sabato 29 ottobre 2011

Mario Tobino: "Le libere donne di Magliano"

Ieri, in una delle mie solite sortite in un mercatino dell'usato, ho trovato finalmente, “Le libere donne di Magliano” di Mario Tobino. Dico finalmente perché, mi sono intestardito a non comperarlo in libreria e a trasformare il desiderio di lettura, che potrebbe essere assolto da una biblioteca, in possesso appagato solo se fosse stato frutto del caso, perché non ho trovato un'edizione con le caratteristiche che mi interessavano.



Mi spiego. Poiché, tranne pochi esemplari ai quali sono particolarmente affezionato, (diciamo che mi hanno visto crescere), presto con tranquillità i libri e non soffro troppo se non tornano. Non si tratta quindi di senso del possesso di tipo rapace, accumulativo. E si badi bene che anche in amore esiste questo senso del possesso che trasforma l'altro in oggetto, a volte con la scusa della gelosia e a volte per la semplice abitudine a pensare che tutto ciò che si desidera, prima che vissuto vada acquistato con le buone o depredato. È una legge del mercato che diviene abitudine allargata su tutto l'agire, lo stile, se di stile si tratta, consumatore, che si fa prendere dall'abitudine di possedere senza “possedere” in senso più profondo l'oggetto o l'essere vivente prescelto.



Di alcuni libri ho varie copie che escono spesso di casa. Per esempio “Il dottor Fischer di Ginevra” di Graham Greene, o “L'amico ritrovato” di Fred Uhlmann. Li recupero dal purgatorio dei mercatini anche per ridare dignità ad un oggetto, il “libro”, che se contiene pensieri di valore per me si emancipa dall'essere pura e semplice materia. Non si tratta solo di carta e inchiostro, ma di un frammento o di tutta l'anima di una grande mente che ha aperto la porta del tempo e, nell'immobilità che ha conquistata, ha unito presente passato e futuro e sempre ci sarà utile. Le copie in più le presto senza scadenza oppure le regalo e spesso esagero e rimango senza.....



Considerando i libri di valore come esseri viventi, non desidero che si parli di possesso. Trovo che sia ridicolo. I cani per esempio, per me non son mai stati miei. È un abito linguistico difficile da aggirare e che porta troppo spesso alla necessità di spiegarsi trasformando qualcosa di leggero, come un dialogo davanti a un caffè in qualcosa di gravato da troppe delucidazioni. No. I “miei” animaletti e i “miei” libri, non sono effettivamente miei. C'è una relazione e ci si è scelti entrambi. Un libro può non parlarti e quindi se se ne andrà non ne sentirai la mancanza e così pure accade con gli animali. Altrove ho raccontato di Lump, il bassottino nero focato di Picasso che decise di sua iniziativa che “quel tipo strano” gli andava bene e lasciò per lui il suo precedente compagno....

E poi, oltre la relazionalità che considero essenziale fra un vivente e un libro di valore, c'è un aspetto che mi appartiene come forma mentale. Secondo me chi ha incontrato la morte, la morte dell'altro, da bambino, non la dimentica mai. Essa condiziona lo stile di vita anche nelle cose minime. Io non dimentico mai che nulla “mi seguirà” quel giorno. Mi affeziono agli oggetti, ma son consapevole della mia transitorietà e non mi lego in modo forte. Questo aspetto del mio modo di relazionarmi con cose e persone mi ha portato per esempio, non molto tempo fa, a tenere un comportamento che solo dallo stupore altrui ho compreso essere forse non normalissimo. Stavo rincasando e ho sentito dei rumori che sembravano provenire dalla parte più distante dietro casa, in fondo al giardino. Arrivo allo spigolo del muro, getto lo sguardo e vedo una persona che sta armeggiando intorno alla mia bicicletta. Ce ne sono tre e mi son detto, che ne prenda una delle altre e non proprio quella. E così gli ho proposto di fare, con voce calmissima. Lo sconosciuto, preso alla sprovvista, mi ha guardato con spavento, ha saltato la rete di recinzione con un gesto atletico ridicolo, schiantandosi malamente nel giardino del vicino e poi si è “tirato su” rapidamente e si è dileguato. Io avevo pensato che se gli serviva una bicicletta poteva ben prenderla, avevo solo obiettato tra me e me, che non scegliesse la mia. In fondo, una persona che ha tre “bici” e vive da sola, com'è nel mio caso, poteva darne tranquillamente una. Ricordo che qualche amico mi ha contestato di tutto. Che si trattava comunque di furto per esempio, ho risposto che c'è chi ha troppo e chi niente, che ha violato un “mio territorio” e devo ammettere di non averci pensato. Mi han poi fatto notare che se qualcuno entrasse in casa mia e, con me presente, prendesse qualche cosa, mi arrabbierei... e invece no. Spesso un ospite mi dice “Che bello!” e io non son tranquillo finché non glielo regalo. Non accade ovviamente con tutto. L'ho già detto. Esiste quella quantità minima di cose che ci serve e se non l'avessimo dovremmo comperarla e quelle poche cose legate ad un ricordo oppure alla insostituibilità, come può accadere appunto a qualche libro. Sì, ritengo che se si fosse meno attaccati agli oggetti, si riuscirebbe a pensare un po' di più, ad essere più rilassati. Se non si fosse sempre ossessionati dal loro possesso, indotto ormai quasi sempre non da una necessità reale ma indotta, la vita sarebbe più semplice, più viva e i soldi di uno stipendio, come per miracolo, forse inizierebbero a bastarci. A volte mi capita di sentir dire da un amico: “Mi serve questo” e io so di averla quella cosa! E se per caso non mi serve e resta lì inutilizzata gliela faccio avere... in questo caso mi hanno detto che si tratta di carenza di affetto. Non sono d'accordo. Io penso che tutti, se si è esseri pensanti, si sia un poco animisti e trovo che un oggetto che sta in fondo ad un mobile e non vive, soffra non meno di un disoccupato o di un innamorato non corrisposto. Vivere è relazionarsi anche per gli oggetti, anche quelli dell'arte. Un quadro, una Madonna per esempio, la preferisco nel suo mondo. Il museo lo vedo un po' come il luogo nel quale la loro vita è terminata. Una specie di cimitero. Spesso non si può fare diversamente, ma troppo, troppo spesso, si può dare dignità non solo alle persone, ma anche agli oggetti, che hanno poi la capacità di offrire sempre un minimo di storia di qualcuno che li ha progettati, realizzati, eccetera. E comunque ce ne andremo a mani vuote, così come siamo venuti e donare è bello.... se non fosse che m'imbarazza constatare che spesso il ricevente si sente in debito. Non lo capisco. Non sono in grado di capirlo se non raramente, perché appunto spesso la mia intenzione non consiste nel gratificare la persona, ma l'oggetto stesso. E poi, non si dà per ricevere. Quello è commercio, lavoro.



Torniamo al libro di Mario Tobino. Questa mia edizione, pagata quanto un caffè, fu edita dalla rivista “Famiglia Cristiana” nel 1997. Mentre il testo fu pubblicato per la prima volta nel 1953.

Il fatto che una testata cattolica lo pubblichi ci dimostra che è considerato conforme alla morale che rappresenta, e spesso la Chiesa è stata un po' più sveglia del secolo. Ricordo per esempio che quando de Andrè era mal criticato, la radio vaticana lo trasmetteva con una certa costanza.....



Anche questa copia presenta comunque quei difetti che mi han fatto passar la voglia di fare un acquisto in libreria, ma pagandolo un'inezia, sopporto meglio....

Mancano le note e non c'è nessuna spiegazione sulla storia delle leggi manicomiali in Italia.

Vocaboli come, catatonico, schizofrenia, paranoico e frenastenico, per esempio, non meritano di essere spiegati a piè di pagina? Essi godono di una vita a basso profilo, popolare, ma son effettivamente compresi per quel che significano? E poi l'elettroshoc (così scritto da Tobino)! Ma non sarebbe il caso di spiegare quale triste storia ebbe questa pratica? E infine e già detto, la storia delle leggi sui manicomi. È una tragedia che merita di essere spiegata con calma e nei particolari. Furono chiusi, questo lo sanno tutti, ma pochi son consapevoli di come ci si entrava e quasi nessuno, tranne le famiglie tristemente coinvolte, sa quali “nuovi” problemi e quindi danni, la nuova legge ha creato....



Mettere davanti ad una persona un libro così specifico, che si cala con precisione in un periodo storico, e non spiegare quelle cose rasenta lo stupido.

È vero che il testo si legge ugualmente, ma si capisce molto meno.



Esiste poi un altro aspetto della, chiamiamola storia, di questo libro che non viene nemmeno accennato. L'impressione che fece su Federico Fellini. Questi lo amò immediatamente, di Tobino si fece amico e pensò per molto tempo di farne un film. Il perché non accadde è presto detto. Fellini aveva capito, e lo diceva, che la bellezza di quell'opera era completa in modo così equilibrato che lui non avrebbe potuto aggiungerci niente. E io aggiungo che poteva solo caratterizzarlo, forse renderlo grottesco, doti nelle quali lui eccelleva, ma in nulla lo avrebbe migliorato. E penso che un'opera non possa ricevere miglior giudizio. Questo amore del grande regista sfociato in un nulla di fatto, ci deve portare automaticamente ad una domanda. Ha senso trarre film da opere letterarie? Secondo me no. È solo “roba” per il commercio. Conosco solo due casi nei quali il film merita quanto il libro: si tratta de “La morte a Venezia” di Thomas Mann che fu reinterpretato da un Luchino Visconti eccellente e “Solaris” di Stanislaw Lem che vide la regia di un Tarkovskij addirittura eccezionale. Per il genietto russo devo spendere due parole. Nel caso di questo film, fece tesoro dell'idea dello scrittore e poi prese una sua direzione e ci troviamo così davanti a due capolavori nutrienti per motivi diversi. Mi “attacco”, per sedurvi a lettura e visione di questi gioielli, ad una umile e splendente considerazione di Bergman. Egli disse di essere arrivato, ogni tanto, alla poesia, nei suoi film, Tarkovskij invece ci era arrivato sempre..... e da gente che l'ha conosciuto riporto un'altra considerazione. Quando feci presente che per me era prima di tutto un grande poeta che si era messo a fare cinema e mi domandavo come mai fosse accaduto, mi è stato risposto che lo fece per rispetto al padre, ottimo poeta anche lui, per non mettersi in condizione di confronto, di gara, di sfida.... quindi, deduco io, grande anche nella delicatezza, nel rispetto.



Torniamo a Tobino e non mi offendo se qualcuno mi chiamerà dottor Divago, ma le parentesi ritengo che servano per sminuzzare e gustare ogni particella di un significato che cerco di trasmettere.



In generale, edizioni attuali, da qualche anno, hanno secondo me delle pecche notevoli, delle incompletezze, ed è un male che sta diventando comune. Faccio qualche esempio che mi dà un fastidio, ma un fastidio che se potessi.....

Prendiamo “Salons” di Giorgio Manganelli. Ci viene detto che si tratta di articoli usciti sulla rivista “FMR” di Franco Maria Ricci, nel 1988. Ma spendere due parole per raccontare di quella rivista non solo bella, ma bellissima e di quel signore di Parma che riuscì anche a portare Borges in Italia e a farlo collaborare fino al punto di poter creare una collana di letteratura fantastica che è eccellente.... ma parlarne provoca un'ernia? Una forma rara di dissenteria? O semplicemente abbatte i costi di carta e di un cervello che per scrivere deve essere comunque pagato?

E datare ogni scritto mese per mese si da poter recuperare in qualche modo, se lo si desidera, la rivista, sembra brutto? Leggere un'opera innesca non solo un piacere forse intellettuale e forse artistico, ma una catena di letture, di curiosità che se ben nutrite, portano ad altre vendite...



Sempre di Manganelli, “Improvvisi per macchina da scrivere” è ancor più orrendo. I testi meritano, ma provenendo da quotidiani non era più elementarmente sano porre alla fine di ogni scritto, la data esatta della pubblicazione? Il danno che ne viene è enorme, superiore che nel caso precedente poiché la rivista FMR, essendo mensile, si distaccava almeno un po' dall'oggi. I quotidiani trattano quel tipo di presente che dura un attimo, e solo in grandi linee e per i fatti salienti, quel che narrano con emotività, viene ricordato, trattenuto. La sensazione che si trae da quell'edizione di un grande italiano, è che qualcuno incaricato di “mettere” in un libro tutti gli articoli, li abbia gettati quasi a caso. Dico quasi perché anche il più imbecille degli esseri umani uno straccio di regola ce l'ha, ma spesso, o per eccesso di banalità o chissà cos'altro, non se ne viene a capo.



Ora veniamo al testo. Tobino scrisse staccando le situazioni e i pensieri con molti “a capo”. Questo pone il lettore davanti alla sensazione che si tratti di una lettura scorrevole che ha poi il pregio di finire a pagina 132 quindi “alla svelta”. Una sorsata di ingegno e poi in palestra o a far due passi in centro o chissà dove.... e invece no. È denso, ti inchioda, e oltre a far pensare scuote dalle fondamenta. Siamo certi di noi senza esserci pensati più di tanto. Questo comprendiamo. Ci si pone la domanda sul limite della follia e sul fatto che se la mente “molla gli ormeggi” spesso si libera una sessualità animale, spudorata, senza morale. Ti vien da pensare, ma a bassa voce, che accade in fondo, in alcuni casi quel che potrebbe realizzarsi nella vita se non ci fossero troppe regole a complicare tutto. Pensi, come uomo, che quindi anche lei, la donna, se potesse vivrebbe gli istinti sessuali con la libertà che il maschio si concede sempre col pensiero e qualche volta in realtà quasi incomunicabili..... Sì. La mente che scappa, e diventare animali che si accoppiano senza problemi, ma dopo questi pensieri si è sopraffatti dagli odori animaleschi e intollerabili che Tobino descrive e che ci fanno comprendere quanto quella regressione sia tragica. È curioso che l'autore abbia messo alla fine la dicitura che nessun fatto è in sé reale. Sappiamo che lui lavorava in cliniche psichiatriche ma ci tiene a dirci che a nessun personaggio descritto appartiene un “matto” vero. Sì, ma dircelo alla fine sembra sleale! E invece no. È una delle sue grandezze. Che si tratti di fantasia pura o di un elaborato della realtà sapientemente manipolato, si deve pensare, e in questo caso lo si fa due volte in modo diverso. La prima con la consapevolezza si tratti di una realtà descritta e la seconda con la quasi certezza che Mario Tobino, da artista, ci abbia messo del suo. È vero che non ci ha convinti, con quella frasettina finale, e crediamo in fondo in fondo che abbia cambiato solo i nomi, ma ora è lì il dubbio e si deve rivalutare con o senza di esso.

E non c'è solo la sessualità sconvolta, ma il corpo che nella malattia si fa forte in un modo inspiegabile e questa vita della materia che noi siamo, che senza la guida della mente diviene enorme, ci impressiona senza necessità di elaborare. E cosa dire delle dimensioni umane delle infermiere, dei guardiani, delle suore! Queste ultime poi mi riportano alla mente Fellini che le utilizzò spesso, ma anche Giacomo Casanova. Sì. La suora per noi oggi, nel 2011 è una figura sporadica, quasi scomparsa, irreale. Il fatto stesso che si vesta tuttora in quel modo, residuo di un'epoca nella quale quando ricevevi un incarico ti davano un vestito che permetteva alla comunità di identificarti, ci sorprende come una stranezza. Si, al tempo per esempio del Magnifico Lorenzo, ovviamente in Firenze, eri in grado di comprendere la carica e la professione di ognuno mentre chiacchieravi ben profumato all'ombra rinfrescante della loggia dei Lanzi ma le facce non le riconoscevi con certezza come accade oggi. Ora giusto un poco la cravatta distingue, almeno in Europa, indocenti universitari e uomini politici. Ma per il resto potresti aver davanti un genio e un bandito senza riuscire a distinguerli. È sicuramente meglio non essere codificati, elevati o umiliati da un vestito che ora esprime erotismo o modaiolità, o ricchezza recente o altro, ma la suora fino all'epoca di Tobino, era un simbolo erotico potentissimo. Riuscire a sedurla era la prova più ardua di un donnaiolo e per questo Casanova ci raccontò in proposito alcune delle sue gesta. Ora la suora è qualcosa di non compreso, come scelta di vita intendo.

A me è capitato anni fa in treno, mentre mi recavo a Roma, di essermi trovato, unico secolare fra centinaia di loro e una, africana, bellissima, mi incantò profondamente. Avrei voluto farla volare via da quell'abito, al mio fianco, come fece una suora nel libro di Tobino con un operaio, ma non accadde. Fu un attimo, con un dialogo delicatissimo e io fui troppo lento, pieno di paure. Ora mi capita di salire in treno e di rivederla dentro me, per un attimo. Ricordo il suo sorriso. Sorrideva anche con gli occhi e si nutriva di tutto quel che vedeva fuori dal finestrino con una gioia sanamente ingorda e innocente che ho ritrovato nei cani, questi amati maestri che mi hanno aiutato a scoprire quanto io sia, come loro un essere di natura.....



Nel libro si tratta di “suor Maria Concetta, la giunonicamente rosea-bella”, che si innamora di un alluvionato del Polesine e mi vien da dire di nuovo, ma una noticina che rammenta quel fatto storico non ci stava bene?



Capita anche di incontrare un passo, quello che riguarda la signora Gabi, che sembra mettere in dubbio la validità del modo che si aveva una volta di mettere in manicomio le persone e specialmente le donne....

Per tanti si tratta di una faccenda che ha avuto notorietà con Alda Merini. Non dico ancora nulla su quel che le accadde perché è probabile che i personaggi siano ancora vivi e il fango, per non dir di peggio, che getterei loro addosso, potrebbe portare ingiuste querele a mio carico. Si sappia comunque che ne uscì rovinata. Mi ricordo che quando andai da lei, suonai il campanello al piano terra in via dei Navigli a Milano e il cancello si aprì; mi ritrovai immerso in corridoi lunghissimi e irreali e tutte le porte erano identiche, tranne una che portava un poster di padre Pio e vari santini. Vidi un occhio che scrutava dalla porta lievemente aperta. L'occhio mi chiese “Chi cerchi?”, risposi “Alda Merini”. “Ma come ha fatto a entrare?”, “Ho suonato e lei mi ha aperto”. A questo punto spalancò la porta e mi fece entrare. Mi disse che lei non aveva aperto ma era stato suo marito che lo aveva fatto perché aveva acconsentito al fatto che la vedessi. Ma in casa di mariti non ce n'erano.....



Lei stesa a letto in camicia da notte con molte collanine dozzinali di plastica. Per terra sporcizia, barattoli di birra, bottiglie. Una tivù sempre accesa in salotto. Soldi ovunque, di taglio grosso. Si sente un rumore nell'altra stanza. Mi dice di non pensarci, è il marito, ma io so che è una finestra aperta che sbatte. Sto al gioco. Ok, lui è di là. E dialogando sento la sua umanità offesa, irrimediabilmente ferita, la sua solitudine che non si colma nemmeno con la presenza di mille persone, la sua fame di amore e anche di sesso. Di vita. Ma qualcosa si è rotto. Rinchiusa che era sana, ma arrabbiata, questo lo posso dire, gelosa per le corna del marito. Non so se posso ancora dire gelosa di chi.... e lui “se la tolse di torno” semplicemente, andando dal medico e infilandola “con una carta” in manicomio e là dentro, particolarmente se non sei pazzo, impazzisci.



Per me, più della sua poesia, vale la sua storia. Si fa simbolo. E Vecchioni nella “canzone per Alda Merini”, giustamente non tocca la sua opera, ma la sua vita che, non meno di una persona gettata in un campo di concentramento e poi “liberata”, non è più vivibile.



Ho sempre pensato che dai traumi non si torna. Si può imparare a conviverci, ma si deve sapere che ogni tanto, loro, i traumi appunto, con le loro suggestioni, le loro paure, si impadroniscono della persona che hanno colonizzato. E vivere diventa un'avventura spesso impossibile....



Dei vari personaggi di Tobino, la storia di Norina mi ha colpito profondamente poiché, in un certo senso si trattava e si tratta per certi versi, di un'idea letteraria alla quale sto dedicando molto tempo. Ho sempre pensato che attualmente, per come si è strutturata l'esistenza delle persone, possa accadere che qualcuno arrivi a vent'anni e anche oltre, senza nemmeno immaginare che esista la morte. Conosco gente che non guarda un telegiornale, che sente parlare di morti, per esempio in terremoti e incidenti, ma non indaga più di tanto di cosa si tratta poiché si tratta di una notizia, roba distante, che ti sfiora per un attimo e poi è dimenticata e che spesso, coi giochi elettronici, ha ucciso i nemici, ma con la sensazione di averli semplicemente messi fuori gioco e infatti nella partita successiva ritornano tutti....anche i morti.



Tendo a immaginate un uomo di buona famiglia al quale quando è morto il cane han detto che l'han portato in campagna, che la nonna è in clinica, eccetera, e che con indolenza, viva la fetta di vita che gli costruiscono agendo da protagonista nello sport e in relazioni sociali che, un po' anche per fortuna, non si son mai resi traumatici. E poi......e poi qualcuno muore, davanti a lui. Non riesco ancora ad immaginare come, e quando si ritrova davanti a quel corpo che non reagisce più e lo vedrà messo nella cassa e consegnato alla terra..... non accetterà, in fondo è come impazzire.





E ora veniamo alla Norina di Tobino: “Questa fanciulla, di nome Norina, era orfana ed abitava, viveva, era protetta dalla nonna materna, unica superstite della famiglia.

Vivevano in alta collina, dentro una modesta casa, umida d'inverno e fresca d'estate. Il loro sostentamento era un magro poderetto dato ad opere nella stagione del bisogno, ed erano felici.

La nonna era una vecchia quercia, alacre anche nei pensieri, intatta di agilità e di forza. La fanciulla dall'età di sette anni era cresciuta con lei e per la solitudine della campagna e per le attenzioni della nonna, forse anche disposta dalla natura, era rimasta completamente innocente uguale a un fiorellino bianco che neanche il sole ha completamente colpito.

Passavano gli anni felici.

La nonna morì all'improvviso per una strada di campagna; rimase per una notte abbandonata e fredda uguale agli alberi che stecchivano le braccia nel cielo invernale.

La bambina quella sera, per la prima volta nella sua vita, non vide tornare la nonna. La cosa così contraria alla ragione giornaliera le fece nascere una inconcepibile meraviglia.

Quando portarono a casa della nipotina la nonna fredda, che non interrogava e non rispondeva, la nipotina dopo aver leggermente riso impietrò, nè valsero i più comuni consigli o quelli più sottili. Divenne come una pietra bianca caduta dalla luna, immobile pianto.....si rinchiuse, non mangiò più, non consumò più sostanza; e la mandarono in manicomio....”



Al momento del ricovero aveva quindici anni.



Immaginiamo il lupo cattivo (la morte) che mangia la nonna. Arriva qualcuno che la nonna te la ridà; sì, ma solo nelle favole, e la ragazzina scoprì la morte.



Nel caso mio l'idea intendeva stigmatizzare l'assurdità dell'esistenza che viene fatta vivere, o meglio consumare, normalmente alle persone di oggi. I nonni son lontani quasi sempre. In ricovero. Quindi vecchiaia e fine son qualcosa di irreale che, non sfiorandoci quasi mai, non indaghiamo. Ma trattandosi, anche per la vecchiaia, non di capire ma di accettare, il processo si fa lungo e necessita di esperienze. Se il fatto accade così, all'improvviso, si ammutolisce, si deraglia, si può davvero impazzire, perché è “roba” di un attimo calcolare che se tocca a tutti, prenderà anche me....

questo può accadere in una vita che agisce, come quella attuale, e che evita il pensiero.



E ora che Tobino mi ha mostrato che l'idea, o il fatto, è già stata pensata? Non mi sento deprivato di nulla. Ci si deve rassegnare al fatto che di idee nuove non ne esistono quasi. Possiamo solo utilizzare quel che crediamo opportuno per ammonire o ammirare il nostro tempo e la mia idea, se trovasse le parole, vivrebbe, ma per ora non la sento abbastanza forte.



Torniamo a Norina. Ma ci pensate? Muore la nonna, e lei reagisce male, non mangia, si chiude e la sbattono in manicomio! È folle agire così, e non lo è minimamente quel che Norina stava passando! E in altri punti del libro leggiamo di situazioni simili. C'era il comportamento normale. Se da quello deviavi eri rinchiuso, e uscirne non era facile. Non parlavi più perché ti veniva di reagire così al tradimento di tuo marito? Via. Un foglio firmato dal medico e dentro. Lontano dagli occhi, lontano non dal cuore, ma dalla coscienza. Era una società perbenista, dedita alla cura delle apparenze spesso con una maniacalità che attualmente ci sembra ridicola. E poi dei matti non si poteva parlare. Se avevi un braccio rotto potevi ripararlo, ma se era “rotta” la testa era una vergogna da nascondere. Durante e dopo il fascismo se ne fece veramente una tragedia poiché la carriera militare era ambita e non c'era speranza se anche uno zio o un cugino “dava di matto”. Si creava quindi un senso di responsabilità di gruppo. Ammattendo si ledeva la stirpe, la si segnava definitivamente, quindi i casi estremi venivano rinchiusi e forzatamente dimenticati, per ...questione di facciata.



E ora veniamo a due bei matti della storia del cinema che, venendo dalle mani di Fellini, son debitori delle esperienze che lui trasse da questo libro e dalla conoscenza con il suo autore:

la Volpina e lo zio che sta in manicomio in “Amarcord”. In ambedue si nota la rilevanza sessuale. La Volpina è ormai sensualità istintiva allo stato puro. Un animale umano, mentre lo zio, nella gita domenicale con pic nic fuori dal manicomio, ha caratteristiche di malinconico isolamento che sfocia in una scena magistrale: lui sull'albero che grida “Voglio una donna!”. Siamo ai margini, nel mondo contadino, in un'epoca che aveva comunque una sua poesia, rivelata dal connubio Fellini-Guerra, che di poesia se ne intendono.



Ecco una delle tracce lasciate dall'opera di Tobino nell'arte italiana!



Veniamo ora al fatto curioso: sappiamo che il manicomio è diviso in due ali, una maschile e l'altra femminile....ma si parla solo di donne. Ci sta tutto. Chi scrive è un uomo e la curiosità della femminilità nella sua essenza originaria fa il paio con la la percezione dell'esistenza di una più generica umanità che non ha distinzioni sessuali. Solo un'eccezione trova spazio nell'opera e sembra quasi esser sufficiente, per l'autore per definire l'uomo. Si tratta di una persona che era stata ricoverata nella sua clinica per accertamenti. Il suo cognome era Rizzi ma si faceva chiamare Eugenio Flocchi, nome rubato, insieme alla moglie, ad un malcapitato. Questi sembra incarnare la figura del malvagio puro, consapevole. Egli è entrato nella clinica poiché la legge voleva capire se era pazzo o se fingesse. Secondo il nostro, si trattava di un'abilissima recita. Ne parla perché scoprirà per caso, dal giornale che è stato ghigliottinato dalla giustizia francese per due omicidi di donne. La descrizione dei suoi ultimi momenti ci rivela tutta la sua finzione. Quando comprese che lo stavano prelevando dalla cella per portarlo all'esecuzione, la gamba che sembrava irrimediabilmente rigida o per follia o malattia e altri comportamenti, cessarono, e tentò un'ultima impossibile reazione. Si avviò al patibolo cantando una canzone contadina. Ecco l'unico uomo del libro, definito in modo non troppo consapevole, quasi con una meraviglia che non spiega il mistero di quell'essere profondamente malvagio, ma consapevolmente, e a contraltare una marea di donne, spesso aggressive, nella loro follia, ma percepite da Tobino e da noi lettori come esseri gentili resi feroci dall'impossibilità di fiorire... ed esplose per questo nel rifugio macabro della follia....



Ora, in modo forse piacevolmente arbitrario, ma in senso positivo, ottimistico...mi permetto di affiancare in questa meditazione, due testi che hanno la caratteristica di essere toscani per gli autori e anche per l'ambientazione. Testi scritti da maschi più che da uomini e che osservano la femminilità con stupore e un po' di allarme....

Mi riferisco a “Le ragazze di san Frediano” di Vasco Pratolini edito nel 1949, e a “ Sorelle Materassi” di Aldo Palazzeschi, edito nel '34. Per una questione di “età” del libro, diamo la precedenza a Palazzeschi. Ecco in breve la storia: due sorelle, ricamatrici eccellenti, “ereditano” un nipote. A lui si sacrificano. Lo adorano. Ne escono distrutte, ma non certo scontente.

E ora Pratolini: un ragazzo, del quartiere popolare oltrarno di san Frediano in Firenze, si “fidanza” con cinque ragazze contemporaneamente e cerca di reggere le sue trame. Viene scoperto e le cinque donne si alleano per una scena finale di vendetta e “sputtanamento”.



Nel 1934 in Italia siamo già da anni in pieno fascismo (e non sembri un inutile perfezionismo dire in Italia, poiché i fascismi in Europa erano ben più di una decina). Era già nato il surrealismo che nelle sue teorizzazioni non aveva ancor compreso di aver posto quasi al centro l'enigma della donna-femmina che si stava emancipando. Per comprendere quel che accadde si potrebbero leggere “Le tre ghinee” “Una stanza tutta per sè” di Virginia Woolf. Bolliva in pentola già da un po' l'emancipazione femminile e la prima grande guerra, che ha portato le donne in fabbrica, innescò un meccanismo irreversibile. Le donne non vollero rientrare nel loro ruolo di subalterne ad una società maschile. Gli undici dittatori, che non a caso eran tutti maschi, diedero un'importanza quasi angosciante alla famiglia patriarcale, ma fallirono. E questa donna finalmente padrona di se stessa come poteva non spaventare gli uomini? Ed ecco in Palazzeschi due donne adorare, nonostante tutto, l'altra parte della vita, l'uomo, e in pratolini le donne che vendicano in modo plateale e aggressivo la loro dignità di amanti. E in Tobino cosa credo di trovare? La curiosità per l'essenza dell'esser donna. È come se la malattia mentale fosse un vento possente che spazza via i pensieri e lasciasse li un corpo con gli istinti. Ecco cosa sarebbe la donna se si lasciasse andare. Un po' come Medea. E Tobino ci mostra un essere che dipende dall'appagamento sessuale, dal legame con l'uomo, che troppo spesso causa slealtà o violenza nel legame stesso crolla irreparabilmente e, ci mostra anche la donna come essere essenziale, rappresentante dell'umanità che alla radice più profonda di sè, medita e soffre esattamente come noi maschietti per esempio davanti alla morte.



Quel che ho qui riassunto l'autore non lo ha dedotto consapevolmente. In un'epoca di forti cambiamenti nel costume sessuale, la penna era guidata certamente di più da un timore inspiegabile ma ribollente. Cosa mai sarà la donna? Ora che non è più imbrigliata nella cultura patriarcale come faremo noi uomini a relazionarci? Perché era evidente che dinnanzi ad una donna libera di amare e odiare, libera di scegliere o fuggire, l'uomo, abituato a imporsi senza tante storie, col portafogli in mano anche per un matrimonio, si era trovato disorientato. Ora c'era un sentimento di lei che non si poteva ferire, perché se ne sarebbe andata e la famiglia sarebbe crollata perché, c'è poco da dire, ma la donna è madre sempre dei suoi figli e il padre troppo spesso solo in una apparenza, il che ha il sapore metallico dell'orgoglio animale.

Ecco uno dei grandi passaggi, secondo me, del '68 che sembra essere un tumulto giovanile semplicemente e banalmente utopico. Si ha la generazione che ha vinto la guerra, fatta di uomini che fanno i capifamiglia come nell'ottocento, troppo spesso col denaro e non col cuore. E si hanno quei figli, maschi e femmine, che si vivono alla pari, che non sanno viversi diversamente che così. È vero solo fino a un certo punto, come han detto molti personaggi poco-pensanti, che quei figli si sarebbero trasformati nei padri e avrebbero ricalcato esattamente le stesse orme. Questo è accaduto e accade nel ruolo di consumatore, di rapace quando non esiste il cuore, ma ora il maschio sa che, se a fine rapporto, come di solito fa con le prostitute, si è dimenticato del piacere di lei ma ha pensato solo al suo, la perderà. L'uomo per secoli, millenni si è cullato in una società che con la forza e falsi credo, gli permetteva di rimanere un eterno adolescente. Ora è finita. Ma non vuol dire che è finita la festa. Trovo che sia molto più bello sedurre un cuore e da lì un'anima, e possibilmente con le carte scoperte, senza segreti, che pagare o truffare, che in fondo si truffa solo se stessi.



Ormai si sa che godersi un corpo o un essere umano son due cose profondamente differenti. E non si tratta di riesumare il pur amatissimo Platone e la sua guida divina che si pensa tuttora fosse semplicemente un uomo e si chiamasse Socrate. Davvero amare eleva. Davvero potrebbe dare senso all'esistenza. Nella cultura indiana (dell'India) si dice che hai vissuto veramente solo quando hai amato, e non ci serve l'India per saperlo. Lo sapevano anche i nostri nonni, ma comandavano e questo non faceva crescere. È relazionarsi ora l'argomento nel quale è importante diventare esperti e per dare un senso alla vita, bastano pochissime relazioni vere, sincere e che si tratti di un cane o un gatto o un amico o un amore, non fa differenza. Io, a sera, mi rintano nel letto e sento la presenza magica di tre cani che vicino a me si accucciano. Non sono mai morti, non moriranno mai, perchè ho amato e a loro devo la mia eternità. Non so più cos'è il nulla, l'ho sconfitto. È così che accade quando si ha un corpo. Una relazione profonda, solo quella, ci eleva.



E le Paure di quella generazione, le paure di Tobino, Palazzeschi, Pratolini, dei nostri nonni, degli impressionisti, dei dittatori che ora percepiamo come caricature assurde e che inneggiavano ad una famiglia con un capo al quale obbedire, tutto questo, è passato. E la seconda, la terza generazione dopo il sessantotto, vede queste cose come scorie di un passato. Si domanda come sia stato possibile. Ora la donna è un mistero per l'uomo e l'uomo lo è per la donna. E due misteri che si uniscono non han bisogno di comprendersi ma, come davanti alla morte, di accettarsi. Il resto, quel che c'è da capire è una canzone che canti la mattina quasi inavvertitamente e che ti dice che qualcosa di grande sta accadendo, è una vecchiaia che ha imparato a temere più la solitudine della morte che quest'ultima è solo togliersi un vestito di carne, rinunciare a cinque sensi, per ottenerne uno solo, enorme, che ci mostra come il tempo, che dividiamo erroneamente in passato presente e futuro, non è altro che un attimo immenso e tu sei tu, ma anche il tutto e quest'ultima considerazione, quella che sembra più assurda è la più importante, la più irrinunciabile. Senza tempo ritroverai chi hai amato, e l'essere io e il tutto porta a compimento quel particolare angosciante dell'atto sessuale che nella spinta di due corpi mai riesce a farsi uno. E lì, infinitamente accade.









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