venerdì 6 maggio 2011

Tonino Guerra

Il rapporto non è iniziato con l'uomo, ma con le sue opere. Anni fa andai a teatro per sentirlo. A fine serata si andò nella hall e ci mostrarono un tavolo pieno di libri. Lui disse che si trattava di tutto quel che aveva pubblicato. Notai che ne mancava uno e glielo dissi. Ammise che di quel libro, mi sembra pubblicato nel 1956, non ne aveva più nemmeno una copia. Gli risposi che glielo potevo mandare in fotocopia poiché l'avevo preso in prestito da una biblioteca di Pisa. Consegnai tempo dopo il plico a dei galleristi suoi amici. Da allora passarono tanti anni prima di un altro incontro quasi casuale. Era il suo compleanno. C'era anche Mastroianni. A Tonino non parlai. C'era tanta gente. Ma non fu solo questo, in fondo, a bloccarmi. Cosa avevo da dirgli? Che è bravo? Ma quello glielo dicevano e glielo dicono in tanti e la mia voce, che per lui era quella di un perfetto estraneo, non avrebbe avuto alcun senso se non di quello di essere una gocci in più nel mare.
Passano gli anni. Cresco, studio molto e vivo. Arriva il giorno che scopro che Tonino Guerra tiene un corso di sceneggiatura nella sua Pennabilli, un antico paesino di collina, nascosto dietro Rimini, che di recente dalle Marche è passato alla Romagna. Mi iscrissi e così per qualche mese ci vedemmo tutti i giorni.

Prima di descrivere come si svolsero i fatti al corso di sceneggiatura, tento di raccontare quale importanza ebbe per me la sua opera. La spiegazione migliore la si può cogliere in un racconto che scrissi verso i vent'anni. La trama è la seguente. Un ragazzo è in tutto e per tutto come gli altri. A sedici anni però, se ricordo bene, inizia a crescere un po' troppo è dopo qualche tempo è alto tre piani. All'inizio è solo grande, poi diventa molto grande e poi grandissimo, fino ad essere percepito come diverso e escluso dalla comunità umana. Egli viene a sapere comunque che non è il solo gigante al mondo. Ce n'è uno a Santarcangelo e un altro a Buenos Aires. Si trattava di Tonino Guerra, (all'epoca non sapevo che abitasse a Pennabilli), e Jorge Louis Borges. Il caso mi ha concesso la fortuna di conoscerli entrambi. (Con Borges ebbi un breve incontro a Ginevra. Lo vidi che era ormai molto malato ma mi diede molto ugualmente).
L'idea del racconto non voleva mettere nero su bianco una smisurata stima di me stesso che non aveva senso a vent'anni, non ha senso mai e non ho nemmeno oggi. Era la diversità la chiave. La loro di Tonino e Borges, e la mia e si esplicava nell'essere VERAMENTE artisti o sentirsi tali. Vivere e pensare. Non semplicemente lasciarsi vivere. Questo, “sentivo” come conferma in loro e come fioritura in me. Mi univa a loro, non certo il fatto che mi considerassi alla loro altezza, e di entrambi mi consideravo e mi considero tuttora, allievo.
Ero perfettamente consapevole del loro livello e non mi permettevo minimamente paragoni fra me e loro. Sentivo comunque che io, nel mio piccolo, avevo intrapreso la loro strada e, se mi sentivo ben indirizzato, ben guidato, era anche e sopratutto merito loro e di Kafka, Bulgakov, Fitzgerald, Schumann, Schubert, de Andrè ecc.

Si possono trovare influenze di Tonino in vari miei scritti. Se non è facile coglierli in chi legge le mie cose, è comunque semplice e per nulla gravoso per me ammetterlo e indicarne alcune.
Il caso più evidente è nell racconto “Ciliegi in fiore”. Avevo saputo che Santarcangelo, sua città natale, gli aveva chiesto un'idea per la piazza principale che è anche quella dove si svolge il mercato. Lui consigliò di far mettere un ciliegio. Seppi che sindaco, assessorucoli e piccoli politicanti del luogo sbeffeggiarono l'idea che a me parve stupenda. L'idea consisteva nel mettere bene in evidenza, in uno spazio vuoto di sapore per me metafisico come appunto sento io una piazza, non la solita statua che, con la sua immobilità diviene ben presto invisibile perché inglobata fra le tante abitudini visive, ma un monumento vivente, che cambia, attirando quindi gli occhi, e inneggia alle quattro stagioni che si sarebbero mostrate in forma di petali bianchi, rosse ciliegie, caduta delle foglie e rami spogli. Stupendo. (Mi è venuto il sospetto che fra i suoi antenati ci fosse qualche giapponese. Non risulta ma si sa che le corna (scusa Tonino) fanno miracoli e spesso le sue idee hanno una delicatezza degna di Tanizaki). L'albero fu messo ma campò poco. Era “in mezzo”. Lo fecero morire e ci fu posto per un mercante in più. Questa idea del ciliegio nel centro della piazza mi ha “perseguitato” per anni finché è diventata strutturalmente importante in quel racconto che appunto si intitola “ciliegi in fiore”.
Ricordo nei suoi libri edifici diroccati e ormai senza tetto con alberi che ci nascono dentro e fioriscono.
Queste immagini si rinforzarono in me causa un evento particolare. Il paesino d'origine del mio secondo padre, fu scotennato da un'alluvione del fiume Avisio, in Trentino. Di fatto era ancora abitabile, ma per evitare altre visite di masse d'acqua, fu abbandonato e tutti si costruirono case più su, nel fianco della montagna. L'Avisio scorreva attaccato al villaggio che era posto nel fondovalle. Si sapeva che sarebbe riaccaduto. Mi capitò di cercare quel posto abbandonato e, nella minuscola chiesetta con la porta distrutta dal tempo, vidi degli arbusti, che sarebbero diventati alberi, crescere tranquilli dal pavimento. Anche in altri ruderi si vedevano situazioni simili, con noccioli e altre piante con non saprei nominare che conquistavano spazi sbucando da finestre o tetti che non esistevano più perchè avevano recuperato le tegole per le nuove case.
Dopo lo studio di libri e film ho iniziato a sentirci, in quelle idee, la forza di Andrej Tarkovsky e Tonino insieme e in “Wanderer” una specie di racconto pubblicato qualche anno fa, ecco che appare la chiesa rudere e senza tetto con l'albero che fiorisce continuamente ma non riesce a trasformare le sue gemme in foglie. Ogni sera i petali “nevicano” al suolo. Questa metafora dell'esistenza che non riesce a sbocciare è mia, ma viene rappresentata da un'idea che Tonino ha utilizzato per dire qualcos'altro. In un suo breve racconto troviamo una coppia che sta per divorziare. Si incontrano fingendo buone maniere, in una casa di campagna che ha davanti alberi fioriti. Tornano dal tribunale. La separazione è avvenuta. In casa si salutano. Lui se ne va e lo capiamo che è per sempre. Lei esce quando è partito e tutti i petali son caduti.
È probabile che il racconto non sia esattamente così, ma il nocciolo è questo. Una grande idea la sua. Il dolore amplificato da una reazione della natura. Se i petali cadono la vita non continua e questo vuol dire che quella donna, col divorzio e il marito che se ne va si sente finita, dalla fioritura dell'amore, non verrà nessuna maturità, nessun frutto. Io, più giovane e con altri pensieri per la testa descrissi, con qualcosa di simile, il fiorire della giovinezza alla quale non riesce a far seguito la maturazione e il fatto non accade nella sfera dei sentimenti, ma della vita in generale. Nel caso specifico i muri della chiesa, altissimi, non facendo entrare il sole non permettono l'evoluzione dal fiore alla foglia che, lo sappiamo bene, si nutre di luce solare. Aggiungo che un'emanazione della natura alla stato puro, degli orsi, distruggeranno la chiesa e il ciclo vitale dell'albero e, ovviamente il mio, potrà così realizzarsi. La mia idea la sento troppo cervellotica. Quella di Tonino, con la sua semplicità e le poche immagini, è eccellente. La sua natura è la medesima dello stratagemma che rende grande “La metamorfosi” di Kafka. In questo caso, il sentirsi moralmente un immondo insetto (Kafka non parla mai di uno “scarrafone”), che è un dato che l'educazione può costringerci a celare, diviene irrimediabilmente evidente. Quante volte siamo accuratamente “macellati” da una vita e quindi da una percezione men che insoddisfacente di noi, per noi stessi? Ed è anche vero che ci sforziamo di continuare a vivere indossando una maschera. Ebbene, se ci trasformiamo in quel che “sentiamo” di essere, il mondo esterno deve farci i conti! Nel rakkonto di Kafka akkade ke Gregor Samsa, il protagonista, viene nascosto con vergogna e alla fine la sua morte vissuta come una liberazione. Non ho parole. Colossale. Tonino non rende il dramma visibile agli altri. Esso si materializza solo agli occhi di chi soffre. La sua dimensione interiore è come se venisse sentita dalla natura della quale quella dona è un'emanazione. L'empatia profonda, fa “piangere” solo per lei, la “Grande Madre” natura.
In un altro frammento, geniale e brevissimo, Tonino ci descrive una persona che scopre di essere stata tradita. Da quel giorno tradito e traditore, mangeranno ad una tavola apparecchiata per tre. Non è terribile più di qualsiasi condanna quel piatto vuoto sempre li, davanti a chi tradì e a chi fu tradito?
Si rimane senza parole e si sente tutto il peso di quell'idea, che rappresenta sia la condanna che il dolore che quell'atto ha provocato e li rende entrambi eterni. La realtà della vita smussa tutto e l'oblio diviene un dono anche fra i viventi. Facciamo presto ad immaginare che uno dei due, non importa che si tratti se del traditore o del tradito, nella realtà non accetterebbe. Lo sappiamo che nella realtà non potrebbe accadere che questo e che una situazione del genere sarebbe insostenibile!
Ma qui interviene la “vita” dell'arte, della letteratura. Dalla pagine bianca che in poche pennellate fatte di parole, descrive quella situazione, si esce con una sensazione di colpa e di torto sensa tempo, eterni, che definitivamente distruggono non solo quell'amore, ma la vita stessa di che ha fatto parte della scena, e insisto, il ruolo del colpevole e della vittima sono identici. Si sente chiaramente che per ambedue non esiste più il futuro. Tutto si blocca li.
Dopo quelle poche righe è il caso di andare a fare due passi e pensare. Sappiamo che è finzione letteraria, ma sentiamo in essa una lezione per la vita che diviene nostra e quell'immagina ha un potere unico. Non la ricorderemo certo parola per parola, ma è entrata in noi. Ci capiterà penseremo di attuarla, lo comprendiamo, ma ci rendiamo conto che nella vita reale, dotata di un oblio e di una fine del corpo,non ha senso. Quella è una punizione ideale, appartenente alla insondabile dimensione dell'eternità.

Questi sono i due casi, con l'aggiunta di qualche meditazione che penso ne mette in mostra secondo me il talento, nei quali l'influenza di Tonino su di me, si è dimostrata più evidente. Ce ne sono delle altre credo, ma ora non mi vengono in mente.
E mi raccomando! Se l'allievo non supera il maestro la colpa no è del maestro. Io, come allievo, ascolto, dialogo trito, macino, ma poi faccio di testa mia e penso anche che sia giusto così. Come scrisse Borges in una prefazione, gli errori sono solo nostri e le cose belle frutto del caso. Si deve tener conto che Tonino e io siamo profondamente diversi. Mi disse tempo fa che ho un mio mondo interiore che deve venire fuori. Giustissimo, ed è ovvio che il mio mondo interiore sia diverso dal suo. Diversa matrice culturale, diverso ambiente nel quale si è cresciuti, diversissime le esperienze, e diverso quel qualcosa che ognuno di noi si trova dentro alla nascita col quale si deve fare i conti.

Un fatto della vita di Tonino ne è l'esempio. Quando lo catturarono i fascisti ( pensate un po', era sfollato, ma tornò in paese per dare da mangiare al gatto e in questo frangente lo “beccarono”! E' vero che aveva in tasca dei volantini dei partigiani che, con l'aiuto di una donna riuscì a buttare via e a salvarsi da fucilazione certa, ma è meraviglioso secondo me pensare che abbia rischiato per dare da mangiare al suo micio), lo caricarono su un camion insieme con degli altri per portarlo via. Si mise in mezzo alla strada, assai stretta, una donna, moglie di uno di quelli caricati. Disse chiaramente che non si sarebbe mossa da li, che si sarebbe fatta piuttosto ammazzare. Le ridiedero il marito. Tonino li vide allontanarsi “a bracceto” e gioì dicendo “brava! Brava! Tu si che sei una donna!. Quel camion lo scaricò non so dove, la meta però la conosco. Fu il campo di concentramento e Tonino lo sapeva che non andava in gita, che in fondo a quel percorso c'erano solo grane e forse anche la fine della sua vita. Ma a questo non pensò. Riuscì a gioire di quella scena. Penso che saremo tutti d'accordo nell'ammettere che in situazioni simili scatta eventualmente l'invidia e un “magone” infinito sommato a tanta tenerezza e pietà di se stessi. Lui invece no. Ha riconosciuto un gesto positivo, vitale e ne ha “bevuto” la forza.
Posso dire che è così in tutto. Un frutto, un uccello che sfreccia, una farfalla che si appoggia un attimo su un mobile (è realmente accaduto e ci parlava con la farfalla che però non ha esaudito la sua richiesta e se n'è tornata alla vastità del giardino), la freschezza di una donna che non identifica certo solo con la corporeità, l'erotismo e il desiderio di possesso, una frase che trova bella, una foto, un ricordo. In tutto fa un'operazione di spoglio e ottiene qualcosa di positivo per il quale vale la pena aprirsi in un sorriso.
Tonino sorride più che altro con gli occhi. Quando gli portai Joana, una poetessa di origine romena appena diciottenne, un po' matta, con tutte le curve al posto giusto, i suoi occhi hanno mangiato tutto, ma non nel modo, sporco del linguaggio della carne. È difficile spiegare. Si capiva da quel baluginio della sguardo che la trovava fresca, piacevole ai sensi e non si preoccupava che il messaggio venisse così recepito perché l'erotismo per lui (e anche per me), non è semplicemente un grido mai sazio del corpo, ma la somma di pensiero, stile, sensualità e chi più ne ha più ne metta. Qualche giorno prima gli avevo fatto uno “scherzetto bonario. Avevo letto un paio di poesie di Joana, che tenevo fra le pagine del libro di un premio Nobel (non dico chi è, cerco di resistere, come ormai sapete, dal parlar male...). Tonino non si era reso conto dei foglietti e pensò che realmente dal libro stesi leggendo. Si tirò ben dritto sulla poltrona, morse con le dita la punta dei braccioli e disse “..è più brava di me. Fa' vedere”. Prese i foglietti, rilesse da solo e mi chiese se poteva conoscerla.
Come potete notare, ci troviamo davanti ad una bella dose di umiltà, alla volontà di sondare e di far propri i “frutti” buoni del mondo. Tonino sa quanto vale, ma non si pone su un piedistallo e guarda tutti dall'alto come fanno tanti, ma, si, chiamiamoli artisti (boccaccia mia statti zitta.... ). non sopporta i rompiscatole. Chi viene per vederlo come una reliquia e gli porta via frammenti di tempo solo per poter dire di esserci stati. E questo lo dobbiamo capire perché il tempo, quando sai cosa fartene, non è mai abbastanza.

Torniamo al nostro vero incontro avvenuto al corso di sceneggiatura
Arrivai al corso con un po' di vita vissuta e tantissimo studio. Ora forse, ero pronto per affrontare e reggere un dialogo? Non lo sapevo e mi interessava comprenderlo. Ero certo di non essermi iscritto per imparare a fare lo sceneggiatore. Mi premeva capire Tonino. Aveva scritto “cose” che trovo notevoli e, per quanto disponessi già di una mia ispirazione abbastanza collaudata, ero curioso di capire come il processo creativo si realizzasse in lui. Non l'ho capito, lo dico subito, anzi, dopo i nostri dialoghi ho dedotto che l'ispirazione è qualcosa di talmente personale che nemmeno chi ce l'ha se la sa in fondo spiegare. La si deve accettare e comprendere che si tratta di un dono, in questa epoca stracciona di valori che non siano economici, non è per nulla facile.

Verso la fine del primo giorno di lezioni, (eravamo una quindicina e io mi ero seduto in fondo per osservare meglio senza essere coinvolto in nulla e nemmeno essere visto), verso la fine dicevo, Tonino ci invitò a proporre un'idea che secondo noi fosse bella. Quando toccò a me dissi che nella città dove sono nato, in Germania, quando una persona muore, il giorno stesso del funerale, appena questo è terminato, a chi è rimasto vivo, viene regalato un cucciolo. Tonino mi squadrò profondamente, come se solo in quel momento veramente avesse messo in moto gli occhi, i suoi, che non vedono solo quel che noi siamo ma anche quel che pensiamo, mi disse che era una buona idea e poi chiuse in fretta la giornata di lezioni. Mi disse mentre tutti si alzavano “tu per favore, aspetta un attimo!” e poi, con mio stupore mi chiese di accompagnarlo a casa. Si attaccò al mio braccio, (non era più molto sicuro sulle gambe) e mi ha portato a casa sua che distava poche decine di metri. Mi presentò la moglie, una trentina di gatti e il cane Baba, figlio del Golden di Michelangelo Antonioni. Mi son ritrovati improvvisamente nel suo mondo e fu per me qualcosa di imprevisto ed eccezionale. Da quel momento ci siamo incontrati spesso. Ne son nate giornate per me di una qualità unica che continuano senza aver per ora piallato tutto con l'abitudine.

Ho sempre detto che una delle tragedie degli artisti attuali è la mancanza di dialogo. Una volta prendevi il treno, andavi a Firenza alle “Giubbe Rosse” in piazza della repubblica ed eri sicuro di incontrarli. Capitò il periodo d'oro del Giamaika in Brera a Milano, ma anche per questi cenacoli ero in ritardo notevole.
Attualmente hai le gallerie d'arte e le case editrici ma li non si dialoga, si fa business. Londra? New York? Ci sono stato. Là il loro intento non era fare qualcosa di buono ma sfondare. A me è sempre interessata solo la qualità e ho avuto la sensazione che per la mia generazione non ci fosse posto per il pensiero, ma solo per l'azione, ma che senso ha l'uno senza l'altra!
I vecchi, attaccati con le unghie ai velluti delle loro poltrone e noi che nel frattempo si invecchia e si inacidisce nell'essere servi di scena. Io ho avuto fortuna almeno in qualcosa. L'amore misterioso e incondizionato dei cani e questa amicizia nella quale, con mia continua sorpresa, ci si dà del tu e si dialoga alla pari. Lui mi parla delle sue idee e mi legge quel che sta scrivendo e accetta critiche, io gli mando le mie cose, lui che mi telefona per parlarne e le quel che pensiamo ce lo diciamo in faccia, senza fingere. Così deve essere, e se penso che in certi periodi ci si sente quasi tutti i giorni, rimango stupito. Si. Perché siamo profondamente diversi. Lui è socievolissimo, io un orso che non vuole nemmeno specchi in casa per non distrarsi con l'immagine esteriore di se stesso.

Come ho già accennato, non ho scoperto nulla sulla sua creatività se non che, come la mia, essa è insondabile. Ho compreso comunque perché, tanti personaggi importanti del cinema, dell'arte, della musica e della letteratura lo hanno stimato e lo stimano incondizionatamente. Le doti sono due e non una come di solito si pensa. Una è sotto gli occhi di tutti ed è la sua inventiva che vediamo concretizzata in libri, film quadri e altro, l'altra è la sua non comune capacità sociale. Non è modesto, ma la modestia è in fondo una bugia detta al mondo. Come ho già detto, sa quanto vale, ma è umile, e quando ritiene che qualcuno valga, non ha il minimo accenno di invidia e immediatamente si trasforma in allievo.
Ha un umorismo notevole, mentre la mia generazione non ne è capace. Per noi, o c'è del sarcasmo o niente, per la sua generazione appunto, era un giocare con la vita, con le parole non certo da irresponsabili, ma mai o quasi mai, col sangue cattivo. Il suo giocare con Antonioni, con Fellini, dimostra quanto ho letto per esempio nel libro “Annibale Ninchi racconta” che raccoglie ricordi dell'attore Annibale Ninchi. Il mio umorismo è secco, suona vuoto in confronto al suo e poi, da anni, e ora ne ha novantuno, ha un'attenzione per il femminile,come ho descritto nel caso di Joana, un erotismo elementare e puro che sgorga dagli occhi senza mai essere viscido, volgare, argomento questo sul quale io invece, mi comporto con una rassegnazione che mi fa sembrare più vecchio di lui anche se di fatto mi doppia in quanto a candeline (divertente quel che gli hanno “combinato” per il novantunesimo compleanno. Sulla torta c'era una sola candela assai strana di aspetto e si trattava infatti di un “ordigno” nuovo e dispettoso. Tonino si è “spolmonato” per qualche minuto fra il godimento generale e poi ha lasciato che quella via di mezzo fra un fuoco d0artificio e una candela si esaurisce da sola).

Incontrarsi. Essere noi due non disturbati da nessuno e dialogare per ore. Ci prestiamo libri, si passeggia nel giardino, (quest'anno a fine febbraio c'erano i ciliegi in fiore e le colline bianche di neve....) e alla fine qualcosa di fatto in comune è nato, senza progettarlo e non scrivendolo insieme, ma pensandolo e rimpallandoci i le idee fino a formare qualcosa di forse, dignitoso.

Si tratta di due racconti. Uno è “Il gigante”, quello che ho descritto prima nel quale a vent'anni parlai di lui. Non ricordo se uno o due anni fa tonino mi chiese di portargli questo cimelio del quale, per pudore gli avevo solo raccontato l'esistenza. Gli piacque e mi disse che aveva immaginato un altro finale. Allegherò il racconto, l'aggiunta nata insieme e una lettera che scrissi per giustificare il fatto che non modificai il racconto, ma feci un'aggiunta.

Un altro racconto, che ho intitolato “anatroche” ebbe una genesi un po' più complessa.

Tonino mi parlò di un “pezzo” teatrale che stava scrivendo. No gli “veniva” un finale soddisfacente.
La storia, in poche parole, era la seguente. Un uomo è seguito ovunque da delle anatre. Si rende conto, ormai rassegnato, mentre le fa entrare in casa e la moglie dimostra di non vederle, che solo per lui esistono. Vicino ad un lago c'è un monastero. Un frate dimostra di averle viste e l'uomo si confida dicendo che non ne può più di essere seguito così. Il religioso gli dice come fare per liberarsene. Deve prendere quella barca, portarsi in mezzo al lago, battere le mani e le anatre rimarranno là. L'uomo segue le istruzioni e torna senza i pennuti. Dopo poco tempo però, inizia a sentirne la mancanza e chiede al frate come può fare per averle di nuovo con sé. Questi gli dice che deve tornare in mezzo al lago, ri battere le mani, ed esse torneranno.
A questo punto l'idea di Tonino si fermava. Non sapeva cosa far accadere una volta giunto a riva. Così, di getto, senza pensarci due volte, gli dissi che avevo immaginato che era sceso dalla barca, seguito dalle sue anatre e ritornato a casa, ma in questa non trovava tutti i suoi antenati. In pche parole avevo trasformato le anatre in messaggere e guide indolori di una morte che in fondo si riduceva al ritorno alla stirpe. L'idea gli piacque moltissimo.
Tonino partì poco tempo dopo per la Russia. Doveva tenere delle lezioni alla Scuola di Cinema di Mosca, e da là mi telefonò. Io non risposi perché non rispondo nel modo più assoluto a numeri che non conosco. Invio di solito un messaggio nel quale chiedo in tre lingue “chi sei”, ma in questo caso non ci fu risposta. Tonino mi chiamava perché voleva sapere qualcosa di quell'idea per parlarne poi a lezione. Quando tornò, mi chiese, con mia grande sorpresa “e allora, lo hai scritto quel racconto?” risposi “No. Era roba per il tuo pezzo teatrale. Non ci ho nemmeno pensato!” mi invitò a “buttarlo giù” e me ne tornai a casa sconcertato. Posso dire di non avere mai scritto su “ordinazione”. Già l'idea mi fa ribrezzo. Era accaduto per Wanderer” che avessero tentato di chiedermelo. Ricordo che volevano qualcosa sui ponti. L'ho poi scritto, ma non perché me lo avevano chiesto. Semplicemente il cervello si era messo a lavorare partendo da u quadro che rappresentava gente a testa china che passava su un ponte, realizzato da Hiroshige e copiato da Van Gogh. Nel caso delle anatre del pezzo teatrale di Tonino, la bellezza della sua idea, fece girare il cricetino sulla ruota posta dentro la scatola cranica e nel giro di una settimana si trasformò in parole. Il titolo, “anatroche”, è dovuto al fatto che il personaggio del racconto, come me, non sa distinguere le anatre dalle oche. Ora, lo so, mi sono informato. A Tonino il racconto è piaciuto. Lui, che trasforma sempre anche in immagini, mi ha detto che “l'idea del tipo che va in giro a toccare le statue di donne nude, meriterebbe un film”. È materia della quale non mi sento competente. Ne discutiamo spesso e lui vuol farmi desistere dalla mia posizione. Sono convinto di essere in grado di trasformare il pensiero in parole. Trasformarlo in immagini no. Ci ho provato. Forse ho delle buone idee, qualcuno le pensa, ma mi sembra di fare qualcosa che non è nelle mie “corde”. E' vero che riesco a rendere visivo quel che scrivo, ma non penso sia degno di una macchina da presa. Lo farei seriamente, se mai mi capitasse e attualmente, tranne la stima incondizionata che provo per Clint Eastwood e Emir Kosturica, ho la sensazione che il cinema sia diventato territorio ad uso esclusivo di una bassa manovalanza che non sa e non vuol far distinzioni fra Disneyland e un film. Spettacoli. Non opere d'arte. E io che penso ad Andrey Tarkovskij come a un fenomeno irraggiungibile degno di essere affiancato, lui solo, a Kafka, non riesco a riconoscermi in un'attività che cerca dei Mangiafuoco, dei saltimbanchi, e non degli artisti. Lora, la moglie di Tonino, ha detto che sarei un buon ragista e Tonino ha confermato. Li ringrazio per l'elogio e forse nel dopoguerra, quando i Visconti i Fellini i Bergman e quant'altri venivano rispettati e cercati, avrei potuto prendermi sul seri in quella veste. Non mancavano i maestri e un Francesco Rosi ha potuto “farsi le ossa” lavorando con Visconti. Oggi da chi vado, col cappello in mano, chiedendo umilmente “maestro, per favore mi insegni la sua arte”?, perché il cinema allora funzionava come le botteghe degli artisti rinascimentali. Non le scuole, ma il praticantato, ne fece un'epoca d'oro.

Mi tengo ben stretta, prima di tutto per le soddisfazioni che a me medesimo dona, la parola, e me la porto ovunque, spillandola dalle mie stilografiche.

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