venerdì 21 ottobre 2011

Musil e Bob Hansen



“Mi permetto di sottoporre al vostro esame un mio scritto, estratto da un grande romanzo cui sto lavorando da quattro anni nelle mie ore libere”, cominciava la lettera ricevuta da 32 case editrici tedesche, austriache e svizzere, e da 14 critici letterari e scrittori. Era firmata Bob Hansen, che precisava di essere capo tecnico di reparto, abitante a Sternheim am Main (Germania) al n.46 della Ludwigstrasse. La lettera continuava chiedendo “almeno un giudizio critico, nel caso che la casa editrice non avesse avuto interesse alla pubblicazione dell'opera”.

Bob Hansen ricevette 36 risposte, tutte negative. Il tema da lui scelto era uno dei preferiti della letteratura contemporanea, il sesso, ma il suo modo di trattarlo, nelle otto pagine dattiloscritte inviate in esame, non era piaciuto a nessuno. Hansen aveva scritto, ad esempio: “Egli si piegò e coperse il suo viso con i baci più audaci, che sconvolgono la carne. Helga si alzò senza volontà e si lasciò trascinare”.

Lo scrittore Robert Beumann definì “anchilosato” lo stile di Bob Hansen. Un altro scrittore, Gerhard Zwerenz, gli rispose in questi termini: “Ciò che lei vuole esprimere può essere interessantissimo, ma lo esprime in modo tale che non sarà accettato da nessun editore”. La casa editrice Bertelsmann, la Diederichs, la Propylaen, la S. Fischer e la Walter restituirono tutte il manoscritto, definendolo “penoso” o “troppo sentimentale”, oppure dichiarando di non ritenere opportuno il lancio sul mercato letterario di una “rappresentazione dell'eros” a loro avviso “frustrante”.

Il lettore della casa editrice Biederstein giudicò che “molti passaggi erano scritti in modo elementare e confinavano col cattivo gusto”. Urs Widmer, lettore della Suhrkamp di Francoforte, che ha riunito intorno a sé la maggioranza degli scrittori del “Gruppo 47”, i migliori della nuova letteratura tedesca, fece sapere allo sconosciuto autore che la sua opera “non corrispondeva purtroppo a ciò che la casa intendeva per letteratura”.

Inesistente. Bob Hansen però non esisteva. Era un'invenzione della rivista tedesca Pardon che voleva dimostrare “con quanta attenzione le case editrici esaminino i manoscritti degli autori sconosciuti”. Per il suo esperimento la redazione di Pardon aveva adoperato due brani, appena ritoccati, di un famoso romanzo di uno dei più famosi scrittori di oggi, “L'uomo senza qualità” di Musil. Pardon concludeva osservando che i casi erano due: o Robert Musil, definito dal “Times Literary Supplement” il “il romanziere più significativo di lingua tedesca” è diventato insignificante, oppure i lettori delle case editrici leggono, ammesso che lo facciano, con troppa disattenzione.

L'accusa di Pardon -scrive der Spiegel- è diretta soprattutto alla casa editrice Rowohlt, di Amburgo (una delle case più note in Germania, che rivoluzionò nel dopoguerra il mercato librario tedesco con il lancio del Taschenbuch, il libro tascabile). La Rowohlt, ha restituito il dattiloscritto allo sconosciuto autore spiegando che “dato lo specifico programma letterario della casa, il lavoro non aveva potuto essere giudicato benevolmente”. Come ha dichiarato Pardon ai suoi lettori, la Rowohlt è l'editore tedesco dell'opera di Robert Musil.



Fine dell'articolo.



È datato 13 giugno 1968. Uscì in Italia su “Panorama”.



È necessario prima di tutto sfrondare una banalità. Non è vero che “il tema scelto (il sesso) era uno dei preferiti della letteratura contemporanea”. L'articolo non è firmato e dobbiamo saper asciugare quanto è stato scritto per riuscire, e non è detto che sia sempre possibile, a rimanere prima di tutto con la semplice notizia, il fatto accaduto. In un secondo tempo valuteremo anche le prese di posizione della testata tedesca sull'argomento.



Una cosa certa è che il sesso era ed è un argomento amato dal “mercato” e gradito da un pubblico vasto, e indubbiamente si sa che a proposito di esso può scrivere in modo interessante un Lawrence oppure in modo intrigante o totalmente spoglio e diretto, una qualsiasi persona poiché tutti, almeno mentalmente siamo partecipi di quel “gioco”. Come disse qualcuno di importante del cinema, per fare un film che garantisce incasso serve un po' di azione, un po' di sesso e...e, davvero, non mi ricordo più perché non valeva la pena di ricordarlo, e poi la penso diversamente. L'argomento sesso, non era comunque secondo me, il preferito dalla letteratura contemporanea del '68, ma da chi gestiva e condizionava il mercato editoriale.

L'anonimo autore ha “confuso” la “letteratura contemporanea col “mercato editoriale”? Secondo me si, e probabilmente ha agito inconsapevolmente.



Altro aspetto sul quale ritengo opportuno spendere qualche parola. Oggi come nel '68, quante persone saprebbero riconoscere un brano di un autore di livello eccezionale come Musil? E per essere più precisi è forse il caso di spostare l'esperimento su un altro nome poiché Musil, defunto improvvisamente nell'aprile del 1942 visse, dal punto di vista della conferma di fama, il suo periodo d'oro proprio nel '68. Ma... quale autore di oggi riveste un ruolo, una fama simile come lui in quel momento storico? Io non faccio testo. Me lo son fatto raccontare, ma risulta che Joyce, Musil e Proust fossero considerati, all'epoca i tre grandi assoluti, intoccabili, indiscutibili. Qualcuno aggiungeva Kafka, altri anche la Woolf, ma i primi tre brillavano soli e appunto indiscussi.

È per questo che quell'articolo deve far pensare. E i redattori della rivista Pardon, che misero in moto questo giochetto, non scelsero un'opera meno nota (ma non meno importante) come ad esempio il “Torless”. Scelsero otto pagine dal libro più noto e col quale si identificava, per il pubblico, Musil, ovvero “L'uomo senza qualità”. Io penso che varie persone di mia conoscenza siano in grado di riconoscere pagine di Proust o di Joyce. Non so se anche di Musil, e non vi parlo di vecchi, o di lettori esagerati come me. Persone normali e che spesso all'epoca dei fatti narrati non erano ancora nati e forse nemmeno stati progettati.



Penso se accadesse a me di dover valutare un testo per la pubblicazione o per riconoscerlo. Ho provato. Non vi dico l'esito, ma come ho ragionato per risolvere il “mistero”. Non ho cercato di ricollegare la trama a quanto avevo già letto. Mi sono affidato allo stile. E penso che agendo così sia possibile. Pochi Scrittori si confondono e mi riferisco a Scrittori con la esse maiuscola. Ritengo comunque che il “gioco” non sia riproponibile oggi a meno che non si usi un autore un po' stagionato, non per me ma per il tempo....che la “roba” di valore al palato della sensibilità riuscirà sempre gradito. Il fatto è che ci sono e ci son stati autori di pregio notevolissimo, ma quello che definirei l' “astratto mondo della cultura” non esprime più idee cosi forti, possiamo dire anche dittatoriali, come un tempo. Oggi il lettore ha più spazio e questo serve per perdersi se è sprovveduto e, per maturare e la percezione della qualità, siamo disposti si a farcela consigliare, ma non più come allora, a farcela imporre, cadere dall'alto. A me per esempio Joyce non piace. Non riesco a leggerlo. Troppa tecnica e poco “sugo”. Se è vero che la lingua è il supporto sul quale si innesta il significato, ecco che chi gioca troppo con la lingua, ma dice poco, non lo “sento”. Immaginate un balcone tirolese che si allunga per tutta la facciata e abbellito con un'unica pianta di geranio. Il geranio è il contenuto, il balcone, sul quale il geranio si regge, la lingua. Quel balcone è sprecato con una sola piantina, ci siamo abituati a ben altro in Tirolo. E la piantina da sola non sa rendere quel balcone degno di essere guardato. Se penso alla letteratura irlandese preferisco “alla grande” James Stephens che, pensate un po', nacque nel medesimo ospedale di Joyce, il medesimo anno, nel medesimo giorno e alla medesima ora. Joyce amava definire entrambi come i “gemelli celesti”, ma Stephens aggiungeva che comunque già il letto era differente ovvero che tranne quelle casualità sorprendenti, si riteneva indipendente e mooooolto diverso dall'altro. Il caso vuole che “La pentola d'oro”1, a chi l'ho prestata da leggere o consigliata, ha raccolto consensi a cuore aperto. Joyce secondo me è un autore che leggi se devi, non se ti va.



Torniamo all'articolo. Oggi secondo me l'esperimento non è più possibile. All'epoca fece, e giustamente, scalpore. Ma, cosa era accaduto nelle case editrici perché potesse accadere un simile errore? e si tenga conto che la rivista aveva cambiato solo il nome dei protagonisti.....



Semplice. Col dopoguerra era entrato in Europa il modo di concepire il mercato, tipico americano che prima aveva solo fatto capolino. Esisteva già la pubblicità, ma era simpatica, a volte ridicola o pretenziosa, ma mai troppo invadente. Era insomma educata. Presentò qualche sintomo di volgarità durante le guerre, ma rinunciò a qualsiasi educazione con la fine della seconda guerra mondiale. E così anche la casa editrice divenne una “macchina” che sfruttò tutte le leve possibili e anche le impossibili, per vendere. Qualche sintomo già si era visto. Il caso della Némirovsky ce lo dimostra. Lei mandò un dattiloscritto all'editore Grasset (che di solito viene ricordato per aver pubblicato il primo volume della Recherche ma si ama dimenticare che Proust, nonostante il talento pagò l'operazione...) e mise come recapito una casella postale. Grasset scrisse ma non ricevette risposta. Era comunque intenzionato a pubblicare. Mise un annuncio sui quotidiani francesi nel quale si invitava la persona che aveva inviato “David Golder”, a presentarsi. Era già innescata l'operazione. L'attenzione era stata così, accalappiata. A Grasset, di quel libro era piaciuta la durezza verso il mondo ebreo capitalista. Eravamo nel 1929. L'eco del caso Dreyfus non si era in fondo mai spento e uno scandalo recente aveva coinvolto banchieri israeliti. Era l'odor di carne sanguinolenta che aveva affascinato Grasset, non la qualità letteraria del testo. Vedersi poi apparire la scrittrice ventiseienne e fine, che non aveva risposto perché stava partorendo la sua prima figlia, e scoprire pure che era ebrea, lo mandò in estasi. Un'ebrea che “parlava male” di ebrei, di ebrei ricchi, con quello scandalo francesissimo ancora caldo!

Si. Non ho dubbi. Non fu la qualità. Capolavori come “Jezabel”, “Il calore del sangue” e “Come le mosche d'autunno” li dobbiamo quindi, in un certo senso, al caso. Il testo era scabroso, duro. E lo aveva scritto una “femminuccia” con i capelli alla maschietta. Avrebbe funzionato. Se poi, in aggiunta, tanto per aggiungere “sapore” si leggono le prime pagine de “Il vino della solitudine” possiamo cogliere i pensieri erotici assai azzardati della madre della piccola Hélène: “Ah Parigi.... qui ogni donna sposata aveva un'amante, che i bambini chiamavano -zio- e che giocava a carte con il marito. “Ma allora a che pro un amante?” pensava lei, e rivedeva, nelle strade di Parigi, gli sconosciuti che la seguivano....Quello si che era appassionante, pericoloso, eccitante...Stringere fra le braccia un uomo di cui non sapeva da che paese provenisse né come si chiamasse, un uomo che non l'avrebbe mai più rivista, questo soltanto le dava quell'emozione forte che cercava. Pensò.” (pag 17 ed Adelphi). Mentre pensava così, era seduta di sera con i genitori anziani, la figlia di otto anni e il marito, e si annoiava sfogliando una rivista francese. “Il vino della solitudine” venne pubblicato per la prima volta nel 1935 in Francia. Per l'epoca scrivere così liberamente di...sesso, era quasi pornografia e il fatto che l'avesse scritto una donna! Si, il fatto che questa fantasia non fosse il solito prodotto della solita fantasia maschile, era assai intrigante. Ma la Némirovsky era semplicemente sincera con se stessa e con la sua letteratura. Non scriveva con l'intento di assecondare una intuita debolezza del mercato che poteva rendere denaro. La sua opera nel complesso ce lo dimostra e ho sempre pensato, in modo ovviamente molto personale, che un artista deve essere per l'appunto sincero almeno con se stesso. Niente maschera. È questo che affascina oltre al saper scrivere e all'avere qualcosa di sensibile da dire. Tutti nella vita, sono più o meno mascherati. Alcuni l'hanno dimenticato e pensano ormai che maschera sia il volto, ed ecco che qualche artista se la toglie almeno nell'opera, oppure non se l'è mai messa. L'opera diviene quindi l'unico specchio che riporta la nostra immagine, almeno così come crediamo di percepirla. L'io è instabile. Vibra, cresce, cala, dorme, si sveglia, si rinnega, si ama, si odia, ma per un attimo del tempo può essere fedele a se stesso. Ma appunto nell'opera e non nella realtà dell'esistenza. Li no. Non è possibile, nemmeno pensabile.



Il “caso” Némirovsky può essere visto quindi come un sintomo grave della piega che stava prendendo il mercato editoriale. Il valore letterario diventava secondario. Era una pura coincidenza ininfluente. Ma.....e il pubblico? Non è invitato al pensiero, ma al pasto carnale, sanguinolento. E nemmeno coloro, i pochissimi, che sarebbero in grado di consigliare qualcosa che rispetti la qualità letteraria sono presi in considerazione. L'editore si è fatto solo mercante. Egli sta ai piedi del tempio. Non può non starci. Se lo scacciamo non potremo comperare quel che ci serve per sacrificare al dio della vita...ma le vittime sacrificali, se son di plastica no portano santità e miracoli, ma tanta tanta puzza.



Qualche esempio. Hemingway pubblicò il suo primo romanzo perché un certo Francis Scott Fitzgerald lo ritenne di valore. Anatole France capì molto presto che Proust era un talento e si offrì, lui di solito così restio, per scrivere la prefazione a “I piaceri e i giorni”.

E ora? Oggi?



Credo che per capirci qualcosa si debba partire dalla definizione di due parole. Spesso trovo che i termini, scrittore, o artista, e intellettuale, vengano usati in modo intercambiabile, come sinonimi.



Partiamo dal primo. Secondo me l'artista è colui che utilizza un linguaggio (pittorico, musicale, linguistico ecc) per esprimere un mondo interiore. Egli si serve dell'intelligenza per dare forma sensibile, trasmissibile, ad una materia che gli sgorga da dentro e che tendo a chiamare sensibilità.



L'intellettuale è invece colui che utilizza la razionalità.



Riassumendo:



artista = sensibilità ordinata dall'intelletto e resa percepibile ai sensi per mezzo di un linguaggio.



Intellettuale = persona che usa il ragionare e le sue varie regole in modo rigoroso.



Facciamo ora un esempio pratico. Pavese era un artista. Calvino un intellettuale. Uno ha creato in base alla propria sensibilità, l'altro ha scritto roba “intelligente” che sento finta, costruita quando si tratta di letteratura, ed eccezionale quando son saggi.



Ne abbiamo un esempio nelle lettere che si scambiarono in relazione alla lettura fatta da Calvino del dattiloscritto “Tra donne sole” (racconto che fu poi pubblicato nella raccolta intitolata “La bella estate”.



Eccone un assaggio:



Di Calvino, Sanremo 27 luglio 1949



-Tra donne sole- è un romanzo che ho subito deciso che non mi sarebbe piaciuto. Sono ancora di tale opinione, sebbene l'abbia letto con grande interesse e divertimento. Ho deciso che è un viaggio di Gulliver, un viaggio tra le donne, o meglio tra strani esseri tra la donna e il cavallo; è una specie di viaggio nel paese degli Hauihnhnn, i cavalli di Swift, cavalli con impreviste somiglianze umane, orribilmente schifosi come tutti i popoli incontrati da Gulliver. E' certo un modo nuovo di vedere le donne, e di trarne vendetta allegra o triste. E la cosa che scombussola di più è quella donna-cavallo pelosa, con la voce cavernosa e l'alito che sa di pipa, che parla in prima persona e fin da principio si capisce che sei tu con la parrucca e i seni finti che dici: “ecco, una donna sul serio dovrebb'esser così” …...... Ad ogni modo il racconto sta in questo girare intorno a un segreto morboso.........Poi ho scoperto che “Tra donne sole” e “Paesi tuoi”, son la stessa cosa: due viaggi di persone -civili- tra i -selvaggi-...........la scoperta dei nuovi rapporti che nascono dal lavoro (ed è la parte più bella, Clelia e Beccuccio. Questa donna che trova la sua regola di vita come scapola, e prende gli uomini come noi si prende le ragazze). Sole si salvano le comunioni d'amici, legate da non scritte regole di purezza e solitudine.................quel che non mi convince è, e già altre volte ho avuto occasione di dirtelo, la tua rappresentazione dei borghesi...”





La frase finale per me è la più “triste”. Calvino è borghese, borghesissimo, e non tollera in fondo una descrizione del mondo nel quale lui è sommerso e che con ogni evidenza non si è ancora sforzato di osservare.




Pavese risponde da Torino il 29 luglio:




non mi dispiace che -Tra donne sole- non ti piaccia. Le ragioni che ne dài sono la trascrizione fiabesca di un tema letterario; un abbozzo di novella di Italo Calvino.........Applichi due schemi, come due occhiali, al libro e ne cavi impressioni discordanti che non ti curi di comporre..........ma tu – scoiattolo della penna- calcifichi l'organismo scomponendolo in fiaba e in tranche de vie. Vergogna.”

Per la lettura integrale vi mando al volume “Tra donne sole”, Einaudi tascabili numero 553 del 1998.



Penso comunque che basti quanto ho riportato per rendere evidente quanto Calvino fosse distante dalla comprensione di quel racconto notevole. Se ne “La dolce vita” esiste un ricco e fintamente felice borghese che con sorpresa di tutti si suicida, lo dobbiamo a quel che Pavese ha dimostrato per primo di aver compreso di una profonda crisi di quella classe e che si travasò nel grande regista e in Flaiano.



E non mi meraviglia che Calvino non abbia compreso. Ha usato solo l'intelligenza e in più anche in quella lettera dimostra di scrivere bene, ma scriver bene non basta. La letteratura, e l'arte in genere, sta ad un gradino più alto. Può accadere che l'opera sia compresa anche dalla persona intelligente, ma assai di rado con immediatezza, poiché l'intelligente non sopporta di intuire uno stato d'animo, un'atmosfera, un mondo. Lo vuole capire, e se non lo capisce secondo gli schemi razionali coi quali lo hanno addestrato, rinnega. E poi, quando il tempo rende evidente quel che era stato intuito, quando l'intuizione, ormai non è più fresca, ecco che la razionalità, smonta, mastica e apprezza i pezzi smontati. Mai la magia dell'insieme.



È evidente come Calvino non avesse capito asssssolutamente niente di quel testo letterario. Invece personaggi che erano artisti come Pavese, ad esempio Michelangelo Antonioni, immediatamente ne colsero la portata epocale. Quella crisi della borghesia, ricca, appagata, annoiata e disperata, che ritroviamo poi in altre opere di Antonioni e anche di Fellini e di Elio Petri (di questo vedere per esempio “l'assassino”) è stata resa per la prima volta in quel racconto. Il finale poi, che vede la ragazza andare via da Torino rinunciando all'amore, colpì talmente Antonioni che anche anni dopo, lo ritroviamo nella scena ferrarese di “Al di là delle nuvole”. E Tonino Guerra stesso, ripropone quel finale nel racconto “Cenere”2 nel 1990. Ben quarantuno anni dopo, il seme lanciato da Pavese nella letteratura italiana, germoglia ancora....



Veniamo ora a quel che secondo me accadde in modo irreversibile nell'editoria del secondo dopoguerra e in parte si era già innescato, come dimostra il “caso” Némirovsky, nel periodo fra le due guerre. Gli scrittori vengono soppiantati dagli intellettuali, che son insensibili per costituzione o lo sono in misura troppo ridotta e solo con moglie figli e il cane (spero). Coriacei, e di solito non si sparano come purtroppo fece Pavese e non certo per un eccesso d'intelligenza.



Accadde anche all'estero. A me per esempio T. S. Eliot, annoia infinitamente. Lo trovo finto, costruito, mai sensibile. Un intellettuale quindi che ha “giocato” a far l'artista e grazie al cielo Elias Canetti in “Party sotto le bombe”3 dimostra di pensarla come me e spara a zero con una decisione deliziosa. E infatti se, per esempio, disponiamo dei bei testi del nigeriano Amos Tutuola”4 lo dobbiamo a Dylan Thomas che è un artista straordinario e che spinse la casa editrice Faber and Faber a pubblicarli.



La involuzione dell'editoria è terminata qui? No certo. Ci si è salvati per un po' tramite la categoria ora trascurata degli interpreti (traduttore è troppo freddo, non mi piace). Spesso queste persone, con un lavoro certosino, secondo me sottopagato, hanno mantenuto alta la dignità ovviamente almeno e solo per i testi stranieri. Ora anche alcune traduzioni sono impresentabili per non dire squallide e non oso dare la colpa a chi traduce. Per farlo ci vuole calma, si deve pensare, comprendere e questa “roba” non te la danno, devi fare quantità e basta.



Ed ecco che dall'articolo di giornale del 13 giugno 1968, possiamo dedurre, dopo aver meditato su quel che nel frattempo è accaduto, che siamo messi maluccio.



In fondo la colpa che quell'articolo sottolinea, risulta essere la seguente: gli addetti ai lavori non si son dimostrati in grado di comprendere il valore di un testo. Trascuriamo, almeno per pietà, il fatto che non siano riusciti a riconoscere pagine di uno dei tre santoni dell'epoca e oltre il resto mentre “giocava” in casa (era esattamente austriaco, di Klagenfurt), nel territorio della sua lingua....si, trascuriamolo. Ma la scrittura di Musil era eccellente, fine..... e negarla equivale a negare quelle caratteristiche.



Infine, la rivista Pardon propose due spiegazioni; Musil, considerato da molti l'autore più significativo della lingua tedesca, non lo era forse più; oppure i lettori delle case editrici leggono, quando lo fanno, con troppa disattenzione.



Per il nostro tempo queste deduzioni non valgono. Musil è tuttora uno degli scrittori più significativi e gli editori sanno benissimo quel che vogliono, e non si tratta se non per coincidenza, di letteratura elevata. Un tempo gli artisti influenzavano almeno qualche scelta, poi lo hanno fatto gli intellettuali e, fateci caso, non c'è “indocente” universitario che non si consideri tale. Ora a chi tocca? Al marketing puro. Ammetto di nutrire qualche speranza con internet che potrebbe eliminare tutte le figure intermedie e collegare finalmente l'autore col lettore.



Se nel sessantotto un novello Musil sarebbe stato scartato e, a quanto sembra, con infamia, oggi cosa farebbe? L'operaio. Si. E sognerebbe, nel ritmo frustrante e ripetitivo, i suoi personaggi, ma poi scriverebbe perché se è un vero artista non sa resistere alla tentazione e con internet.......

















1Edizione Adelphi, collana biblioteca n.28 prima edizione 1969

2Edito da Metrolibri nel 1990

3Edizione Adelphi, collana biblioteca n.484 prima edizione 2005

4“Il bevitore del vino di palma” e“La mia vita nel bosco degli spiriti” nel volume n.130 di adelphi, collana biblioteca

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