domenica 11 agosto 2013

Stefano D'Arrigo; "Orcynus Orca"




Ci son libri che il destino ti rende ostici. Lo trovi dopo anni di attesa e la dimensione, il numero di pagina ti preoccupa perché.... È un Oscar Mondadori quasi cubico. Lo hai iniziato due volte ma oltre la pagina venti non sei riuscito ad inoltrati. Un linguaggio che offre troppe oscurità, ma non nel senso dell'Oscuro con la O maiuscola. So di un'epoca ridicola, sorta in un ridicolo secondo dopoguerra, nel quale gli intellettuali, ovvero gente che usa solo l'intelletto, pretesero di esser artisti. Occuparono le posizioni giuste nei partiti, nelle case editrici e anche, spesso, nelle università. Si trattò quindi di mascherare una imposizione, per una proposta di lettura. Il laidume portò ad opere come quelle di Pasolini, Gadda e Vittorini. Una tristezza che ora vien letta solo se un indocente te la impone... solo giochi di linguaggio e semi slang dialettali. Chi, veramente, virtuoso della parola come Manganelli, agì con artistico stimolo, cioè partendo dall'io più profondo, è quasi sconosciuto. Chi giocava allora, ancora tentano di propinartelo, ma con meno spocchia poiché il partito brilla meno eccetera.... Case editrici ridicole ma con veste seriosa come Einaudi.... che morto Pavese, ebbe giullari a corte del nulla ... e infatti “Il Gattopartdo” fu scartato e “Se questo è un uomo” pure, due libri che, se leggi col cuore in mano, ti segnano e migliorano per sempre.

Con questo bagaglio di diffidenze, ogni opera italiana puzza di bruciato. Hai timore di perder denaro e tempo. Nessuno si è degnato di raddrizzare la situazione e tu sai di un nome, che per qualcuno è un genio, si chiama Stefano D'Arrigo, trovi il libro nel disprezzo delle offertissime in un mercatino dell'usatissimo, in mezzo a stracci e bambole senza un braccio o un occhio. Vien dieci centesimi, non sto scherzando, e lo prendi. In casa, il libro, consapevole della mia diffidenza, sparisce e poi timidamente riappare. Un giorno, durante una fugace apparizione, inizio lo catturo e leggo le prime venti pagine. La diffidenza aumenta. Linguaggio linguaggio e linguaggio. Ma che senso ha un linguaggio se non come portatore di un messaggio! Lo adagio su un lungo mobile in corridoio che è come uno scivolo verso il nulla, e infatti scompare, sempre più timido e incompreso.

Dopo qualche mese riappare. E' veramente questione di un attimo. Gli dico “sei assai voluminoso... ora che ho l'e book”, tutto il cartaceo che non mi interessa uscirà di casa, o da Gigi, o nel bidone o in biblioteca, il che equivale a dire, o in purgatorio, o all'inferno o nel limbo. Il libro trema e ne ho pena. Rileggo per la seconda volta impietosito e ancora son irritato da quel linguaggio che sembra fine a se stesso. Di nuovo lo inoltro nel caos che si concentra nella stanza che ho battezzato “coscienza”, nella quale tre armai fanno incetta di tutti i miei vestiti e valigie lussuriose e orpelli quasi inutili si ammonticchiano in un'anarchia polverosa.

Terzo incontro in un giorno di pioggia. Lo ha addentato il cane. Già tre libri li ha distrutti. Coriandoli informi che ho spazzato via sorridendo. Tre libri che meritavano anche meni di quel destino … questa volta decido di affidarmi al caso. Il caffè borbotta nella moka. Verso il miele nella tazza elegante e mentre mescolo godendomi il profumo del puro etiope, apro a caso.

Pagina 493. si trova a sinistra. Dall'ultimo accapo della pagina parto e già l'impatto col linguaggio è meno duro e si fa sempre più morbido. Qualche parola accidentata, incomprensibile, che nessuna nota si presta di domare, ma proseguo. Tratta di un figlio che torna a casa dal padre pescatore, in Calabria. Funziona. Scorre, ha un senso e sta spuntando un valore. A pagina 496, mi smuove un ricordo. Il padre, che finalmente ha riconosciuto il figlio tornato dopo tre anni e sei mesi di assenza per una guerra immensa, la seconda mondiale, dice: “Ma che ti morì il barbiere?”

Sospendo la lettura e sorseggio il caffè al miele d'acacia e penso a Tonino, Tonino Guerra, che torna dal campo di concentramento a Santarcangelo. Mi raccontò varie volte, sempre con sfumature diverse, quel momento. Suo padre amava, ma non sapeva esprimerlo. Era buono. Mi ricordava che a sera comprava un cartoccio di sardine e le dava ai gatti della via divertendosi ai loro salti assatanati per quella prelibatezza che in campagna se la sognavano anche gli umani … Tonino arriva in paese, lo riconoscono, gli fanno festa ed arriva davanti a casa. Ecco il padre. Si guardano. Una parola. Tutto trattenuto ma che si sente, che vibra. E il padre esce perché non regge alla commozione. Dopo due minuti arriva il barbiere, mandato dal padre. Una parola, una fuga e un gesto. Saperli descrivere fino in fondo a Tonino sarebbe piaciuto ma, mi diceva, si emozionava troppo, ancora a novant'anni passati, rivivendo quella scena.

Torno a “Horcynus Orca” di D'Arrigo. Ovviamente questo approccio è sleale. Non devo, non posso amare un libro perché in esso sta un catalizzatore che fa rivivere materiale mio.

Decido allora di fare le cose per bene e cerco il primo spazio bianco fra le righe per iniziare una parabola di immagine, di pensiero. La trovo a pagina 478 e parto. La lettura va spedita, il caffè si fredda e torno nel mondo dei vivi a pagina 498, dove un altro spazio bianco mi avverte che l'immersione può dirsi conclusa.

Promosso. L'eterno ritorno del figliol prodigo, di Ulisse, del figlio e del soldato, è reso magistralmente. Le parole impervie si son sciolte nelle immagini potenti e il luogo d'arrivo, Scilla, eternamente bello e oltre il tempo dell'Uomo .


Un po' mi dispiace che si sappia di cioccolato e di tabacco, che nel raccontare compaiano, poiché così il brano, che potrebbe essere dell'oggi come dell'ieri o dell'antichità del mito, si fa recente, possibile nella realtà. Ma D'Arrigo vuole che si annusi la seconda grande guerra e lo accetto. Quel che io desidero, lo metterò nel mio.... devo esser più obbiettivo.

Conzi, palamitara, ammignonava, muccuselli, armuaro, traffinera, romanello, gistra, fera, checchìava, ontro, flacco, son passati senza danneggiare la profondità minuziosa dell'incontro, e armuaro, muccuselli e flacco alla fine li ho anche capiti.

Scorre un linguaggio semidialettale e funziona. Il dialetto è la linfa, il colore di una lingua nazionale che ovviamente è più fredda, e distante dall'origine della vita e del sentimento.

Il libro ha capito di esser stato amato. Son sensazioni che non so controllare e le mani, fattesi più rispettose di quella carta che in copertina mi mostra anche il cerchio ormai secco lasciato dall'umido di un bicchiere, e le mani hanno iniziato, di loro iniziativa, la danza delicata che sempre muovono per le cose preziose.

Il libro l'ho poi appoggiato, su un tavolo per terminare una lettura precedentemente iniziata. Si è fatta sera. Quella lettura è terminata e digerita con una passeggiata che il cane mi ha fatto fare. Lui si che si rende conto quando l'immobilità si fa eccessiva e mi imbambolo diventando una cosa gommosa, evanescente, inutilizzabile. Allora Lolita mi Porge il guinzaglio e li accarezza. Mi sveglio alle cose concrete e prima di uscire, nell'afa del tramonto “butto un occhio” per vedere se D'Arrigo di nuovo si è nascosto nella coscienza … e invece no. È sempre sul tavolo, stavolta vicino alla finestra, e la copertina bianca, mi manda, riflettendolo, un breve raggio rosso come un saluto. Ormai siamo amici. Ne inferno o purgatorio o limbo ti accoglieranno. Ho bisogno per sempre della tua compagnia.

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