venerdì 8 marzo 2013

Agnello Hornby: "La Mennulara" e "La monaca"


Ho appena appoggiato sul tavolino “La monaca” di Simonetta Agnello Hornby. Il nulla ben vestito di parole. Il primo impatto, qualche anno fa, fu “La Mennulara”, suo primo romanzo pubblicato. Ne ebbi un'impressione negativissima. Trama trama e trama. Mai una volta che ci fosse la possibilità di inoltrarsi in un essere umano. Una storia raccontata, la storia di una donna, misteriosa ed eroica, del femminismo a buon mercato, nel quale dovrei cogliere il valore di una persona dalla situazione e non da quel che essa pensa. Se ho deciso di scrivere questo post non è perché mi anima qualcosa di personale contro questa scrittrice. Non la conosco e nemmeno so com'è il suo volto. Qualcuno di mia conoscenza l'ha vista in televisione, ma quella scatola banale l'ho affidata all'immondizia ormai più di quindici anni fa e di lei so quel che dice la presentazione del libro. Gran Bretagna, origine italiana, un mestiere di un certo livello, quindi l'abitudine necessaria al pensiero e all'agire ordinato … e basta. Non so altro. Posso dire che il due libri che ho letto son stati agiti, prodotti, scritti con pensiero e ordine. Questo è il suo retaggio. La vita lavorativa l'ha addestrata a questo e questo forse in quei tribunali speciali era un merito. Per la letteratura, non basta.

Immagino il lettore che si “fa prendere” dalla narrazione e va veloce poiché la lettura è semplice e scorrevole. È come in un poliziesco scadente. I fatti si susseguono, i personaggi rivelano scelte ma non come son maturate ed evolute in essi e nell'ambiente e, quel che più mi disturba, mai si scava più in profondità di una semplice emotività. Ma … se l'emotività compie le scelte e le reazioni dell'esistenza, quale miseria diventa la vita! Penso anche che quell'agire solo alla superficie del senso, porti in direzione del grande problema del cinema anglosassone e anche di tanta sua letteratura; mi riferisco alla distinzione banale del bene dal male. Si faccia caso, e semplifichiamoci la vita in questa epoca eccessivamente visiva affidandoci al ricordo di un qualsiasi film anglosassone, si faccia caso dicevo, annullando il volume, che osservando i primi cinque minuti della proiezione, siamo sempre in grado di comprendere chi è il buono e chi il cattivo. Gli attori interpretano definendo i caratteri fondamentali, quindi il buono e il cattivo, usando i volti come maschere. Già la scelta fatta dalla produzione, agisce nell'ottica della ricerca del tipo cattivo o buono; si ha poi un'accentuazione con la recitazione poiché è come se fosse stabilito che il cattivo si muove in un certo modo e ride, per esempio, solo stile Crudelia (carica dei cento e uno). Si arriva al punto che il buono è talmente buono da essere stupido e il cattivo è talmente cattivo da risultare … stupido. Due eccessi, due semplificazioni che hanno il loro supremo, ma valido fulcro, ne “Il dottor Jeckyll e mr Hyde” che è un capolavoro. Non era la prima volta che nella cultura anglosaxone, il bene e il male si erano separati. Marlowe col suo Faust aveva dato il battesimo all'idea. In lui, la religione non “spinge” per direzionare il senso quanto le versioni successive prodotte in continente. In Marlowe accade qualcosa di antico, quasi nemmeno di pagano. Le due essenze sono allo stadio iniziale, quasi pure. Questa sensazione di essere un altro da sé, quando si agisce male, in Albione è una dimensione più sentita, quotidiana. Essa, anticipa la letteratura e ne è fonte, poiché viene dalla vita. Il problema è nel passo successivo e nell'impostazione dell'uso della mente che segue alla lezione empirico illuminista. Ora si usa il materiale, che in un'altra epoca fu spontaneo, e lo si gira e rigira fra le dita della mente. Non nasce da dentro. È già nato, ma nella mente di qualcun altro. Non importa se ieri o cinquecento anni fa. L'essere umano è sempre l'essere umano e certe caratteristiche, che appartengono ai popoli, tendono a marcare di più un aspetto per inscenare un valore. Si pensi a Luc Besson invece, che interpreta spesso il ruolo ambiguo di una persona che alterna in sé male e bene. E a Clint Eastwood, temuto dal cinema Holliwoodiano perché se fosse onesto dovrebbe dargli degli oscar tutti gli anni, perché ne legge troppo a fondo e senza redenzione, la coscienza sporca e quindi supera in sé l'essere americano per giungere all'Uomo con la U majuscola,, … questo Clint Eastwood che manda in crisi proprio quel rapporto fra bene e il male mettendo la violenza, che del male è sempre stata il linguaggio, in mano al buono, distruggendo la sua purezza. Per un film del suo celebre ispettore, la scritta sul cartellone aiutava a distinguere il buono dal cattivo col seguente suggerimento: “Il buono è quello col distintivo”.

Attualmente accade appunto che si tende alla trama folta di azione, di fatti; questa è affiancata alla reazione emotiva e a scelte spesso non spiegate nel loro percorso di maturazione. Si rende necessaria poi un po' di sorpresa e non guasta un po' di sesso. Così si compie la banalità che riempie i cinema di gente che sgranocchia bidoni di pop corn, beve coca cole a ettolitri e se ne torna a casa emotivamente coinvolta, ma non scossa nel profondo. È vero che accade anche che l'attualità venga, con un'immediatezza ormai quasi totale, riprodotta sullo schermo e anche sui libri. Leggi quel che stai vivendo. Non so che gusto ci sia se non si va oltre al fatto. Contenti loro …

Ho l'impressione che la Hornby, in bilico fra due culture, abbia preso la superficie di entrambe. Mi spiego. Il cattivo quasi stupido e il buono vittima, e dall'Italia e certamente dagli ambienti che frequenta, un inneggiare all'emancipazione femminile creando situazioni non contemporanee. La donna sofferta, che vale ed è schiacciata dalle epoche, dalle grettezze. Ma … la differenza fra femminile e femminismo? Mi spiego. Giustamente la donna ha diritto a più diritti, ma non in relazione al concetto di uguaglianza. La donna non è uguale all'uomo. Ci basti valutare l'impatto della maternità col mondo del lavoro. Queste donne, particolarmente la Menullara, che riesce ad essere femmina e donna, decisa, occultamente potente, non mi dice nulla. Sono esistiti i Proust, i Fellini, Antonioni e tanti altri che hanno “lavorato” di fioretto sull'indecisione, la sofferenza di una scelta. Pensiamo ad una persona seduta su una panchina al parco. Le faccio indossare uno sguardo pensieroso e mi permetto di immaginare un tumulto interiore, una dinamica complessa che mescola ricordi, futuro, paure e ipotesi di felicità. Il mondo di fuori che mostra l'agire che in questo caso è immobilità del corpo ma non della vita, ha senso solo dopo questa tempesta interiore! Faccio un altro esempio. L'assassino, nei film spara o accoltella e noi vediamo il momento della violenza attuata, dell'agonia e della morte si può dire in diretta. Ma c'è un modo più violento, violento nel senso che ci segna più profondamente, per rappresentare quella scena. È l'intenzione ad uccidere prima del gesto! L'assassino medita, e parte scegliendo l'arma. Chiude la porta. Lo schermo si scurisce fino a farsi completamente nero e poi si riaccende su una foglia che, cullata dal vento, raggiunge il suolo. Una mano prende la foglia, e una voce quasi monotona chiede spiegazione di quando è accaduto. Quella sospensione, quei silenzi, quel volo della foglia che è sinonimo di morte, pesano sull'anima di più del gesto esplicito dell'uccidere!

Ho qualche altra traccia per farmi un'idea del personaggio che ha scritto quei due libri. Primo, l'elenco dei premi letterari. Qualcosa ci capisco. C'è l'odore finto di salotti nei quali ci si atteggia … nei quali conta di più l'amicizia introdotta della qualità scrittoria …

Un esempio: il premio Strega. Dall'elenco in costa al volume de “La monaca” che è il più recente, la mia copia è del settembre 2010, mi risulta che non l'abbia ancora vinto … ma manca poco. Il “giro”, l'ambiente è quello. Porto l'esempio di quel premio per un fatto che trovo men che scandaloso, direi viscido, ridicolo. Dacia Maraini, che con il suo “Marianna Ucria” ha fatto qualcosa di valore, avrebbe vinto quel premio con il volume “Buio”. È così banale, osceno, brutto, ridicolo che mi domando come sia possibile che dalla stessa mano che ha scritto “Marianna Ucria” sia potuto uscire anche quel conato! Mi è capitato a Roma di essermi trovato ad un passo da una presentazione. Son scappato. Non riesco a far salotto, a tacere, a far buon viso e cattivo gioco! Non riuscirei a non chiederle spiegazione. I Premi son gestiti da salotti ed editori. Una tristezza. Il primo Strega, nel secondo dopoguerra fu assegnato, la prima volta, a “Tempo di uccidere” di Flajano. Un gioiello. E poi la discesa verso la mediocrità e anche più giù. Ma al salotto, all'editore, della qualità non interessa nulla. Al primo interessa che tu sia presente e, perché no, brillante, al secondo, le vendite.

È fuor di dubbio che i libri della Hornby vendono. Sono in sintonia col mercato di massa.

L'altra fonte per capire qualcosa della Hornby è la paginetta dei ringraziamenti. Salotto. Piero Guccione per esempio. Dalle sue opere son state tratte due copertine. Una è proprio quella de “La monaca”. Insignificante. Le opere di Guccione le conosco. Eleganti, intelligenti. Creano atmosfera, ma … si atteggiano? Ho questa sensazione. Quando qualcuno mi dice “ma che bel tramonto!” e va in estasi, trovo che si stia accontentando. I tramonti di Turner erano il tumulto di un'epoca, quelli di Kaspar David Friedrich erano tumulti interiori e vi invito a guardarli nel seguente ordine: Turner, Friedrich e Guccione. È dal confronto, quando l'anima è messa a tacere dalla mente e non sa più camminare, che gli insensibili possono comprendere qualcosa!

Nel finale dei ringraziamenti scrive come segue “... sono stata tentata di tornare alla mia vecchia vita, ciascuno di loro mi ha silenziosamente fatto capire che per me ormai non c'è via di ritorno dalla scrittura.”

Non ho guardato la sua età e non ho mai visto il suo volto. Immagino una persona non più giovane che ha trovato un trastullo che fa chic. Una volta le nonne facevano i pizzi per le poltrone. Orribili, ma tutti li accettavano con finta gioia … Questi pizzi, per i suoi conoscenti vanno bene, ma per le anime, per chi oltre alla superficie si avventura nella vita? ... non vanno bene.

Posso dire che sa scrivere, ma non basta saper scrivere. Che da “La Mennulara” che è del 2002 a “La monaca” che è del 2010, è migliorata moltissimo … ma non basta saper scrivere …

Riporto una frase di Francis Scott Fitzgerald che ho trascritta in grande sul muro della mia camera da letto e che spiega chiaramente come la penso:

“NON SI SCRIVE PER DIRE QUALCOSA. SI SCRIVE SOLO QUANDO SI HA QUALCOSA DA DIRE

Questa frase, che viene dai suoi taccuini, è un monumento di semplicità e chiarezza. Io ce l'ho stampata non solo in camera, ma anche nell'osso del cranio, all'interno.

La Hornby secondo me ambisce a fare qualcosa di grande, di vero. Ora che si è allenata e sa scrivere bene, deve cercare l'anima, la sua, e ascoltarla.

E penso che potrebbe riuscirci. Credo che uno dei suoi problemi che la tiene lontana da questo passo, è la soddisfazione di parole che sudano complimenti, ma son recite di un ambiente che considera il dialogo come un'arte fine a se stessa. Riuscire a parlar due ore senza dir niente, disse un certo grande che aveva la tartaruga tatuata di pietre preziose, è l'arte del conversare al suo massimo grado di civiltà. Proust, ce ne dimostra l'aridità … con arte.

L'anima.
La sua anima.
Da lì ora, deve partire.

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