martedì 13 agosto 2013

Goliarda Sapienza; "L'arte della gioia"




Ed eccovi me a quattro, cinque anni in uno spazio fangoso che trascino un pezzo di legno immenso. Non ci sono né alberi né case intorno, solo il sudore per lo sforzo di trascinare quel corpo duro e il bruciore acuto della palme ferite dal legno. Affondo nel fango sino alle caviglie ma devo tirare. Lasciamo questo mio primo ricordo così com’è: non mi va di fare supposizioni o d’inventare. Voglio dirvi quello che è stato senza inventare niente.”

Questo è l’inizio, e di così totali, grandiosi … e completi, ne troverete ben pochi nella vostra (e mia) vita. Ora vi chiedo di agire come feci io la prima volta che lessi quelle parole. Per favore, provate anche voi a leggere e rileggere, con calme quelle poche righe. Resistete dalla tentazione di proseguire per qualche ora. Lasciate che quelle parole si sciolgano dentro.

Fate caso che dopo quel che ho trascritto, nel libro, segue un punto e poi un a capo. Si tratta di un salto. Di un vero salto alla riga successiva che rappresenta l’inizio della narrazione. Questa immagine che precede, così separata dall’accapo, e che ho trascritta, osserviamola, gustiamola, lasciamo che ci entri dentro con la minor dose di pensiero che ci riesce e ripetute, attente, lente riletture si permettano il compito più banale, ma non completamente inutile, in un secondo tempo, di ragionare.

Dicevo … l’inizio di quel brano è un’immagine, e per quest’epoca, che da qualche decennio è quasi esclusivamente visiva, sembra per questo, facile.

Ora immaginiamo ….

Io ho visto un bianco abbacinante, piedi nel fango, una bimbetta chissà perché striminzita, scuretta di carnagione e che trascina un nervo di legno, qualcosa come un ramo di ulivo che per lei è quasi tronco. Ho poi rimeditato questa immagine e l’ho “pulita” di quanto ho aggiunto arbitrariamente … so che chi ha scritto è una donna, quindi ho immaginato una bambina. So che è nata a Catania e quindi l’ho immaginata abbronzata e, anche il ramo, per quel motivo, era un ulivo. Sbagliato. Ho condito troppo e male aggiungendo cultura in un impasto che sento essere istintivo, primordiale, subcosciente. Rileggo e mi rendo conto che si tratta invece di un esserino antecedente la divisione sessuale. Un bambino. Strano l’italiano. Gli articoli maschili “il” o “un”, per un vocabolo, “bambino”, che si percepisce come neutro! Preferisco il “mio” tedesco, che dice, con l’articolo neutro “das”, e il vocabolo “Kind”, qualcosa di più vero. Kind, che ci riporta alle barrette Kinder, bambini al plurale, una squisitezza appunto per cuccioli. E penso a quando prendi in mano un gattino di una settimana e non sai se è maschio e femmina. Davanti alla vita, nel suo corpo, nella sua percezione, altro non è che una cosina neutra lanciata nella vita e che vivrà fra cambiamenti suoi ed esterni.

Bene. Ho già riletto una volta per scoprire un bambino, das Kind, per l’esattezza.

Ha quattro o cinque anni.

Passiamo alla scena; “uno spazio fangoso” è la prima traccia, poi il nulla che sta dietro e intorno a das Kind, è reso con la negazione di oggetti concreti. “non ci sono né alberi né case intorno”.

Immagino ora la sensazione di circolarità intorno a quel nulla che non è casuale, ma un nulla di case e alberi, che quindi immagino e, come suggerisce il brano, poi elimino. E quella circolarità, come il nulla creato per eliminazione, son geniali o almeno, così io li sento.

Frugo ancora fra le parole. Quel che mi colpisce ora è lo sforzo, anzi, la naturalezza .. che esce da questa “visione” data con poche parole, e accede alla, per noi inusuale, sfera degli altri sensi e della corporeità. L’assenza del paesaggio, espressa dalla coppia “alberi” e” case”, è affiancata da un’altra coppia; “sudore” e “sforzo”. Segue poi la coppia, “duro” del legno e “bruciore” delle mani. In quell’immagine iniziale, che “vedo” con bianco abbacinate e fango marrone alle caviglie, entra il sudore … Ho fatto caso quanto in Murakami Haruki sia presente il sudore, con quella sua attenzione costante ad un corpo ben allenato. A me la sua percezione manca quasi totalmente, e a molti di noi. Per noi attualmente il sudore non è un odore, ma una puzza, e va debellato come un veleno che ci intride la pelle e quindi non lo conosciamo come accade per qualsiasi cosa che, per educazione ci repelle. In quel brano il sudore è il simbolo di una fatica. Potrebbe esserlo del sole e del suo caldo e son di nuovo deviato, ma per un solo attimo ma nuovamente, perché so appunto che l’autrice nacque a Catania, sinonimo di caldo (e certi squisiti dolci alle mandorle …. ma quanto è difficile dominare il sensuale cervello!!!). il sudore è legato allo sforzo. Per noi questo accoppiamento, sudore-sforzo, sa di palestra e raramente ormai in questo senso lo rintracciamo. Anche chi lavora di braccio deve ammettere di averne un ricordo vano, piccolo piccolo. Penso ai faticatori per eccellenza della nostra mente educata agli stereotipi. I camalli, gli scaricatori di porto. Attualmente con muletti, nastri trasportatori eccetera, faticano certamente, ma un decimo di quel che accadeva una volta. Ricordo per esempio il mio stupore quando ho scoperto che il trattore di con ruote alte quanto me, aveva l’aria condizionata e lo stereo! Fatica da contadino … una volta … Vedete … l’immagine di quelle prime righe è atemporale. Nessuna traccia la depone nel novecento o nel milleduecento o nel … 1909, come poi si scoprirà. Solo quel rapporto sudore-sforzo tradisce una datazione non attuale …. Ma nascendo questo indizio da un eccesso di pensiero la colpa è mia e non dell’autrice.

L’altra coppia riguarda la sensazione; “duro” e “bruciore”. Duro del legno che in relazione a das Kind, fa un certo effetto, che sarebbe sminuito se si trattasse di un adulto. Il bruciore alle mani, causa la durezza del legno, ci pone nel tempo. Lo sforzo compiuta da Das Kind, è prolungato, diversamente non ci sarebbe il dolore. Dolore nel tempo. Grande e giusto.

Affondo nel fango fino alle caviglie ma devo tirare, non so perché, ma, lo devo fare”.

La sensazione di un non luogo dal quale ci si deve affrancare, e ci si porta dietro l’unico oggetto “duro”, concreto oltre noi stessi. Ecco che sento che “sudore”, “sforzo”, “duro” e “bruciore”, son tutte tracce che confermano l’esistenza a das Kind. Andare, muoversi, è esistere. Le sensazioni del corpo ne son conferma in quel nulla, unico stimolo e aiuto a non arrendersi e farsi nulla nel nulla, fango nel fango, relitto, tronco di corpo morto alla deriva, poiché la nerezza, che sento fortissima, abbacinate quanto lo sfondo che immagino bianco, è morte da evitare ed evitabile solo se ti senti vivo, e la vita è rivelata da sforzo, sudore, duro e bruciore, abc del primigeno esistere.



Veniamo ad un “gioco” linguistico che aiuta a “toccare” la forza di quella frase che anticipa l’inizio dell’opera; Black e blanco basterebbero, ma aggiungo bianco e Balnc tanto per gradire e il ricordo che in Europa il bianco è per i vivi, per i matrimoni e i bambini. Il bianco è purezza, che si oppone al bianco dei crisantemi giapponesi e al suo legame col culto dei morti.

Black e blanco … la medesima radice in quel “bl”, che sta per assenza di colore. Ecco la primordialità della misura visiva di quella frase espressa col più arcaico “scuro”!

Vedete, dello “scuro” del ramo siamo certi poiché viene detto, ma quello scuro rende abbacinante, quasi luminoso e fastidioso quel nulla di sfondo creato con la negazione di alberi e case.

Quel bianco livido è spuntato in noi, come una diurna nebbia maligna, a contatto col ramo, ammettiamolo … e “sentiamo” che quella frase che anticipa l’inizio del libro, rappresenta la vita del protagonista, una vita ancora fuori dal tempo, dal sesso e dallo spazio. E poi, lasciando lavorare l’immagine dentro di noi, e “sentiamo” che quell’immagine è completa, universale, sua e … nostra.

Istruzioni per l’uso di quella caterva di imbecilli che scrivono senza umiltà ….

Goliarda Sapienza non ha costruito quella frase. L’ha “sentita” e poi trasformata in parole. Quel che si deve comprendere è che il Saper Scrivere non può nascere nelle scuole di scrittura creativa e nemmeno nell’ambizione, che anzi, ne è una nemica ed estrema assassina. Ci si deve lasciar andare … e le immagini verranno, e saranno sempre più pure in ragione del nostro sforzo di arrenderci a tutto quel che l’apparenza della vita, l’esterno, chiede a chi scrive. Non esiste morale in questo “viaggio”. Scoprire noi stessi è il primo gradino. Deve seguire poi l’accettazione anche di quegli aspetti che di noi stessi non accettiamo. Solo quando il nostro io non trova ostacoli, avrà il coraggio di parlarci, poiché esso risente troppo del nostro giudizio. Se vi riuscirà, operazione comunque assurdamente difficile, se vi riuscirà, dicevo, il pudore interverrà in voi stessi nel senso che diverrete gelosi di quanto avete ottenuto. Che siano parole, quadri o altro, poco importa. Ogni frainteso su quell’io puro, lo sapete, vi ferirebbe e quindi dare in pasto al mondo vi pesa. E allora dovete scoprire che quell’io puro trasferito nell’opera, si deve lasciarlo andare poiché era un io in un momento del tempo e voi che continuate ad essere ne saggerete la distanza sempre più grande da quel divenire che siete. Dovete ignorare quindi, la sua esistenza. Per voi deve importare il credere, sperare, che quell’io possa essere purificato ancora un poco e ancora un poco e ancora un poco, fino al ricongiungimento estremo, al momento magico nel quale, abbandonato il corpo che è diventato uno strumento insufficiente, nell’infinito che continua, se siamo stati veramente sinceri con la vita, ci congiungeremo all’immagine che lo specchio dalla nostra arte ha rivelato.

Ovviamente il libro di Goliarda Sapienza vale non solo per quel grande inizio, ma come per altre letture, ad esempio “Lolita”o “Tropico del cancro”, dobbiamo saper rinunciare alle nostre moralità, ai nostri limiti. È un naufragare nel mare della vitalità che ha precedenti più mascherati ma illustri sempre nel novecento ma anche nel castigatissimo ottocento. Il mio caro Simenon è, per esempio, un inno alla vita. Per lui quando la vita chiama non esiste legge dell’uomo che la possa imbrigliare!

Vi porto altri due esempi, che su altri registri che comunque stimo, anche se più pudichi e costruiti, portano comunque nella medesima direzione. È estate, è caldo! e una letturina bella, leggera ma seria, ve la consiglio. Si tratta de “Il marito in collegio” di Guareschi. Vi troverete davanti ad una coppia che nonostante uno zio ricco e una famiglia nobile e spocchiosa, riesce a trovare quella via nella quale un sentimento e una sensualità fioriscono. La lotta per la vita trasformata in una commedia che spesso, nonostante si tratti di un testo del 1944, ci fa ancora ridere, altro non è che l’emancipazione dall’amore naturale dalle regole della società.

Vi consiglio poi, di Mario Soldati, “La verità sul caso Motta”. Testo fintamente leggero, del 1937 se non sbaglio e che, in una Italia castrata nella sua libertà di espressione come in fondo accade in tutte le epoche (e anche nella nostra …), ci mostra l’avvocato Motta che, non riuscendo ad “innescare” un dialogo concreto con la femminilità … si trova nell’irrealtà stupenda delle sirene che culminano nel ghigno inconsapevole della madre iperprotettiva e religiosa e quindi castrante, trasferito sulla mostruosa, felliniana regina delle sirene. Ecco, anche in questo caso qualcosa impedisce alla vitalità di realizzarsi … e prende la via di una simpatica follia. Mai eccedere nella realtà sotto le dittature!

Ecco il tema di Goliarda Sapienza. La vitalità, la sua, che si esprime senza remore, senza timore di essere, com’è giusto, giudicata. Solo ai meschini interessa l’altrui giudizio in morale e arte ….

Un altro esempio, mi vengono su così a caso, lo trovo ne la raccolta “Racconti di mare e di costa” di Joseph Conrad edito Einaudi. Sono tre, e in essi la seduzione, il fascino ottocentesco per i capelli femminili è reso alla massima potenza. Solo dopo la lettura di questo libro si può comprendere l’eccesso di Sissi, la moglie dell’imperatore d’Austria, che aveva una chioma talmente folta da essere costretta, nei momenti di vita privata, a farla sorreggere da una carrucola. In due racconti, “Un briciolo di fortuna” e, “Freya delle sette isole”, la potenza della legge di natura, ben diversa da quella degli uomini, si pone come via unica da percorrere per approdare ad una vera, vitale, vita di coppia. In ambedue i casi, la vitalità ne esce sconfitta, ma è proprio nella sua irrealizzata malattia che si svela, all’uomo del secondo ottocento, cosa occorre alla vita per essere degna di questo nome. E da qui passare agli ammutinati del Bounty è doveroso, che di un paradiso di eros senza regole non riuscirono più, una volta assaggiatolo, a fare rinuncia…. Tornare ai costumi britannici? Alle donne grigie di regole e di abiti inguainati in telai di ossi di balena? Rinunciare a paesaggi in technicolor delle isole esotiche per il grigio omogeneo di Londra, così celebre da definire il colore di un panno tuttora in voga? La tentazione di esistere, di esistere con un senso almeno del corpo è presente in queste epoche con una forza inaudita. Far figli e arricchire soddisfaceva l’apparenza, ma non l’Uomo….

E Goliarda Sapienza prosegue un cammino immenso che, con la citazione di tre testi considerati minori e comunque quasi dimenticati, preferendoli per esempio alle universalmente note signore della letteratura, ovvero Madame Bovary, Anna Karenina, e Lady Chatterley, con quei tre testi minori dicevo, si dimostra la vastità della sua importanza nella storia dell’uomo. Uomo, uguale bestia civile. Come possono convivere due opposti simili? Non riescono. A volte scelgono uno il giorno e l’altro la notte, spesso han due femmine, una per i figli e l’altra per l’amore …. Ma questo era il mondo dei maschi!!! Ora, e spero che definitivamente sia questa la direzione intrapresa, il mondo è degli esseri umani e l’essere bestia e civiltà, è un enigma che tutti, maschi e femmine e non solo … devono risolvere in libertà e …. Incoscienza. Se poi si riuscisse a superare l’equazione uomo-bestia-civiltà e farne una scala con in cima la scoperta dell’anima … ma è un problema mio, che così sento. E non devo cambiare argomento.

Torniamo alla frase iniziale. Essa si conclude così: … “Lasciamo questo mio primo ricordo così com’è; non mi va di fare supposizioni o inventare.”

Io penso, ma è una cosuccia assai personale e quindi fragile, che il ricordo descritto sia vero e che l’opera vada invece oltre la realtà biografica. Goliarda ci offre il ricordo “così com’è” e con quel suo scrivere “lasciamo questo mio ricordo così com’è” ci coinvolge ci riconosce e ci da un consiglio di lettura. “Non giudicate, lasciatevi andare!”. E perché lo chiede, anzi, lo consiglia? Perché per lei, per me, per tutti, quel ramo scuro … “non so perché … ma lo devo tirare, non so perché, ma lo devo fare.”

È grande la vastità di quel “non so perché”. Si deve tirare, si deve fare … la vita. Perdere tempo nell’analizzare, vivisezionare quella prima frase, anestetizzarla e poi scomporla e giocarci, roba da indocenti e intellettuali, non va fatto. Lasciarsi andare è l’unica chiave. La medesima che lei utilizzò per scrivere e che vi consiglio, sempre, per una nutriente lettura.

Se ho scelto di portare passo passo l’evoluzione della mia, (speriamo…) sensibilità, mondandola costantemente da cultura ed erudizione, è per rendere evidente, palpabile quale colossale sforzo sia l’essere umili in arte e essere umili, in questo campo più che mai, equivale all’essere corretti.

Un’ultima considerazione. Ricordo altri due autori che hanno iniziato opere chilometriche su se stessi, partendo dal primo ricordo consapevole. Elias Canetti e Giacomo Casanova. Il loro, che è un diretto, chiaro inequivoco ricordare, rientra nella dimensione del raccontare. È più facile e non raggiunge, secondo me mai, le vette della pura creazione. Son opere che non si possono certo tralasciare. Ci si inoltra in epoche, tradizioni, geografie e pensieri. L’invenzione pura, ovvero Kafka, Nabokov, Bulgakov, per citare alcuni dei miei preferiti, scardina invece il tempo, lo annulla. È come avere a disposizione una medicina universale che annientando morali basse, umane, ci consegna la consapevolezza di un senso, anche se solo intuito.

Il senso di giustizia in Kafka (ma non solo quello…), la moralità del lolitismo, la corruzione sociale in Bulgakov, esisteranno sempre. Da queste piaghe, da queste realtà, poiché sempre da essa si parte, s’involarono quei tre grandi.

Goliarda Sapienza parte invece da una vitalità, scoperta in una bambina, prima dell’avvento della norma, della società, della cultura. La vitalità in forma sessualità per esempio, si fa quindi gioia, estasi, e non esistono redini sensate per chi ha avuto un simile esordio! Magistrale è il dialogo sul mare che non conosce, che non ha mai visto, e la parallela scoperta del piacere erotico. Quel ragazzo al quale ha chiesto, descrive il mare in modo buffo ma vero, ma lei non capisce. Si passa poi al primo contatto erotico fra i due nato sempre da una domanda che può aver risposta solo nell’azione, e durante estasi provata per la prima volta, lei dice: “Ora so cos’è il mare”.

Geniale. L’infinità di un’entità sconosciuta e descritta alla buona, come il mare, e la sensazione, infinita del piacere per la prima volta gustato che si toccano e “sento” che il contatto è totale, vero anche per il lettore che, all’inizio pensa, “ma che bella immagina” e poi la interiorizza e non ne fa più a meno.

Un esempio dell’utilità dell’arte al livello più basso, ma comunque utilissimo …. immagino qualcuno che legge di quella sensazione ma sa di aver provato qualcosa di molto più piccolo, banale, e forse meno innocente. Spesso la sessualità si annichilisce nella sensazione che sia una cosa sporca, dono spesso ereditato da religioni e zitelle acide … e la scoperta che …. È come il mare, questo simbolo enorme , inspiegabile, ma che corpo e … scusate … anima, comprendono, può convincere a cercare. Si desidera solo quel che si conosce … e quel passaggio, quel gridare della ragazzina “ora so cos’è il mare” è scoperta che una certa sensazione esiste, è bella e quindi …. è trovabile … A

All’inizio del pensiero precedente mi son permesso di dire che si tratta della descrizione di un’ utilità al livello più basso. Mi spiego. Se uno presuppone il sacro, anche se come me, non sa ancora definirlo, ecco che le sensazioni del corpo non riusciranno ad esaurire mai il senso dell’esistenza, ma rappresenteranno un possibile punto di partenza, di elevazione …

Come non proseguire ora nella rilettura de “L’arte della gioia”! … quindi vi saluto e vi lascio per quelle pagine primitive, sincere e per questo belle.



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