lunedì 8 aprile 2013

Irene Nemirovsky: "Come le mosche d'autunno"




Mi son state rivolte alcune domande in relazione il mio precedente scritto su Irene Nemirovsky:

Perché ho deciso di iniziare da “Il calore del sangue”.

Perché ne parlo solo ora.

Rispondo alla prima. Ho fatto la scelta de “Il calore del sangue”, per la sua brevità. Si tratta di un tascabile e penso che questo impatto spaventi meno di altri suoi libri. È vero che c'è molta gente che legge libri “grossi”, ma quasi sempre si tratta di “roba” che ha trame rapide, azione e poco pensiero. Certi autori invece non possono essere letti come un gioco. Il cervello deve essere collegato sempre. Non sto facendo dell'ironia. La maggioranza legge come passatempo; una stretta minoranza invece, chiede al libro qualcosa in più. Vedete, pensare non è strettamente necessario nella vita di tutti i giorni, e anche ora non sto scherzando. Una persona adulta potrebbe aver creato una concatenazione di abitudini che per essere attuate, ripetute, chiedono semplicemente di ripercorrere giorno dopo giorno, i medesimi percorsi neurali. In fondo tutti, anch'io, abbiamo bisogno dell'abitudine. Se ogni atto dovesse venir sempre e costantemente “pensato”, sarebbe follia. Quando si timbra il biglietto del tram, è il corpo a farlo, non noi. Quando si guida la macchina, sapere qual'è il pedale del freno e quale quello della frizione, lo abbiamo demandato al corpo ed è probabile che, se ci pensate un attimo, non ricordiate con la mente come sono situati quei pedali. Insisto, è il corpo a saperlo. Quando non si usa la bicicletta per anni, e poi si decide di riprenderla, si suppone inizialmente di non ricordare più come si fa. Ma il corpo sa ripetere esattamente quell'operazione …

Pensiamo ora al film “tempi moderni” di Chaplin. L'uomo diventa parte della macchina. Questa ossessione era forte e malvista da alcuni, per esempio gli operai che a quel ruolo erano condannati, benvista dagli altri, per esempio i futuristi, che della vita vera se ne interessavano solo fino a un certo punto. Attualmente, la fobia della “macchina”, del far parte di essa come un ingranaggio, non ci assilla più. Ora siamo prevalentemente legati al terziario, all'organizzare risorse umane, quindi ingranaggio è divenuto un rapporto di umano fra umani non carne contro ferro ma carne contro carne, e la parola ingranaggio posso proprio eliminarla. La vita consiste ora nella conquista di una posizione sociale e in essa si opera con una competenza che non può non essere assai specializzata. Del rapporto uomo-macchina rimane la monotonia, la ripetitività, ma la si soffre meno, poiché essa accade in un contesto di relazione fra umani e non appunto fra uomo e oggetto.

Siamo quindi meno consapevoli, dell'uomo dell'epoca di Chaplin, di quanta abitudine, di quanta monotonia di movimenti del corpo e di sistematico utilizzo dei medesimi percorsi mentali, sia necessario per vivere. Siamo poi naufragati nel paradosso di facebook e twitter, canali di comunicazione che portano all'immediatezza dello scambio di informazioni. Ci si perde nell'atto del comunicare e non ci si rende conto che non sia ha nulla da dirsi. Ricordo anni fa un dialogo colto al volo che è simbolo di quanto sta avvenendo. Due persone di mia conoscenza si vedono in un locale e si abbracciano. Tutto molto plateale. Sembra che uno sia tornato dalla guerra e l'altro da una missione spaziale. Dopo abbracci e sorrisi passano al reciproco “come stai” che riceve la comune risposta “bene e tu?”. Ora segue l'altrettanto comune “anch'io” sorridendo e in più qualche pacca sulle spalle, e poi sorridono rumorosamente come due deficienti. Non si pensi che questo scenetta sia un'esasperazione oppure una rarità. È tristemente comune. Lo era molto più qualche anno fa. Con l'avvento di facebook e twitter, questa comunicazione del nulla si è trasferita in internet. Accade così che i rapporti in carne ed ossa si facciano più difficili. Con internet puoi spacciarti per ciò che non sei, nel dialogo viso a viso, anche se senza contenuti, senza messaggio, come quello citato, un minimo di realtà devi affrontarlo … e si tenga conto che il dialogo suscitato non avvenne fra due persone qualsiasi … uno era giornalista e l'altro laureato. Essi possedevano un'alta dimestichezza con l'automatismo professionale richiesto attualmente e che, non richiedendo pensiero e concentrazione se non nel momento della sua acquisizione, porta anche a relazionarsi automaticamente. Si pensa solo quando proprio non se ne può fare a meno e la via di comunicazione, lo strumento, ovvero internet, che è diventa estrema ed eccellente, trasporta messaggi che sono nulla, son rumori, assenza di contenuti.

A questo punto quando si tratta di consigliare un libro, particolarmente di un'autrice che ha scritto tanti capolavori, mi sento in dovere di partire da qualcosa di breve. Di più non posso fare. Qualsiasi testo della Nemirovsky presuppone il pensiero attivo; dobbiamo collaborare col testo e non essere passivi come con la tivù; in più si deve essere onesti con se stessi. Mi spiego. Una sera a cena con altre persone, come sottofondo c'era uno schermo che emanava un quiz. Funzionava così: una domanda, quattro risposte possibili, due delle quali assurde anche per Emilio Fede. Ebbene, una persona seduta al tavolo con noi, che non ha mai brillato in vita sua se non in grazia di un'eredità, ha “imbroccato” per puro caso, sei risposte consecutive esatte. Di conseguenza si è considerato un genio. Si stava esaltando ma era evidente che si trattava solo di fortuna. Come dire che sei stato bravo perché hai vinto al lotto!Ricordo che una domanda non l'aveva nemmeno capita. Scelse a caso la risposta e basta … questo è uno dei modi dei mass media per accontentare il suo popolo … ma davanti al libro che richiede pensiero non puoi fingere. Non lo capirai mai per caso. Servono concentrazione e pensiero se si tratta di saggi, concentrazione e disponibilità allo stupore, se si tratta di arte. Con stupore non intendo la meraviglia davanti al funambolico, ovvero trame che sorprendono e basta. La sorpresa deve essere per l'anima e questa la chiamo, nel suo inizio, stupore. Un esempio. Nel film “Nuovo Mondo” di Crialese, vediamo un'inquadratura sulla folla presa dall'alto.






Sappiamo che hanno appena caricato sulla nave degli emigranti, conosciamo i loro sogni, la loro povertà, la loro Sicilia. Sentiamo, nella scena immobile che sa di attesa, rumore di ferro che stride e una crepa si apre fra la gente. Scopriamo così che non è folla compatta, ma una parte della gente della nave e l'altra, composta di quella che sta a terra. Per un attimo quella separazione ci fa male dentro, ci commuove. Il senso della separazione è reso in un modo che ha una profondità che è insostenibile per il pensiero. Ci si rende conto, ripensando alla scena in questione, che essa viene da molto più il là. Il pensiero non basta per creare una simile immagine, e forse nemmeno il cuore … ci vuole un'anima. E così, vedendo quella scena, se siamo riusciti a lasciarci andare a lei, se il continuo controllo esercitato dalla razionalità, lo abbiamo allentato, scopriamo che è possibile andare oltre il pensiero ... che forse, se ci si impegna un poco, il seme che abbiamo dentro, e che tanti, troppi, nemmeno sanno di avere, possiamo coltivarlo e fiorire alla vita. Vi avviso e senza umiltà vi dico che ne so qualcosa. Solo così si sconfigge la morte …

Dal medesimo film vi ricordo un'altra scena: arrivati in America, questi emigranti vengono sottoposti a giochi elementari di logica. Viene data una base quadrata e la si deve riempire con pezzetti di legno di vario formato che, se ben posizionati, la coprono completamente. Quando tocca al padre, che di queste cose non sa niente, le sistema secondo una logica tutta sua, immaginando una casa per sé e i suoi, e mentre “costruisce” descrive il senso di quel che sta facendo, immaginando un futuro che ora non ha. Anche questo momento commuove. Si sente la freddezza, la disumanità di chi seleziona e l'assoluto essere indifeso incompreso, del selezionando che va ben oltre alla dinamica dell'intelligenza e si mostra più profondo di chi lo “studia”.

Anche qui, anche per questa scena si raggiunge uno stadio di sintonia profonda col più profondo sentire. Ci viene rivelato per un attimo che esiste qualcosa di più di pensiero e azione …

La risposta a quella domanda, perché ho deciso di iniziare da “Il calore del sangue”, penso che sia così esauriente. Una buona, una vera lettura, risveglia l'anima, ci fa prendere cura del seme che abbiamo dentro, ci fa scoprire che lo abbiamo, ci fa desiderare, se perseveriamo, di vederlo fiorire. Di Irene Irma Nemirovskaja sposata Epstein, nota in occidente come Irene Nemirovsky, preferisco in asssoluto “Suite Francese”, ma per riuscire ad “entrare” in quell'opera senza perdere parte del suo prezioso carico per strada, servono tempo, e la gente ne ha poco, pensiero che si arrenda all'intuizione, voglia e volontà di rileggere. Insomma, desiderio di amare. Non basta essere intellettuali, essere intelligenti, per avvicinarsi a certi gioielli. Serve di più e di meno. Saper tornare dionisiaci, ma non è facile. La razionalità sembra la via che risolve tutti i problemi. Basta applicarla con perizia, ci dicono … ma non è così. Essa serve fino ad un certo punto, e fondamentalmente per interiorizzare quegli atti e quei comportamenti che si fanno poi abitudini, ma che, grazie al cielo, non esauriscono la vita. Si pensi ai personaggi di certi film di Antonioni, a queste donne che hanno tutto ma sono profondamente irrequiete e insoddisfatte! Si pensi all'intellettuale-artista che ne “La dolce vita” uccide i figli e si suicida … è chiaro il messaggio dell'epoca che ci precede: non basta avere tutto, essere ricchi e comprare grandi case, opere d'arte e cicli di studi ... e poi ... avere l'amore non ha senso se si approda immancabilmente nell'abitudine... il comunismo stesso fallì, e continuerà a fallire, perché pensava che bastasse riempire tutte le pance, ma quando hai risolto i problemi del cibo, dell'alloggio e in più ti ritrovi improvvisamente calato in un mondo senza una morale di riferimento, ecco che crolli perché hai tempo per pensare e desiderare … nessuno ci spiega come fare, per esempio attualmente, con la morale. Si tratta forse dell'epoca più bella dell'umanità, in questo senso, ma anche della più difficile. Devi vivere, e dedurre la tua morale dall'esperienza. I confini di una morale dettata dalla società, sembra si stiano allargando sempre più, ma penso ci toccherà assistere ad una contrazione. La troppa libertà è spaesamento. Vivere per comprendere la propria moralità presuppone che si sia attivi, protagonisti di se stessi … è faticoso, e si preferirà una regola che sarà sempre insoddisfacente ma che permette di adagiarsi ...

Seconda domanda. Perché parlo della Nemirovsky solo ora.

Prima non era necessario. I giornali ne parlavano spesso. Con gli attuali mass media l'importante è che se ne parli. Se sia fatto decentemente o meno viene dopo, ma molti lettori, così indirizzati sono poi in grado di agire con indipendenza sul testo tenendo, dell'articolo letto, solo quel che sembra utile. Articoli che spendono energie di solito sull'aspetto biografico ... e la Nemirovsky offre il destro a varie notizie d'effetto. Si faccia caso che nel primo scritto a lei dedicato, non mi sono interessato della sua vita privata. Tendo solitamente ad evitarlo e a ricorrere a certe informazioni solo quando si rivelano strettamente necessarie. Per esempio, in questo post intendo parlare di “Come le mosche d'autunno” e in questo caso non si può secondo me non accennare al fatto che la njanja (balia), la protagonista, ha realmente avuto per quanto un po' modificato, quel destino. Si badi che per “entrare” nel libro non sarebbe strettamente necessario dirlo, l'importante è non fare una malattia, una via esclusiva d'interpretazione di un'opera, scovando e spesso forzando aspetti della vita privata, in relazione all'invenzione artistica. A questo si deve per esempio la fortuna dell'opera di Kafka. Essa si rivelò di difficile comprensione quindi ne pensarono, e inventarono, di tutti i colori. Esempio culmine è lo scritto di Canetti che identifica l'idea de “Il processo”, con un incontro in un albergo avvenuto realmente, nel quale, davanti a varie persone, venne definitivamente sciolto il fidanzamento di Kafka con Felice Bauer. Non serve per comprendere quel capolavoro! È più importante leggere “Joshe Kalb” di Joshua Singer … arte quindi che spiega arte. Ora della Nemirovsky non se ne parla quasi più. Dopo questo ritorno di visibilità, che arriva dopo il silenzio completo seguito alla sua fine avvenuta 1942 ad Auschwitz, un altro silenzio la attende. È vero che tutti tendiamo all'oblio, sia le nullità più estreme, ovvero quegli esseri che mai hanno compreso di essere seme e di poter fiorire, e son solo corpo che ritorna alla terra … ma un artista arriva all'essere dimenticato in modo più lento. Egli è un fantasma di latte che beviamo fino all'ultima goccia e che si fa linfa. Può accadere appunto l'oblio oppure, di diventare un popolo come è per Omero. Si diventa sangue, non si è più se stessi ma, grandiosamente, vita.

Un ultimo accenno. Nel mio post su Picasso, ho agito profondamente sull'autobiografia. Può sembrare una contraddizione ma di fatto non lo è. Mi spiego. Osservare il “periodo blu” mi portò ad una dire. Quest'uomo (Picasso) soffriva immensamente quando ha dipinto questi quadri. Cosa lo fece soffrire? E da qui è partita la ricerca di una risposta. Leggendo “Come le mosche d'autunno” ci si potrebbe domandare cosa e come visse la rivoluzione russa l'autrice, che essendo nata nel 1903 era sì giovanissima, ma già in grado di comprendere e rimanere condizionata dagli eventi. Si tratta di una domanda non strettamente necessaria per comprendere quel racconto, ma è lecito farsela. Se si legge, sempre di questa autrice, “Il ballo”, non ci si può non domandare qualcosa sul suo rapporto con la madre. In questo caso trovo sensato approfondire poiché la conoscenza di un trauma è alla base della vita di un artista. Sarà allora notevole impossessarsi dei dati biografici di quel rapporto e anche di come lo subirono (quindi con la nonna) le due figlie della scrittrice. Da rabbrividire... La sensazione che se ne trae è che dietro all'arte si celi sempre una crisi spaventosa con la vita e che, l'opera appunto, altro non sia che un recuperare continuamente, almeno per il tempo della sua stesura, un equilibrio che continuamente si perde ...






Il libretto di un intenso colore rosso come “Il calore del sangue”, è edito da Adelphi. Son novantanove pagine in carattere abbastanza grandicello. In poche parole, acidine, l'editore poteva fare una raccolta di racconti oppure “sgranarli” sul mercato uno per uno e guadagnarci un po' di più … ha vinto ovviamente la seconda opzione....

Non è stato minimamente pubblicizzato quindi penso che sia stato letto solo da chi, già sedotto dalle precedenti cinque pubblicazioni, avvenute dal 2005 al 2007, si è affezionato all'autrice.

È considerato, e giustamente, il suo capolavoro assoluto. Consiglio di leggerlo tenendo pronto “Il vino della solitudine”, un altro romanzo suo, che ha molto in comune. Si tratta, quest'ultimo, di un testo altamente autobiografico. Si assiste alla nascita, crescita ed emancipazione dai genitori, di una figura femminile. Duro e notevole. Vero della verità dell'arte, che è la più completa, e ad essa non interessa se i fatti narrati sono esattamente sovrapponibili alla realtà. È il senso profondo che deve esserlo!

Per chi vuole comunque assaggiare il portato autobiografico della Nemirovsky, consiglio di prendere “La vita di Irene Nemirovsky” edito sempre Adelphi. È scritto bene e assai interessante. Si tenga comunque conto, sempre, quando si ha a che fare con testi storico letterari, che essi mostrano una realtà filtrata da uno scrivente (in questo caso due) che appartiene ad un'epoca, e di questa è portatore delle conquiste e dei limiti. Essendo noi comunque, più o meno della medesima ondata temporale di Philipponat e di Lienhardt, poco ci risulterà stridente.



Della trama dico poco. La njanja, la balia, di una famiglia russa, vede partire due ragazzi per la prima grande guerra. Lei allevò prima il padre e i fratelli. Ebbe un figlio suo e un marito, ma morirono presto, quindi si ha la figura di una Madre Grande, madre di tutta una stirpe. Una volta partiti i due figli-soldati, abbiamo davanti agli occhi una casa … (“ era una bella dimora, dalla nobile architettura, con un frontone greco ornato di colonne ...”) che assomiglia molto alla residenza di Tolstoj (eccola nell'immagine)



 
che si sta sgretolando. Siamo nella nursery; c'è la culla con l'ultimo nato che dorme, la njanja che veglia di fianco e il capostipite, padre di quel bimbo e anche dei due partiti in divisa, che arriva. Viviamo qui la sua commozione che si apre solo alla Grande Madre della stirpe.

La presenza dei primi calcinacci della grande dimora, inizia ad essere descritta con l'apertura e la chiusura dello sportello della stufa: “... chiuse lo sportello e il sibilo del vento si smorzò. Adesso si udivano soltanto il flebile rumore dell'intonaco che si scrostava dalla stufa e dai vecchi muri, simile al sussurro di una clessidra, e il crepitio sordo e profondo degli antichi rivestimenti in legno rosicchiati dai topi.”

Non sta crollando ma, minuziosamente sta sfacendosi in sabbia del tempo, pane da clessidra. Non sta crollando semplicemente una casa, ma un mondo, un'epoca. E si tratta di una fetta di vita enorme che va ben oltre a quella famiglia.

A sei anni i maschietti venivano trasferiti al piano di sotto, dove avrebbero vissuto con i precettori e le governanti...”. Al piano di sopra ci sono la njanja, la sua stanza per allevare bimbi piccoli, per svezzare, e le bambina che si fan ragazze. Era nella Roma antica che si agiva così. Cambiava qualche aspetto secondario. Della casa, per Roma, il retro era delle donne e “il davanti” degli uomini, quindi il maschio, una volta svezzato, passava al mondo degli uomini avvicinandosi alla porta che dava verso l'esterno, verso il mondo, mentre le donne rimanevano dietro oppure, in Russia, in quel secondo piano.

Chi era lo zar? “Giochiamo” con le parole: noi oggi lo chiamiamo così, m si scriveva czar e se ci aggiungiamo una “e”, abbiamo cezar, cesare, imperatore di Roma. I simboli imperiali si trasferirono da Roma a Costantinopoli e da qui a Kiev quando questa crollò. La fine di quei simboli, di quel modo di concepire il mondo, avvenne con la rivoluzione del 1917, con l'avvento della rivoluzione russa che, come tutte le rivoluzioni, sfociò in una dittatura.

Ecco quale fine epocale, immensa, rappresenta questo libro. L'invenzione della Grande Madre Nutrice, il suo destino, narrato nel libro, fino in fondo, rappresentano l'inconciliabilità di due mondi. Qualcuno soccombe, poi il padre e la madre, ormai di mezz'età, sopravvivono, e i figli si inoltrano nel nuovo. Tutto è disintegrato. Il rispetto e il codice morale son le distruzioni più marcate e la vita continua, ma la Nianja, nella Parigi della fuga conclusa, attende la neve e arriva ...la nebbia. Pian piano vivrà solo di passato, solo della sua ormai incomunicabile poesia. E quella vita, divisa fra allucinazione e realtà, confondendole … non posso dire di più. Il finale sia del lettore.

Per quanto io sia contrario alla trasposizione di opere letterarie in film, trovo che questo testo si presti bene a all'operazione. La Nemirovsky amava il cinema e ne era attratta. C'è tutta una parte della storia della letteratura del primo novecento che andrebbe riscritta tenendo conto di questo rapporto. D'annunzio per l'Italia, ne è un esempio trascurato. Accade che, quando un artista ami un'altra espressione artistica, ne sia influenzato. In questo libretto della Nemirovsky, se si tiene sotto stretta osservazione la parola “silenzio” e si valuta come essa, dopo certe scene, appaia e “vetrifichi”, immobilizzi tutto, si potrà cogliere la lezione di un cinema, che ancora muto, del silenzio corrotto solo e non sempre dalla musica, faceva uno strumento importante.

Esiste poi, in queste poche pagine, una critica profonda alla rivoluzione russa. Essa non è diretta. Negli avvenimenti che si srotolano davanti agli occhi della nostra mente, e che culminano con il destino di morte di Jurij, fatto comprendere come nefasto fin dall'inizio, si trae un malessere che sembra incoerente. Quel mondo di servitù e padroni non ci piace, ma quella violenza che lo annienta, nemmeno. Si ha la sensazione che nulla di buono possa uscirne, e questo effettivamente, l'autrice pensava.

Faccio ora il paragone con un altro libro, un altro casato, un altro impero, un altro destino, che si concludono nello stesso modo e nella medesima epoca …

lL marcia di Radetzky” di Joseph Roth. Dicevo prima che per comprendere “Il processo” di Kafka sarebbe più utile leggere “Joshe Kalbe” di Joshua Singer. Meglio un romanzo quindi, che non uno dei cinquemila e passa saggi che gli son stati dedicati. Ora, per “Come le mosche d'autunno”, “La marcia di Radetzky”, è secondo me la risposta migliore.



Ci domanderemo: ma, se in Russia accadde più o meno la medesima faccenda che nell'impero Austroungarico … allora la risposta del cataclisma descritto dalla Nemirovsky, non deve essere semplicemente in relazione con la rivoluzione di ottobre … Sì, penserete questo. E infatti la Nemirovsky vi mostra un mondo che crolla ma non assegna colpe. Si permette solo di insinuare in noi il sospetto che chi verrà non sarà migliore di chi c'era. Due grandi mondi, due grandi imperi crollano. Questa era l'unica consapevolezza, la grande intuizione. Qualcuno, certi artisti, avevan compreso, he tutto fosse decrepito, come la casa della famiglia di Nikolaj Aleksandrovic Karin. La vita delle tre generazioni della famiglia Trotta che, da un salvataggio dell'imperatore di Wien, avvenuto alla battaglia di Solferino, fino al suo ultimo rampollo che parte per la guerra, è descritta accuratamente, ci mostra un declino ma non lo spiega, esattamente come fa la Nemirovsky nel racconto.

Il grande vento della guerra, il destino, ridisegna il mondo, l'uomo, entità fragile, soccombe e sopravvive non in sé, ma nei figli, per la Nemirovsky, si fa annientamento completo in Joseph Roth. La storia vista troppo da vicino è fatta di buoni e cattivi. La storia vista e vissuta da un artista, va oltre, e quella sensazione che proviamo al termine della lettura, quel vorticare dell'anima che non riesce a farsi parola, è la risposta, è l'alito del destino che anche su di noi, in noi, con noi, troppo spesso inconsapevoli, crea un'epoca.
amen




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