venerdì 7 ottobre 2011

omaggio a Guareschi

Quando decido di scrivere un pezzo non letterario è perché ho la sensazione di aver compreso qualcosa che potrebbe essere donato. Donato nel vero senso della parola. Ritengo che in un'epoca come questa, per la quale tutto ha un prezzo ed in esso si pretende di definire una scala definitiva di valori, dicevo, ritengo che un'epoca come questa la si possa spiazzare, mandare in crisi solo con il dono. Se non si paga un prezzo e si riceve qualcosa, se lo si accetta, ci si deve impegnare a comprendere il suo valore in base a principi nostri. Se non ne abbiamo, tutto si fa polvere.



E cosa mi torna indietro? Cosa ci guadagno? Mi ha chiesto qualcuno.

Vedere che il pallottoliere del blog sale sale e sale non è forse un premio sufficiente? Un'umanità senza volto, che per me non è mai una massa di singoli ben definiti nei minimi particolari, legge. Se non stimasse non tornerebbe più e mi capita di avere il dubbio che si possa trattare di tante visite furtive, brevi, isolate e tenendo conto della immane quantità di esseri umani in circolazione potrebbe ben essere così. E se effettivamente si trattasse di tutta gente in fuga dopo uno sguardo? Andrei avanti ugualmente. Ma potrebbero essere invece persone che tornano..... e il dubbio fa bene, mantiene alta la tensione che devo avere nei confronti delle mie vere o presunte capacità.



La modestia non mi interessa. È una falsità. L'umiltà invece è fondamentale e poiché noi esseri umani siam strutturati in modo tale da innamorarci facilmente di noi stessi, il dubbio se i lettori del pallottoliere rappresentano singoli tentativi con bocciatura o pochi fedeli, quel dubbio mi costringe a mantenere i piedi ben attaccati a terra e, la testa, che spesso, anzi quasi sempre è fra le nuvole, deve ricordarsi di scendere, sentire l'odore della realtà, prima di offrire un dono in forma di parole.


Il mondo attualmente ha un'offerta eccessiva, smisurata, assurda, di parole e immagini (anche di suoni...). Mi diceva qualcuno che solo in Italia si pubblicano circa trecento volumi al mese e qualcun altro correggeva dicendo che era un dato settimanale. Follia. Irrealtà. È evidente l'incapacità di un singolo, di fare una cernita. Si deve “pescare” a caso, e il presente si mangia tutto il nostro tempo fra le attività necessarie e il tentativo di scegliere come spendersi nel poco tempo che ci è concesso di avere come esclusivamente nostro.

Per questo parlare di Guareschi mi sembra importante, a patto che io abbia qualcosa da offrire che sia diverso dalla solita equazione Guareschi-don Camillo che tutti hanno ben chiara in testa.

Tutti? Con mia grande sorpresa la figlia dei miei vicini, Sofia, che è una buona lettrice, non sapeva nemmeno chi fosse don Camillo. Le avevo fatto vedere un libro intitolato “Italia provvisoria”, con tanto di autografo e non c'era modo di farle capire chi fosse Guareschi. Il padre si è incaricato di mostrarle i film facilmente reperibili e l'ho invitato comunque a fare il consulente durante la proiezione perché, per una dodicenne anche se impegnata come sua figlia, un comunista è un'astrazione non meno inspiegabile di un sofista.



La sorpresa della non conoscenza di don Camillo da parte di Sofia, mi ha fatto pensare. Che sia il caso forse di parlare anche di queste opere che prima di essere ottimi film furono opere letterarie non trascurabili? Ci penserò. Per ora preferisco concentrarmi su qualche libro meno noto di Guareschi anzi, oserei dire ormai completamente sconosciuto.



Il primo è “Diario clandestino”. Il mio volumetto è un Rizzoli del giugno del 1954. La prima edizione fu del dicembre del '49. fu quindi un libro gradito, molto letto. In esso Guareschi parla della sua prigionia iniziata nel settembre del 1943 e terminata nell'aprile del '45.



Egli minimizza sul suo ruolo nella vicenda storica. Nella prefazione racconta che durante la prigionia aveva scritto tre libretti, un diario quasi giornaliero. Una volta tornato a casa, lo affidò alla macchina per scrivere, ne fece due copie e poi le affidò alle fiamme della stufa. Decise di tenere le pagine che diventeranno “Diario clandestino” e che vantano un'approvazione da parte dei colleghi di prigionia poiché le lesse in pubblico. Guareschi era un ufficiale in un campo di ufficiali. Seimila circa. Francesi e italiani. Camerate da duecentottanta persone, fame a volontà e disperazione. Fu spostato varie volte di campo, ma mai finì in un campo di sterminio. Erano prigionieri di guerra. Potevano farcela ma non era facile. Era questione di sopravvivere con meno di pochissimo e non farsi prendere dalla malinconia era una delle questioni principali.



Vi offro ora un breve pezzo dalla prefazione. Vi invito a tenere d'occhio due aspetti: la semplicità della scrittura e la visione dei fatti che ci offre. La prima, la scrittura, non poteva non far imbestialire gli intellettuali, la seconda, la descrizione rapida e indiscutibilmente giusta di quel fatto storico che fu la seconda guerra mondiale, metteva in crisi le varie correnti politiche che cercavano di dar versioni su versioni finché col tempo si allontanarono a tal punto dalla realtà che nelle scuole si insegnava che la seconda guerra mondiale l'Italia l'aveva vinta. Propaganda ovviamente, e per due motivi. Primo perché l'Italia, almeno secondo me, dal punto di vista tattico e politico non aveva vinto un bel niente. Prima inciampò in un dittatore irreale e poi, quando questo crollò, il caos, l'occupazione da parte degli ex alleati e infine la liberazione da parte degli americani, da questi tedeschi incazzatissimi per un presunto tradimento. Secondo me ha perso il fascismo, e il popolo italiano si è semplicemente liberato. Esso ha perso in vite umane e in sofferenza guadagnando in libertà, ma non ha vinto la guerra. Rispetto i partigiani. Sono stati un sintomo chiaro di salute, ma senza gli alleati......



Veniamo ora al pezzo tratto dalla prefazione di Guareschi:

“Io, insomma, come milioni e milioni di persone come me, mi trovai invischiato in questa guerra in qualità di italiano alleato dei tedeschi, all'inizio, e in qualità di italiano prigioniero dei tedeschi, alla fine. Gli anglo-americani nel 1943 mi bombardarono la casa, e nel 1945 mi vennero a liberare dalla prigionia e mi regalarono del latte condensato e della minestra in scatola.

Per quello che mi riguarda, la storia è tutta qui. Una banalissima storia nella quale io ho avuto il peso di un guscio di nocciola nell'oceano in tempesta, e dalla quale io esco senza nastrini e senza medaglie ma vittorioso perché nonostante tutto e tutti, io sono riuscito a passare attraverso questo cataclisma senza odiare nessuno.”



La prima osservazione che vi avevo invitato a fare, era sul linguaggio. Mi sembra evidentissimo che si tratta di parole semplici, quotidiane. Ci si ricordi sempre di Racine, che con un vocabolario di un migliaio di parole scrisse capolavori dei quali gente con la puzza sotto il naso come gli intellettuali francesi, tuttora amano gloriarsi...... E' evidente che le “cose” di Guareschi vendevano prima di tutto perché erano chiare, comprensibili. Ma non era non solo questo il loro pregio.



Ora vi porto per mano nella lettura di alcune righe del brano sopra citato. Tra parentesi è quel che verrebbe da pensare, fuori parentesi il suo testo:

“Una banalissima storia, e dalla quale io esco senza nastrini e senza medaglie (ma vivo!) ma vittorioso ( vabbè, vittorioso perché vivo....) perché nonostante tutto e tutti, (sei vivo! E non farla lunga! Dillo! l'abbiamo capito che è li che vuoi arrivare!) io sono riuscito a passare attraverso questo cataclisma (salvando la pelle! E taglia! La fai un po' lunghina....) senza odiare nessuno.”



E il cuore fa plof. Ci si sente vili, e per rimediare si prosegue nella lettura, diluendo così quella sensazione che ci siamo meritati. Guareschi non l'ha certo fatto apposta. Non aveva l'intenzione di metterci davanti alla nostra banalità. Lui, con una dirittura morale semplice e fortissima è andato per la sua strada e ci ha travolti. Non è semplicemente la pellaccia che ha salvato. È riuscito a non odiare nessuno. Ecco una lezione, offerta sul muso di un'epoca a caccia di streghe com'era il 1949, anno della pubblicazione di questo libro.



Inoltriamoci in quest'altro pezzettino della prefazione:

“Adesso io non ricordo bene come siano andate le cose: chi partecipa a una guerra di solito ha un sacco di cose da fare nel piccolissimo settore a lui affidato, e non ha possibilità di tenersi aggiornato sull'andamento generale della faccenda. Perciò non sa se sta vincendo o se sta perdendo e, alla fine, se ha vinto o se ha perso la guerra.

Inoltre il pasticcio risultò così grosso e così complicato che oggi, a quasi cinque anni di distanza dalla fine, la gente sta ancora litigando per mettersi d'accordo su chi ha vinto e su chi ha perso, su chi aveva torto e su chi aveva ragione. Su chi erano gli alleati e su chi erano invece i nemici.”



Non si perda di vista il linguaggio. Se mai nel brano precedente il vocabolo “cataclisma” poteva far dubitare dell'effettiva semplicità di Guareschi, poiché non è difficile immaginare gli allievi della de Filippi, che son milioni, arenarsi davanti a quel vocabolo che è stato sotterrato dal modaiolo ”tsunami” e dal più specifico “terremoto”.... Questo brano risulta essere davvero e completamente semplice, ma non nel contenuto. Se teniamo conto che con certezza scientifica possiamo affermare che i de filippisti mai metteranno naso nel mio blog, e ritenendoci ambiziosamente e forse ingiustamente migliori di loro, non ci sarà difficile ammettere che questa scrittura è meravigliosamente, piacevolmente semplice. E questo non vuol dire che semplice sia anche il contenuto. Tutt'altro. Poche righe più sotto Guareschi definisce fra le altre cose, con le parole “guerra civile” quel periodo che in Italia si visse subito dopo la fine della seconda guerra. Per chi studia la storia, trovare questa definizione nel 1949, risulterà sconcertante, non trascurabile e in tutto il brano il punto di vista individuale, che gli storici non amano è elevato non ad emotiva analisi di un presente vissuto, ma di un passato recente accuratamente elaborato tenendo conto della grande storia e di quella piccola, fatta dalla vita semplice, quotidiana, che è la più vera e la meno narrata.



Si parla di autobiografie, di letteratura. Non per niente Boris Pahor è candidato al Nobel per la letteratura. Categorie. Non è storia. Ci si può attingere qualcosa, ma è individualità e la storia ci viene presentata, vuole presentarsi come altro, come evento di massa. E fu così che Stalin riuscì a far fare un salto colossale all'industrializzazione russa, portandola ad un livello di produttività paragonabile con quello dell'Europa. E le decine di milioni di morti che ci furono? Secondario. Si, ma vallo a raccontare a chi è morto o a chi si è visto decimare la famiglia o buttare via anni di vita...questa è la storia, la materia che porta quel nome, ma esiste un passo in più, che per possedere la vera storia, va sempre compiuto.



E infatti la risposta di quella massa che io ritengo composta da individui, è stata una fame solenne e ancora insaziabile, di autobiografie, di interpretazioni personali.



-L”unica cosa interessante, ai fini della nostra storia, è che io, anche in prigionia, conservai la mia testardaggine di emiliano della Bassa: e così strinsi i denti e dissi: “non muoio neanche se mi ammazzano!-.



Irrazionale, potente, semplice.......e vero.



E per quale motivo era presente in lui questa notevole forza di vivere, questa motivazione che io per esempio non ho nella maniera più assoluta? Perché aveva una moglie, un figlio e una figlia, che nacque mentre era prigioniero.



Ecco un aspetto che non ho sentito così vivo e vitale in nessun altro testo di prigionia: la capacità di farmi, farci sentire, toccare con mano, la potenza degli affetti veri. Se c'è un motivo vivi, lotti con i denti, le unghie. E il motivo non è solo la volontà secondo Schopenhauer, o la moto o il macchinone che ti aspettano a casa. È, si, non lo si dimentichi mai, l'affetto......



Nel campo c'erano anche due persone che son ora nomi quasi dimenticati e che ebbero valore nell'Italia del dopoguerra: Gianrico Tedeschi e il poeta Clemente Rebora. Quando Rebora si ricorda del compleanno di Guareschi e gli regala delle sigarette, comprendiamo quanto vale un gesto come il ricordare che con la sua immensa civiltà lo farà sentire ancora vivo. Il primo, Tedeschi, dedicava serate alla lettura di poesie e dalla pagina 35 della mia edizione estraggo una frase illuminante: “La poesia bisogna sentirla, non capirla”!



Grandioso. Se penso che un mio intervento davanti agli allievi della Scuola di Regia di Mosca, tenuto lunedì dodici di questo mese, aveva proprio quell'argomento.... ho cercato di dimostrare che l'idea contenuta nella mente dell'artista, quando si trasforma in un'espressione percepibile dall'altro, come un film, una poesia, un quadro ecc, viene percepita, e non deve essere smontata con la razionalità. Quel nocciolo puro bisogna lasciarselo galleggiare dentro il più possibile. Arriverà il momento che si smonta tutto, come facevo da piccolo con le sveglie. Irresistibile ad un certo punto capire come funziona dentro una sveglia, un gioco o un'idea grandiosa. Si, accadrà, ma dopo la fruizione dell'opera non sarà più pura, grandiosa, capace di elevare.



Ed ecco che con estrema semplicità Guareschi ci dice come affrontare la poesia e in fondo l'arte in generale e anche questo suo libro.



E son tante altre le cose che vorrei dirvi. La mia edizione per esempio è corredata di disegni dell'autore. Mi auguro che le nuove rispettino questo particolare per me non trascurabile.



E poi la capacità di farci sorridere nonostante tutto! Deliziose le pagine del pacco che la moglie gli invia e anche il brano che narra la preparazione di questo. E poi, momenti vera poesia. Poche parole, poche immagini che si fanno indimenticabili. Io son rimasto colpito, colpitissimo da “la gaìna”, un capitolo che racconta la visita notturna nel lagher del fantasma del figlio. È particolarmente toccante il finale. Ma non devo dirvi tutto....



e a pagina 161, il breve brano intitolato “la speranza” mi ha lasciato senza parole.

Quello ve lo trascrivo, come prova del valore di quel che vi sto consigliando di leggere:

“25 gennaio 1945. All'infermeria è morto di fame il capitano P. Diciotto mesi fa, pochi giorni prima di esser catturato dai tedeschi in Francia, aveva comperato tre tavolette di cioccolata da portare ai suoi bambini. Le tre tavolette lo seguirono nella via della deportazione e della fame, ed egli sempre le custodì gelosamente fra i poveri stracci del suo sacco, e ogni tanto le cavava fuori e le guardava sorridendo, e pensava ai suoi bambini.

E' morto di fame, all'infermeria, stringendo fra le mani le tre tavolette di cioccolata intatte.”



Ieri sera ero steso a letto e pensavo al capitano P; pensavo anche alla mia povertà interiore che troppo spesso non mi fa vivere perché non so che senso abbia tutto questo, e lui, il capitano P che un senso l'aveva trovato lasciandosi andare alla vita, ai sensi, alle piccole cose aveva le tre tavolette di cioccolata per i figli e stava morendo di fame......



E poi ho pensato a quel Natale che Guareschi e la sua camerata non vollero lasciar passare così, come se non esistesse più. Fecero l'albero di Natale e vi attaccarono dei foglietti sui quali erano scritti dei doni. Su quello scelto a caso da lui, c'era scritto “torrone” e ne fu contento perché ne era sempre stato ghiotto. E per me pensare a Tonino (Guerra) a e al suo Natale nel campo di concentramento è stato un attimo. C'erano altri romagnoli con lui. Gli chiesero “Tonino ce li fai i cappelletti?” “certo!” rispose, e poi si mise a mimare tutta la preparazione. Mettere la farina sul tavolo e farne una montagna, aprire il buco in mezzo come se fosse un vulcano, rompere le uova e mettere il contenuto in quel buco, fare l'impasto, “tirare la sfoglia”, preparare a parte il “ripieno” tagliare la sfoglia a quadri, appoggiarci su il “ripieno” e dare quella forma così particolare e nota con un gesto delle dita che tanto mi incanta tutt'ora. E poi metterli nell'acqua bollente, scolarli, condirli e “fare” i piatti. E ognuno avvicinò il suo, inesistente alla inesistente pentola e ricevette la sua porzione. Si dissero buon Natale e poi, sempre per finta, mangiarono. Uno disse “ce n'è ancora?” (il tutto rigorosamente in dialetto), gli si chiese se voleva scoppiare e tutti, malinconicamente, risero.



Chi sarei, se non avessi imparato ad ascoltare chi ha vissuto, chi ha vissuto veramente!

Si, chi sarei, o esattamente, chi non sarei.... E le parole uscite dalla viva voce di Tonino, e quelle di Guareschi, eternate nei suoi libri, non mi aiutano forse ad essere più fragile ma anche più umano?



E quando Guareschi dice che, “...è la cultura che ostacola la comprensione fra le genti” e ce lo dimostra con un esempio al limite....; tre prigionieri, un francese, un russo e un italiano, agli ordini di un sergente tedesco. Nessuno sa una parola dell'idioma dell'altro, ma dialogano, si capiscono.

E io che odio la cultura ufficiale, fatta di paroloni indigesti, inventati a tavolino e non dalla vita, e ringrazio chi non dimentica mai che è il caso di “scrivere”, come disse Fitzgerald, solo quando si ha qualcosa da dire.....!



e leggendo il paragrafo intitolato “la solita storia degli orologi”, rivivo le pagine finali di Helga Schneider ne “il rogo di Berlino”. Quella caccia agli orologi che erano il primo bene che i russi entrati nella capitale tedesca, volevano e chiedevano a tutti, e Guareschi ci dice che era così per tutti, non solo per i russi che si facevan caricatura per questo. Nessuno era libero da quella fascinazione data da un oggetto che segnando il tempo ci avvisa che domani, quindi il futuro, esiste....



e chiudo con una considerazione dell'autore, un pensiero che è anche un monito da fare nostro:



ETERNO PERICOLO



“Racconti di guerra: Russia, Croazia, Albania, Montenegro, Africa, cielo, mare. Qui si vivono mille vite, la guerra si moltiplica in mille episodi, e non è più una parola, ma un concetto di spaventosa, terrificante, infernale evidenza. Anche per chi non l'ha vissuta.

Ma domani la storia diventerà letteratura, e si faranno recensioni ai libri, non alla guerra. E si dirà- come per Remarque - : “che bel libro!”. E nessuno dirà: “che orrore di guerra!”





Mi interessava parlare del Guareschi che non ha nulla a che fare con don Camillo perché è “roba” che merita di essere ricordata con altrettanta attenzione di quella più celebre. Ma..... vi siete mai domandati come “gli venne” l'idea di quel pretone che battagliava quotidianamente a Brescello contro il sindaco comunista? Io si, come sempre mi accade davanti ad una idea che amo, e spesso non ne saprò mai niente, ma in questo caso il seme è stato trattenuto, raccontato.



Prendere il libro “Corrierino delle famiglie” e cercare il racconto “al paese di don Camillo”. La protagonista è Carlotta la figlia di Guareschi. L'ho conosciuta e le ho chiesto se veramente da bambina fu la peste che il padre racconta. Mi ha detto “ero una brava bambina”, ma nonostante l'età raggiunta in questo 2011, gli occhi avevano ancora qualcosa di monellesco. Ero nella sua casa, la casa di Giovanni Guareschi. Avevo visto con i miei occhi il suo mondo, dialogato con il figlio e con un giornalista di “Libero” del quale ora non ricordo il nome (dico sul serio) misteriosamente innocente come l'acqua d'alta montagna. Quando gli feci presente della mancanza di libertà dei giornalisti italiani, mi rispose che lui era libero di scrivere quel che voleva. Non risposi ma dentro di me lo feci e dissi: “ovvio, se oggi parli di uno scrittore morto nel 1968, ti lasciano fare perché si tratta di un mondo che non esiste più”. I democristiani si son riciclati in altri partiti senza cambiare stile, i comunisti son quasi estinti e le parole di Guareschi ora non sono più attualità, sono storia. E in più si sa che chi fa pensare non va di moda. È come parlare in un teatro vuoto. Ricordo ne “L'uomo senza qualità” di Musil uno dei personaggi che esce di casa e cammina cammina cammina. Non pensa, fa, anche se è un fare insensato. Ricordo anche una nota in evidenza sulla copertina di uno dei primi numeri di Superman negli USA. Si leggeva “64 pagine di azione”, ed è evidente che questa informazione attirava (attira) lettori. Ma se l'azione non è sensata come fa a reggere? A interessarci? Va bene negli USA, particolarmente nel cinema, dove il cattivo è talmente cattivo da essere quasi scemo e il buono altrettanto e mai un percorso morale li rende tali. E infatti, “Gran Torino” di Clint Eastwood è un capolavoro anche solo per il fatto che il cattivo è così perché un motivo ce l'ha e per redimersi da questo, almeno per una volta sarà buono......



Come vedete, quando quel giornalista mi ha dato una risposta così bella ma irreale, circoscritta a lui, quanti pensieri mi si sono innescati....



e li ho salutati, sono uscito e “ho fatto un salto” al cimitero da Guareschi. Ci pensi chi si vuol far cenere. Forse per qualcuno che nemmeno conosciamo, il pellegrinaggio ad un luogo che sarà eternamente vostro, potrebbe essere una buona medicina....un momento di salute interiore. Si può credere in un artista come in un dio, poiché ambedue propongono un mondo morale!



e poi suonano le campane. Entrano in chiesa e li seguo. Il giornalista è nella fila destra dei banchi di fianco alla moglie. Io a sinistra. Non mi ha visto. È un credente ferventissimo. Lo ammiro per questo. Non è facile esserlo. E poi la messa. Sei chierichetti, un prete che odora di campagna. Una bella donna che prega con intensità e una signora anziana che sibila “le pesano le corna” e io penso che se pesano son quelle che ha ricevuto e mi fa pena perché so che Alla bellezza esteriore si fa l'abitudine e non salva da certe situazioni. Vedo un punk spennakkiato ma composto, alcune facce da comunione e liberazione..... beati loro. Hanno la confessione. Ricordo in università che peccavano allegramente. Niente coscienza. Peccavano abbondantemente, si confessavano ed erano a posto con se stesse e col mondo...... Miracolo della religione.



E ho atteso che entrasse un signore grosso coi baffi.....del quale ammiro l'opera e tendo a dimenticare che non ha più un corpo.



Mentre c'era la comunione, ho visto il giornalista in fila davanti al prete. Mi ha notato ma ho fatto finta di non vederlo. Il suo mondo è piccolo, perfetto; io per lui sono instabilità e dubbio. Lo aiuterò ad evitarmi. Esco. Torno da Guareschi. Lo saluto e l'aria si riempie di campane e buoni odori. È ora di pranzo. Esco da questo bel sogno di paese e torno. Ma tornare presuppone un luogo per lo meno esatto, nello spazio e nel tempo, che non ho. Salgo in macchina e volo via.



Ora, mentre scrivo, accarezzo con lo sguardo il “Corrierino delle famiglie”. Li dentro, come a Roncole, dove Guareschi comprò la casetta di campagna che ora è fondazione, tutto è semplice e fa sorridere. Ma nulla, mi raccomando, nulla è stupido. Avrei voluto vedere la bicicletta di Guareschi, quella che i figli misero a letto e che ebbe tanto ruolo in quelle storie. Un attimo di favola, di poesia leggera, leggera nel senso che nulla pesa, ma a tutto assegna una dolcezza.... e saluto in queste righe uno dei grandi della letteratura italiana che, costretto in una etichetta riduttiva che lo fa comico e don camilliano e basta, deve attende una ricollocazione che gli renda onore. Libero, semplice, sereno. Colui che ritornò dalla guerra contento d'esser riuscito a non odiare nessuno.



Grazie




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