Ho appena appoggiato sul
tavolino “La monaca” di Simonetta Agnello Hornby. Il nulla ben
vestito di parole. Il primo impatto, qualche anno fa, fu “La
Mennulara”, suo primo romanzo pubblicato. Ne ebbi un'impressione
negativissima. Trama trama e trama. Mai una volta che ci fosse la
possibilità di inoltrarsi in un essere umano. Una storia raccontata,
la storia di una donna, misteriosa ed eroica, del femminismo a buon
mercato, nel quale dovrei cogliere il valore di una persona dalla
situazione e non da quel che essa pensa. Se ho deciso di scrivere
questo post non è perché mi anima qualcosa di personale contro
questa scrittrice. Non la conosco e nemmeno so com'è il suo volto.
Qualcuno di mia conoscenza l'ha vista in televisione, ma quella
scatola banale l'ho affidata all'immondizia ormai più di quindici
anni fa e di lei so quel che dice la presentazione del libro. Gran
Bretagna, origine italiana, un mestiere di un certo livello, quindi
l'abitudine necessaria al pensiero e all'agire ordinato … e basta.
Non so altro. Posso dire che il due libri che ho letto son stati
agiti, prodotti, scritti con pensiero e ordine. Questo è il suo
retaggio. La vita lavorativa l'ha addestrata a questo e questo forse
in quei tribunali speciali era un merito. Per la letteratura, non
basta.
Immagino il lettore che si
“fa prendere” dalla narrazione e va veloce poiché la lettura è
semplice e scorrevole. È come in un poliziesco scadente. I fatti si
susseguono, i personaggi rivelano scelte ma non come son maturate ed
evolute in essi e nell'ambiente e, quel che più mi disturba, mai si
scava più in profondità di una semplice emotività. Ma … se
l'emotività compie le scelte e le reazioni dell'esistenza, quale
miseria diventa la vita! Penso anche che quell'agire solo alla
superficie del senso, porti in direzione del grande problema del
cinema anglosassone e anche di tanta sua letteratura; mi riferisco
alla distinzione banale del bene dal male. Si faccia caso, e
semplifichiamoci la vita in questa epoca eccessivamente visiva
affidandoci al ricordo di un qualsiasi film anglosassone, si faccia
caso dicevo, annullando il volume, che osservando i primi cinque
minuti della proiezione, siamo sempre in grado di comprendere chi è
il buono e chi il cattivo. Gli attori interpretano definendo i
caratteri fondamentali, quindi il buono e il cattivo, usando i volti
come maschere. Già la scelta fatta dalla produzione, agisce
nell'ottica della ricerca del tipo cattivo o buono; si ha poi
un'accentuazione con la recitazione poiché è come se fosse
stabilito che il cattivo si muove in un certo modo e ride, per
esempio, solo stile Crudelia (carica dei cento e uno). Si arriva al
punto che il buono è talmente buono da essere stupido e il cattivo è
talmente cattivo da risultare … stupido. Due eccessi, due
semplificazioni che hanno il loro supremo, ma valido fulcro, ne “Il
dottor Jeckyll e mr Hyde” che è un capolavoro. Non era la prima
volta che nella cultura anglosaxone, il bene e il male si erano
separati. Marlowe col suo Faust aveva dato il battesimo all'idea. In
lui, la religione non “spinge” per direzionare il senso quanto le
versioni successive prodotte in continente. In Marlowe accade
qualcosa di antico, quasi nemmeno di pagano. Le due essenze sono allo
stadio iniziale, quasi pure. Questa sensazione di essere un altro da
sé, quando si agisce male, in Albione è una dimensione più
sentita, quotidiana. Essa, anticipa la letteratura e ne è fonte,
poiché viene dalla vita. Il problema è nel passo successivo e
nell'impostazione dell'uso della mente che segue alla lezione
empirico illuminista. Ora si usa il materiale, che in un'altra epoca
fu spontaneo, e lo si gira e rigira fra le dita della mente. Non
nasce da dentro. È già nato, ma nella mente di qualcun altro. Non
importa se ieri o cinquecento anni fa. L'essere umano è sempre
l'essere umano e certe caratteristiche, che appartengono ai popoli,
tendono a marcare di più un aspetto per inscenare un valore. Si
pensi a Luc Besson invece, che interpreta spesso il ruolo ambiguo di
una persona che alterna in sé male e bene. E a Clint Eastwood,
temuto dal cinema Holliwoodiano perché se fosse onesto dovrebbe
dargli degli oscar tutti gli anni, perché ne legge troppo a fondo e
senza redenzione, la coscienza sporca e quindi supera in sé l'essere
americano per giungere all'Uomo con la U majuscola,, … questo Clint
Eastwood che manda in crisi proprio quel rapporto fra bene e il male
mettendo la violenza, che del male è sempre stata il linguaggio, in
mano al buono, distruggendo la sua purezza. Per un film del suo
celebre ispettore, la scritta sul cartellone aiutava a distinguere il
buono dal cattivo col seguente suggerimento: “Il buono è quello
col distintivo”.
Attualmente accade appunto
che si tende alla trama folta di azione, di fatti; questa è
affiancata alla reazione emotiva e a scelte spesso non spiegate nel
loro percorso di maturazione. Si rende necessaria poi un po' di
sorpresa e non guasta un po' di sesso. Così si compie la banalità
che riempie i cinema di gente che sgranocchia bidoni di pop corn,
beve coca cole a ettolitri e se ne torna a casa emotivamente
coinvolta, ma non scossa nel profondo. È vero che accade anche che
l'attualità venga, con un'immediatezza ormai quasi totale,
riprodotta sullo schermo e anche sui libri. Leggi quel che stai
vivendo. Non so che gusto ci sia se non si va oltre al fatto.
Contenti loro …
Ho l'impressione che la
Hornby, in bilico fra due culture, abbia preso la superficie di
entrambe. Mi spiego. Il cattivo quasi stupido e il buono vittima, e
dall'Italia e certamente dagli ambienti che frequenta, un inneggiare
all'emancipazione femminile creando situazioni non contemporanee. La
donna sofferta, che vale ed è schiacciata dalle epoche, dalle
grettezze. Ma … la differenza fra femminile e femminismo? Mi
spiego. Giustamente la donna ha diritto a più diritti, ma non in
relazione al concetto di uguaglianza. La donna non è uguale
all'uomo. Ci basti valutare l'impatto della maternità col mondo del
lavoro. Queste donne, particolarmente la Menullara, che riesce ad
essere femmina e donna, decisa, occultamente potente, non mi dice
nulla. Sono esistiti i Proust, i Fellini, Antonioni e tanti altri che
hanno “lavorato” di fioretto sull'indecisione, la sofferenza di
una scelta. Pensiamo ad una persona seduta su una panchina al parco.
Le faccio indossare uno sguardo pensieroso e mi permetto di
immaginare un tumulto interiore, una dinamica complessa che mescola
ricordi, futuro, paure e ipotesi di felicità. Il mondo di fuori che
mostra l'agire che in questo caso è immobilità del corpo ma non
della vita, ha senso solo dopo questa tempesta interiore! Faccio un
altro esempio. L'assassino, nei film spara o accoltella e noi vediamo
il momento della violenza attuata, dell'agonia e della morte si può
dire in diretta. Ma c'è un modo più violento, violento nel senso
che ci segna più profondamente, per rappresentare quella scena. È
l'intenzione ad uccidere prima del gesto! L'assassino medita, e parte
scegliendo l'arma. Chiude la porta. Lo schermo si scurisce fino a
farsi completamente nero e poi si riaccende su una foglia che,
cullata dal vento, raggiunge il suolo. Una mano prende la foglia, e
una voce quasi monotona chiede spiegazione di quando è accaduto.
Quella sospensione, quei silenzi, quel volo della foglia che è
sinonimo di morte, pesano sull'anima di più del gesto esplicito
dell'uccidere!
Ho qualche altra traccia
per farmi un'idea del personaggio che ha scritto quei due libri.
Primo, l'elenco dei premi letterari. Qualcosa ci capisco. C'è
l'odore finto di salotti nei quali ci si atteggia … nei quali conta
di più l'amicizia introdotta della qualità scrittoria …
Un esempio: il premio
Strega. Dall'elenco in costa al volume de “La monaca” che è il
più recente, la mia copia è del settembre 2010, mi risulta che non
l'abbia ancora vinto … ma manca poco. Il “giro”, l'ambiente è
quello. Porto l'esempio di quel premio per un fatto che trovo men che
scandaloso, direi viscido, ridicolo. Dacia Maraini, che con il suo
“Marianna Ucria” ha fatto qualcosa di valore, avrebbe vinto quel
premio con il volume “Buio”. È così banale, osceno, brutto,
ridicolo che mi domando come sia possibile che dalla stessa mano che
ha scritto “Marianna Ucria” sia potuto uscire anche quel conato!
Mi è capitato a Roma di essermi trovato ad un passo da una
presentazione. Son scappato. Non riesco a far salotto, a tacere, a
far buon viso e cattivo gioco! Non riuscirei a non chiederle
spiegazione. I Premi son gestiti da salotti ed editori. Una
tristezza. Il primo Strega, nel secondo dopoguerra fu assegnato, la
prima volta, a “Tempo di uccidere” di Flajano. Un gioiello. E poi
la discesa verso la mediocrità e anche più giù. Ma al salotto,
all'editore, della qualità non interessa nulla. Al primo interessa
che tu sia presente e, perché no, brillante, al secondo, le vendite.
È fuor di dubbio che i
libri della Hornby vendono. Sono in sintonia col mercato di massa.
L'altra fonte per capire
qualcosa della Hornby è la paginetta dei ringraziamenti. Salotto.
Piero Guccione per esempio. Dalle sue opere son state tratte due
copertine. Una è proprio quella de “La monaca”. Insignificante.
Le opere di Guccione le conosco. Eleganti, intelligenti. Creano
atmosfera, ma … si atteggiano? Ho questa sensazione. Quando
qualcuno mi dice “ma che bel tramonto!” e va in estasi, trovo
che si stia accontentando. I tramonti di Turner erano il tumulto di
un'epoca, quelli di Kaspar David Friedrich erano tumulti interiori e
vi invito a guardarli nel seguente ordine: Turner, Friedrich e
Guccione. È dal confronto, quando l'anima è messa a tacere dalla
mente e non sa più camminare, che gli insensibili possono
comprendere qualcosa!
Nel finale dei ringraziamenti scrive come segue “... sono stata tentata di tornare alla mia vecchia vita, ciascuno di loro mi ha silenziosamente fatto capire che per me ormai non c'è via di ritorno dalla scrittura.”
Non ho guardato la sua età
e non ho mai visto il suo volto. Immagino una persona non più
giovane che ha trovato un trastullo che fa chic. Una volta le nonne
facevano i pizzi per le poltrone. Orribili, ma tutti li accettavano
con finta gioia … Questi pizzi, per i suoi conoscenti vanno bene,
ma per le anime, per chi oltre alla superficie si avventura nella
vita? ... non vanno bene.
Posso dire che sa
scrivere, ma non basta saper scrivere. Che da “La Mennulara” che
è del 2002 a “La monaca” che è del 2010, è migliorata
moltissimo … ma non basta saper scrivere …
Riporto una frase di
Francis Scott Fitzgerald che ho trascritta in grande sul muro della
mia camera da letto e che spiega chiaramente come la penso:
“NON SI SCRIVE PER DIRE QUALCOSA. SI SCRIVE SOLO QUANDO SI HA QUALCOSA DA DIRE”
Questa frase, che viene dai suoi taccuini, è un monumento di semplicità e chiarezza. Io ce l'ho stampata non solo in camera, ma anche nell'osso del cranio, all'interno.
La Hornby secondo me ambisce a fare qualcosa di grande, di vero. Ora che si è allenata e sa scrivere bene, deve cercare l'anima, la sua, e ascoltarla.
E penso che potrebbe riuscirci. Credo che uno dei suoi problemi che la tiene lontana da questo passo, è la soddisfazione di parole che sudano complimenti, ma son recite di un ambiente che considera il dialogo come un'arte fine a se stessa. Riuscire a parlar due ore senza dir niente, disse un certo grande che aveva la tartaruga tatuata di pietre preziose, è l'arte del conversare al suo massimo grado di civiltà. Proust, ce ne dimostra l'aridità … con arte.
L'anima.
La sua anima.
Da lì ora, deve partire.
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