DALLALDILA’ 5 (Alda Amerini)
(Alda Merini l'ho conosciuta e merita che sia ricordato come l'incontro accadde. la poetessa Vittoria Palazzo, amica di Sarte, Camus, Quasimodo (non quello di Victor Hugo, ma il Nobel), Montale eccetera, mi mostrò dei suoi dattiloscritti con parti autografe e mi raccontò come si conobbero. Chiusi i manicomi, Alda si ritrovava, vagante per Milano, munita di molte sporte e senza meta. Vide che in una sala una bella donna con una folta chioma rossa, Vittoria, stava tenendo una conferenza. entrò e si tenne sul fondo. era consapevole di essere impresentabile. al termine dell'incontro, timidamente, si avvicinò e disse a Vittoria che anni prima lei, Alda, vinse un premio. Fu vittoria a candidarla e a consegnarlo. Vittoria ricordò e rimase sgomenta quando, nella sala ormai vuota, Alda raccontò da dove era uscita, ovvero il manicomio, il perché, e tergiversò su dove vado ora. vittoria comprese e se la portò a casa per un mesetto, rivestendola e accudendola. rimasero amiche. Vittoria, come me, non amava le poesie di Alda e mal sopportava che venisse "usata" così, senza riguardo. erano amiche e si parlavano chiaro. Ad Alda invece, le poesie di Vittoria piacevano. Vittoria mi invitò ad andare da lei nel suo appartamento in un casermone sui navigli. voleva sapere cosa ne pensavo io. poi se ne sarebbe parlato. esco dalla casa di Vittoria che era vicino a piazza sei febbraio e coi mezzi pubblici arrivo all'indirizzo. suono e il cancello fa clak. entro e vago per corridoi lunghi e monotoni. mi sorprende una porta tutta tappezzata di santini e con un grande poster di padre Pio. Proprio da quella porta, mi accorgo che, socchiusa, un occhio mi osserva. "Chi cerchi?" "Alda Merini..." "Sono io ... ma chi ti ha aperto?" "Lei signora ... ho suonato di sotto e il cancello si è aperto" "Ah bene. è stata l'anima di mio marito. questo vuol dire che puoi entrare". E così entrai in quell'appartamento che un appartamento non sembrava. la tivù accesa, ma lei non la guardava. era stesa in un'altra stanza, nel letto grande. era in camicia da notte con collanine dozzinali in plastica, roba da bambine. mi dice che ha male ad un fianco e che desidera stendersi. Mi siedo di fianco al letto dopo aver scalciato inavvertitamente varia immondizia che ricopre il pavimento lurido. vedo che ci son soldi ovunque. ricordo che erano verdi, quindi pezzi da cento euro. se ne nasconde un paio in seno e mi guarda intimorita. le dico che ne ho più di lei e che mi sono indifferenti. si tranquillizza. si passa al tu. mi fa sapere che è senza mutande e che se volessi violentarla .... le dico che son venuto a salutare la poetessa. mi dice che allora in quella casa non c'è nessuno. una finestra sbatte. mi dice che è sempre suo marito che si fa sentire sempre, notte e giorno. per lei ogni rumore non immediatamente spiegabile, ogni evento fraintendibile come quello del cancello, va in quella direzione. si dialoga un po'. mi tolgo i guanti senza dita, è dicembre. Milano è umida e freddina. desidera che le tenga la mano. arriva una donna di colore molto bella che ha le chiavi di casa. dovrebbe sistemare un po' o farle compagnia. Non capisco. Ci lascia soli a dialogare. dico che devo andare e lei mi chiede se ripasso, se a Natale passo a salutarla. mi commuove la sua angosciante solitudine. la sconfitta ricevuta dal maschile che l'ha inabissata nella sua lucida, consapevole follia. dico si, ripasso, ma non a Natale che sono all'estero. la mia partenza per lei si fa angosciante, ennesima sconfitta. mi ha appena conosciuto e io per lei non ho età. lei non è anziana ai suoi occhi e io sono atemporale, così mi vede. E ripenso al suo destino. il marito che la tradisce, e con qualcuno della famiglia. Alda che non accetta, che non si rassegna, che non china il capo. E lui che va dal medico, bastava andare dal medico. Due righe e giù nel gorgo macellante del manicomio. Lei si sentiva così. Sconfitta dal maschile, e ogni uomo, bello o brutto, giovane o vecchio, era una possibilità di riscatto che per come lei la poneva, diveniva sconfitta già col dirle ciao, ora devo andare. Qualche telefonata di notte, sentivi di essere necessario ma mai sufficiente alla sua solitudine. un altro saluta, e un odio mio personale verso questa Italia che l'ha usata. Prima toccò a Dino Campana, ora a Lei. i Francesi avevano i maledetti e gli italiani, invidiosi cercarono qualcosa di simile costruendoci intorno un castello di parole dotte e spinte mediatiche. castello di carte. Lei era vera, lei soffriva. ascoltate la canzone per Alda Merini scritta da Vecchioni. Lui che le era amico, l'ha compresa a fondo. Diceva Borges che da Byron in poi, ogni artista, consapevolmente, crea due opere: la vita e l'opera. Alda Merini ebbe tristemente una vita che fu un'opera orribile ma importante. Lei era il segno vivente della tradizione maschile che non aveva alcun rispetto per la donna. la sua tragedia fu la sua forza. la sua rovina, il suo vagare e parlare com'e un'ombra, la necessità del colpevole per meditare, tentare di cambiare. un Femminicidio, come si dice oggi. Morta l'anima che irrimediabilmente sconfitta, esplosa e sola, abitava un corpo che non aveva più la forza per un riscatto.
Non diversa da alcuni reduci dai campi di sterminio che conobbi, lei vide veramente la coda del diavolo. Ho sempre detto e pensato che chi subisce un trauma, un trauma vero, non sarà mai mai mai più se stesso. qualcosa si rompe definitivamente. Lei, come quei reduci col tatuaggio sul braccio, quindi ebrei, e poi gli zingari, i gay e i preti eccetera, tornarono in veste di ombra. memento mori. Ricordati che devi morire, ma ricordati anche e soprattutto, che puoi morire dentro e vagare nella vita degli altri come il Kafkiano Cacciatore Gracco sulla sua barchetta che ha smarrito la direzione e non sa più raggiungere il regno dei morti. Con Alda, fu un dialogo con un morto che chiedeva l'oblio del corpo. mi è capitato ancora, ma lei, lei, mi ha toccato veramente. La sua opera, quell'esistenza assurda, come i campi di concentramento e di sterminio, non deve essere dimenticata.... ciao)
Ciao.
si, sono io. sono Alda. No. Per favore no. Non mandarmi via. continua
a dormire. Parliamo. Non sei più venuto. Ti aspettavo. Si. Anche se
avevo capito che.
Eppure di me sapevi molto.
Direi tutto. Vittoria ti aveva raccontato. Ti ha dato l’indirizzo.
Sei arrivato con una curiosità negli occhi che ho capito subito.
Volevi vedere colei che per tanti è una poetessa. Avevi appena letto
le mie cose e non ti erano piaciute. Quando mi hai parlato di
Vittoria ho capito molto. Anche lei pensa anzi, pensava come te. Le
devo molto.
Una legge oscura e
irresponsabile quanto quella che ha sostituito, mi ha buttato fuori
dal manicomio che in fondo era ormai per me un mondo. Sai, essendo
circoscritto da mura, con un numero limitato di stanze anche se
sgradevoli, era controllabile. Accettabile. Mi hanno messo fuori
nell’infinito delle vie con le mie sporte che contenevano cose di
anni prima e ormai insensate. Secondo loro sapevo dove andare. Ma io
sapevo che non era così. Arrivo a Milano. Giro così. Mi guardano
storto perché tutta l’Italia teme l’ondata, l’invasione dei
matti.
Vedo attraverso una
vetrata che una donna con una fiammante chioma rossa sta parlando. È
bella perché è sicura di sé. È bella perché ama, si vede subito.
È bella perché, ora ricordo guardando meglio mentre sono dentro e
sondando le modulazioni roche e sensuali della sua voce, si, anche
perchè anni fa mi premiò. Lei per prima. Ricordo che mi strinse la
mano e li suo sorriso era caldo, vulcanico. Un incoraggiamento che
rimase in me, slegato da tutto, da lei medesima. Smarrito nelle
stanze e nelle strida del labirinto che mi rinchiuse. Sentivo questo
suo seme che premeva. Era piccolissimo, direi quasi invisibile fra le
pietre di quella solitudine. Era uno dei pochi semi e quindi immenso.
Finì di parlare. Andarono
via tutti. Io ero seduta in fondo, mischiata in un groviglio di
sedie. Ero pulita, pettinata, ma bastavano il mio sguardo e i
sacchetti per capire. Venne da me, mi strinse la mano. Era ancora
calda come allora. Le dissi di getto da dove venivo. Mi guardò
sconvolta. Le ricordai che anni prima mi aveva premiato. Mi chiese,
una volta uscita da quella sala, dove sarei andata. Tacqui. Mi prese
la mano e per due mesi stetti a casa sua. Già dopo due ore,
pettinata da lei, e con un suo vestito addosso, mi sentii normale.
Che sensazione ragazzi! La provo ancora qui nella selva dei morti.
Dopo me ne andai e divenni
famosa. Lei odiò questo. Non me. E io so quanto avesse ragione. La
mia epoca, che ora è la tua, crea i personaggi e più son
squinternati più li succhia nel midollo delle apparenze.
Ma cosa facevo io?
soffrivo. Io donna, io nata per l’amore. Io nata per l’amore
vero, ero stata buttata nel carcere della mente da un certificato
chiesto dall’uomo che amavo, che amavo e che mi aveva deluso. Te
l’ho detto, ma è indescrivibile. Lo trovo a letto con lei. Una
parente. Una che tutti i giorni era li. Non faccio più nomi. Anch’io
ora con te, forse per l’ultima volta lo indosserò il nome, e poi
lo getterò così.
Nuda veramente nuda sarò,
senza corpo senza occhi e forse finalmente senza dolore.
Lui voleva salvare le
apparenze ma io stetti male male male male. Lui andò dal medico e
fece fare il certificato. Bastava chiederlo, e mi rinchiusero.
Tu sapevi tutto quando hai
suonato in quel casermone in via Navigli.
Fu tutto così strano. Non
ho aperto io. Ti vedo nell’immenso corridoio tutto uguale che vaghi
ma sei interessato più di tutto dalla mia porta con il poster di
Padre Pio e altri santini. Sbircio. Hai forse qualcosa in più di
trent’anni e sei elegante. Chiedo cosa vuoi. Mi dici che cerchi
Alda Merini. Che hai suonato e che io ho aperto. Ricordi? Ti ho detto
che è stato mio marito. Non io. e se lui ha voluto anch’io ti
faccio entrare. L’appartamento era un antro di disordine. Per terra
barattoli di birra e roba che nemmeno io sapevo cosa fosse anche se
l’avevo raccolta e ammonticchiata e una televisione accesa che
baluginava luce e parole.
Ti dico che mi stendo
perché ho male qui, da una parte. Sono in camicia da notte, ho
collanine e disperazione perché capisco subito che di nuovo, davanti
ad un essere maschile vorrei tentare il riscatto da tutto. Domando
cosa ti porta da me e dici che desideri conoscere con la poetessa.
Sei subdolo. Sai che in me non c’è nulla di quel che dici. Lo
leggo a chiare lettere dalla tua schiena irrispettosamente curva
tipica di chi non si cura di piacere. Scrivi anche tu, si capisce.
Guardi intorno. Hai visto pezzi di cartamoneta di grosso taglio in
tutte le stanze e ho fatto l’errore grossolano di prenderne un paio
e nasconderli in un quaderno anche se si vedeva che non ti
interessava niente. Non ti ha toccato. Ho capito che anche tu sei un
abisso. Sei come me anche se ancora curi l’apparenza e hai bei
guanti di pelle nera senza dita che dimenticherai sul tavolo in
cucina e che dormiranno fra i miei seni per giorni e giorni fin
quando, anche l’evidenza del calendario, confermerà l’ultima
illusione. E per Natale non sei venuto. Si. Non sei venuto. Ma eri
stato leale. L’avevi detto.
Quando vedo nei tuoi occhi
il mio buio decido di donarti un attimo di verità. Ti dico che il
letto è grande, che devi fare l’amore con me. Che importano i miei
settant’anni superati da un po’, che importa tutto. Potevi,
dovevi amarmi almeno tu. Toccare un corpo, e da questo baciarti
l’anima che avevo vista. Tu solo, ultimo fra i vivi potevi
comprendere e darmi finalmente quella pace. Quel riscatto. Non ti sei
mosso. Hai detto che no ti interessa il corpo. Cerchi un’anima. Ho
capito che dicevi sul serio. Non mi hai umiliata. Stavi tentando di
andare oltre. Ho tremato dentro. Era tutto così bello, così
semplice. Ti chiedo cosa scrivi, parli. E non è quel che dici, ma la
passione tua che mi disseta. Ti alzi. Devi andare. Ti chiedo se
torni. È il quindici dicembre. Cosa fai a Natale? Mi dici che abiti
lontano e che non sguazzi nell’oro. Ho capito. Saresti venuto. Non
ti faceva pena o ribrezzo questa vecchia che ci prova e si fa
compatire troppo spesso. Quella notte tu non lo sai, o forse, si, hai
dormito con me. Mi hai amato con forza, freschezza. Mi son sentita
viva.
Ora che sono morta. So
tutto. Sei passato da Vittoria. Non hai raccontato se non la
superficie e il giorno dopo sei partito. Eri seduto in treno. Non
riuscivi a leggere e l’hai detto. Si, l’hai detto, e piango
ancora dalla soddisfazione, ora, dal mondo dei morti nel riviverti.
Ti dici “non ho niente da perdere. Sono solo vestito meglio. Lei
vive il suo vuoto fuori e dentro. È più vera di me anche se non
apprezzo la sua poesia. Avrei dovuto amarla. Avrei dovuto stendermi
di fianco a lei in quel letto enorme e sporco come la vita, avrei
dovuto farla urlare, farla felice. Baciarle la bocca lodare i
capelli, giocare con le collanine. Chi non ha niente da perdere può
tutto e deve almeno, donare.”
Ora, con queste tue parole
muoio finalmente davvero. Definitivamente. Mi hai dato la chiave per
l’oblio. Le divinità più grandi dicono che conta l’intenzione e
ti ringrazio.
Per te non so che dire.
Troppa lucidità, troppa nitidezza. Niente compromessi. Giusto così,
ma sarai e sei in esilio ovunque. Quando non sai che fare chiudi gli
occhi e stenditi di fianco a me in quel letto che ora è candido. Ora
sono bellissima e le carezze dei miei fili d’arpa, ti
accarezzerebbero l’anima.
Sorridi per favore,
sorridi almeno quando mi pensi. Il tuo per me non era amore. Forse
non sai nemmeno più cos’è, ma era l’intenzione di donare senza
pretendere niente se non di cadere in due nel vuoto del tempo.
Ora anche Vittoria è qui.
Ci siamo abbracciate. Senza le regole della vita qui, ci si capisce
al volo. Ti mandiamo un bacio. Ci dissolveremo nell’infinito
domani. Ce lo siamo meritate. Grazie di tutto, da me, da Vittoria.
Chiudi gli occhi. Elimina il tempo, il corpo. Solo pensiero. Così,
in bilico, arriverai anche tu e diventeremo un infinito immenso.
Ciao
sono una giovane donna malata da agosto di neoplasia all'utero e di conseguenza anche di cancro al cuore....nn mi interessa quanto vivo ma quanto amo e la lettera dall'alldilà di Alda Merini la leggo quasi ogni giorno : è più forte della malattia.Si amico mio l'avresti dovuta amare , almeno una volta! lei nn era pazza ma una poetessa e avrebbe capito ke fingevi. A quel punto avrebbe finto lei e te ne saresti andato via felice senza amore siamo tutti CREATURE MAI NATE
RispondiElimina...ma io non l'amavo, e per me è un motivo sufficiente per non accostarmi ad un corpo e dare o prendere non quello che si aspetta l'altra. Se una persona ama, e ama anche l'altra, ecco che, se la situazione non è ovviamente problematica, l'alchimia accade. E' raro che due persone capaci di amore, rarità già questa, si incontrino. Se accade è comunque necessario che la situazione sia positiva. E' una coincidenza rarissima quindi, e non basta purtroppo amare ed essere contraccambiati. Basta per l'anima ... il corpo è calato nella realtà, e se essa è negativa ...
RispondiEliminama cos'e' la realtà nel grande mare dell'essere? e se poi vivi da sempre ai confini ? e se poi arriva che incominci a fare il conto alla rovescia?l'avresti resa felice , ora è impazzita e il suo spirito nn da pace nè a sè nè agli altri. mi pare in un racconto o forse una mia fantasia .... insomma coppia innamoratissima lei muore,al contrario ke in peter. lui nn la sogna ma ha prove oggettive dello spirito . Lei gli fa trovare i calzini da abbinare all'abito, sala la minestra , quando osserva altre ragazze si ingelosisce e gli fa venire l'orticaria , morale l'amore nn muore se muore prima o lo facciamo morire nn abbiamo compiuto il nostro dovere . dare amore sempre e comunque nn vuol dire esporsi a qualsiasi condizione ma riconoscere un sentimento vero da uno falso , solo cosi
RispondiEliminasiamo uomini solo cosi siamo in pace solo così siamo felici
e cmq questo post , dopo kopf, ke è altro ancora è il migliore che hai scritto , sei fortunato ad avere una vita così ricca da raccontare .ti do il voto ke mi dava il mio proff di italiano quando scrivevo bene : NOTEVOLE e x lui nn so a cosa corrispondesse in cifre.
RispondiElimina