi, che su altri registri che comunque stimo, anche se più pudichi e costruiti, portano comunque nella medesima direzione. È estate, è caldo! e una letturina bella, leggera ma seria, ve la consiglio. Si tratta de “Il marito in collegio” di Guareschi. Vi troverete davanti ad una coppia che nonostante uno zio ricco e una famiglia nobile e spocchiosa, riesce a trovare quella via nella quale un sentimento e una sensualità fioriscono. La lotta per la vita trasformata in una commedia che spesso, nonostante si tratti di un testo del 1944, ci fa ancora ridere, altro non è che l’emancipazione dall’amore naturale dalle regole della società.

Vi consiglio poi, di Mario Soldati, “La verità sul caso Motta”. Testo fintamente leggero, del 1937 se non sbaglio e che, in una Italia castrata nella sua libertà di espressione come in fondo accade in tutte le epoche (e anche nella nostra …), ci mostra l’avvocato Motta che, non riuscendo ad “innescare” un dialogo concreto con la femminilità … si trova nell’irrealtà stupenda delle sirene che culminano nel ghigno inconsapevole della madre iperprotettiva e religiosa e quindi castrante, trasferito sulla mostruosa, felliniana regina delle sirene. Ecco, anche in questo caso qualcosa impedisce alla vitalità di realizzarsi … e prende la via di una simpatica follia. Mai eccedere nella realtà sotto le dittature!

Ecco il tema di Goliarda Sapienza. La vitalità, la sua, che si esprime senza remore, senza timore di essere, com’è giusto, giudicata. Solo ai meschini interessa l’altrui giudizio in morale e arte ….

Un altro esempio, mi vengono su così a caso, lo trovo ne la raccolta “Racconti di mare e di costa” di Joseph Conrad edito Einaudi. Sono tre, e in essi la seduzione, il fascino ottocentesco per i capelli femminili è reso alla massima potenza. Solo dopo la lettura di questo libro si può comprendere l’eccesso di Sissi, la moglie dell’imperatore d’Austria, che aveva una chioma talmente folta da essere costretta, nei momenti di vita privata, a farla sorreggere da una carrucola. In due racconti, “Un briciolo di fortuna” e, “Freya delle sette isole”, la potenza della legge di natura, ben diversa da quella degli uomini, si pone come via unica da percorrere per approdare ad una vera, vitale, vita di coppia. In ambedue i casi, la vitalità ne esce sconfitta, ma è proprio nella sua irrealizzata malattia che si svela, all’uomo del secondo ottocento, cosa occorre alla vita per essere degna di questo nome. E da qui passare agli ammutinati del Bounty è doveroso, che di un paradiso di eros senza regole non riuscirono più, una volta assaggiatolo, a fare rinuncia…. Tornare ai costumi britannici? Alle donne grigie di regole e di abiti inguainati in telai di ossi di balena? Rinunciare a paesaggi in technicolor delle isole esotiche per il grigio omogeneo di Londra, così celebre da definire il colore di un panno tuttora in voga? La tentazione di esistere, di esistere con un senso almeno del corpo è presente in queste epoche con una forza inaudita. Far figli e arricchire soddisfaceva l’apparenza, ma non l’Uomo….

E Goliarda Sapienza prosegue un cammino immenso che, con la citazione di tre testi considerati minori e comunque quasi dimenticati, preferendoli per esempio alle universalmente note signore della letteratura, ovvero Madame Bovary, Anna Karenina, e Lady Chatterley, con quei tre testi minori dicevo, si dimostra la vastità della sua importanza nella storia dell’uomo. Uomo, uguale bestia civile. Come possono convivere due opposti simili? Non riescono. A volte scelgono uno il giorno e l’altro la notte, spesso han due femmine, una per i figli e l’altra per l’amore …. Ma questo era il mondo dei maschi!!! Ora, e spero che definitivamente sia questa la direzione intrapresa, il mondo è degli esseri umani e l’essere bestia e civiltà, è un enigma che tutti, maschi e femmine e non solo … devono risolvere in libertà e …. Incoscienza. Se poi si riuscisse a superare l’equazione uomo-bestia-civiltà e farne una scala con in cima la scoperta dell’anima … ma è un problema mio, che così sento. E non devo cambiare argomento.

Torniamo alla frase iniziale. Essa si conclude così: … “Lasciamo questo mio primo ricordo così com’è; non mi va di fare supposizioni o inventare.”

Io penso, ma è una cosuccia assai personale e quindi fragile, che il ricordo descritto sia vero e che l’opera vada invece oltre la realtà biografica. Goliarda ci offre il ricordo “così com’è” e con quel suo scrivere “lasciamo questo mio ricordo così com’è” ci coinvolge ci riconosce e ci da un consiglio di lettura. “Non giudicate, lasciatevi andare!”. E perché lo chiede, anzi, lo consiglia? Perché per lei, per me, per tutti, quel ramo scuro … “non so perché … ma lo devo tirare, non so perché, ma lo devo fare.”

È grande la vastità di quel “non so perché”. Si deve tirare, si deve fare … la vita. Perdere tempo nell’analizzare, vivisezionare quella prima frase, anestetizzarla e poi scomporla e giocarci, roba da indocenti e intellettuali, non va fatto. Lasciarsi andare è l’unica chiave. La medesima che lei utilizzò per scrivere e che vi consiglio, sempre, per una nutriente lettura.

Se ho scelto di portare passo passo l’evoluzione della mia, (speriamo…) sensibilità, mondandola costantemente da cultura ed erudizione, è per rendere evidente, palpabile quale colossale sforzo sia l’essere umili in arte e essere umili, in questo campo più che mai, equivale all’essere corretti.

Un’ultima considerazione. Ricordo altri due autori che hanno iniziato opere chilometriche su se stessi, partendo dal primo ricordo consapevole. Elias Canetti e Giacomo Casanova. Il loro, che è un diretto, chiaro inequivoco ricordare, rientra nella dimensione del raccontare. È più facile e non raggiunge, secondo me mai, le vette della pura creazione. Son opere che non si possono certo tralasciare. Ci si inoltra in epoche, tradizioni, geografie e pensieri. L’invenzione pura, ovvero Kafka, Nabokov, Bulgakov, per citare alcuni dei miei preferiti, scardina invece il tempo, lo annulla. È come avere a disposizione una medicina universale che annientando morali basse, umane, ci consegna la consapevolezza di un senso, anche se solo intuito.

Il senso di giustizia in Kafka (ma non solo quello…), la moralità del lolitismo, la corruzione sociale in Bulgakov, esisteranno sempre. Da queste piaghe, da queste realtà, poiché sempre da essa si parte, s’involarono quei tre grandi.

Goliarda Sapienza parte invece da una vitalità, scoperta in una bambina, prima dell’avvento della norma, della società, della cultura. La vitalità in forma sessualità per esempio, si fa quindi gioia, estasi, e non esistono redini sensate per chi ha avuto un simile esordio! Magistrale è il dialogo sul mare che non conosce, che non ha mai visto, e la parallela scoperta del piacere erotico. Quel ragazzo al quale ha chiesto, descrive il mare in modo buffo ma vero, ma lei non capisce. Si passa poi al primo contatto erotico fra i due nato sempre da una domanda che può aver risposta solo nell’azione, e durante estasi provata per la prima volta, lei dice: “Ora so cos’è il mare”.

Geniale. L’infinità di un’entità sconosciuta e descritta alla buona, come il mare, e la sensazione, infinita del piacere per la prima volta gustato che si toccano e “sento” che il contatto è totale, vero anche per il lettore che, all’inizio pensa, “ma che bella immagina” e poi la interiorizza e non ne fa più a meno.

Un esempio dell’utilità dell’arte al livello più basso, ma comunque utilissimo …. immagino qualcuno che legge di quella sensazione ma sa di aver provato qualcosa di molto più piccolo, banale, e forse meno innocente. Spesso la sessualità si annichilisce nella sensazione che sia una cosa sporca, dono spesso ereditato da religioni e zitelle acide … e la scoperta che …. È come il mare, questo simbolo enorme , inspiegabile, ma che corpo e … scusate … anima, comprendono, può convincere a cercare. Si desidera solo quel che si conosce … e quel passaggio, quel gridare della ragazzina “ora so cos’è il mare” è scoperta che una certa sensazione esiste, è bella e quindi …. è trovabile … A

All’inizio del pensiero precedente mi son permesso di dire che si tratta della descrizione di un’ utilità al livello più basso. Mi spiego. Se uno presuppone il sacro, anche se come me, non sa ancora definirlo, ecco che le sensazioni del corpo non riusciranno ad esaurire mai il senso dell’esistenza, ma rappresenteranno un possibile punto di partenza, di elevazione …

Come non proseguire ora nella rilettura de “L’arte della gioia”! … quindi vi saluto e vi lascio per quelle pagine primitive, sincere e per questo belle.