giovedì 7 marzo 2013

Roberto Bolano


Oggi, quattro marzo duemilatredici, è apparsa su un quotidiano, una foto di Bolano.

Si trova a pagina 19 a destra in fondo, del Corriere della Sera. La doppia pagina riguarda i funerali di Chavez.

Mi complimento col giornalista. Ho l'impressione che tutto l'articolo, breve ma denso, sia stato accuratamente ragionato. Il giornalista, Luca Mastrantonio sembra, consapevole del fatto che Bolano è quasi sconosciuto, per non dire totalmente, in Italia.

Vediamo tre foto allineate. La prima a destra mostra Gabriel Garcia Marquez, quella in centro, Bolano, e quella a destra Saramago. La didascalia in cima dice: “ammiratori e critici”. Si stanno osservando quindi, questi tre scrittori, in relazione alla loro opinione sull'appena defunto presidente sudamericano. Per me è come se i due Nobel, Marquez e Saramago, reggessero proprio fisicamente, Il meno noto collega che oltre il resto si fa notare per la citazione che sta sotto alla sua immagine. Scopriamo che è morto nel 2004 e che era contro quel presidente, contrariamente agli altri due. Quel che disorienta, in Italia, lo sottolineo nuovamente, è che non si sa chi è questo cileno. L'articolo ci parla del premio letterario Romulo Gallegos da lui vinto nel 1999, dei suoi problemi l'anno successivo quando di quel premio fu nominato giurato eccetera. Si cita anche un libro: “I detective selvaggi” ed è un buon consiglio per due motivi; primo, non riguarda la sua opera più celebre, secondo è un testo veramente interessante.

Per dare idea della differenza di rapporti con la fama di questi tre grandi, ci basta andare a pagina 51 del medesimo quotidiano ritroviamo Marques, citato nel sottotitolo e poi fotografato, in un articolo dedicato al fotografo Mordzinski. La foro del grande Colombiano è accettabile, la trovo insipida, ma può andare, anche perché questo fotografo ci fa comprendere rapidamente che in quanto a capacità di sondare il banale e di amarlo e non saperlo distinguere dalla qualità, non scherza. La risposta triste si trova di fianco allo scatto di Marquez. Qui Mordzinski spera di essere originale mostrandoci David Trueba sul water e l'editore in anticamera, vicino ai lavandini che attende l'opera. Quanto è facile essere banali, oserei dire stupidi, che è sinonimo per me di modaiolità da discount dell'anima …

Il dato di fatto che a noi deve comunque interessare, di quell'articolo ora, è l'indubbia notorietà straripante di Marquez, che si trova in forma di immagine in due differenti pagine del medesimo quotidiano.

Trovo delicata la citazione che, per Marquez, Mastrantonio ci offre nell'articolo. Non il solito, celebrissimo, e meritatamente, “Cent'anni di solitudine”, ma “Il generale nel suo labirinto”. Argomento, Bolivar, figura amata da Chavez. Il punto è che tutto di Marques merita di essere letto, quindi perché nominare l'opera che tutti già conoscono almeno nel titolo? Lui, Mastrantonio, invoglia proponendo un'altra opera che, scopriamo essere stata molto amata da Chavez.

Quando dico che di Marquez tutto merita la nostra attenzione, mi sento in dovere di dare comunque un avvertimento: può capitare, per esempio ne “L'autunno del patriarca”, che ci si trovi a corto di fiato mentale a causa di certe frasi lunghe anche una pagina e mezzo, questo salto record da un punto all'altro, insinua asfissia nella mente, ci si ritrova che si cerca il punto successivo come il viandante spera in una fontana o in un po' d'ombra … ma basta prenderci le misure. Provate a guardare una partita di baseball senza conoscere le regole! Vi perderete. Accade così anche con un libro che è una partita della mente. Ogni opera letteraria potrebbe ri fondare delle regole oppure utilizzarne di già note. Spesso la fatica del lettore è esprimibile in questi termini. Trovare un ritmo, respirare, mentalmente col testo. Troviamo il medesimo problema con Proust e mi è capitato più di una volta di dimostrare, pubblicamente, quanto sia leggibile la sua Recherche, nonostante la scarsità di “punti”.

E' necessario a questo punto aggiungere quanto segue: accade che certi scrittori facciano prima le scelte tecniche e poi scrivano. Da Gadda a Pasolini, gli esempi anche nella letteratura italiana non mancano certo. Questo metodo è dannoso perché è evidente che prima si deve scovare in noi una vibrazione, trasformarla in pensiero e poi scrivere. E ... la scelta della tecnica, la farà l'intelligenza? L'istinto letterario? Dicono sia un mistero, ma non concordo. Per me la scelta tecnica mai è meditata a tavolino. Immagino la toscana di Dante e un popolo che trasforma le sue disavventure in rime. Ne abbiamo un esempio ottocentesco ne “Le veglie di Neri” di Fucini. Nella novella “Il matto”, scopriamo che il tradito per amore, teme di vedersi preso in giro per tutto il paese in forma di sonetto. Fucini dice chiaramente “sonetto”. Si badi che non è stato generico come me, che ho scritto “rime”! Questa citazione, la considero una prova importante per quel che sto tentando di dire … ebbene, la Toscana di Dante. Se si prende in giro, ci si santifica e condanna, lo si fa in rima. Gioco accessibile a tutti. Essendoci all'epoca molto analfabetismo e, anche chi sapeva leggere o scrivere, che per noi ora son la medesima attività ma allora eran due capacità ben distinte, anche chi sapeva leggere e scrivere, di solito di carta ne aveva poca. La rima diventava il metodo fondamentale per memorizzare e si andava d'istinto. Il popolo non sapeva nulla di sillabe, toniche e tecnicismi. Suonava bene all'orecchio e quindi andava bene, si ricordava facilmente quindi andava ancor meglio. Ovviamente, come per tutte le cose, ci furono i migliori e questi, dopo esser stati sedotti dal ritmo e dalla possibilità di esser, gioviali, sconci o profondi a seconda delle situazioni, si inoltrarono nei segreti del verso. Che Dante sapesse cos'è un endecasillabo, mi pare ovvio, ma altrettanto ovvio, almeno per me è immaginarlo che verseggia a undici sillabe senza contarle, istintivamente e che non ne tolga una se l'accento è della parola finale è troppo indietro o ne aggiunga se troppo avanti. Il ritmo prima di tutto si “sente”. E all'epoca tutti verseggiavano. Di recente ho letto rime del Bronzino, si sa che in rima verseggiò Michelangelo. Gente di pennello e scalpello che armeggia con la parola. Non era strano. Lo facevan tutti, come tutti nell'ottocento nelle culture tedesca, francese, tedesca, ungherese polacca, russa, danese, svedese, norvegese, italiana eccetera, “masticavano” di musica, e non come ora che si è o addetti ai lavori o ascoltatori. Immagino la Fiorenza di Dante, che ha una familiarità con le parole che oggi si è persa. E trovo che l'insegnamento nelle scuole stia agendo in modo tragico. A un ragazzino si mostra una poesia intera e poi la si sbriciola, frantuma, scompone; se ne fa l'autopsia, e senza anestesia, sia del brano che dello studente, che se almeno dormisse sarebbe salvo. Prima di smontare una poesia provate un po' a tentare di farla amare! Ci arriva anche Emilio Fede a comprendere che la via giusta è quella. Fateli cantare, fate cantare il loro cuore! E non iniziate dal passato. Chiedetegli dei loro cantanti, oppure, se vi propongono roba indecente come Fari Fibra, ripiegate su Vecchioni, de Andrè, de Gregori, che son vivi nelle anime nostre e si sentono per radio e per esempio a Roma, cantati dalla donna che stende i panni sovrappensiero. Prima amare, e poi smontare, con delicatezza. Se si fa così si agisce su una “cosa” viva!

Mi preme un altro aspetto di quella Firenze dantesca che “trasporta” la firenzità, ovunque. Quanto vi ho detto della città del giglio, accade nella lingua parlata; quel dialetto toscano che anche in un passato prossimo, con Papini, Palazzeschi il già citato Fucini, Malaparte e altri, si scioglie in bocca che è un piacere. Leggere un toscano è un godimento non solo artistico, ma anche musicale. È da provare. Ogni italiano ha l'opportunità di questo contatto intimo con gli scrittori toscani perché la loro lingua da dialetto locale si è fatta lingua italiana. Prendiamo un milanese per esempio. Potrebbe leggere con altrettanto godimento Loi, che stimo e saluto da queste pagine, e ricordo con piacere la sua poesia su Dio e la Luna. Raffinata in italiano e musicalissima in milanese … così mi dicono, ma io non la posso godere, non posso apprezzarne il colore, i suoni. Son come uno europeo che ascolta un canto asiatico. Sento un accenno di ritmo, ma mi manca la condivisione di una cultura che non viene certo dai libri, ma dall'infanzia, da un mondo vissuto, pensato e creato in noi in quell' idioma locale che è il dialetto e che secondo me è la fonte di colore, fantasia e bellezza di ogni lingua nazionale. Ebbene, torniamo a quel milanese che vi ho invitati ad immaginare; leggerà appunto Loi con piacere, condividendo non solo quel dono fondamentale che contraddistingue l'artista e che precede il pensiero, ma anche, vedrà riflesso il suo dna linguistico che muove le leve più sottili del suo essere atemporale, ed unisce l'io che fummo ieri e quello di oggi in un'immagine di se stessi che ci fa dire esisto, dimensione dalla quale chi non è milanese è purtroppo escluso. Quel milanese ha comunque una seconda possibilità, ed è la letteratura toscana. Quel milanese è abituato a parlare il suo vernacolo e italiano ma, e questo è importantissimo, direi fondamentale, pensa anche in queste due lingue. Con gli scrittori toscani, accarezzerà la sorpresa di sfumature linguistiche che, lo comprende immediatamente, arricchiranno la sua capacità di esprimersi. Le sfumature sono tutto nel dialogo! In più, la lingua toscana, ormai non più totalmente come è giusto che sia, è anche lingua italiana! Diciamo che è il toscano che ci rimette, non potendo attingere se non con estrema difficoltà, da un'altra regione italiana... proviamo ad immaginare quale ricchezza diventa l'appartenere ad un idioma locale che vanta una buona tradizione! Ecco che essere napoletani, romani, siciliani, romagnoli, assume una dimensione non trascurabile che si somma con l'essere italiani.

Non vi sorprenda questa vasta parentesi. È talmente grave, secondo me, che certi personaggi scelgano prima la tecnica e poi, se le hanno, la vestano di idee! E l'esperienza m'insegna che quasi mai, chi agisce così riesce ad offrire di più dell'ovvio della sua epoca, e per ovvio intendo quel che tutti dicono al bar e quel che si sa che sconvolge le viscere e non la mente. Operazione facile. Troppo facile. Accade poi che l'intellettualismo sfrenato che ha contraddistinto il secondo dopoguerra, pretenda solo opere che soddisfino intellettuali. Si faccia caso che in questi giorni compivano gli anni, Dalla, Battisti, Pannunzio, Flaiano e Pasolini. Di chi avete sentito parlare? Molto di Dalla e Battisti, defunti recentemente e cantori, veri poeti in una nazione dove tranne Guerra, Loi e pochi altri, l'industria cul-turale dell'Università e dei sinistrati, ha monopolizzato i ruoli non in relazione alla qualità dell'arte espressa, ma della militanza becera e dell'ossequio alle regole stabilite da chi di quelle espressioni artistiche non ha ben capito la natura anarchica, libera! Pnnunzio sta sparendo. Era giornalista, bravo direi, ma giornalista,quindi fa parte del suo destino essere obliato rapidamente. Flajano l'hanno nominato con parole carezzevoli e di rispetto. Di Pasolini, non ho sentito nulla, e si badi che di radio, per esempio, ne “mangio” molta. Ho chiesto ad amici, ma nulla m'hanno saputo dire. Chiedevo, “chi ha compiuto gli anni in questi giorni?”, e sanno che non faccio distinzioni fra vivi e morti poiché la morte per me esiste solo per chi non ha saputo dal senso alla vita. E Dalla e Battisti tutti me li citavano, Flajano alcuni, gli altri citati, appunto nessuno e cosa dire di un Pasolini che definisce la mente di Guareschi come pre logica? Guareschi uno scimmione? Il tempo ha rimesso le cose a posto. Chi ha usato solo ragionamento si avvia verso il nulla, chi ha usato l'anima verrà ricordato. Anche Guareschi, anche Omero, Dante e tutt ciò che è umano si avviano verso il nulla, ma senza fretta. È l'unico premio … e avviene per selezione naturale e la natura è Pan, non certo un qualsiasi illuminista.

Gente come me, o comunque chunque agisce per amore, nel caso mio delle arti, si impegna a riabilitare, e anche questo post viene scritto in fondo per dare una visibilità, secondo me meritata all'opera di Bolano. Mi impegno da sempre per Emanuel Carnevali, per altri che son detti a torto minori, come Munthe, Malaparte, Brancati, Manganelli, Papini eccetera. Ed è facile farlo. Quando son padrone del mio tempo, la mano scorre i titoli nell'E book e anche i testi vecchi, introvabili in libreria, e che si accatastano ormai anche sotto al letto. Mi capita sempre più spesso non di leggere, ma rileggere, e accade perché si ama, mai solamente perché si pensa. Il pensiero porta sempre al suicidio. L'arte, che viene prima, trionfa di vita. Dietro l'arte c'è Pan, c' èDionioso, Orfeo, Shiva, che altro non sono che l'istinto vitale che langue in ognuno di noi, annichiliti da troppe regole. Regole che fanno girare in tondo nella gabbia che esse non possono non creare, e portano alla all'intontimento e spesso anche alla morte dell'anima … che annienterà il corpo. La tigre rinchiusa che in modo malato va avanti e indietro, non è più una tigre. Così accade noi con una miriade di regole non nostre, non sgorgate da dentro di noi, ma dettate dall'esterno, quindi costrittive. Se ci par semplice dire che la foto della tigre non è la tigre, deve essere possibile pensare lo stesso anche di questa caricatura della potenza della natura messa fra quattro graticole fredde, di ferro irresistibile. Chi va allo zoo non vede la tigre. E' importante comprenderlo.

E ricordarsi che quel che si ama, ci guida.

Torniamo a Noi. “L'autunno del patriarca” di Marquez è scritto in un modo che toglie respiro alla mente. Ci si deve fermare, prendere le misure come si farebbe per la cadenza del passo da scegliere in salita, e poi si va. Forse in quel libro Marquez ha reso troppi omaggi alla tecnica? È possibile, ma alla fine l'opera funziona, dona, arricchisce e tecnicamente secondo me Marquez si è talmente calato nelle frasi lunghe che immagino sua moglie ammattire quando gli chiedeva “cosa vuoi per cena?” e lui partiva con una frase di due pagine per dire “cannelloni con la ricotta”, perché un artista è un bambino, è un Pan che non conosce la crudeltà e per questo gli capita di usarla ma senza colpa. Diffidare degli artisti, ma amarli sempre .... Se accettiamo una fatica, nella salita che si decide di compiere per raggiungere il punto che ci porterà al paesaggio di rocce e nevi, perché non accettarlo per un'operazione come la lettura che ci ri consegnerà al nostro io, più vivi?

Guardiamoci allo specchio e ricordiamoci che la tigre che abbiamo visto allo zoo non è “la tigre” …... che quell'immagine riflessa non ci rappresenta, che Dioniso, il dionisiaco che abbiamo dentro, e che è quel che la tigre ha in più nella selva, e che la rende “la tigre” vera, l'educazione che ci hanno data, se l'è portato via. Qualcuno qualche mese fa, ad una cena, disse a Socrate che lo “vedeva” come quelle custodie che contengono la statua di un dio … non sto dicendo quindi niente di nuovo....

Ho parlato di Marquez che stimo moltissimo e lui regge, dal lato desto Bolano. Il lato sinistro lo tiene su Saramago e di lui il giornalista ci consiglia il “Saggio sulla lucidità” accennando al fatto che una fazione lo strumentalizzò. Carne viva nella storia recente quindi, come il libro su Bolivar di Marquez. Opere che hanno partecipato della vita di Chavez, della vita del Sud America. Anche in questo caso il consiglio del giornalista, oltre al legame con il fatto di cronaca, vale perché non si ferma all'ovvio. Troppo facile l'equazione Saramago - “Memoriale del convento”.

E ora Bolano. Fragile nella sua morte avvenuta per malattia in Spagna nel 2003. quel che vi consiglio di lui, per iniziare, è invece l'equazione più ovvia. Si tratta di “2666” edito Adelphi. È un volumone immenso. Prima fu editato in due copie. Io ora ho quella singola, gialla. Contiene cinque romanzi, se non erro, (sto andando a memoria perché non ho la copia qui con me) che si possono leggere nell'ordine che si preferisce. Io ho scelto di seguire l'ordine proposto dalla pubblicazione. Si ricordi anche che è incompiuto.

Cosa mi è piaciuto di questa grande opera. Al primo impatto, dopo la lettura, ero incerto e ho lasciato macerare e distillare il tutto dentro me, da quella parte di me che senza consultarmi da forma al mio gusto. Ho compreso che l'opera valeva perché spesso mi torna alla mente. Essa è ormai parte di me, del mio io. Mi è accaduta una situazione simile con “Marco e Mattio” di Vassalli, testo che trovo difettoso per vari aspetti, ma che mi segue, mi forma e mi consiglia costantemente. L'errore fu mio. Non si deve chiedere la perfezione all'opera. È come chiedere l'intelligenza a chi si ama. Da chi si ama si desidera amore e non solo che i conti della serva tornino.

“2666” di Bolano vanta anche un'imperfezione della quale l'autore è più vittima che colpevole. Non è concluso, dicono. Ma non ne sono certo. Indubbiamente se la vita gli avesse offerto il dono di qualche attimo in più, avrebbe potuto “allungare”, ma così com'è, io non lo sento non finito. Penso che dipenda anche dalla nostra educazione artistica che ci fa accettare una tela che l'artista ha intenzionalmente non concluso. Attualmente, non finire l'opera fa parte del suo messaggio. Quest'idea di continuità, oltre le parole scritte funzione. Penso che debba la sua origine in pittori come Tiziano che non esitarono, alla fine della carriera ad essere “grossi”, col colore. Dall'opera perfetta, di Raffaello alle ultime tele di Tiziano il passo è enorme. Il colore steso con uno straccio e non più col pennello, il colore che è macchia, che rivela il suo essere componete di una costruzione e che nel frattempo anche se quasi non usato, spalmato, diluito, lucidato, si fa soggetto finale. E poi la fotografia, che ci abitua ad immaginare lo spazio che continua oltre i suoi quattro lati! Ecco che una costruzione letteraria, riesce, se vuole, ad utilizzare il non finito, perché ha un senso. E in “2666” tutto rasenta l'infinito e il caos. La serie di omicidi, l'impossibilità, nonostante le prove e le tracce, di definire un senso in quel che accade. A questo si accavalla uno scrittore introvabile e l'io narrante che lo cerca, gli si avvicina, lo perd, non lo trova di fatto mai ma è certo della sua esistenza, mentre invece il lettore ogni tanto il dubbio che nemmeno esista ce l'ha … insomma, un gorgo ipnotico da quale si emerge destabilizzati. La ricerca di un senso, la vastità del mondo, del Messico, di tutto. Più passa il tempo e più quel modo di “sentire” la vita si travasa da lui a me. Dall'atemporalità di parabola di Kafka che mi è da guida da anni, agli infiniti di Borges, al particolare povero che si eleva a simbolo in Tonino Guerra, alla fede angosciante estrema che, nella sua inesauribile e incolmabile ricerca, in Tarkovskij, esprime un lato irrisolto e irrisolvibile di me di voi, di tutti …. si, in tutto questo, in questi miei maestri, dai quali mancano Casanova, sensuale filosofo, Skriabin e Chopin, e poi i miei cani tutti …. si, tutte questi ingredienti, e quindi ormai anche Bolano, formano il mio io.

Ora veniamo ad un aspetto tremendo e fondamentale: l'artista e il potere.

Mai dare potere all'artista! Egli non vive nella realtà, per quanto la conosca meglio di chiunque altro. Hitler dipingeva, Mussolini scriveva romanzi, mao Poesie e di casini ne han fatti troppi! Il politico ha un dovere, ed è ascoltare l'artista. Da questi ha la possibilità di “sentire” il male della sua epoca. Il passo successivo, ovvero studiare i rimedi, l'artista non lo deve fare! Egli è estremo per sua natura! Egli arriva alla meta distruggendo, mietendo!

Studiando la doppia pagina de “La Repubblica” dedicata al Presidente Chavez, ho “visto” citati gli omaggi degli attori... non va. L'uomo di teatro si mette in gioco sul serio. L'attore di cinema immensamente meno. Recitare davanti a una macchina da presa o davanti ad un pubblico! Differenza enorme. Uno è nella vita, l'altro è in frezeer. Uno darà al mondo la sua immagine staccato dal suo sé, l'altro non la stacca, la “butta” in pasto al rischio, alla conferma continua.

Ovviamente anche fra gli attori cinematografici c'è qualcuno che si salva, per esempio Richard Gere e Clint Eastwood, così come fra i calciatori, un Baggio e un Platini, sembrano persone di spessore … ma sono eccezioni! Quando alle elezioni uno sportivo o un attore cinematografico parteggia per un candidato, ci mette l'immagine della sua faccia, non ci mette “la faccia” nel senso vero del termine. Quando Dario Fo interviene in favore di Grillo e del suo movimento, lo sentiamo che si mette in “gioco” una mente, un lavoro di anni che può non piacere, ma che indubbiamente ha richiesto spremuta di meningi e non solo gambe che sanno correre, anche se fra le migliori, oppure sorrisi e belle facce adatte per un filmino d'amore o muscoli gonfiati a dovere per un fil sprizzasangue e esplosioni!

Ecco che la doppia pagina de “Il corriere della sera” ci fa toccare una realtà che l'Italia, più di altri stati, ha negata. Muore Chavez, si parla di lui e poi si parla del suo rapporto con grandi artisti e si cita anche chi lo disapprovava, ovvero Bolano.

A me non interessa dare giudizi su un presidente. Di lui comunque mi piace ricordare, come ha fatto Mastrantonio nel suo articolo, che dopo due settimane dall'esser stato nominato presidente, ha cercato il contatto con Marquez. Si pensi ad una nazione scandinava che discusse in parlamento argomenti come l'aborto, il divorzio eccetera e che decise di invitare l'autrice di Pippi Calzelunghe per sapere cosa ne pensava. Nella sua nazione era stimatissima, quindi la si ascoltò. Ve lo vedete quel covo di farabutti patentati che era (spero in questi verbi al passato.....) il governo italiano invitare l'ormai defunto Tonino Guerra? Sarebbe stata una manna seguire un decimo dei suoi consigli sulla bellezza, sulla valorizzazione urbanistica, sull'arte eccetera. E con chi abbiamo visto invece i presidenti del consiglio precedenti? Da chi accettano consigli, se mai li accettano? I miei ricordi in proposito sono sconvolgenti in quanto a banalità.

Veder salire Fo, che non stimo eccessivamente, su un palco, invitato da un movimento del quale non faccio parte perché c'è qualcosa che non mi è ancora chiaro, ovvero la libertà interna di parola, mi ha fatto comunque piacere. Io, ora che Tonino non c'è più, un de Gregori, un Vecchioni, una Paola Capriolo, un Erri de Luca, Un Sebastiano Vassalli, solo per citarne alcuni, li inviterei e mi segnerei con la penna rossa quel che dicono, perché l'Italia, patria di artisti mai trattati troppo bene, ha i suoi Pan e Dionisi che vedono nitido …
e quella pagina de “Il corriere della sera” riabilita quel legame. Se l'Italia ha visto la rabbia prendere seggi in parlamento per mezzo di un comico, un motivo forte c'è. Un comico è un artista. Saper fare ridere è più difficile, immensamente più difficile che far piangere. E Crozza? E Ricci di “Striscia la notizia”? E l'equipe de “Le Jene”, e Antonio Albanese? E la Litizzetto e Luttazzi? Solo per citarne alcuni? Partono dalle verità mettendole a nudo. Il ridere, con loro, è sempre e solo una parte del discorso. Fanno spesso giornalismo d'inchiesta e inchiesta. Fanno i comici ma scoprono le “magagne”, ruolo questo che in tanti stati stranieri spetta ai giornalisti … Quando parla Crozza i politici tremano, temono. Ma loro, quei comici, non sono la voce del popolo che urla, sono la voce dell'arte! Si ricordi questo. Li si ascolti e buon lavoro, ma non si dimentichi che son voci estreme che mettono a nudo i problemi ma che per risolvere distruggono. Come risolverli però lo decida il politico onesto. Ma ce ne sarà pure uno o è una razza completamente estinta op mai esistita? MA per favore, non fatelo fare mai a un'artista. Sono un artista anch'io e so, profondamente, quel che potrebbe accadere ….
Solo se non c'è nessuno, solo allora che l'artista intervenga, ma la soluzione, che è certa, sarà feroce.

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