24 maggio 2011
Su “La Repubblica” trovo un'intervista ad Anselm Kiefer. Personaggio interessante.
È mentalmente libero, ma potrebbe esserlo di più. Dice che non fa quadri piccoli, per intenderci, delle misure che potrebbero stare in un salotto, per andare contro le leggi del mercato. Questo è limitare la propria libertà.
Un artista secondo me, può “vendersi” per risolvere la quotidianità, sperando che abbia sufficiente cervello da non farsi irretire da tutto quel che si può comprare. Una volta che è divenuto padrone del suo tempo, e per ottenere questo risultato non servono certo i centomila euro all'anno... il mercato, lui, può permettersi di ignorarlo. Questa è libertà. Immagino Kiefer che ha un'idea da un metro per due e per un preconcetto simile, contrastare il mercato, non la esegue.
È folle.
Ho poi già spiegato altrove che la misura grande è troppo meditata, costruita. Ci si lavora di braccio, di spalla, di gambe anche, allungandosi o piegandole.
La misura piccola, quella che Anselm Kiefer definisce da salotto, corrisponde invece al rapido movimento delle dita, del polso.
Immaginate l'idea che esce febbrile da quella tana indefinita che è la somma di cuore e pensiero. Si, il dato è urgente, vuole spazio. Ha trovato il suo momento e vuol calarsi in una forma, che sian note musicali, o parole scritte o oggetti, nulla cambia. Un dato intellettuale ha la caratteristica di essere calmo. È solido, concreto, cristallizzato in norme e leggi che sappiamo ritrovare sempre e quindi si può “buttarlo giù”, dargli forma con la metodicità quotidiana e rispettosa di certi orari, come se si trattasse di un lavoro perché...in fondo di un lavoro si tratta.
Il dato artistico invece, è spontaneo. Sgorga, spinge. Immaginate un parto. Quando è il momento non si deve rimandare, altrimenti rimaniamo con una idea forse buona ma abbiamo perso l'esatta forma nella quale essa intendeva concretizzarsi.
Bellissimo è in proposito, un aneddoto che riguarda Antonio Vivaldi. Si narra che, mentre diceva messa, piantò tutto lì e nella adiacente sagrestia, si mise a buttar giù note....
Non si consideri una romanticheria questa considerazione sull'ispirazione artistica. È un po' come quando, da non innamorati si sentono parole d'amore; le si troveranno ridicole.
Ci son altri aspetti della creatività che son soggettivi.
Ricordo per esempio che nel dialogo che ebbi con Aldo Busi, si parlò anche di qualcosa del genere. Mi chiese dove abitavo. Accennai, senza far nomi, ad un paesino in riva al mare immerso nella pineta aggiungendo che quello lo consideravo il mio rifugio, dopo aver fatto incursioni nella vita, poiché per scrivere mi serviva tempo e calma. Mi rispose “balle! Si può scrivere ovunque! Io scrivo anche sulla panchina di un parco ma non lo faccio perché ormai tutti mi riconoscono e mi disturbano!”.
Vi prego di notare l'incongruenza contenuta nella risposta. Scriverebbe seduto alla panchina di un parco ma non lo fa... gliel'ho fatta notare e poi ho detto che non siamo tutti uguali e se lui riusciva ad isolarsi ovunque fosse, lo invitavo a considerarla una sua caratteristica.
L'importante è cogliere il momento, rispettarlo quando si presenta.
Di quell'incontro ricordo anche qualcos'altro. Ero al caffè Boifava a Montichiari. Avevo appuntamento con lui verso le undici. Entro e, dopo essermi guardato intorno e non averlo visto, chiedo con la proprietaria con la quale ero ormai in buoni rapporti, se si fosse visto. Mi indicò un tavolino. Era seduto e leggeva il giornale. Aveva una berretta di maglia di color grigio chiaro, fatta ai ferri, calcata fin sotto le orecchie e un indumento che era una via di mezzo fra un cardigan lungo e un cappotto corto, fatto sempre ai ferri e di grana molto grossa. Non lo avrei mai riconosciuto. Gli feci notare quindi, dopo quella sua reazione non troppo meditata, che così “sistemato” poteva mettersi a scrivere in Galleria a Milano che nessuno lo avrebbe disturbato. Mi ero comunque reso conto che quella reazione, calcolatamente forte e impulsiva, equivaleva alla volontà di voler prendere con decisione le redini di un dialogo che, lo sentiva, gli stava sfuggendo. Gli avevo fatto un paio di domande che lo avevano lasciato interdetto e intendeva recuperare terreno. Ma, il punto era che a me non interessavano o interessano le sfide, ma il dialogo. La persona famosa, solo per il fatto di esserlo, non mi dice niente. Se avevo desiderato incontrarlo era per porgli certe domande riguardanti i suoi libri, quindi per un mio effettivo e sincero interesse. Troppe schermaglie. Ho tagliato corto. Quando mi ha chiesto se ci si poteva rivedere, gli ho detto che mi sembrava che non ci fosse stato nulla di produttivo, almeno per me, in quel dialogo e quindi era meglio chiudere così.
Vedete come si smonta da sola una finzione...? Gli atteggiamenti son maschere ben visibili a chi fa sul serio. Potrei raccontarvi altre finzioni, ma sarebbe un ripetersi.
Torniamo al discorso. L'idea deve poter uscire quando le pare e noi dobbiamo fare del nostro meglio per crearle la condizione che desidera. Nel caso mio si tratta di solitudine e silenzio. Per qualcun altro del tavolino di un caffè o di un giro in macchina parlando a un registratore.
Torniamo a noi. La libertà di Anselm Kiefer, che è molta, non è comunque totale e potrebbe accadere che egli faccia “male” a certe sue idee che, se forzate troppo nel momento della nascita, potrebbero risultare deformi, anche di pochissimo, e si sa che in arte, anche quel minimo scarto fa la differenza.
L'opera di Kiefer ha comunque un qualcosa che vivo come un problemino e che desidero spiegarvi.
Partiamo da una considerazione mia, che penso possiate condividere: pensare è come bere vino, esiste una misura giusta. Se si eccede si perde lucidità, ci si inoltra in sentieri contorti che non appartengono più a chi ci si è inoltrato, ma alla malattia. Il soggetto non è più chi percorre quella via ma la via stessa.
Le sue opere son “troppo pensate”. Mi raccomando! Questo non vuol dire che non lo apprezzo. Tutt'altro. Se so di una sua mostra ci vado. Non agisco certo così quando vengo a sapere di qualcosa di Kounellis o Fontana, tanto per citarne due. Si entra in una sua mostra, consapevoli che si esce sempre e comunque con un arricchimento. Ma è faticoso...
E' un po' la questione delle opere grandi fatte di “braccio e gamba” e quelle piccole fatte di ”polso e dita”.
Avete fatto caso che per gli artisti, la sede dell'idea, il disegno, avviene quasi sempre su fogli da salotto? (utilizzando la soda immagine di Kiefer. Ma ci sarà pure un motivo! Ed è questo. La distanza che l'idea deve percorre dall'anima (pensiero più cuore) al foglio non è certo immediata, qualcosa lungo la strada si è perso, si perde, e la perdita è maggiore se si allunga il percorso... L'idea pura è perfetta quasi sempre, ma sta nell'anima. Qualsiasi uscita da essa è un calo di tensione, di livello.
E non mi si dica che son platonico. La pensavo così anche a quindici anni quando scrivevo già (tutto cestinato...) e Platone era ancora solo un nome affascinante e il suo maestro, Socrate, aveva già si, il volto di marmo bianco col naso camuso, ma anche la barbetta e la magrezza di quell'eccezionale brasiliano suo omonimo che giocava nella Fiorentina.
Spesso non si è platonici perché si è letto Platone o qualche suo confratello come Ficino. Le concezioni platoniche, non tutte, sono come un lago che troviamo in alta montagna dopo aver percorso un lungo sentiero fatto di pensiero (la rima! Che bello) e possiamo prendere e fare nostra un po' di quell'acqua, come un altro che, passando per altri sentieri approda a Nietsche o a Gesù. Non vi è mai accaduto di leggere un filosofo o uno scrittore, averci trovato un pensiero e rendervi conto di averlo già pensato? Molti quindi, sono i platonici che non devono nulla a Platone come per tanti altri, spesso solo finché son giovanissimi, poiché in quell'età si ha un senso di durata che rasenta l'eternità, come tanti altri dicevo, potrebbero dire, senza aver mai letto Nietsche e nemmeno sapere che è esistito, che “dio è morto”.
Torniamo all'opera di Kiefer. Quel che vi dico è un piccolo male nel caso suo, perché la sua opera comunque vale, solo che, come ho accennato, essa si offre imponendoci una fatica in più. E poi, ultimamente, ci aggiunge pure delle considerazioni alchemiche... quindi non basta osservare l'opera, ma ci si deve informare e questo mi piace poco. Ho sempre pensato che a “parlarmi” debba essere l'opera, senza intermediari.
Solo quando si frappongono fra noi ed essa due ostacoli, ci si deve aiutare con qualcos'altro.
E si tratta del tempo che ci separa dalla sua realizzazione e il mondo nel quale è stata concepita.
Esempi. Un'opera rinascimentale ci sfugge quasi sempre se non sappiamo nulla del rinascimento. Per quel che riguarda il “mondo” nel quale un'opera è nata, la situazione si fa più complessa. Una volta, anche solo nell'ottocento, un'opera giapponese, per esempio affascinava per il suo esotismo e quella parola vuol dire semplicemente che l'oggetto ci piace perché è inusuale, estraneo alla nostra cultura. Inusuale poi vuol dire che i codici interpretativi non possiamo condividerli perché non li conosciamo.
Si può dire che nel mondo attuale, quell'incomprensibilità che rende esotico l'oggetto straniero, si è talmente attenuata da essersi ormai ridotta quasi sempre a un atteggiamento, una finzione.
La dimensione esotica, da scoprire, si è fatta quindi caratteristica di piccoli gruppi o anche di singoli e quindi capita di poter comprendere bene un'opera francese ma di non disporre dei codici interpretativi di qualcuno che abita nel palazzo di fronte.
Ragionando così sembra che io sia caduto in contraddizione, ma non convengo.
L'opera che “mi parla” senza aiuti esterni, è quella che preferisco e può anche accadere che ciò si realizzi con l'opera di un altro tempo e cultura1. Mi rendo conto che spesso questo non accade e considero quelle opere, spesso buone, ma di un livello inferiore di quel che si potrebbe raggiungere.
Provate a guardare due quadri di Picasso: il ritratto del padre e quello della madre. L'uomo che li dipinse era un ragazzo. A quattordici quindici anni, quando li realizzò, possedeva già una capacità che conteneva tutta la cultura occidentale della quale divenne la punta di diamante. Forse non ve ne siete accorti ma vi ho offerto un dato che si pone in modo deformante perché emotivo, fra quelle due opere e la vostra visione che per essere eccellente, nel mio modo di vedere, deve essere senza interferenze o avere solo quelle temporali e del “mondo” che, come ho detto prima, capita che siano strettamente necessarie. Il tranello nel quale vi ho attirato, è il seguente: vi ho detto l'età di Picasso quando li realizzò. Ho inquinato la vostra osservazione abbassandola di livello. L'ho portata dalla fruizione spirituale, interiore a quella del fenomeno da baraccone. Ma, fateci caso, ora che il dato lo avete masticato e deglutito e lo stupore non c'è più, vi rendete conto che quelle due opere sarebbero state stupende anche se le avesse fatte a settant'anni? E' un po' come quando ci mostrano un pianista bambino che suona bene. Dietro allo stupore della sua età, perdiamo la concentrazione, la lucidità che ci farebbe apprezzare una buona esecuzione e ci tocca chiudere gli occhi per recuperare un po' di coerenza.
Si può dire che esistono tanti capolavori che, anche se vecchi di secoli, e pure appartenenti alla nostra cultura, sanno rivelare la loro altezza senza intermediari. Quel che Raffaello ritraeva per esempio, è sempre toccante perché egli disponeva di un talento innato per l'equilibrio compositivo , ma non solo. E non c'è bisogno di citare solo nomi antichi e consolidati. Si prenda Henry Cartier Bresson e la sua fotografia. Si “sente” che c'è qualcosa che funziona e non è solo l'intuizione compositiva come certa semiotica vuol dirci. E in letteratura? Chi legge “Il Maestro e Margherita”, se è attento e concentrato comprende tutto senza bisogno di sapere nulla della telefonata che Bulgakov ricevette a sorpresa da Stalin e senza sapere che era perseguitato (ovviamente Bulgakov e non Stalin che amava invece perseguitare....). Tutto questo si sente semplicemente leggendo.
E poi ci son casi come Kafka. Era ebreo e, diciamocelo chiaro, per molta gente e particolarmente per gli antisemiti, l'ebreo è un'ipotesi, un'idea e poi son capaci di parlare con un tipo, trovarlo simpatico e “in gamba” e non sapere che è “uno di loro” perché in fondo, in nulla sono diversi esteriormente da noi, se non, e di rado, nell'abbigliamento. Essere ebrei è però un mondo, e quindi ci sta che per comprendere Kafka ci si rimbocchi un poco le maniche. E farlo non è semplice. Dovete sapere che le opere enigmatiche, oscure, sono amate visceralmente da certi avvoltoi che comunemente si chiamano critici e docenti universitari. Bisogna capirli, devono pur campare. Per quale motivo si può spiegare altrimenti il fatto che, i titoli pubblicati per aiutarci a comprendere Kafka, son più di cinquemila? Perché la sua enigmaticità permette di dire tutto e il contrario di tutto, di spaccare il capello in quattro su un dato secondario. E gran parte di quella enigmaticità risiede nella differenza dell'origine culturale. Una prova semplice semplice? Si legga prima “Joshe Kalbe” di Israel Joshua Singer e subito dopo “Il processo”. Vi accorgerete che tanti falsi enigmi della critica si scioglieranno come neve al sole...
Allarghiamo un attimo questa parentesi per un'altra utilissima considerazione: se la “roba” diciamo enigmatica piace agli avvoltoi dell'arte, cioè critici e “indocenti”, il mercato la teme. Se si vende ovviamente la vende, ma preferisce la “roba” semplice, quella che “va giù” come un bicchier d'acqua. Questo spiega l' esistenza di certi best(ial) seller e la certezza che un Proust oggi verebbe evitato come se avesse la peste. Avete compreso ora perché gli avvoltoi dell'arte e della cultura amano Kafka, Celan e Hegel? Per la loro difficoltà e non perché li “sentano”. Sarebbero capaci di dirvi che l'elenco telefonico è un romanzo che ha per protagonista tutta una città e non ha trama perché in fondo la vita non ce l'ha se non hai un'ideale che ne tira le fila... bella questa, quasi quasi la mando a Barnaba Maj (questo non è un avvoltoio. Ascoltatelo. Merita.)
Perché vi dico tutto questo? Perchè anche Kiefer è una preda gustosa per critici e “indocenti” che, non come buongustai ma come jene, si accaniscono sul corpo morto dell'opera trasformata in oggetto, in una “cosa” solo logica. La soggettività di Anselm Kiefer è forte e complessa e si concretizza in opere molto meditate. Come ho detto prima, nella nostra epoca un'opera brasiliana o statunitense non è più incomprensibile come poteva risultare anche solo un secolo fa. La questione è diventata appannaggio di nicchie di pensiero e di stile di vita di piccoli gruppi o singoli e quindi, per comprendere l'opera di Kiefer come per esempio quella di Balthus, diventa necessario studiare l'alchimia e non solo. E io qui non mi arrendo totalmente, ma un po' sì. Lo farò, ci ragionerò sopra, ma non ora, e quindi in fondo non so se lo farò mai perché quando per qualche motivo rimando.... Di Balthus il caso mi ha offerto un libro di alchimia di suo fratello, l'eccentrico Balthazar. È in casa da anni, ma non mi attira. Ci incespicherò certamente in una notte insonne, ma l'istinto mi fa preferire, forse a torto, opere che “parlano da sole”. E pensando a Rodin, a Desiderio da Settignano, a Luca della Robbia, a Brueghel, a Waterhouse ecc, “sento” di avere torto, ma anche ragione.
Ora per favore, prendete il secondo volume Meridiani Mondadori di Borges e leggete “Una spada in York Minster”. Non vi serve altro che leggerla quella poesia. Il norvegese avrà un volto ideale, antico, rude e fiero. La sua antichità sarà comunque nitida e anche indefinibile. Forse trecento anni fa, forse mille, ma non conta, va bene comunque. Quella mano... quell'attimo allucinato nel quale prenderà eternamente l'elsa, Borges l'ha vissuto e con quei versi ci fa rivivere quel che sentì, scuotendoci con un tocco colossale di gong al cuore. Quei versi parlano da soli.
Ora cercate nell'indice “Una rosa e Milton”. Ma cosa c'è di più bello. E che Milton fosse un grande poeta non importa saperlo. Milton fu semplicemente colui che meditò la rosa.
Ora chiudete il libro e ditemi cosa sono se non scaracchi quelli di Sanguineti, tanto per fare un nome...
E ora trovate, per favore, fatelo, “La morte e la fanciulla2” di Franz Schubert. Sedetevi e scuotete le vostre ali, ormai rigide per il disuso. Preparatele mentre ascoltate, anche con leggerezza, con un orecchio solo, il primo movimento, e poi, quando arriva il secondo, lasciatevi andare. È sconvolgente. Si vola. Si va via. Si sente che essere umani, profondamente umani fino a rasentare il divino è possibile. E questa sensazione, con un nodo alla gola, ci giunge incontaminata, pura, altissima, da un altro secolo. Non abbiamo bisogno di scoprire nulla della vita di Schubert e in fondo nemmeno di sapere che quel secondo movimento è stato concepito da un determinato essere umano. È più facile che, alle guerre e agli sconvolgimenti, resista qualche foglio che non una torre o un palazzo e se, fra secoli, si trovasse solo quel secondo movimento, ormai senza paternità, non sarebbe ugualmente un dono enorme per l'anima?
Anche una “forma” di Brancusi arriva molto in alto. Anche una scarna figura scura di Giacometti. E non c'è bisogno di sapere nulla. È solo questione di lasciarsi andare, di soffermarsi a guardare, disposti interiormente, disponibili alla possibilità, se si offre, del volo .
Però guardatele le opere di Kiefer e non su internet, ma dal vero, mi raccomando. Merita. Si esce più ricchi, più incerti a proposito di tante false certezze e questo non ci fa certo male.
Per apprezzarlo, se temete lo sforzo intellettuale che comunque da quelle opere un po' ci allontana, scorrete un momento le immagini delle ultime “robacce” di Damien Hirst su internet. Troverete il teschio di neonato esposto a Hong Kong e tempestato da migliaia di diamanti rosa e poi.....quel pene enorme fatto di barre d'oro col glande coperto da quasi duemila diamanti e in più uno azzurro di valore spropositato. Sorridete di quel cinismo che dice di essere arte ma è solo mercato, spegnete il computer e avviatevi ai Magazzini del Sale a Venezia. Dopo un tale bagno di volgarità, gettatevi nella mostra e vedrete che, come quando vi gettate in Islanda in pieno inverno nelle acque della Laguna Blu, ne uscite, e ricoprendovi al più presto; si, in quell'attimo, mentre vi passano un accappatoio caldo, e siete già coperti da un strato di ghiaccio che sorprende ma non fa male, sì, come nel caso della laguna blu, dopo l'immersione nelle volgarità commerciali di Hirst, sarete corazzati di ghiaccio contro certe cose che distraggono solo e non danno nulla e, pronti nel pensiero sensibile, che è un vento freddo, voi, così ben difesi e preparati, sarete pronti per respirare un senso.
Ed è giusto che a volte si paghi un prezzo che non si esprime solo in denaro. In fondo, quando camminate in alta montagna, accettate la fatica in cambio della promessa di un panorama stupendo che non è sempre garantito. Potrebbe farvi un dispetto qualche nuvola, ma voi salireste ugualmente, perché ormai siete lì ed è un peccato non provare.
È la medesima faccenda. Ormai siete qui, nella vita, quella salita che porta all'arte potrebbe schiudervi ad un senso. È vero che potrebbe rovinare tutto qualche nuvola, ma ormai, insisto, siete qui, nel mondo, nella vita e bisogna provarci.
1L'icona della trinità di Andrej Rublev è uno di questi casi. Nessuna opera, come questa riesce a rendere l'idea dell'unità della trinità divina del cristianesimo, con altrettanta efficacia. Provate poi a cercare quelle delicatissime opere fatte dai poeti filosofi nella Cina antica(periodo sung e immediatamente precedente). Balthus li amava e su quella linea ideale fece i paesaggi di Montecalvello.... e io non li amo meno di lui. Osservate quei paesaggi e comprenderete qualcosa. Quando andrete a leggere le spiegazioni vi sorprenderete perché quel che leggete è simile a quel che avete pensato e se non pensato, almeno intuito. Ricordo che quando portai il libro con quelle opere, a Tonino Guerra se lo mangiò con gli occhi e come si fa a non donarlo a uno come lui che su quelle cose ci cresce, visto che dipinge pure...
2Vi consiglio l'edizione della Deutsche Grammophon eseguita dall'Amadeus Quartett titolo esatto in tedesko: Der Tod und das Madchen
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