giovedì 29 dicembre 2011

Le ultime parole di Giordano Bruno

Vola piccolo gabbiano

vola

sin dove si fondono cielo e mare

e vento e onde

e piangono l'accordo della nostalgia.

Vola

nella mesta quiete

dove il mare

giace silente

sino a quando

di te

la volontà e la speranza

sconfiggeranno

lo spazio infinito.

Vola

piccolo gabbiano

da colei

che più di tutte

ho amato.

Leggero

come un uccello

è l'animo mio

se

presto

saremo

uniti

avete letto questi versi?

Bene, ora ne parliamo. Premetto che contrariamente a quel che probabilmente molti di voi hanno pensato, non sono miei ( per ora e chissà per quanto, i miei voli sono un timido “svolazzare”).

Vi invito a centellinare nuovamente quelle parole. Gustatele accuratamente.

Penso siano almeno decenti per tutti.

Ora cerchiamo di comprendere cos'è una poesia per una persona che legge dopo l'anno duemila.

Iniziamo pensando al mercato. Non comperiamo quasi mai un oggetto perché vale in relazione ai materiali, all'accuratezza eccetera. Ci basta un buon design sommato ad un marchio noto che ha ricevuto propulsione, visibilità, dalla pubblicità.

Si può dire che, forse per abitudine, forse per noja, ci siamo arresi ad un sistema che garantisce sé stesso solo a parole. Un esempio per tutti. Pensate ad una borsa di Louis Vuitton; esattamente alla tela detta monogram, quella marrone con le lettere L e V sovrapposte e piccoli fiori stilizzati. Ebbene. Il valore è minore forse anche di dieci volte in relazione al prezzo che si dà. Eppure quelle cosine, che siano borse, portafogli o cinture, sono onnipresenti, desideratissime. Per quanto ben rifinite, son cose di plastica con un po' di pelle sui bordi o nei manici, ma molta, troppa gente, accetta di pagare quel prezzo quasi assurdo. Un denominatore comune dei tre oggetti che ho elencato a caso, ora mi rendo conto che sta nella portabilità. Mi spiego. Portafogli, cintura e borsa escono con noi, fanno parte del nostro io visibile agli altri, all'io che “se la gioca” nella relazionalità. Non si tratta quindi di una scelta personale, intima. Questa è certamente una delle chiavi di lettura.

Vi domanderete cosa c'entra questo brodino di parole quasi ovvie con la poesia che ha aperto il brano.....

E' presto detto. Il “problema del marchio”, della firma, esiste ugualmente per oggetti anche profondamente differenti come i libri. Se vi dicessi che ho dei versi di Faletti e vi invitassi a leggerli, molti di voi, con un palato che sa distinguere almeno gli escrementi dalla cioccolata, storcerebbero il naso e lascerebbero perdere. Se vi invitassi dicendo che sono di, diciamo Umberto Eco, nome che ha un'aura di serietà anche per chi non ha mai letto nulla di lui, ecco che forse la paura di una “cosina” un poco contorta vi farà desistere, oppure proprio la possibilità di trovare intelletto più che arte, malattia questa nel ventesimo secolo, vi spingerà a cimentarvi poiché se la sensibilità non è da tutti e con timore lo sapete, l'intelligenza, anche se con fatica, qualche speranza di sentirsi almeno “decenti” se pensiamo di aver compreso, ce la dona....

Tranquilli. Faletti e Eco non c'entrano.

Ponetevi per favore, forse per la prima volta nella vita, consapevolmente davanti a dei versi senza sapere nulla. Mettetevi alla prova, valutate. Lasciatevi andare al “sentire” vero. Via l'intelligenza che serve solo a mettere ordine e si mette ordine quando qualcosa è stato creato, puro, sorgivo, dentro di noi.

Questo è il primo strato. Ora inizia la sovrapposizione.

I versi son vecchi di secoli.

Furono scritti a Roma.

Un uomo era in carcere da sette anni. Finalmente acconsentirono a dargli della carta che sempre chiedeva.

Domani sarebbe morto e lo sapeva.

Ora. Sì, ora ri-saggiate quei versi, e scoprirete sapori nuovi, forti, che ci riguardano poiché tutti in fondo sappiamo di essere condannati a morte, chi dall'età, chi dalla natura, chi dagli uomini.

E ora veniamo ai nomi. Il Cardinale Bellarmino autorizzò la carta e Giordano Bruno scrisse quel che avete letto e riletto.

Sono le sue ultime parole.

Quel cardinale, figura complessa e secondo alcuni controversa, aveva compreso che l'astronomia di Tolomeo era da “riscrivere”, ma condannò personaggi che almeno di nome tutti conosciamo.

La Chiesa tremava ogniqualvolta il pensiero, che poi si fece scienza, dimostrava qualcosa che era in contraddizione con quanto aveva fino ad allora decretato come verità indiscutibile. Contava chi “parlava”. Si diceva “Lui lo ha detto”, e lui era spesso Aristotele o qualcun altro autorizzato a dire; un dire che in fondo era un ripetere.

Il senso della divinità che Giordano Bruno “covava” dentro era più vasto, più bello, più dolce, più consolante, di quello papale. Una divinità senza inferno, un universo di infiniti mondi.....

Ammetto di aver aggiornato un termine; “speme” è diventato speranza. Ben poco cambia e ora che ho riletto anch'io per poter proseguire con un minimo di coerenza questo scritto, deduco che quando ho accennato a Faletti come autore ho decisamente esagerato. Quei versi sono buoni anche se non si sa chi ce li ha donati. Di Faletti sento spesso chiedere “ma li ha scritti lui quei libri?”. Non so rispondere. Anzi, non voglio. E non è certo l'unico caso. Ed ecco che si ritorna alla questione troppo volgare del marchio. Si crea un'immagine ed essa vende. Il prodotto inerente a quella immagine non può essere intaccato, non deve, da chiacchiere come “ma l'ha scritto lui? Eccetera”. L'unica legge del mercato è.... portare al massimo l'incasso. Il resto è strumento.

E così accade che la “Jupiter”, che conosciamo, che il pubblico conosce come opera di Mozart, in effetti sia di qualcun altro.

Un nome che dice ben poco alla gente. Mozart vende,quell'altro che è “roba” da intenditori, quasi da addetti ai lavori, non farà mai il medesimo incasso del grande salisburghese che con la sua aura di genialità che non intendo certo discutere, “costringe” il mercato attuale ad essere disonesto nonostante le evidenza storiche.

Andrea Lucchesi. Veneto. Fu maestro di cappella a Bonn e qualcuno lo ricorda come maestro di Beethoven.  
Ricordo che anni fa mi irritava il fatto di non riuscire a distinguere quasi mai Mozart da Haydn. Incolpavo il mio orecchio, forse troppo “duro” per certe sfumature, e mi misi a memorizzare brani per porre un rimedio a quella che consideravo una lacuna.

Anni dopo la notizia. Sembra che quasi tutta la produzione di Haydn sia di Lucchesi.

Se, come dimostra un archivio modenese, anche Mozart “mungeva” quel veneto quasi sconosciuto, ecco che il mio orecchio ne esce riabilitato. Non esisteva differenza per quel che riguarda la musica strumentale, fra Mozart e Haydn, poiché scriveva la medesima persona. Mi risulta che anche la sinfonia di Praga esista in originale manoscritto di Lucchesi e che Mozart, dopo averla comperata, circa due anni dopo, la copiò accuratamente e la “spacciò” per sua.

Nulla distruggerà, e giustamente, l'immagine di Mozart. Scoprire che era Vittima di leggi di mercato che gli chiedevano molto più di quanto umanamente potesse produrre sia come talento che come operaio di sé stesso, lo porta nella contemporaneità. Abbiamo scoperto per esempio anche che Montanelli non ha scritto, ma solo firmato i suoi libri di storia. Si trattò di una operazione ben fatta che divulgò una materia importantissima che da anni in Italia “usciva” solo in testi elitari. Lo siam venuti a sapere dopo qualche anno dalla morte di questo grande giornalista che stimavo e che dimostrò di stimarmi.

Ma lo sappiamo solo ora, quando l'operazione commerciale che riguardava quella collana di libri, è stata considerata totalmente esaurita.....

E io ritengo, l'ho già detto altrove, che la nostra epoca abbia un bisogno quasi patologico di onestà. Se Balzac faceva sorridere quando si scopriva che affittava sempre case con due entrate, che per lui erano in fondo più provvidenziali come uscite, per fuggire ai creditori.... se non scosse più di tanto il suo tempo l'esilio francese di d'Annunzio che di fatto scappò ai creditori.... se non fece notizia la passione di vetture sportive di un Brecht intelligentissimo e assai furbo che, nonostante gli ideali che professava, quando “disfò” una fuori serie non esitò a “vendersi” per una pubblicità pur di comperarne immediatamente un'altra.... se non scandalizzarono gli eccessi di Fitzgerald che arrivò al punto di scrivere un racconto solo per comperare un gioiello alla moglie.... se le manie di Wagner che decise di riceve vestito in viola di varie sfumature facendo cambiare anche tende e orpelli della stanza.... se tutte queste cose all'epoca fecero notizia, era perché, come disse Borges, da una certa epoca in poi, l'artista dovette produrre due opere: la vita e l'opera.

Ora, nel nostro presente, nel quale le leggi del mercato pur di vendere massacrano qualsiasi coerenza, sorge una nuova esigenza. Non interessa che il vegliardo celebre esca con due lolite al giorno, ma la sua onestà, e saperla dimostrare è quasi impossibile perché tutto quel che ci giunge dai mass media potrebbe essere finto. Lo sappiamo e ormai non riusciamo a dimenticarlo così facilmente.

L'opera sì che deve essere valida, ma che esca da una persona che abbia una morale da offrire, anche una morale ostica come quella della Yourcenar che comunque scriveva divinamente ed era profondamente coerente con se stessa.

Ora ritorniamo ai versi di Giordano Bruno. Da belli, almeno per me, si son fatti impressionanti e penso alle sere a Campo dei fiori che ora è luogo di piacere e leggerezza. Spesso mi alzo dal tavolino dopo aver goduto con gli occhi di sfavillanti americane e giapponesi deliziose come miniature irreali, e vado alla statua. Mi piace osservarla di notte perché il volto si fa tutt'uno col cappuccio di bronzo e la sua immagine, si ora sacra, si dilata nel cielo brillante di stelle.

...E mi pervade la rabbia e la rassegnazione per un'umanità che da tempi immemorabili ha trasformato la vita terrena in un inferno.... mi spavento di questa reazione e la leggo riflessa, come in uno specchio d'ombre, nel volto invisibile, notturno, immenso di Giordano Bruno.

Penso che questo sia uno dei tanti paradisi. Un dio non può concepire altro che il paradiso, e il corpo, humus e terra del seme che chiamiamo anima, va nutrito. Solo così la morte non farà paura e non sarà totale annientamento, ma sarà semplicemente il momento nel quale, il seme nutrito con la consapevolezza coltivata e raggiunta, lascerà l'involucro di carne, come la farfalla la crisalide o l'uccello il nido.

Ed ecco il gabbiano-anima di quella poesia che, arso il corpo, liberato dalla zavorra, torna al tutto, ma senza rinunciare all'io che è il gioiello che si deve costruire in vita.

Ecco perché Giordano Bruno merita di essere ricordato

lunedì 28 novembre 2011

La Yourcenar e certi titolacci di giornale...

Questo pomeriggio, una persona, con l'intento di divertirsi scrutando il mio volto mentre leggeva un certo articolo di giornale che mi aveva portato, si è divertita molto.



Sul “Corriere della Sera” di venerdì 25 novembre, a pagina 55 leggo il seguente titolo: “Il vero Adriano pubblico e privato”, sottotitolo: “Una biografia smentisce il romanzo della Yourcenar”.



L'articolo è di Luciano Canfora e col titolo, grazie al cielo, non ha niente a che spartire. L'unico appunto che posso fare a questo serio studioso è sul linguaggio che usa. Un po' contorto. Per lui sicuramente il modo ordinario di parlare, ma preferisco un linguaggio più sciolto, con parole il più quotidiane possibile. Porto un esempio che traggo dalla pagina 218 della raccolta di racconti di Guareschi intitolata “Corrierino familiare”. Un libro divertente e profondo. La mia è la seconda edizione, con disegni di messer Giovannino, della Rizzoli e datata 1954).



Cito dal testo: “Margherita, ieri ti ho sentito dire -illazione-, adesso hai detto -drastico-. Non ti bastano più le normali parole per esprimere i tuoi pensieri? Stai incamminandoti anche tu nell'ambiguo sentiero dell'intellettualismo?”



Per chi ormai mi conosce la questione si fa semplice e non nuova. Che senso ha un linguaggio specialistico, specifico, per chi oltre che studiare intende divulgare? E che intenda divulgare lo dimostra il fatto che l'articolo sia stato pubblicato! Per me non si tratta di una questione di rispetto nei confronti di menti più povere che intendo soccorrere. Si tratta di ben alto. Non mi va che si usi quel che di fatto è inutile. Un linguaggio specifico crea degli esclusi e mi è accaduto troppo spesso di scoprire che dietro la fatica di una decodifica si celasse il nulla o quasi. Penso che una mente ottima non intenda perdere tempo in fronzoli. Non sto parlando di arte, ma di intellettuali e il rimprovero che Guareschi rivolge alla moglie ci fa comprendere che qualcuno che era un discreto cervello già allora, nel 1954, aveva compreso che l'intellettual-ismo, come tutti gli -ismi, altro non è che un tunnel senza uscita nel quale ciechi accompagnano altri ciechi che pensano di seguire uno che ci vede benissimo ma che è sicuramente da un'altra parte proprio perché ci vede. L'idea, la qualità, son prodotti altamente individuali che vanno condivisi e l'-ismo, qualsiasi -ismo, anche il più celebre altro non è che un branco di menti povere che seguono uno o forse due grandi menti, imitandoli e appropriandosi di differenze minime che non avrebbero senso se non attaccate al carro della grande idea, della grande mente.



È poi di una banalità sconcertante una asserzione assegnata a Plechanov. La riporto: “si potrebbe dire che la narrazione storica incentrata su di una personalità significativa porta in primo piano , com'è giusto, la questione sempre viva del -ruolo della personalità nella storia-”.

A me sembra che si tratti di una definizione ovvia. Acquacaldismo1 puro che sommata a linguaggi tecnici non necessari fanno dell'intellettual-ismo un pagliaccio inconsapevole che pensa di essere elegantissimo.



É invece secondo me assai discutibile la seguente frase: “...intorno alla peculiarità del genere biografico di cui ravvisa la funzione per così dire complementare rispetto alla storiografia -alta-.....”

Si deduce che esiste una storiografia alta e le altre forme di studio della storia le son gregarie.....

mah..... secondo me han pari dignità e a volte è più importante partire da una biografia o da un romanzo, che da una serie di date ed eventi, e non dico che si debba agire così per accalappiare lettori. Non ha senso leggere un testo di storia delle superiori, per esempio la seconda guerra mondiale e basta. Io, se dovessi consigliare qualcuno lo farei partire da “Il rogo di Berlino” o/e “Lasciami andare madre” di Helga Schneider, oppure “Se questo è un uomo” e “”La tregua” di Levi. Per la prima guerra, ad un italiano consiglierei prima di tutto “Un anno sull'Altipiano” di Lussu. So che così comprenderebbero che è accaduto qualcosa di colossale e anche orrendo. Così si ricorda. Cosi si ha lo sprone per comprendere e proseguire nello studio. In un libro di storia “alta”, milioni di morti si riducono ad un bilancio che non ci fa tremare e questo è scandaloso, imperdonabile. Quella che “Canfora” definisce storia alta è poi troppo spesso una visione di parte. Ho testi sulla strage di Katyn, testi d'epoca, che furono storia alta per i russi con una verità che si rivelò manipolata..... ed è solo uno degli esempi possibili. Ricordo un cero Cardini, che di solito è “in gamba” aver asserito con convinzione che le crociate non son mai esistite.... Un uomo, per quanto si sforzi di essere oggettivo, sarà sempre guidato da una sua “visione del mondo” (si faccia caso che non lo scrivo in tetesko come fanno sempre gli intellettuali più per darsi un tono che per altro) una morale, e l'articolo medesimo di Canfora ce lo dimostra con la citazione da Gibbon che ora riporto: “ Adriano si mostrò volta a volta principe eccellente, sofista ridicolo e geloso tiranno”. A me sembra che a parlare sia un emissario di “Novella duemila” e non uno storico.... e poi, a quante personalità possiamo aggiustare quella definizione? Tante, troppe...... e poi ancora. Immaginate please un indocente che deve far giornata e agogna ad una briciola di fama. Se non trova nulla se lo inventa ed ecco le crociate di Cardini. Quanti personaggi più meno celebri son stati per qualche mese, di solito d'estate, tacciati di omosessualità, per esempio? Quindi la vera storia, quella che loro e non io pretendono con la s maiuscola, di inquinamenti ne passa talmente tanti....che è meglio filtrarla bene prima anche solo di annusarla!



Ma gli intellettuali, e la loro forma più feroce, gli “indocenti”, non son molto elastici. Vi racconto un fatterello che la dice lunga in proposito. Avevano invitato a Bologna in università un celebre specialista della rivoluzione francese a nome Vovelle. Teneva una conferenza e poiché temevano che nessuno si sarebbe presentato vennero a chiedere la presenza ad alcuni di noi studenti, in fondo per coprire le sedie. Avevo comperato da poco un suo libro e non lo avevo ancora letto. Per me si trattava quindi non solo di scaldare una sedia. Questo signore parlò, tradotto al volo da un collega e la cosa andò abbastanza bene. Verso la fine, gli indocenti, immaginate abiti scuri, cravatte regimental, (la medesima divisa dei politici....e che sa di corvo) si aggirarono fra le sedie chiedendoci di fare qualche domanda, che non si poteva mandar via un simile luminare che era arrivato da Parigi, senza dargli almeno questa soddisfazione. Io una domanda ce l'avevo, e la amavo molto. Chiesi se non riteneva importante la lettura de “Gli dei hanno sete” di Anatole France per la comprensione dell'atmosfera che si respirò al tempo della rivoluzione. Mi liquidò dicendo che quella roba l'aveva letta da ragazzino e poi era cresciuto. Me lo sono mangiato in salsa rosa. L'ho divorato e ho sputato gli ossicini con gusto. Lui, esattamente come un religioso un poco ottuso dava credito solo a quanto diceva la sua parrocchia-università. Venne per scusarsi dicendomi che forse non si era spiegato. Gli feci presente che lui passava, France no, e con quel libro ho respirato l'atmosfera tesa, la tensione della mente di rivoluzionari che uccisero sapendo che anche loro sarebbero stati sacrificati. Lo invitai a non essere un bigotto universitario e me ne andai indignato.



Ecco il punto. La storia alta è tutta la storia. Essa è una sensazione, non un testo. E questa sensazione nasce dall'intersezione di testi onesti che agiscono da angolature sempre diverse e concentrate nel nostro pensiero.



E ora veniamo al titolo dell'articolo. Io credo che Canfora quando lo ha letto si sia offeso. In nessun punto questo studioso dichiara che una biografia smentisce il romanzo della Yourcenar. Egli ci ricorda con belle parole che Yves Roman, nella prefazione al suo nuovo libro sull'Imperatore Adriano, dichiara che il libro della Yourcenar sul medesimo argomento, gli era “onnipresente alla mente durante la redazione”. Questa considerazione è un bel complimento all'opera della grande belga, non certo una smentita di qualcosa.



E come potrebbe essere altrimenti! Canfora e non meno Yves Roman sanno sicuramente che la Yourcenar scrisse “Le memorie di Adriano” perché aveva qualcosa da dire....



Si può anche ricordare anche il motivo che la portò alla scelta di quell'imperatore e non di un altro: si era in un'epoca nella quale gli dei erano alla fine e Cristo non era ancora entrato in gioco. Si poteva supporre quindi un uomo che agisse secondo una morale dettata dall'interno.

E' evidente che per creare questo “gioco” artistico unico, di un essere umano che per una casualità di date può essere padrone delle sue scelte, la scrittrice si sia potuta servire di dati di fatto storicamente certi. Evidente si, ma non era comunque necessario. Se avesse deciso di far passare l'imperatore da Bagnacavallo, sarebbe stata libera di farlo.



La Yourcenar, con “Alexis o il trattato della lotta vana” scritto a ventiquattro anni, inaugurò un'opera lunga una vita incentrata sulla liberazione dai vincoli della morale per accedere pienamente a sé. Essere ciò che si è, mentalmente, sessualmente. Discorsi enormi e delicati. Siamo in un epoca di Cristo, certamente un po' sgonfia, ma è facile constatare quanto ognuno sia altamente moralista con la vita degli altri e liberatorio con la propria. Quel che la Yorcenar ha tentato di insegnarci è grandioso e mi fa sorridere immaginare la reazione privata di certi parrucconi dell'alta cultura di quei tempi che videro pubblicate la “Recherche” e l'opera di questa scrittrice. Non si tratta di rompere i vetri con Proust e Yourcenar. Scrivono in modo eccezionalmente bello. Se decidiamo di sottolineare le parti memorabili, delle “Memorie di Adriano”, consumeremmo sicuramente più di una matita. È con questa consapevolezza che Yves Roman, non riesce a staccarsi da quel romanzo che è da considerare una delle perle del novecento mondiale. Purtroppo sta nascendo l'equazione Yourcenar-memorie di Adriano, che come le Saint Exupery-piccolo principe, Kafka-metamorfosi, e tante altre, annullano la visibilità di una serie di opere di questi autori che meritano non meno, la nostra attenzione.



Ma...e quel titolo? Com'è potuto accadere che un articolo in fondo onesto e interessante sia stato “coronato” da una simile stupidata? “Il vero Adriano pubblico e privato” per uno storico assennato è un'utopia consapevolmente irraggiungibile. Il suo sogno è di aggiungere una postilla, un chiarimento ad un tema che sa essere infinito e sfuggente lungo la linea del tempo. E il sottotitolo che parla di smentite! Ma come può un'opera d'arte come “le memorie di Adriano” essere smentita da uno storico! Si tratta di “oggetti talmente diversi! È come se mi chiedessero se preferisco la carbonara o il tiramisù. Io non sceglierei ma inizierei con una e terminerei gaudentemente con l'altro. E penso che in pochi agirebbero diversamente se la salute ce lo permette. Niente smentisce la grande arte. Essa apre la mente. Se la sua lezione è colta la vita si farà più accettabile, un ostacolo sarà superato, eliminato, per noi, per tutti.



E io immagino appunto i parruconi in camicia bianca, gilet, panciotto, catena d'oro con ninnoli che ondeggiano e giacca tipo guscio di Scarafaggio (vedere i disegni del Latrec a Tolosa per convincersi....), che leggono con piacere quasi estatico Sodoma e Gomorra I e poi, come per disincanto si rendono conto che han letto roba di “omosessuali”, ma non riescono ad inorridire. Non capiscono come mai ma non accade. Vorrebbero ma.... ed ecco che con la bellezza suprema della penna Proustiana un argomento tabù si fa strada anche nella mente di chi “li ammazzerebbe tutti”. E La Yourcenar, che nella sua opera sdogana una libertà completa fino al dramma che ci lascia sconvolti, ultima barriera difficilmente sormontabile senza inorridire, che è in “Anna, Soror...” e in quel dubbio immane e tragico ci lascia a noi stessi e a pensieri enormi.....questa è vita. Sì. Il pensiero che si fa strada, che ci fa umani e divini. Quel Melville che dal Moby Dick e da racconti perfetti come “Il venditore di parafulmini” e “Bartleby lo scrivano” ci mostra la sovranità della natura sull'uomo, perché l'uomo ne è parte e deve accettarlo, volente o nolente.....figlio di una madre alla quale non si sfugge. O Kafka e l'infinita sensazione del dio sfuggente che si annulla nell'amore di Dora, e Fitzgerald che ci ricorda il valore struggente e spesso mortale della nostalgia.... e Brancati che ci mostra l'uomo, il maschio, talmente vittima adorante della donna da desiderarla, e non desiderare altro, ma anche da annichilirsi così totalmente in quel desiderio, in quella meta, che quando l'ha raggiunta, poiché comunque è raggiungibile nella realtà non più sua, è ormai una larva, un impotente, consumato, distrutto, vinto e soddisfatto dal desiderio. La luce potente di eros che solo nel mostrarsi e non nel realizzarsi, incenerisce e realizza.



È grandioso nutrirsi di questi doni, e molti non li ho citati.



E quel titolo, non certo di Luciano Canfora, rende tutta questa possibilità, banale. Ci riesce in un attimo, con due parole buttate li in modo irresponsabile.



Propongo che l'autore di quel titolo venga punito con la lettura integrale delle opere di Faletti e Camilleri (Montalbano. Il resto lo rispetto), e se non ha compreso profondamente, nel suo intimo cos'è la lordura, che si passi a “Guerra e pace”, a “Il Castello” e “Delitto e castigo”, così brucerà sul rogo della sua banalità rivelata nell'atto della consapevolezza della non comprensione di quei testi.



Per un attimo, scrivendo di Tolstoj, mi è venuta in mente quell'eroina tragica che fu Anna Karenina. La sua vita finita in un vicolo cieco, rifiutata dalla mondanità, dalla norma e trionfante di sensualità di vita. Si gettò sotto un treno e si risolse nel nulla. In “Alexis” un essere umano, e per favore sforziamoci di vedere in Anna Karenina non solo la donna ma appunto l'umano puro, nessuno va sotto il treno, nessuno si arrende alla finzione. Vince la vita. È un filo sottile che lega quelle opere, se solo si volesse pensare appunto all'essere umano e non a problemi di uomini o di donne.



amen



1La pseudoscienza che ci fa scoprire che l'acqua calda è calda, che gli asini non volano eccetera eccetera eccetera.

giovedì 17 novembre 2011

Contro la politica attuale....e non solo

Questa mattina, Giovedì 17 novembre 2011 mi è accaduta una cosuccia che mi ha veramente stupito. Non sono a Roma in questo momento e comunque, mentre uscivo da un caffè affollato, una persona che anni fa si impegnò in dialoghi seri e che fa, udite udite, il politico, mi ha salutato calorosamente raccontandomi che proprio ieri mi aveva pensato. Ho risposto che ne ero sorpreso poiché sono anni che non ci si vede nemmeno per caso e lui mi ha raccontato che, mentre sentiva appunto ieri l'elenco dei ministri nominato da Monti per il suo nuovo governo, ha chiuso gli occhi e sperato di sentire, per la cultura, il mio nome. L'ho guardato sbalordito. Nel piccolo dialogo che è seguito a questa sua considerazione ho potuto appurare che non era uscito di senno e nemmeno che mi stesse prendendo in giro. Gli ho detto “ma io sono un signor nessuno!” e lui ha reagito negando con calore. Disorientato. Ecco come sono uscito da quel bar e infatti la macchina, nel parcheggio non l'ho trovata subito. Non sto scherzando.



Le mie riflessioni mentre guidavo, e una volta a casa, mentre scaldavo il minestrone, erano slegate, incapaci di farsi coerenti, e poi pian piano hanno iniziato a girare intorno ad un centro che si faceva sempre più chiaro e definito.



Non avevo dubbi sul mio narcisismo, che dorme sonni profondi da tempo immemorabile. La scoperta del dolore, della morte, della fatica del vivere, del modo stupido di condurre l'esistenza da parte di una maggioranza della quale a suo tempo facevo parte, che forse sa ma non ci vuol pensare oppure è talmente presa dai sensi da non comprendere che c'è qualcosa da sapere, da accettare più che comprendere, se non si vuole alla fine rimanere sconvolti, angosciati, dalla vecchiaia e quel che ne segue.....sì, svegliarsi quando è troppo tardi e voler dare un senso alla vita quando è già volata via. E nell'età del pensiero che è quella dell'anziano, ritrovarsi a sfogliare, nell'archivio dei ricordi, solo reazioni emotive. Rammento di Borges, l'inizio di “elogio dell'ombra”: -La vecchiaia, questo è il nome che gli altri gli danno- potrebbe essere un periodo stupendo, è morto l'animale, o quasi è morto / restano l'uomo e l'anima.....-

Vedere i doni della vita, saperli comprendere. È un caos invece; un caos completo quello che sento intorno a me. Un caos aggressivo, follemente individualista. Non ho quindi il tempo per essere fiero e vantarmi di qualcosa che ho fatto o non fatto e della considerazione di quella persona non so che farmene. Anzi, scoprire che qualcuno che è di quella “strana” parrocchia, abbia pensato a me per quell'incarico ha il potere di sconcertarmi.



Non sarei in grado di accettare un posto del genere prima di tutto perché, come ho avuto occasione di dire spesso, rifuggo da ogni ruolo che contenga anche solo una briciola infinitesima di potere. E non è un lavarsene le mani. Un ministero, come in fondo tutti i ruoli assegnati dalla politica, è prima di tutto una posizione privata di potere. Innesca particolarmente in Italia quella malattia che la sociologia ha definito “familismo amorale”. È stato triste veder coniare un nuovo vocabolo per un male antico. Si dice nepotismo e io per scherzare, amaramente, amo dire “nipotismo”. Cosa me ne faccio di un ruolo che comunque in generale non ha molta capacità di agire? Una democrazia si basa sul compromesso e la burocrazia; ambedue queste tenie richiedono tempo e intanto, per esempio, Pompei va in briciole.... e poi....



E poi per agire bene è necessario conoscere la storia degli uomini che quasi sempre non è veritiera. Qualche accenno: La battaglia di Waterloo non è stata vinta per abilità tattiche dell'uno o dell'altro. Il motivo è tecnologico; il generale Henry Shrapnel aveva a disposizione dei nuovi obici che poi da lui presero il nome e son noti a noi solo dalla prima guerra mondiale. Sempre Napoleone; perse la campagna di Russia non per merito del “generale inverno”, ma per un attacco di emorroidi, male di cui andava soggetto, e così dovette star coricato col sedere per aria nella sua tenda. Non ne voleva sapere di far avanzare le truppe senza il suo personale comando quindi partirono in ritardo e l'inverno fece il resto. L'esito della prima guerra mondiale è stato deciso da una sola persona. J.P. Morgan. Questi era più potente degli Stati Uniti. All'epoca anche Rockfeller era a quei livelli e in Europa Krupp e Rotschild. Come nel rinascimento un regnante poteva chiedere in prestito ad un privato cifre colossali, così accadde durante il primo conflitto. Si pensava che sarebbe durato sei mesi o poco più e divenne presto chiaro che avrebbe perso l'economia che per prima avesse ceduto. Morgan aveva crediti con ambedue i fronti, ma quelli con gli imperi centrali riguardavano cifre minime mentre gli altri, dovevano cifre enormi. Quest'uomo fece due conti e comprese che Francia Italia and company dovevano assolutamente vincere perché si sa che chi perde o non paga o ci mette un sacco di tempo. Costrinse gli Stati Uniti a scendere in campo con la parte che gli conveniva e lo scontro fra due economie, che era favorevole ai due imperi, foraggiato di armi e tutto quel che poteva servire, prese la direzione che questo singolo uomo aveva voluto. La storia si è incaricata poi, di far “vestire” l'abito della morale a quel che era accaduto. Statunitensi come liberatori. Imperi, quindi istituzioni vecchie, contro democrazia, che son il nuovo che avanza.

Altro falso storico. Gli Stati Uniti non sono una democrazia. Si travestono così ma si tratta di una situazione peggio che ateniese. Governa una casta ristretta e anche le elezioni del presidente sono una farsa. Ci son le prove che la seconda elezione di Bush figlio son state pilotate e il trucchetto sta nel gestire lo spoglio elettronico delle schede. Questo avviene in uno stato che era in mano a qualcuno che faceva parte della cosca Bush. Le elezioni negli Usa sono un bel gioco che serve per appagare la massa con l'illusione della democrazia. E il gioco funziona.

Italia. Il fascismo fu un'esigenza degli industriali che temettero gli scioperi rossi e i tumulti popolari. La popolazione viveva e vive in una mentalità tribale che cerco di spiegare facendo un parallelo con il Marocco. Questo stato ha un re e vari gruppi che fanno capo a persone che parlando col re cercano di fare gli interessi dei loro accoliti. Se ti serve qualcosa, che si tratti di una commessa da milioni o un piccolo incarico, devi seguire la gerarchia e arrivare al punto che può sbloccare. Spartizioni quindi, e interessi di gruppo che si sgranano poi in individuali. In Italia i gruppi politici e qualche “setta” ad essi trasversale, hanno in mano il sistema delle raccomandazioni e si spartiscono” gli incarichi. E non si pensi solo a docenze, presidenze onorevolati, senatorati e consiglierati di vario lignaggio (che si valuta in base all'appannaggio). Ho saputo da diretti interessati di posti per le “pulizie” assegnati in cooperative bianche o rosse..... e qui entra in gioco quello che io chiamo il “nipotismo” e i sociologi, familismo amorale. Qualcuno ha il coraggio di chiedere a Romano Prodi quanti parenti ha “infilato” in università e in altri incarichi nei quali prima dell'esser suoi parenti conterebbe la capacità? E l'attuale sindaco di Roma? Ho fatto solo due nomi e comunque son cose che tutti sanno e che sui libri di storia non troverete. Il punto sta nel fatto che io personalmente Prodi lo penalizzerei pesantemente e nell'unico modo che può veramente far male ad un italiano. Gli si tolgono i diritti civili e la cittadinanza, che ha dimostrato di non meritare e poi lo si spedisce in esilio. Dante e Craxi insegnano quanto un italiano si senta punito solo in questo modo e nel frattempo de Andrè ci ricorda con una canzone molto nota ma mai meditata abbastanza (quant'è bell 'o caffè, pure in carcere lo sanno fa.....) che pure in galera son capaci di creare regni e sudditi e di trovarcisi come a casa. E tutte quelle aziende che si son date la ragione sociale di cooperative non certo per fare l'interesse dei soci ma per pagare meno tasse e innescare quindi una concorrenza sleale ai privati? E il corporativismo di architetti, avvocati eccetera? E mi raccomando, ho fatto il nome di Prodi e di Alemanno solo per esempio. Ci sarebbe sufficiente prendere la lista delle persone che incassano come consulenti o dipendenti dall'azienda trasporti romana o dalla Rai per poter leggere nero su bianco una lunghissima lista di nomi che sporcano l'Italia e meritano l'esilio....ma, se veramente si potesse applicare quella condanna.....in Italia rimarrebbe qualcuno? Ho idea che si tratterrebbe di una manciata di persone che a fatica riempirebbe uno stadio dell'ultima categoria. Verità risapute che mai si faranno storia. Verità che si sanno da tempo immemorabile, ma nulla cambia poiché tutti (ammetto il quasi tutti ma appunto per una minoranza trascurabile) ne approfittano e nulla cambia poiché si è imparato ad agire così e in fondo diversamente, non si saprebbe fare. E questo malanno lo si scopre e fa male quando si va all'estero, quando ridono del nostro mi manda il tale o il tal altro. Ricordo di aver letto poco tempo fa sul quotidiano Herald un annuncio che comunicava che a Leeds cercavano un docente di storia dell'arte. Ho telefonato ed era vero. In Italia gli annunci per il lavoro sui giornali son per la maggioranza di prostitute....



Torniamo al Fascismo. Lo spettro del comunismo russo spaventava. Mussolini con manganello e fucile impose l'ordine e il re gli diede l'incarico di Presidente del consiglio e gli permise di sacrificare libertà importanti, in nome di una forzata, finta pace sociale. E come mai l'italiano non ha reagito? Perchè è suo costume non contestare più di tanto l'ordine costituito ma cercare di comprendere come mungerlo. In fondo si sa, ma non si dice, che la goccia che ha fatto traboccare il vaso delle rivoluzioni francese e russa, fu la mancanza di pane nelle città di Parigi e San Pietroburgo. Solo col pane il popolo smette di accettare la sofferenza? Sembra di si. L'italiano, più allenato di altri nell'arte di arrangiarsi, rinuncerebbe ad essa solo per la fame? Penso proprio di si. Ricordo che quando Mussolini andò a trovare a Milano il cardinale Schuster, la folla lo inneggiava. Molte di quelle medesime persone martoriavano il suo corpo pochi giorni dopo in piazzale Loreto.



Un disastro. E scoprite più cose nella letteratura che non nei libri di storia. É da Paul Valery che si viene a sapere degli obici di Waterloo. È da Victor Hugo che si scopre quel che dopo qualche anno dei resti di Waterloo si fece. Le ossa di uomini sia nemici che dei loro e dei cavalli, furono raccolte dagli inglesi e macinate. Vennero poi impastate con altra roba e vendute, anche ai francesi, come concime. Si tratta di in cannibalismo molto indiretto, ma pur sempre cannibalismo è.....



e come mi si convince che se accettassi un incarico che contiene anche solo una briciola di potere, io non venga poi considerato dei “loro?”. No. Consigliare penso che potrei farlo, ma a cosa serve visto che sappiamo benissimo cosa non va e quindi come fare perché tutto vada un po' meglio? Chi non sa che serve per esempio un'operazione mondiale di moralizzazione dell'economia? E se poi va a finire che il mio desiderio di salvare Pompei, tanto per fare un esempio, mi debba portare a impegnarmi nell'assegnazione di appalti che, si sa, non è mai “roba” pulita?



Sì. come ho detto a quell'amico al caffè, penso che mi sparerebbero dopo due giorni. Se penso a Luca Cordero di Montezemolo che approda dal suo Yacht a Ischia con la sua barchetta in compagnia di Sergio Romano e Paolo Mieli, entra alle terme e non paga con la scusa che ha lasciato il portafoglio su? Come faccio se lo vedo a non dirgli che deve andare a saldare il conto e deve smetterla di elargire sorrisi e comportarsi da duca? E Fini che va a pescare in oasi protette oltre il resto accompagnato dai pompieri? Mi rifiuterei di parlare con persone così. Troppo squallore. Chi fa queste cose e non si cura nemmeno di nasconderle, di fatto mira ad ostentare e godere della sensazione di potere che si esprime anche in forme così piccole.



No. io scrivo. Sarò escluso, lo sono già, perché dico quello che penso. E dire quello che si pensa ha il suo peso se chi parla crede in un sistema morale. Non tutti possono condividere la moralità che io desidero, ma su certi fatti, come la mania pescatoriale in paradiso di Fini e lo stile portoghese di Montezemolo, penso che tutti siano d'accordo. Il punto che però devo chiarire è che io non lo sono per invidia. Io quei pesci e quelle piante acquatiche li rispetterei e anche il lavoro degli altri....

Principii sui quali credo che la stragrande maggioranza possa considerarsi d'accordo con me. Per quel che riguarda il “nipotismo” cosa dire? Per me l'italiano non lo si cambia. È così e basta. Si è al punto che un camorrista che aveva assegnato alcuni posti importanti nell'ospedale della sua “zona”, quando si è trattato di farsi operare, si è ben guardato di andare da quelli che aveva “sistemato” lui, ma ha cercato quelli veramente bravi. Questo insegna che l'italiano, perfino il camorrista, sa che così non va bene, ma nulla cambia.



Esco di casa per fare due passi. C'è un po' di sole. La nebbia si è alzata. Noto come al solito, e con tristezza che solo la “fetta” di marciapiedi che dà sul mio giardino, è pulita. Gli altri non l'hanno fatto e non lo faranno. Non è il loro. La “cosa pubblica” non è percepita come nostra, ma come una quantità da depredare, e se davanti casa è sporco, si preferisce inveire contro i servizi che indubbiamente non vanno, ma prendere “la ramazza” e spendere l'energia di quelle parole in un gesto risolutore? no. In Italia appunto, ognuno è per sé, poi per la sua famiglia, poi per la cosca che si è scelto e lo stato è la grande vacca. Come non spiegare così l'enorme debito pubblico accumulato?



E pensare che di queste cose ne avevo parlato già anni fa con quel politico amichevole che ho incontrato questa mattina al caffè....... Mi criticava per non essere sceso in politica. Peccato che proprio il suo capo corrente in quell'epoca mi aveva messo gli occhi addosso. La sapevano tutti e tutti facevano finta di non sapere quando nel nostro ultimo dialogo lo misi davanti al fatto compiuto. “Mi vuole non perché stima le mie idee o qualche mia capacità. Vuole i miei vent'anni e se li vuole portare a letto”.... avevo così tolto la maschera ad un dialogo nel quale io facevo i conti con la realtà e lui, come tutti i politici, con ideali che nelle parole stanno bene ma nei fatti sono ingombranti, sgradevoli. Rifiutai di entrare nel letto di quel signorotto della politica ed egli si trasformò in un nemico. Cercò di farmi capire che non potevo scegliere. Non l'ho assecondato e per un certo periodo, finché non gli sbollì la foja, mi fu impossibile trovare lavori decenti e dialogare con tutta una serie di persone che mi aveva messo contro. Quel che ricordo con comica amarezza, è che tutti sapevano quel che era accaduto, ma lui era il potere, era l'elargitore di possibilità e le mie passavano in quel specifico caso per il mio sederino.



no. mai accetterei un incarico di natura politica e tanto meno se dotato di qualche briciola di potere. Mi ammazzerebbero, come ho già detto, dopo due giorni. In politica, la morale è di facciata, è il vestito. Per me dopo anni di esperienze e anche di errori, non è più così e preferisco stare nel mio piccolo spazio, e presente nel mondo solo con un minimo di parole nel mare infinito di internet.



Dopo aver parlato di queste cose ho come la sensazione di essermi sporcato le mani.

Non voglio che accada. La letteratura, le arti, sono l'ambiente che mi fa sentire a mio agio. E non si tratta di un “mondo” scollegato, di una fuga della realtà. Mi viene in mente ora un racconto che scrissi a Oxford nel 2003 e pubblicato nel mio volumetto intitolato “otto racconti”. In esso parlo del presente, di una reazione estrema ad una situazione generale che a me già allora sembrava insostenibile. Mi hanno appena detto che gli studenti della Bocconi si son ribellati ai nomi scelti dal nuovo presidente del consiglio e loro se ne intendono perché mi risulta che il loro capo cosca ovvero rettore, abbia incassato una poltroncina..... è bello vedere che son scesi in piazza arrabbiati in tutta Italia. Penso anche con ironia, poiché solo uno scemo può dire certe cose, alle parole di Gramellini, firma de “La Stampa” contro le violenze accadute di recente a Roma. Rimango dell'idea che siano stati infiltrati dello stato per poter mettere in cattiva luce una manifestazione sacrosanta e comunque, non ci si deve meravigliare della violenza poiché essa appare quando il dialogo si fa inutile. Quei ragazzi si giocano il futuro. Per ora non hanno niente e quindi non perdono niente, ma son spaventati dall'enormità che la generazione precedente intende mettere sulle loro spalle. Io mi sento dei loro. Non ho vissuto perché non mi è stata data la possibilità di farlo. E tutta la mia generazione, che non è vecchia ma non è neppur più giovanissima, è stata “saltata” a piedi pari. Ricordo anni fa lo studio di un'università degli States. Dimostrava, dati alla mano, che in Italia mancava una generazione nei posti che contano. Lo dimostra ampiamente l'età media del nuovo governo. La mia generazione, che a questo punto devo definire intermedia, sta sparendo inosservata. O è stata troppo debole o ignava, ma non certo io, oppure il “nemico” era troppo spietato. Non lo so. So che se questi che sento un po' miei, faranno rumore li capisco. Deploro la violenza ma è fisiologico che accada quando che dovrebbe meditare non ascolta nemmeno e oltre il resto, che senso ha che ascolti, visto che conosce bene il proprio gretto male! La mia vita quotidiana è stata ed è un continuo sopravvivere e constatare che la morale è un lusso per pochi. Un lusso che comunque mi son concesso pagandolo carissimo e continuerò a pulire la mia fetta di marciapiedi davanti a casa ricordando a me stesso che faccio parte di una comunità e ….credo che ormai qualcun altro stia iniziando, a sua volta, a scoprirlo....

domenica 6 novembre 2011

Una domenica mattina

Questa mattina mi sono avviato di buon'ora a fare due passi. Il cielo prometteva acqua e infatti dopo pochi minuti sgocciolava. Non ho desistito e ho cercato un po' di verde e della terra da sentire sotto i piedi, sensazioni che sono come una messa, come un ricordare che la natura mi è madre e questa madre per quanto agisca secondo leggi che non amo, è talmente onnipresente che non la si può evitare. Anche nel centro di Manhattan, verrai sorpreso dall'alba, questo spettacolo troppo barocco, sempre diverso ma in fondo sempre uguale, e rimani sorpreso di te stesso quando, come il pigmeo che Schweitzer descrive, senti uscire un “Oh!” di meraviglia. Non lo emaniamo noi. È il corpo, che della natura è completamente figlio e sente spesso questo legame in un odore, anche in una forma di violenza che razionalmente aborriamo ma che dal basso, da un profondo terribile eppure nostro ci affascina ovviamente con sgomento. Io della natura accetto il legame ormai quasi come una sudditanza. Non accetto la sua lezione sui sentimenti che li vuole transitori. Anche l'esperienza mi dà torto, ma non posso vivere nessuna relazione, se in essa mi è tolta la possibilità di ipotizzare, sì, almeno ipotizzare, una forma di eternità. La natura dice che colui o colei che amerai, anche solo per abitudine o amicizia a qualcosa soccomberà, forse a se stesso, ma accadrà e se vuoi dimostrare al mondo o a te stesso ma in fondo solo alla Grande Madre che hai compreso, dovresti non dimenticare che chi non è più distinguibile per affetto, diventa preda, cibo, qualcosa di semplicemente usabile.

No. non lo accetterò mai, anche se è una realtà che anche solo passeggiando in un bosco, ci si rivela. Quando dico che ci vuole una morale, che questo decidere che non esiste, che è decisa arbitrariamente dall'uomo, è orribile; quando lo dico è perché una morale, che ovviamente limita il nostro agire, ci permette di comprendere che la natura e la sua filosofia feroce, altro non è che un punto di partenza. Ad essa ritorna solo il corpo e sarà cibo, nutriente per fiori piccoli e oscuri, sgradevoli animaletti. Ma se lasciamo quell'abito e non possiamo fare diversamente, perché nella vita sociale, l'unica che ci rende percepibili a noi stessi, si deve arrivare al punto che nessuno è affidabile? Che nessun volto è volto, ma tutti maschere talmente ben portate che spesso ci si è dimenticati di averle indossate? Sì, metterle non è un atto volontario bensì indotto da un tirocinio della vita, da una somma di esperienze che ci fanno capire quanto sia necessario ripararsi dietro la maschera appunto. Anticamente, molto anticamente, la maschera permetteva di essere un altro. Spesso un dio. Nel teatro, successivamente permise di essere a discrezione del ruolo assegnato e non scelto, o un dio o un uomo. Oggi la materia si fa subdola. La maschera copriva il volto, ora solo gli occhi. Sì, gli occhiali. Se negli Stati Uniti ci si sofferma troppo ad osservare una persona, si rischia la querela. Non scherzo. Possono raccontarci che gli occhiali a specchio son più protettivi, ma lo sappiamo benissimo che permettono agli occhi una mobilità, un'impunità che diversamente sarebbe considerata invadenza e anche di più. E pensateci. Quando comperate i sunglasses, forse involontariamente, selezionate lenti che occultano lo sguardo. E non si agisce così con piacere. Si vorrebbe poter guardare liberamente, ma per farlo ci vorrebbe un minimo di educazione. Sguardi che sembrano toccare, spogliare, infilarsi in anfratti detti anche scollature, son fastidiosi e lo sappiamo. Bisogna imparare a guardare. Saper guardare. E ormai anche per agli uomini può accadere di dover sostenere uno sguardo invadente e anche dal punto di vista sensuale. Ma non solo lo sguardo deve essere addomesticato. Anche il viso. Nelle culture neolatine, di solito, lo sguardo deve parlare e parla eccome! In Francia, questa Francia imbastardita fra Inghilterra e Mediterraneo, troppo vicina al nord per poterlo ignorare e con i piedi nel sud per non poter fare a meno di una relazionalità sensuale, non fa testo. La Francia è la Francia e basta. Ma l'Italia, la Spagna, l'America latina, san fare complimenti con gli occhi. Complimenti che spesso appagano anche se si deve far finta di non gradire e questa recita fa sorridere.... e poi vai in Gran Bretagna e....ricordo il mio primo viaggio. Scrivevo appunti brevi su un quadernetto con un Gauguin come copertina. Dopo una settimana, vedo due Punk (si scrive cosi?) che si baciano. Son seduti in un parco. La panchina, viene usata in modo molto personale. Il sedere appoggia dove dovrebbe stare la schiena e i piedi dove dovrebbe stare il sedere. In Italia, questo è un atteggiamento adolescenziale. Da loro ho capito che è un tentativo di protesta. Per loro l'abito, come se proseguissero un discorso iniziato nell'antichità, parla, definisce, protesta. Ed ecco cos'è un Punk: colui che osa e va contro le convenzioni. Non si guardino creste multicolori o giubbotti borchiati, facce truci e passo tipico di chi deve dare inizio ad una rissa. no. È tutt'altro. E in quella pagina del quaderno che battezza il settimo giorno in Gran Bretagna, scrivo che mi son reso conto che, per la prima volta ho visto due persone che si baciavano, ed erano quei due punk sulla panchina..... sì. Per i britannici l'abito è ancora distinzione sociale. Un minimo cambiamento è un grido dell'io e negli anni sessanta quell'io ha gridato molto. Non può essere diversamente per un popolo che vive ancora in una società strutturata in classi sociali. E così capita che sei in tram e “senti” degli sguardi, alzi gli occhi e immediatamente, come l'ombra delle rondini sul muro, volano via. E nervosamente, perché sanno di essere stati colti nell'atto illecito di osservare. Loro guardano a terra o fuori dal finestrino in modo fintamente distratto e io sorrido, ma amaramente. Questa è mancanza di libertà, alla quale soggiacciono inconsapevoli che di prigionia si tratta. Il pensiero, come ci raccontava Orwell, deve rimanere chiuso nel cervello e non va rivelato. Quel pensiero siamo noi e se lo riveliamo non abbiamo più un io e senza io si è nulla. Orwell insegna che si dovrebbe resistere all'insulto finale che in 1984 è descritto con una gabbia che contiene topi e che viene immersa nella testa. Si potrebbe aprire una finestrella e fra noi e quella bestia che è percepita come immonda, non ci saranno più difese.... sì, Orwell dice che si deve resistere anche a quello. La società vuole tutto, per soggiogarti. La Gran Bretagna è bella. Ricordo a Oxford, le papere che raggiungevo con un pane appena comprato. Mi sedevo per terra e lo spartivo. Mi rideva il cuore. E il cavallo che passò per William Street, dove stavo, e “assaggiò” la posta che non si rivelò di suo gusto, e l'immenso rispetto per i cani, e i gatti e perfino e giustamente anche per i criceti. Nei mondi che ci rendono soli, individui troppo individuali, ci si lega agli animali, che sempre senza maschera ci dicono se ci amano o se ci temono. Nella cultura di quel nord, si faceva il baciamano solo alle donne sposate. Farlo alle nubili era considerato lascivo, licenzioso. Ma come potevi saperlo? Nulla nell'abito lo rivelava. E qui si scopre il punto critico. Devi conoscere l'altro. Pretendere di aver a che fare con chi non conosci non è tollerato. Se ti interessa parlare con qualcuno, devi farti presentare. Ecco contro cosa lottavano quei ragazzi punk seduti nel parco. Ecco la liberà che invidiano al sud dell'Europa, che trovano volgare, sporco e disordinato, non perché lo sia, ma perché son attributi che si danno senza ragionare alla volgarità. Che sordide leggi! Ed esistono ancora. Smorzate ma le ho toccate. L'elite finge noncuranza, ma ci sta accuratamente attenta alle sue leggi. Un tempo era giusto, razionale quel che rispettava la procedura, nei riti come nella società. Quella è ancora la radice di troppi comportamenti che ci faranno sorridere solo quando nell'educazione impartita, sarà ridotto al minimo quell'intento che l'ha resa feroce, ingiusta, maschera, ovvero il dominare l'altro. L'unica regola deve essere il rispetto. Uno sguardo per esempio non ferisce, ma deve farsi spazio piano piano.



E camminando con le scarpe che si appesantiscono di terra e la pioggia sottile che mi costringe ad un cappuccio che mi fa pensare, con un sorriso, ai frati, raggiungo il caffè. Bastan due volte ad un essere umano tendente alla socievolezza per fare abitudine e se alla terza quel dato signore manca ci domandiamo come sta. Questa è la poesia originaria del vivere civile, come quella della natura, in cui ancora presente è quella del pigmeo di Schweitzer e del suo verso di fronte ad uno spettacolo naturale, che ancora sento sgorgare in me e incontrollatamente uscire. Se poi riuscirò ad unire l'istanza del mio essere sociale con la natura, ecco che sboccerà qualcosa, di positivo, che non ha bisogno che di una regola, la tensione verso la felicità del corpo e della mente, insieme.



Mi impossesso di un quotidiano e già alla prima pagina sorrido. È il sei novembre. In prima pagina de “La “Stampa”, brilla quello che è considerato un errore grammaticale. Un sottotitolo di un articolo dice “una coppia di alpinisti da mercoledì sono bloccati sulle Grandes Jorasses”.

Sento discutere da quei volti ai quali sono abituato da pochi giorni. Quel “sono” plurale su un soggetto singolare, brucia. I giornalisti, per l'ennesima volta si beccano vari improperi che son giusti quasi sempre, ma questa volta mi oppongo. Faccio presente che un paio di anni fa il cardinale di Genova disse, in un'intervista, “la gente fanno” e in un libro di narrativa di Pavese che è piemontese come quel giornale, in una prima pagina c'è qualcosa di simile. Invito a non indossare la rigidità dei benpensanti. Dico che la lingua non è immobile, che cresce e si spera che si semplifichi e che riesca a supportare o sopportare meglio i significati. Tante volte, se ci si fa caso, non troviamo frasi che sappiano contenere quel che vogliamo dire. I nostri pensieri son creature della lingua e la lingua è una nostra creatura. Un cerchio che si fa virtuoso se non si perde di vista il fine.



Una pacca sulla spalla, mi offrono il caffè e mi dicono che effettivamente, visto che tutti sanno l'inglese, il people dagli inglesi, vuole il “sanno” e non il “sa”.... rispondo che si tratta di una chimica più complessa. Il soggetto singolare che contiene un molti è fastidioso. Troverei più bello (che è qualcosa che va oltre la correttezza) veder scritto e sentir dire che le “genti sono”. In fondo people si regge su un articolo (mentalmente intendo, di fatto the people non si dice) che include tutto, il maschile, il femminile, il neutro e anche il plurale e il singolare. Penso quindi che gli inglesi dicano “le genti sanno” e non “la gente sanno” che comunque almeno per me suona stonato. Per un dittatore la moltitudine è un'unità, ma per me e per il mio cane, e rispetto le sue lezioni, essa è un insieme di singoli piacevolmente diversi.



Mi sono anche messo in tasca un tovagliolino. Ho riportato un frase letta sulla gazzetta dello sport. Fabio Cannavaro avrebbe detto in un'intervista “La Juve è l'Avversario, il potere. Ne so qualcosa anch'io quando tornavo”. Mi domando. Si tratta della trascrizione esatta di quel che il calciatore ha detto o di una trascrizione del giornalista? È solo questione di decidere chi è “messo da ridere....”.

Il giornalista che comunque trascrive una frase del genere o è messo male o intende sottolineare la “messomalanza” di un calciatore e per esteso di uno sportivo. Son mosche bianche quelli che san fare qualcosa di più che gestire il corpo nella loro attività. Ricordo per esempio Pessotto. E nel frattempo non dimentico le interviste ad Alberto Tomba, e penso di non essere l'unico. La prima volta che lo sentii, il giornalista gli chiese se nel tempo libero andava in discoteca e si coglieva che la ben poco sottile sottigliezza intendeva indagare se viveva come un asceta per accedere a grandi risultati oppure era un talento naturale che era in grado di rinunciare a ben poco della vita quotidiana. Ebbene lo sciatore rispose: “No, io in discoteca non ci vado mai però ogni tanto ci vado”. E mi domando se in un mondo come quello dello sport che attualmente si fa visibile nei media solo se supera un certo livello di resa economica, per intervistare menti così terra terra, serva una cima.... e così mi spiego gli strafalcioni che si leggono o sentono nel giornalismo sportivo. Devono parlare di poco, e quel quasi nulla deve riempire una marea di pagine. Non è semplice. E l'elementarità spesso al limite del ridicolo di certi sportivi, che vengono sorretti solo finché rendono soldi, fa il paio con giornalisti del medesimo livello. Qualcuno si domanda ancora se Alberto Tomba vada in discoteca? No. È pulsione di un attimo. Il solito inesistente presente che nell'essere stato definito come qualcosa di diverso da passato e futuro, si fa invadente e quasi unico protagonista. Ora altri idoli “tartagliano”. Brilla un Gattuso che dice di non dimenticare mai che se non “se la fosse cavata” col pallone sarebbe finito in una fabbrica e la sua sincerità semplice piace anche a me. Brilla neramente sull'Italia il comportamento ai mondiali di Materazzi che insulta Zidane. Questi reagisce con una testata che è più simbolo che danno. L'italiano cade a terra, si rotola nel suo finto dolore e ottiene l'espulsione dell'eccezionale rivale. Ci sta che il francese venga mandato fuori. Mai reagire, ma considerare positivamente il comportamento di quell'altro giocatore è sintomo di qualcosa di molto brutto. Il messaggio che passa è che tutto è lecito per vincere non solo nel calcio, ma per esteso anche nella vita. Ricordo un calciatore tedesco che ai mondiali dopo aver segnato fece un gestaccio rivolgendosi ai tifosi avversari. L'allenatore lo “mise giù” e a fine partita lo spedì a casa. Motivi? In quella situazione lui rappresentava la Germania e aveva agito in un modo che la sua nazione non considera proprio. Non voglio certo dire con questo che i tedeschi siano migliori. Difetti ce ne son ovunque e si fan pregi a seconda delle situazioni, ma almeno lassù hanno compreso che uno sport amato da un popolo viene percepito anche come palestra morale..... mah. Fortunatamente mi sono emancipato dallo sport. Se diventassi direttore di testata, penso che lo eliminerei completamente. Non serve scriverne sui quotidiani. Le notizie di quell'argomento son invadenti, potenti. Tanti anni fa la domenica pomeriggio la radio la sentivi ovunque. Poteva venirti il sospetto che ormai anche il vento parlasse di calcio. Ora è presente tutti i giorni. Un oppio a poco prezzo. Un bel giornale che se ne dimentica anche di lunedì..... sì, mi piacerebbe. Perché per come vanno le “cose” ora, sembra che conti più lo sport, della cultura, dell'arte, della storia, dell'ecologia, della pace (degli altri), della fame (sempre degli altri), eccetera.





Per aver fatto quel ragionamento su “people”, mi costringono bonariamente a bere un altro caffè , offerto anche quello. Solo vent'anni fa, questi piccoli premi per una discussione da Caffè, sarebbero, sarebbero stati grappe o Campari. Due dosi di caffeina le reggo, ma poi scappo e torno coi piedi nella terra e volo con la mente alla sensualità di Granada, sarà un luogo comune finché volete, ma ricordo che anche la curvatura di una caraffa era femminile, e il fiume, e il passo delle donne e il mordere di una pesca di una donna ormai negli anni, ma che in lei si fa ancora un gesto felino che scalda il sangue.....



dimenticavo... quel che ho meditato sullo sport in quel porto di mare che è un bar, non l'ho detto. Lo dico qui e lo getto nell'immensità, nell'infinito del web. Mi spetta l'oblio come premio finale, e così spero anche per le mie parole, e torno alla Yourcenar che rileggo con un piacere tale da farmi sentire questa giornata solitaria, viva come una festa.

giovedì 3 novembre 2011

Pistoletto e "Il Terzo Paradiso"

Mi accingo a leggere “Il Terzo Paradiso” di Michelangelo Pistoletto. Ammetto di partire prevenuto. Dopo aver letto la premessa, la prima pagina del primo capitolo e viste le immagini allegate, ero tentato di lasciar perdere. Il libro non è mio. Me l'ha prestato un amico col quale dialogo spesso di arte e roba confinante. Si chiama Gianluigi Miccoli, ha degli animali, gatti, quindi ha imparato a ragionare non solo con la mente. Legge molto e medita anche. Si litiga spesso bonariamente ed è capitato di recente che mi ero talmente accalorato nel difendere le mie posizioni che non condivideva, che ha sospeso il dialogo perché mi credeva adirato. Nell'immediato silenzio della discussione troncata, son riuscito a percepire il volume della mia voce, la mia gestualità eccessiva. Spesso quindi mi aiuta a regolare una passionalità che può essere fraintesa. Io non odio nessuno. Prima, un minuto fa, una cimice aveva deciso di passeggiare sul tavolo. L'ho presa e l'ho adagiata fuori su una pianta. Odiare è una perdita di tempo. Non mi riguarda. Ma quando si dialoga si deve stare attenti. La gente vive in una mistura che contiene anche l'odio, l'aggressività, la rivalità. Gianluigi spesso mi fa comprendere, e chissà se ne è consapevole, che forse ultimamente ho deciso di vivere un po' troppo ritirato. I motivi son svariati. Uno lo si può desumere anche da quel che scriverò ora in queste pagine. Il succo è questo. Ho motivi che potrebbero essere anche sbagliati, che mi fan credere che un mondo dell'arte non attualmente esista. Coloro che lo gestiscono e coloro che si definiscono artisti, per me non lo sono. È questo il punto. E per me che mi considero tale è un bel casino. Penso si sia capito che frequento Tonino Guerra. Ci rintaniamo, a casa sua, per pomeriggi interi e a volte per intere giornate e dialoghiamo. Mi rendo conto che su questo argomento “la vede” come me. In pubblico quando gli fan certe domande preferisce cambiare argomento e poi cerca con attenzione, di selezionare le frequentazioni. Di più non si può fare, mi dice, e io che son di un ottimismo nero, agisco nella relazionalità, meno, anzi, menissimo di lui senza rendermene conto.. è che si fa sera che non me ne accorgo.... e amo varcare il confine fra vivi e morti stando più spesso con quest'ultimi. Fregiarsi della frequentazione di Kafka, Melville, Fitzgerald, questa sera della Lispector, non è fantasia. Muore chi non ha saputo eternarsi. Loro son vivi, punto e basta, e mi danno molto. Non rifuggo certo le occasioni d'incontro, ma in un “mondo” dell'arte desertico ecc come quello attuale, mi vien più facile stare in casa e frequentare coloro che si son dileguati dalla tangibilità. Ho parlato di ottimismo nero e con esso intendo il credere in qualcosa di positivo, ma che costa quasi, se non completamente, la vita. Gianluigi è quindi un martire più che un privilegiato, poiché sono un po' (un po?) a senso unico. Mi aggrappo alle idee che ho maturato come ad una scialuppa di salvataggio e procedo in quasi solitudine. E ora mi ritrovo da leggere questo libro di Pistoletto perché, per correttezza non ha senso dir bene o male se non si conosce. Conoscendo comunque un poco il suo agire, penso che tenderò ad “usare” non tanto le sue idee ma il modo di porsi considerandosi un artista, per mostrare il vuoto che secondo me anche lui rappresenta e, penso, inconsapevolmente. Mi spiego. Nascere in ambienti carenti di artisti veri e pullulanti di artigiani sopraffini e intellettuali che spaccano il capello in quattro e ormai anche in otto e sedici..... come è possibile diventare qualcosa di diverso? Si è figli del proprio tempo, quasi totalmente, e raramente da esso si riescono a prendere le distanze. Si rotola nella valanga del tempo e non ci si accorge nemmeno che di una valanga, oltre il resto irreale, si tratta. Si deve provare a volare in alto a staccarsene, spesso. Farsi travolgere si ma poi osservare da lontano la valanga ed è ovvio che sarà un poco come osservare se stessi. Mettiamola così. L'intellettuale ha a che fare con una collana di perle. Le vede cadere dal filo del tempo e le fa sue, ma esse son passato.... e il presente, non lo domina poiché ne fa parte completamente e solo col pensiero. L'artista ha solo un particolare in più; sa distaccarsi anche da quella perla sospesa fra passato e futuro. Chiamarla presente è riduttivo. Provate a pensarla come qualcosa di sospeso, che sta cadendo nel mucchio delle altre e basta. L'artista vede la perla nella caduta e la osserva. Se ne è interiormente distaccato, sa farlo, poiché grazie ad un dono incontrollabile o una maledizione, si ritrova impigliato anche nella perla che fu futuro, la prossima, e la guarda con sgomento, comprendendola in una visione d'insieme che la rivela. Ne esce spaventato e si rifugia nell'opera producendo un riflesso imparagonabile di quella visione. E non usa l'intelligenza se non in seconda istanza. In lui il simbolo nasce da dentro. Lo ritrova che galleggia nell'io che nello spavento si è sciolto in un noi immenso. Lo raccoglie, cerca di comprenderlo il più possibile e più ci riesce più è grande, e poi lo trasforma in un linguaggio, di solito quello col quale ha più dimestichezza.

Il simbolo potrebbe stare nella parola, nella frase, nell'opera nella sua completezza. È imprendibile ma percepibile. Se qualcuno lo strappa dal suo mondo, si comporta come i fiori; resiste qualche giorno e poi il suo fascino si fa putrefazione. Volerlo “bere”, cercare di farlo nostro non può essere quindi un atto intellettuale. Si deve accettare di lasciarsi andare a Dioniso, e disgraziata quell'epoca recente che lo ha confuso con droghe e assenzio!

E l'uomo illuminista del quale quello odierno mi sembra un eccesso, una diversa caricatura, l'uomo illuminista dicevo, che fa di tutto un oggetto smontabile e comprensibile? Eh si, lui si arrabbia e non sapete quanto, se non capisce. Già gli sfuggì dio e decise di negarlo... e come non negare quell'essere che si percepisce come artista se non si riesce ad esserlo se non per un dono? E poi, si può effettivamente parlare di dono? Non credo. Forse la regola non è dimostrabile, ma non essendo io un fanatico dimostratore di tutto, non ne faccio una malattia, e ho comunque constatato che artista spesso, troppo spesso diviene colui che nell'infanzia ha scoperto la morte....e non la dimentica mai.

E cos'è l'artista, chi è se non necessariamente un mezzo matto per gli intellettuali? Ma lo sappiamo bene, e anche loro lo sanno, che è l'Albatro di Baudelaire e come lui è bello solo quando vola e quando è a terra vien dileggiato e gli si mette la pipa in bocca....

Come combatterlo? Rendendo pertinente all'intelligenza, con falsificazioni ben pronunciate, il ruolo di artista. Ecco quel che è accaduto. Se si riesce a rendere credibile l'indimostrabile, utilizzando una dialettica funambolica, ecco che la definizione di artista potrà contere l'intellettuale. Questi ci ha provato a sostituirlo, ma ha fatto cilecca. Se scorro le immagini di Pistoletto vedo solo e sempre un qualcosa, un segno, che lui definisce simbolo e che rifà con tutto quello che gli capita sottomano.

Ma.....si può costruire a tavolino un simbolo? Non vi sembra evidente che si tratta di una falsificazione? Ma a loro, a lui, è necessaria. Devono elaborarlo con l'intelletto perché non hanno imparato a “lasciarsi andare” a farlo emergere da dentro, da quell'io che non è mio ma nostro e che fa dell'arte vera un dono condivisibile.

Quando nacque l'arte concettuale, e fu in due luoghi quasi contemporaneamente, l'usurpazione del ruolo divenne definitiva. Dire che l'idea, o il concetto è l'aspetto più importante dell'opera è stato l'inizio del delirio. Facciamo un esempio. Idea. Abbasso la guerra. ok. L'idea c'è. Come la rappresento non è importante e esporrò, coerentemente con un pensiero ridicolo un secchio di bambole. Se vale l'idea e basta, l'opera deve essere accettata.....ma i fruitori, quelli semplici, che spesso parlano coi sogni, dei sogni, con un dio o anche più d'uno e che han maturato l'idea che l'artista sia il portatore di una follia positiva, chiarificatrice, non ci stanno. Stupiscono e tacciono, poiché immense associazioni di persone solo intelligenti non esitanoa trattarli con una superiorità impressionante. Lo fanno per difesa. Perchè sanno che hanno usurpato un ruolo che non viene assegnato dall'uomo, che non si può distribuire o far crescere con un ciclo anche calibratissimo di studi e frequentazioni stratosferiche.

Ti sfiora la morte. È questo. E non se ne può parlare, perché questo dono orrendo che rovina la vita a chi lo possiede ma fa brillare quel che involontariamente emana ma non produce, come di un'ostrica la perla, perché di questo dono, come se fosse possibile patteggiare alla Faust si cerca di trovare la formula che ne dà il possesso. E invece il segno arriva, mentre sei distratto dalla vita, mentre stai crescendo e ti sforzi di comprendere come si cammina in senso concerto e pure metaforico..... e non è detto che davanti al suo tocco ci si svegli. La morte sceglie, e scaglia il suo dono che ti rende morto in vita. Le rose nere di un regno immenso, incalcolabilmente più vasto del presente nel quale l'intelletto sguazza per soddisfare il corpo, sfugge a quelle opere che non hanno un pubblico vero, ma un'accolita furibonda che mira solo a difendere la possibilità di essere e calcolare quel che deve venire da un volo impalpabile, distante, non nostro.

Quando ho detto con Gianluigi detto che il libro di Pistoletto non mi attirava mi ha fatto, mi son comunque sentito a disagio. Lui almeno l'aveva letto. Ma quel che non m'ha detto!

“Secondo me da giovane è partito bene e poi si è riciclato con queste cose qui perché la vena è finita”.

Mi ha poi detto che l'idea del terzo paradiso è bella e ti prende, ma che è evidente che con l'arte non ha nulla a che fare. Si tratta di un pensiero, e quel simbolo ricorrente non ha senso se non si legge il libro. Io aggiungo che è evidente che l'opera deve avere un'idea. Quel che recrimino, e insisto su questo punto,è che non deve essere pensata, ma sgorgare da dentro.

Fitzgerald disse: “non si scrive per dire qualcosa. Lo si fa solo se si ha qualcosa da dire”.

Parole perfette. E si può aggiungere che quel qualcosa da dire non lo decidi a tavolino. Essere artisti è ormai un atteggiamento. A volte pretende di avere qualcosa del messianico, a volte agisce in modo così sgangherato che vai a una mostra e se chiedi “cosa vorresti dire?” ti rispondono che ognuno ci vede quello che vuole. Anarchia. Banalità.

Ci vuol coraggio a leggere il libro di una persona che inventa e non “sente” un simbolo, che lo riproduce con mille materiali diversi. Non è nemmeno un giocare, perché nel gioco non è prevista la noia.

E l'esito in me è solitudine. La solitudine dell'artista, che non deve temere solo chi lo sa monetizzare e che male che vada non è inutile. È solitudine, perché un secolo che ha deciso di valorizzare i linguaggi artistici e gode nel mimarli, mi fa una pena infinita.

Facciamo un esempio: l'ermetismo.

Si insegna una tecnica e la si imita. Andava così e oggi la si pensa in quel modo. Sembra riproducibile eliminando punteggiature, aggettivi, introducendo vocaboli stridenti che sembrano così più sonori, come “schiocco” e “stride” (che sia il pino o il gorgo è secondario), ma sempre di atteggiamento si tratta....

Ma come abbiamo colto l'ermetismo? Dal dolore. Esattamente da quel dolore talmente immenso che si rimane ammutoliti, e quando si riesce, e a fatica, a dire qualcosa, son poche parole, solide, intense.

Quando mai nella sofferenza, ci si perde in aggettivi e barocchismi?

E' da sempre il linguaggio del dolore. Altro che tecnica. Ridurla a questo è non comprenderla a fondo.....è giocare col dolore, e chi lo fa sarà punito con l'oblio.

L'ermetismo esiste anche in pittura. Lo vediamo quando la tavolozza si semplifica, quando un colore e le sue sfumature la fa da padrone. Il periodo blu di Picasso. Si soffre. Si intinge poco nel colore, che son le parole dell'immagine.....

Non leggo e vado a letto. Ma chi me lo fa fare!!!! la coerenza non è roba mia e particolarmente di giovedì. Ci vuol pazienza con gli artisti....

e non riesco a non pensare a quel genietto di Manganelli che scoprii solo e forse, per caso, mentre artisti come questi, come la gramigna, son dappertutto.

Sulla Mostra "Denaro e Bellezza" di Palazzo Strozzi

Per l'organizzazione di Palazzo Strozzi



Premetto che non è per nulla carino che io sia costretto ad inviare una lettera ad un Palazzo e non ad una persona. Sul depliant Fucsia al nome: “Palazzo Strozzi e la città” vi sono due e mail: Palazzo Strozzi.org e prenotazioni@ eccetera.



È principio elementare che, nel rapporto con i mass media e con gli utenti, “mettere una faccia”, un referente ben definito e che risulti anche se ovviamente in modo indiretto, il ricevente di informazioni di varia natura, sia necessario. Lo fa Giovanni Rana e voi lo capirete alle calende greche?



Esempio elementarissimo: la visibilità massmediatica di quelle religioni che fanno riferimento ad un capo ben preciso (ad esempio il papa....) sono le più gestibili dai media. Si noti la presenza evanescente, discontinua ecc di Ortodossi, ebrei e anche musulmani e questo accade proprio per una mancanza di un punto focale.



Ebbene. Io mi devo rivolgere borgesianamente alle pietre di un palazzo? E sia....





Veniamo ora alla mostra DENARO E BELLEZZA.



Non mi è difficile immaginare che nessun dirigente abbia schiodato il sedere dal velluto della poltrona per fare un giretto nella mostra, per verificarne la effettiva fruibilità.



Alcuni difettucci verranno ora elencati....:



1) Le luci son messe male. Per vedere alcune opere si fa troppa fatica.

  1. I vetri posti dinnanzi ad alcune opere riflettono.
  2. La medaglia che riguarda la “Congiura dei Pazzi” è completamente “invisibile”. Se mi avvicino con la testa essa proietta la mia misera ombra sull'oggetto che vorrei vedere.....
  3. In un certo quadro di autore non italiano, la persona che conta i soldi ha un curioso copricapo che lo identifica come ebreo. Erano d'obbligo in certe zone cappelli “cornuti” per rendere identificabile e con abominio, i giudei al diavolo. Provate un poco a cercarli nel “giudizio” di Michelangelo e vedrete che, come accade spesso, non è il volto giudaico ad essere segnale, ma la caratteristica d'abito.
  4. In un altro quadro il mercante consegna una lettera alla morte. Molta gente friggeva dalla voglia di sapere cosa c'era scritto. Si vedeva che si trattava di parole leggibili ma l'ostacolo della distanza e, forse dell'idioma, rendeva l'operazione impossibile.
  5. I cartelli che danno qualche spiegazione sono messi in modo infelicissimo. Quando si va a fare un “collaudo” ad una mostra non bisogna porsi come il capo con una corte al seguito, ma si deve creare rigorosamente la situazione alla quale dovrà sottostare giocoforza il visitatore. Ebbene, queste scritte, che sono spesso anche decenti ma non sempre, vanno a finire troppo spesso in ombra causa l'ovvia presenza di altri utenti, oppure occultati direttamente dai corpi. La fruizione si fa quindi lenta e frammentaria. La soluzione da voi adottata è quindi completamente sbagliata. Se poi tenete conto che quello “sveglio” che ha messo le luci ha certamente pensato a rendere ben illuminati “secondo lui” gli oggetti e le opere, allora vi renderete conto che esiste anche un problema di illuminazione indiretta. Si tenga poi conto che non sempre l'utente gode di una vista perfetta e metterlo in imbarazzo costringendolo (l'ho constatato varie volte in un'unica visita) a “lasciar perdere” la lettura.
  6. Siete ben sicuri che chi visita la mostra diventi consapevole di quale problema fosse per quell'epoca, l'usura?
  7. E la differenza fra usura e mercatura? Se volevate rivolgervi a chi già sa allora avete fatto centro.
  8. Domandina: perché è nato il purgatorio? Non è che Pietro il Mangiatore da Parigi ne avesse teorizzato l'esistenza per dare un'ancora di salvezza a chi praticava l'Usura e la mercatura (ma non è che queste due parole dal punto di vista del problema morale nel mondo cristiano si equivalessero? Ora. La nascita del purgatorio portò ad altra mercatura. Si comperavano indulgenze per scontare anni di pene a scadenza. Questo argomento non si somma al dono di opere alle strutture religiose? Come mai voi elargite l'equazione arte/remissione di peccati e “dimenticate” un argomento così importante? Bastavano due opere, due Aldilà, una con e una senza purgatorio.......
  9. l'idea che il ricco commissionasse opere per redimersi è vera, ma non è quindi l'unica. Ci sarebbe, oltre alla già citata questione delle indulgenze, anche la fede che per chi oggi non crede, non viene mai considerata seriamente. È ben possibile che certi personaggi si sentissero a posto con la coscienza e donavano ugualmente. Non è quindi un'equazione esatta, ma una delle tante quella che voi proponete e che sembra decidere nel rinascimento il rapporto fra il denaro e la redenzione attraverso le opere (cosa falsa).
  10. E poi, quali opere? Chi esce dalla mostra deduce che il ricco commissionasse polittici, trittici, cappelle, affreschi, statue eccetera. E invece sapete quali erano gli “oggetti” più costosi e quindi più rappresentativi e vistosi? I paramenti degli officianti, d'altare (di solito in filo d'oro eccetera) e quelle cosine che “apparecchiavano” la mensa sacra.
    È scorretto quindi e l'esito si fa fuorviante se se ne dimentica l'importanza.
  11. A Bruges c'è una scultura di un certo Buonarroti. Se non ricordo male la committenza coinvolse il banco Medici. Parlarne pareva brutto? Immagino che non l'avrebbero prestata, ma citare e mettere una copia?
  12. Il fondo Datini di Prato è visitabile anche dalle scolaresche. Dirlo è importante, e dare riferimenti è d'obbligo. Così si coinvolgono gli utenti. Consigliare la visita del Monastero di san Marco se si desidera approfondire la vicenda del Savonarola ecc. Quel che ne nasce è una catena che lega le varie fonti turistico culturali di una città. Se ognuno fa per sé si perde una fettina di clienti........ (scusate se lo ripeto, ma è roba elementare....come si fa a non capirlo ed è evidente perché chiunque comprende che il “gioco” dei rimandi rende)
  13. Le visite guidate. Sono una pestilenza per chi vuol vedere la mostra in pace. Non è il caso di studiare il problema? Il fatto che a voi rendano non vuol dire che così organizzate esse siano il massimo dell'efficienza. Il visitatore singolo ne esce notevolmente penalizzato. (Ci sono varie ipotesi sperimentabili).
  14. Esistono testi storico divulgativi che meritano di essere esposti al book shop in queste situazioni. Ad esempio, la Mondadori ha pubblicato un volumetto nella collana Storia intitolato “La congiura dei Pazzi”. Sarebbe carino proporre un tour notturno, dopocena per esempio mostrando alcuni luoghi che in quell'occasione furono teatro di fughe, rifugio eccetera. Anche in questo caso si tratta di un problema di rimandi....
  15. Cartelli esplicativi fissi anche in altre lingue straniere! Metterli con la bandiera dello stato a colori ben visibile così l'utente ci si indirizza con facilità...... Anche se si mettono solo in inglese e italiano, non si deve costringere sempre a scoprire quale è il nostro.
  16. Non è eccessivo dichiarare che il significato delle opere di Botticelli sia da imputare proprio a lui? Mi risulta che gli artisti venissero guidati da esperti e spesso da committenti. La composizione anche spesso non era di loro mano......



Direi che basti. Vi invito a meditare con onestà su questi punti. Alcuni sono di secondaria importanza ma altri, ad esempio, luci, cartelli descrittivi assenza della storia del purgatorio, sono gravi.




Ora l'esposizione “DECLINING DEMOCRACY”



lo spazio espositivo “troppo caldo”. Ci deve essere un problema di regolazione della temperatura o dell'umidità.....l'ho riscontrato in varie persone.



Al fruitore viene offerto un foglio da compilare. È facoltativo ma è fatto malissimo.



Si legge che ..”la compilazione è anonima e sarà utilizzata per acquisire spunti di miglioramento delle mostre e dei servizi offerti”.

Sbagliato. Abbiate il coraggio di chiederlo nominale e di ringraziare ed eventualmente dichiarare che i consigli più preziosi verranno premiati con ingressi gratis o libri donati.



In generale nessuno crede che l'anonimato sia tutelato. Si pensa che siano chiacchiere. È vero che in questo caso lo è con ogni evidenza ma si tenga conto della percezione generale e si valuti se cercare l'individualità di chi consiglia e poi premiarla non sia più appagante e non invogli di più. In un certo senso si sentirebbero collaboratori anche se in infinitesimo (ma non è sempre detto) nell'ottimizzazione di un'operazione che viene percepita prima come culturale che come commerciale, e quindi diventa un onore e un vanto l'esser stati segnalati.



Altro problemino. Quel foglio da compilare puzza lontano un miglio di operazione di marketing. Si sa che è così, ma mascherare un pochettino? Non fare sentire chi compila come una persona che opera anche contro se stessa nel senso che una ottimizzazione organizzativa si sa benissimo che è concepita prima di tutto per aumentare il divario fra spesa e guadagno. Rispettare rigorosamente una statistica o un progetto del vostro tipo mostra un'evidente tendenza alla proiezione sulle esigenze attuali del vostro cliente tipo e invece, per essere migliori della concorrenza si dovrebbero intuire, anche tramite quei dati, le esigenze future.



Di fianco ad ogni domanda, se è possibile, mettere il perché ci interessa proporla. Questa è chiarezza. La domanda n.4: “Come è venuto a conoscenza della CCC Strozzina” è validissima ma anche se è chiaro l'intento è meglio dirlo! E poi, chiedere di mettere tre risposte! Ma vogliamo dare un po' di indipendenza al fruitore che già ci offre un servizio gratis compilando? È anche evidente che avete strutturato il testo per una lettura computerizzata. Questo limita troppo la possibilità di risposte personali. In più, i commenti messi in fondo e con sole quattro righe a disposizione sono stato messi nella posizione più triste che si potesse immaginare! STIMOLARE L'EGO E LA SODDISFAZIONE DEL COMPILATORE!!!!!! i commenti vanno in prima fila e devono avere molto spazio.



Veniamo alle domande strutturate da schifo: “Sono soddisfatto del tema affrontato nella mostra CCC Strozzina”. Ma come si fa a non essere soddisfatti di un “argomento” del genere! Ci vorrebbe un mostro, un guerrafondaio folle o un potenziale dittatore che non intende nemmeno salvare le apparenze per rispondere che “L'ARGOMENTO” non soddisfa! È eventualmente la mostra a non soddisfare, in questo caso. La strutturazione del test o sondaggio che in fondo è la medesima cosa mira per caso a forzare la positività dell'esito? È evidente. Poiché Bin Laden non verrà alla mostra, Gheddafi è morto e gli altri dittatorucoli di fatto o potenziali difficilmente verranno o ammetteranno le loro mire, diventa evidente che il voto sarà fra il 5 e il sette con una tendenza notevole verso quest'ultimo! L'equazione finale che valuterà nell'insieme le risposte, parte dunque da un vantaggio verso la positività che risulta scorretto. Cosa ve ne fate di un dato complessivo che promette di essere irreale?



Altra domanda. “L'educatore/educatrice ha soddisfatto le mie aspettative”.

Tragica formulazione. È risaputo che nessuno, e in particolar modo gli ignoranti, amano essere “educati”. Vocabolo pericoloso. I benpensanti son la feccia, ma son tanti e pagano anche loro il biglietto. Se poi per caso con quella domanda era vostra intenzione rivolgervi a comitive, insegnati con classi eccetera, allora forse era il caso di specificarlo.....



La domanda “ho apprezzato la mostra della CCC Strozzina”, a me sembra inutile. Non era meglio chiedere “se avete gradito la mostra, cosa in particolare avete apprezzato?”



E avere il coraggio di fare domande per l'esito negativo. Vale forse spesso di più chiedere a chi è rimasto scontento e per due motivi. Rispettando una lamentela (e lo si fa già con l'accoglierla), si rispetta e si attira il deluso. Se poi eventualmente si instaurasse un dialogo, anche solo con una risposta di ammissione o comunque di ringraziamento, ecco che si recupererà facilmente l'utente! Si sa che quello soddisfatto ritorna!



Ultima: “Ha mai partecipato alla -lecture- organizzate al CCC Strozzina?”

Primo. Non si tratta di partecipare, ma di ascoltare. L'unica istanza a attiva che l'utente (purtroppo) può offrire, sta nel muoversi da casa e venire....



Termine quindi sbagliato e disonesto. Si deve comunque pensare a renderlo valido. Su un numero di lecture già progettate perché non chiedere consiglio a chi partecipa, su due serate che sarà il pubblico a scegliere? Questo rende un minimo di senso al termine “partecipare” che è bellissimo.

Esempio. Avete presente quando un bottegaio che vende dei Rolex dice che “si tratta di un acquisto importante?” ebbene, quell'essere ci vuol dire che è costoso. Nulla di più. Il bello è che il ricevente di quella frase, lo sa benissimo e quindi l'uso non riesce a salvare le apparenze, ma ottiene l'effetto opposto, sottolinea che tu potresti essere nella ristretta cerchia di chi può, cosa che a me non interessa. E un orologio, anche un Rolex nella fattispecie non può essere ridotto a puro e semplice status symbol. Si da il caso che segni anche l'ora.......

Domandina.... l'uso improprio del termine “partecipare” è dovuto a incompetenza o a calcolata manipolazione alla scopo di blandire?



Il vostro uso del termine “Partecipare” sa quindi di borghesia con la erre (leggere evve) moscia, eccetera eccetere ed.....eccetera.



Direi che basti.

No.



Cosa penso della mostra della Strozzina (nome orribile....).



Un atto solamente intellettuale non è arte.



Quella di conseguenza rappresenta semplicemente un pensiero che ha il dono dell'elementarità e della condivisione. Anche gli spettatori della de Filippi pensano che la democracy is un po' declining. Anche io posso dire che è una disgrazia che tanta gente muoia di fame, che ci sia la guerra, che Babbo Natale non esiste e che Totti è un mito. Sarebbe il caso di andare oltre l'ovvio, il banale, quindi selezionare con meno intelligenza e più sensibilità gli artisti, se l'arte è il vostro scopo, e si ricordi che un mito è per esempio Prometeo e Totti gioca semplicemente bene al pallone.



Firmato.... il nipotino di Savonarola.


sabato 29 ottobre 2011

Mario Tobino: "Le libere donne di Magliano"

Ieri, in una delle mie solite sortite in un mercatino dell'usato, ho trovato finalmente, “Le libere donne di Magliano” di Mario Tobino. Dico finalmente perché, mi sono intestardito a non comperarlo in libreria e a trasformare il desiderio di lettura, che potrebbe essere assolto da una biblioteca, in possesso appagato solo se fosse stato frutto del caso, perché non ho trovato un'edizione con le caratteristiche che mi interessavano.



Mi spiego. Poiché, tranne pochi esemplari ai quali sono particolarmente affezionato, (diciamo che mi hanno visto crescere), presto con tranquillità i libri e non soffro troppo se non tornano. Non si tratta quindi di senso del possesso di tipo rapace, accumulativo. E si badi bene che anche in amore esiste questo senso del possesso che trasforma l'altro in oggetto, a volte con la scusa della gelosia e a volte per la semplice abitudine a pensare che tutto ciò che si desidera, prima che vissuto vada acquistato con le buone o depredato. È una legge del mercato che diviene abitudine allargata su tutto l'agire, lo stile, se di stile si tratta, consumatore, che si fa prendere dall'abitudine di possedere senza “possedere” in senso più profondo l'oggetto o l'essere vivente prescelto.



Di alcuni libri ho varie copie che escono spesso di casa. Per esempio “Il dottor Fischer di Ginevra” di Graham Greene, o “L'amico ritrovato” di Fred Uhlmann. Li recupero dal purgatorio dei mercatini anche per ridare dignità ad un oggetto, il “libro”, che se contiene pensieri di valore per me si emancipa dall'essere pura e semplice materia. Non si tratta solo di carta e inchiostro, ma di un frammento o di tutta l'anima di una grande mente che ha aperto la porta del tempo e, nell'immobilità che ha conquistata, ha unito presente passato e futuro e sempre ci sarà utile. Le copie in più le presto senza scadenza oppure le regalo e spesso esagero e rimango senza.....



Considerando i libri di valore come esseri viventi, non desidero che si parli di possesso. Trovo che sia ridicolo. I cani per esempio, per me non son mai stati miei. È un abito linguistico difficile da aggirare e che porta troppo spesso alla necessità di spiegarsi trasformando qualcosa di leggero, come un dialogo davanti a un caffè in qualcosa di gravato da troppe delucidazioni. No. I “miei” animaletti e i “miei” libri, non sono effettivamente miei. C'è una relazione e ci si è scelti entrambi. Un libro può non parlarti e quindi se se ne andrà non ne sentirai la mancanza e così pure accade con gli animali. Altrove ho raccontato di Lump, il bassottino nero focato di Picasso che decise di sua iniziativa che “quel tipo strano” gli andava bene e lasciò per lui il suo precedente compagno....

E poi, oltre la relazionalità che considero essenziale fra un vivente e un libro di valore, c'è un aspetto che mi appartiene come forma mentale. Secondo me chi ha incontrato la morte, la morte dell'altro, da bambino, non la dimentica mai. Essa condiziona lo stile di vita anche nelle cose minime. Io non dimentico mai che nulla “mi seguirà” quel giorno. Mi affeziono agli oggetti, ma son consapevole della mia transitorietà e non mi lego in modo forte. Questo aspetto del mio modo di relazionarmi con cose e persone mi ha portato per esempio, non molto tempo fa, a tenere un comportamento che solo dallo stupore altrui ho compreso essere forse non normalissimo. Stavo rincasando e ho sentito dei rumori che sembravano provenire dalla parte più distante dietro casa, in fondo al giardino. Arrivo allo spigolo del muro, getto lo sguardo e vedo una persona che sta armeggiando intorno alla mia bicicletta. Ce ne sono tre e mi son detto, che ne prenda una delle altre e non proprio quella. E così gli ho proposto di fare, con voce calmissima. Lo sconosciuto, preso alla sprovvista, mi ha guardato con spavento, ha saltato la rete di recinzione con un gesto atletico ridicolo, schiantandosi malamente nel giardino del vicino e poi si è “tirato su” rapidamente e si è dileguato. Io avevo pensato che se gli serviva una bicicletta poteva ben prenderla, avevo solo obiettato tra me e me, che non scegliesse la mia. In fondo, una persona che ha tre “bici” e vive da sola, com'è nel mio caso, poteva darne tranquillamente una. Ricordo che qualche amico mi ha contestato di tutto. Che si trattava comunque di furto per esempio, ho risposto che c'è chi ha troppo e chi niente, che ha violato un “mio territorio” e devo ammettere di non averci pensato. Mi han poi fatto notare che se qualcuno entrasse in casa mia e, con me presente, prendesse qualche cosa, mi arrabbierei... e invece no. Spesso un ospite mi dice “Che bello!” e io non son tranquillo finché non glielo regalo. Non accade ovviamente con tutto. L'ho già detto. Esiste quella quantità minima di cose che ci serve e se non l'avessimo dovremmo comperarla e quelle poche cose legate ad un ricordo oppure alla insostituibilità, come può accadere appunto a qualche libro. Sì, ritengo che se si fosse meno attaccati agli oggetti, si riuscirebbe a pensare un po' di più, ad essere più rilassati. Se non si fosse sempre ossessionati dal loro possesso, indotto ormai quasi sempre non da una necessità reale ma indotta, la vita sarebbe più semplice, più viva e i soldi di uno stipendio, come per miracolo, forse inizierebbero a bastarci. A volte mi capita di sentir dire da un amico: “Mi serve questo” e io so di averla quella cosa! E se per caso non mi serve e resta lì inutilizzata gliela faccio avere... in questo caso mi hanno detto che si tratta di carenza di affetto. Non sono d'accordo. Io penso che tutti, se si è esseri pensanti, si sia un poco animisti e trovo che un oggetto che sta in fondo ad un mobile e non vive, soffra non meno di un disoccupato o di un innamorato non corrisposto. Vivere è relazionarsi anche per gli oggetti, anche quelli dell'arte. Un quadro, una Madonna per esempio, la preferisco nel suo mondo. Il museo lo vedo un po' come il luogo nel quale la loro vita è terminata. Una specie di cimitero. Spesso non si può fare diversamente, ma troppo, troppo spesso, si può dare dignità non solo alle persone, ma anche agli oggetti, che hanno poi la capacità di offrire sempre un minimo di storia di qualcuno che li ha progettati, realizzati, eccetera. E comunque ce ne andremo a mani vuote, così come siamo venuti e donare è bello.... se non fosse che m'imbarazza constatare che spesso il ricevente si sente in debito. Non lo capisco. Non sono in grado di capirlo se non raramente, perché appunto spesso la mia intenzione non consiste nel gratificare la persona, ma l'oggetto stesso. E poi, non si dà per ricevere. Quello è commercio, lavoro.



Torniamo al libro di Mario Tobino. Questa mia edizione, pagata quanto un caffè, fu edita dalla rivista “Famiglia Cristiana” nel 1997. Mentre il testo fu pubblicato per la prima volta nel 1953.

Il fatto che una testata cattolica lo pubblichi ci dimostra che è considerato conforme alla morale che rappresenta, e spesso la Chiesa è stata un po' più sveglia del secolo. Ricordo per esempio che quando de Andrè era mal criticato, la radio vaticana lo trasmetteva con una certa costanza.....



Anche questa copia presenta comunque quei difetti che mi han fatto passar la voglia di fare un acquisto in libreria, ma pagandolo un'inezia, sopporto meglio....

Mancano le note e non c'è nessuna spiegazione sulla storia delle leggi manicomiali in Italia.

Vocaboli come, catatonico, schizofrenia, paranoico e frenastenico, per esempio, non meritano di essere spiegati a piè di pagina? Essi godono di una vita a basso profilo, popolare, ma son effettivamente compresi per quel che significano? E poi l'elettroshoc (così scritto da Tobino)! Ma non sarebbe il caso di spiegare quale triste storia ebbe questa pratica? E infine e già detto, la storia delle leggi sui manicomi. È una tragedia che merita di essere spiegata con calma e nei particolari. Furono chiusi, questo lo sanno tutti, ma pochi son consapevoli di come ci si entrava e quasi nessuno, tranne le famiglie tristemente coinvolte, sa quali “nuovi” problemi e quindi danni, la nuova legge ha creato....



Mettere davanti ad una persona un libro così specifico, che si cala con precisione in un periodo storico, e non spiegare quelle cose rasenta lo stupido.

È vero che il testo si legge ugualmente, ma si capisce molto meno.



Esiste poi un altro aspetto della, chiamiamola storia, di questo libro che non viene nemmeno accennato. L'impressione che fece su Federico Fellini. Questi lo amò immediatamente, di Tobino si fece amico e pensò per molto tempo di farne un film. Il perché non accadde è presto detto. Fellini aveva capito, e lo diceva, che la bellezza di quell'opera era completa in modo così equilibrato che lui non avrebbe potuto aggiungerci niente. E io aggiungo che poteva solo caratterizzarlo, forse renderlo grottesco, doti nelle quali lui eccelleva, ma in nulla lo avrebbe migliorato. E penso che un'opera non possa ricevere miglior giudizio. Questo amore del grande regista sfociato in un nulla di fatto, ci deve portare automaticamente ad una domanda. Ha senso trarre film da opere letterarie? Secondo me no. È solo “roba” per il commercio. Conosco solo due casi nei quali il film merita quanto il libro: si tratta de “La morte a Venezia” di Thomas Mann che fu reinterpretato da un Luchino Visconti eccellente e “Solaris” di Stanislaw Lem che vide la regia di un Tarkovskij addirittura eccezionale. Per il genietto russo devo spendere due parole. Nel caso di questo film, fece tesoro dell'idea dello scrittore e poi prese una sua direzione e ci troviamo così davanti a due capolavori nutrienti per motivi diversi. Mi “attacco”, per sedurvi a lettura e visione di questi gioielli, ad una umile e splendente considerazione di Bergman. Egli disse di essere arrivato, ogni tanto, alla poesia, nei suoi film, Tarkovskij invece ci era arrivato sempre..... e da gente che l'ha conosciuto riporto un'altra considerazione. Quando feci presente che per me era prima di tutto un grande poeta che si era messo a fare cinema e mi domandavo come mai fosse accaduto, mi è stato risposto che lo fece per rispetto al padre, ottimo poeta anche lui, per non mettersi in condizione di confronto, di gara, di sfida.... quindi, deduco io, grande anche nella delicatezza, nel rispetto.



Torniamo a Tobino e non mi offendo se qualcuno mi chiamerà dottor Divago, ma le parentesi ritengo che servano per sminuzzare e gustare ogni particella di un significato che cerco di trasmettere.



In generale, edizioni attuali, da qualche anno, hanno secondo me delle pecche notevoli, delle incompletezze, ed è un male che sta diventando comune. Faccio qualche esempio che mi dà un fastidio, ma un fastidio che se potessi.....

Prendiamo “Salons” di Giorgio Manganelli. Ci viene detto che si tratta di articoli usciti sulla rivista “FMR” di Franco Maria Ricci, nel 1988. Ma spendere due parole per raccontare di quella rivista non solo bella, ma bellissima e di quel signore di Parma che riuscì anche a portare Borges in Italia e a farlo collaborare fino al punto di poter creare una collana di letteratura fantastica che è eccellente.... ma parlarne provoca un'ernia? Una forma rara di dissenteria? O semplicemente abbatte i costi di carta e di un cervello che per scrivere deve essere comunque pagato?

E datare ogni scritto mese per mese si da poter recuperare in qualche modo, se lo si desidera, la rivista, sembra brutto? Leggere un'opera innesca non solo un piacere forse intellettuale e forse artistico, ma una catena di letture, di curiosità che se ben nutrite, portano ad altre vendite...



Sempre di Manganelli, “Improvvisi per macchina da scrivere” è ancor più orrendo. I testi meritano, ma provenendo da quotidiani non era più elementarmente sano porre alla fine di ogni scritto, la data esatta della pubblicazione? Il danno che ne viene è enorme, superiore che nel caso precedente poiché la rivista FMR, essendo mensile, si distaccava almeno un po' dall'oggi. I quotidiani trattano quel tipo di presente che dura un attimo, e solo in grandi linee e per i fatti salienti, quel che narrano con emotività, viene ricordato, trattenuto. La sensazione che si trae da quell'edizione di un grande italiano, è che qualcuno incaricato di “mettere” in un libro tutti gli articoli, li abbia gettati quasi a caso. Dico quasi perché anche il più imbecille degli esseri umani uno straccio di regola ce l'ha, ma spesso, o per eccesso di banalità o chissà cos'altro, non se ne viene a capo.



Ora veniamo al testo. Tobino scrisse staccando le situazioni e i pensieri con molti “a capo”. Questo pone il lettore davanti alla sensazione che si tratti di una lettura scorrevole che ha poi il pregio di finire a pagina 132 quindi “alla svelta”. Una sorsata di ingegno e poi in palestra o a far due passi in centro o chissà dove.... e invece no. È denso, ti inchioda, e oltre a far pensare scuote dalle fondamenta. Siamo certi di noi senza esserci pensati più di tanto. Questo comprendiamo. Ci si pone la domanda sul limite della follia e sul fatto che se la mente “molla gli ormeggi” spesso si libera una sessualità animale, spudorata, senza morale. Ti vien da pensare, ma a bassa voce, che accade in fondo, in alcuni casi quel che potrebbe realizzarsi nella vita se non ci fossero troppe regole a complicare tutto. Pensi, come uomo, che quindi anche lei, la donna, se potesse vivrebbe gli istinti sessuali con la libertà che il maschio si concede sempre col pensiero e qualche volta in realtà quasi incomunicabili..... Sì. La mente che scappa, e diventare animali che si accoppiano senza problemi, ma dopo questi pensieri si è sopraffatti dagli odori animaleschi e intollerabili che Tobino descrive e che ci fanno comprendere quanto quella regressione sia tragica. È curioso che l'autore abbia messo alla fine la dicitura che nessun fatto è in sé reale. Sappiamo che lui lavorava in cliniche psichiatriche ma ci tiene a dirci che a nessun personaggio descritto appartiene un “matto” vero. Sì, ma dircelo alla fine sembra sleale! E invece no. È una delle sue grandezze. Che si tratti di fantasia pura o di un elaborato della realtà sapientemente manipolato, si deve pensare, e in questo caso lo si fa due volte in modo diverso. La prima con la consapevolezza si tratti di una realtà descritta e la seconda con la quasi certezza che Mario Tobino, da artista, ci abbia messo del suo. È vero che non ci ha convinti, con quella frasettina finale, e crediamo in fondo in fondo che abbia cambiato solo i nomi, ma ora è lì il dubbio e si deve rivalutare con o senza di esso.

E non c'è solo la sessualità sconvolta, ma il corpo che nella malattia si fa forte in un modo inspiegabile e questa vita della materia che noi siamo, che senza la guida della mente diviene enorme, ci impressiona senza necessità di elaborare. E cosa dire delle dimensioni umane delle infermiere, dei guardiani, delle suore! Queste ultime poi mi riportano alla mente Fellini che le utilizzò spesso, ma anche Giacomo Casanova. Sì. La suora per noi oggi, nel 2011 è una figura sporadica, quasi scomparsa, irreale. Il fatto stesso che si vesta tuttora in quel modo, residuo di un'epoca nella quale quando ricevevi un incarico ti davano un vestito che permetteva alla comunità di identificarti, ci sorprende come una stranezza. Si, al tempo per esempio del Magnifico Lorenzo, ovviamente in Firenze, eri in grado di comprendere la carica e la professione di ognuno mentre chiacchieravi ben profumato all'ombra rinfrescante della loggia dei Lanzi ma le facce non le riconoscevi con certezza come accade oggi. Ora giusto un poco la cravatta distingue, almeno in Europa, indocenti universitari e uomini politici. Ma per il resto potresti aver davanti un genio e un bandito senza riuscire a distinguerli. È sicuramente meglio non essere codificati, elevati o umiliati da un vestito che ora esprime erotismo o modaiolità, o ricchezza recente o altro, ma la suora fino all'epoca di Tobino, era un simbolo erotico potentissimo. Riuscire a sedurla era la prova più ardua di un donnaiolo e per questo Casanova ci raccontò in proposito alcune delle sue gesta. Ora la suora è qualcosa di non compreso, come scelta di vita intendo.

A me è capitato anni fa in treno, mentre mi recavo a Roma, di essermi trovato, unico secolare fra centinaia di loro e una, africana, bellissima, mi incantò profondamente. Avrei voluto farla volare via da quell'abito, al mio fianco, come fece una suora nel libro di Tobino con un operaio, ma non accadde. Fu un attimo, con un dialogo delicatissimo e io fui troppo lento, pieno di paure. Ora mi capita di salire in treno e di rivederla dentro me, per un attimo. Ricordo il suo sorriso. Sorrideva anche con gli occhi e si nutriva di tutto quel che vedeva fuori dal finestrino con una gioia sanamente ingorda e innocente che ho ritrovato nei cani, questi amati maestri che mi hanno aiutato a scoprire quanto io sia, come loro un essere di natura.....



Nel libro si tratta di “suor Maria Concetta, la giunonicamente rosea-bella”, che si innamora di un alluvionato del Polesine e mi vien da dire di nuovo, ma una noticina che rammenta quel fatto storico non ci stava bene?



Capita anche di incontrare un passo, quello che riguarda la signora Gabi, che sembra mettere in dubbio la validità del modo che si aveva una volta di mettere in manicomio le persone e specialmente le donne....

Per tanti si tratta di una faccenda che ha avuto notorietà con Alda Merini. Non dico ancora nulla su quel che le accadde perché è probabile che i personaggi siano ancora vivi e il fango, per non dir di peggio, che getterei loro addosso, potrebbe portare ingiuste querele a mio carico. Si sappia comunque che ne uscì rovinata. Mi ricordo che quando andai da lei, suonai il campanello al piano terra in via dei Navigli a Milano e il cancello si aprì; mi ritrovai immerso in corridoi lunghissimi e irreali e tutte le porte erano identiche, tranne una che portava un poster di padre Pio e vari santini. Vidi un occhio che scrutava dalla porta lievemente aperta. L'occhio mi chiese “Chi cerchi?”, risposi “Alda Merini”. “Ma come ha fatto a entrare?”, “Ho suonato e lei mi ha aperto”. A questo punto spalancò la porta e mi fece entrare. Mi disse che lei non aveva aperto ma era stato suo marito che lo aveva fatto perché aveva acconsentito al fatto che la vedessi. Ma in casa di mariti non ce n'erano.....



Lei stesa a letto in camicia da notte con molte collanine dozzinali di plastica. Per terra sporcizia, barattoli di birra, bottiglie. Una tivù sempre accesa in salotto. Soldi ovunque, di taglio grosso. Si sente un rumore nell'altra stanza. Mi dice di non pensarci, è il marito, ma io so che è una finestra aperta che sbatte. Sto al gioco. Ok, lui è di là. E dialogando sento la sua umanità offesa, irrimediabilmente ferita, la sua solitudine che non si colma nemmeno con la presenza di mille persone, la sua fame di amore e anche di sesso. Di vita. Ma qualcosa si è rotto. Rinchiusa che era sana, ma arrabbiata, questo lo posso dire, gelosa per le corna del marito. Non so se posso ancora dire gelosa di chi.... e lui “se la tolse di torno” semplicemente, andando dal medico e infilandola “con una carta” in manicomio e là dentro, particolarmente se non sei pazzo, impazzisci.



Per me, più della sua poesia, vale la sua storia. Si fa simbolo. E Vecchioni nella “canzone per Alda Merini”, giustamente non tocca la sua opera, ma la sua vita che, non meno di una persona gettata in un campo di concentramento e poi “liberata”, non è più vivibile.



Ho sempre pensato che dai traumi non si torna. Si può imparare a conviverci, ma si deve sapere che ogni tanto, loro, i traumi appunto, con le loro suggestioni, le loro paure, si impadroniscono della persona che hanno colonizzato. E vivere diventa un'avventura spesso impossibile....



Dei vari personaggi di Tobino, la storia di Norina mi ha colpito profondamente poiché, in un certo senso si trattava e si tratta per certi versi, di un'idea letteraria alla quale sto dedicando molto tempo. Ho sempre pensato che attualmente, per come si è strutturata l'esistenza delle persone, possa accadere che qualcuno arrivi a vent'anni e anche oltre, senza nemmeno immaginare che esista la morte. Conosco gente che non guarda un telegiornale, che sente parlare di morti, per esempio in terremoti e incidenti, ma non indaga più di tanto di cosa si tratta poiché si tratta di una notizia, roba distante, che ti sfiora per un attimo e poi è dimenticata e che spesso, coi giochi elettronici, ha ucciso i nemici, ma con la sensazione di averli semplicemente messi fuori gioco e infatti nella partita successiva ritornano tutti....anche i morti.



Tendo a immaginate un uomo di buona famiglia al quale quando è morto il cane han detto che l'han portato in campagna, che la nonna è in clinica, eccetera, e che con indolenza, viva la fetta di vita che gli costruiscono agendo da protagonista nello sport e in relazioni sociali che, un po' anche per fortuna, non si son mai resi traumatici. E poi......e poi qualcuno muore, davanti a lui. Non riesco ancora ad immaginare come, e quando si ritrova davanti a quel corpo che non reagisce più e lo vedrà messo nella cassa e consegnato alla terra..... non accetterà, in fondo è come impazzire.





E ora veniamo alla Norina di Tobino: “Questa fanciulla, di nome Norina, era orfana ed abitava, viveva, era protetta dalla nonna materna, unica superstite della famiglia.

Vivevano in alta collina, dentro una modesta casa, umida d'inverno e fresca d'estate. Il loro sostentamento era un magro poderetto dato ad opere nella stagione del bisogno, ed erano felici.

La nonna era una vecchia quercia, alacre anche nei pensieri, intatta di agilità e di forza. La fanciulla dall'età di sette anni era cresciuta con lei e per la solitudine della campagna e per le attenzioni della nonna, forse anche disposta dalla natura, era rimasta completamente innocente uguale a un fiorellino bianco che neanche il sole ha completamente colpito.

Passavano gli anni felici.

La nonna morì all'improvviso per una strada di campagna; rimase per una notte abbandonata e fredda uguale agli alberi che stecchivano le braccia nel cielo invernale.

La bambina quella sera, per la prima volta nella sua vita, non vide tornare la nonna. La cosa così contraria alla ragione giornaliera le fece nascere una inconcepibile meraviglia.

Quando portarono a casa della nipotina la nonna fredda, che non interrogava e non rispondeva, la nipotina dopo aver leggermente riso impietrò, nè valsero i più comuni consigli o quelli più sottili. Divenne come una pietra bianca caduta dalla luna, immobile pianto.....si rinchiuse, non mangiò più, non consumò più sostanza; e la mandarono in manicomio....”



Al momento del ricovero aveva quindici anni.



Immaginiamo il lupo cattivo (la morte) che mangia la nonna. Arriva qualcuno che la nonna te la ridà; sì, ma solo nelle favole, e la ragazzina scoprì la morte.



Nel caso mio l'idea intendeva stigmatizzare l'assurdità dell'esistenza che viene fatta vivere, o meglio consumare, normalmente alle persone di oggi. I nonni son lontani quasi sempre. In ricovero. Quindi vecchiaia e fine son qualcosa di irreale che, non sfiorandoci quasi mai, non indaghiamo. Ma trattandosi, anche per la vecchiaia, non di capire ma di accettare, il processo si fa lungo e necessita di esperienze. Se il fatto accade così, all'improvviso, si ammutolisce, si deraglia, si può davvero impazzire, perché è “roba” di un attimo calcolare che se tocca a tutti, prenderà anche me....

questo può accadere in una vita che agisce, come quella attuale, e che evita il pensiero.



E ora che Tobino mi ha mostrato che l'idea, o il fatto, è già stata pensata? Non mi sento deprivato di nulla. Ci si deve rassegnare al fatto che di idee nuove non ne esistono quasi. Possiamo solo utilizzare quel che crediamo opportuno per ammonire o ammirare il nostro tempo e la mia idea, se trovasse le parole, vivrebbe, ma per ora non la sento abbastanza forte.



Torniamo a Norina. Ma ci pensate? Muore la nonna, e lei reagisce male, non mangia, si chiude e la sbattono in manicomio! È folle agire così, e non lo è minimamente quel che Norina stava passando! E in altri punti del libro leggiamo di situazioni simili. C'era il comportamento normale. Se da quello deviavi eri rinchiuso, e uscirne non era facile. Non parlavi più perché ti veniva di reagire così al tradimento di tuo marito? Via. Un foglio firmato dal medico e dentro. Lontano dagli occhi, lontano non dal cuore, ma dalla coscienza. Era una società perbenista, dedita alla cura delle apparenze spesso con una maniacalità che attualmente ci sembra ridicola. E poi dei matti non si poteva parlare. Se avevi un braccio rotto potevi ripararlo, ma se era “rotta” la testa era una vergogna da nascondere. Durante e dopo il fascismo se ne fece veramente una tragedia poiché la carriera militare era ambita e non c'era speranza se anche uno zio o un cugino “dava di matto”. Si creava quindi un senso di responsabilità di gruppo. Ammattendo si ledeva la stirpe, la si segnava definitivamente, quindi i casi estremi venivano rinchiusi e forzatamente dimenticati, per ...questione di facciata.



E ora veniamo a due bei matti della storia del cinema che, venendo dalle mani di Fellini, son debitori delle esperienze che lui trasse da questo libro e dalla conoscenza con il suo autore:

la Volpina e lo zio che sta in manicomio in “Amarcord”. In ambedue si nota la rilevanza sessuale. La Volpina è ormai sensualità istintiva allo stato puro. Un animale umano, mentre lo zio, nella gita domenicale con pic nic fuori dal manicomio, ha caratteristiche di malinconico isolamento che sfocia in una scena magistrale: lui sull'albero che grida “Voglio una donna!”. Siamo ai margini, nel mondo contadino, in un'epoca che aveva comunque una sua poesia, rivelata dal connubio Fellini-Guerra, che di poesia se ne intendono.



Ecco una delle tracce lasciate dall'opera di Tobino nell'arte italiana!



Veniamo ora al fatto curioso: sappiamo che il manicomio è diviso in due ali, una maschile e l'altra femminile....ma si parla solo di donne. Ci sta tutto. Chi scrive è un uomo e la curiosità della femminilità nella sua essenza originaria fa il paio con la la percezione dell'esistenza di una più generica umanità che non ha distinzioni sessuali. Solo un'eccezione trova spazio nell'opera e sembra quasi esser sufficiente, per l'autore per definire l'uomo. Si tratta di una persona che era stata ricoverata nella sua clinica per accertamenti. Il suo cognome era Rizzi ma si faceva chiamare Eugenio Flocchi, nome rubato, insieme alla moglie, ad un malcapitato. Questi sembra incarnare la figura del malvagio puro, consapevole. Egli è entrato nella clinica poiché la legge voleva capire se era pazzo o se fingesse. Secondo il nostro, si trattava di un'abilissima recita. Ne parla perché scoprirà per caso, dal giornale che è stato ghigliottinato dalla giustizia francese per due omicidi di donne. La descrizione dei suoi ultimi momenti ci rivela tutta la sua finzione. Quando comprese che lo stavano prelevando dalla cella per portarlo all'esecuzione, la gamba che sembrava irrimediabilmente rigida o per follia o malattia e altri comportamenti, cessarono, e tentò un'ultima impossibile reazione. Si avviò al patibolo cantando una canzone contadina. Ecco l'unico uomo del libro, definito in modo non troppo consapevole, quasi con una meraviglia che non spiega il mistero di quell'essere profondamente malvagio, ma consapevolmente, e a contraltare una marea di donne, spesso aggressive, nella loro follia, ma percepite da Tobino e da noi lettori come esseri gentili resi feroci dall'impossibilità di fiorire... ed esplose per questo nel rifugio macabro della follia....



Ora, in modo forse piacevolmente arbitrario, ma in senso positivo, ottimistico...mi permetto di affiancare in questa meditazione, due testi che hanno la caratteristica di essere toscani per gli autori e anche per l'ambientazione. Testi scritti da maschi più che da uomini e che osservano la femminilità con stupore e un po' di allarme....

Mi riferisco a “Le ragazze di san Frediano” di Vasco Pratolini edito nel 1949, e a “ Sorelle Materassi” di Aldo Palazzeschi, edito nel '34. Per una questione di “età” del libro, diamo la precedenza a Palazzeschi. Ecco in breve la storia: due sorelle, ricamatrici eccellenti, “ereditano” un nipote. A lui si sacrificano. Lo adorano. Ne escono distrutte, ma non certo scontente.

E ora Pratolini: un ragazzo, del quartiere popolare oltrarno di san Frediano in Firenze, si “fidanza” con cinque ragazze contemporaneamente e cerca di reggere le sue trame. Viene scoperto e le cinque donne si alleano per una scena finale di vendetta e “sputtanamento”.



Nel 1934 in Italia siamo già da anni in pieno fascismo (e non sembri un inutile perfezionismo dire in Italia, poiché i fascismi in Europa erano ben più di una decina). Era già nato il surrealismo che nelle sue teorizzazioni non aveva ancor compreso di aver posto quasi al centro l'enigma della donna-femmina che si stava emancipando. Per comprendere quel che accadde si potrebbero leggere “Le tre ghinee” “Una stanza tutta per sè” di Virginia Woolf. Bolliva in pentola già da un po' l'emancipazione femminile e la prima grande guerra, che ha portato le donne in fabbrica, innescò un meccanismo irreversibile. Le donne non vollero rientrare nel loro ruolo di subalterne ad una società maschile. Gli undici dittatori, che non a caso eran tutti maschi, diedero un'importanza quasi angosciante alla famiglia patriarcale, ma fallirono. E questa donna finalmente padrona di se stessa come poteva non spaventare gli uomini? Ed ecco in Palazzeschi due donne adorare, nonostante tutto, l'altra parte della vita, l'uomo, e in pratolini le donne che vendicano in modo plateale e aggressivo la loro dignità di amanti. E in Tobino cosa credo di trovare? La curiosità per l'essenza dell'esser donna. È come se la malattia mentale fosse un vento possente che spazza via i pensieri e lasciasse li un corpo con gli istinti. Ecco cosa sarebbe la donna se si lasciasse andare. Un po' come Medea. E Tobino ci mostra un essere che dipende dall'appagamento sessuale, dal legame con l'uomo, che troppo spesso causa slealtà o violenza nel legame stesso crolla irreparabilmente e, ci mostra anche la donna come essere essenziale, rappresentante dell'umanità che alla radice più profonda di sè, medita e soffre esattamente come noi maschietti per esempio davanti alla morte.



Quel che ho qui riassunto l'autore non lo ha dedotto consapevolmente. In un'epoca di forti cambiamenti nel costume sessuale, la penna era guidata certamente di più da un timore inspiegabile ma ribollente. Cosa mai sarà la donna? Ora che non è più imbrigliata nella cultura patriarcale come faremo noi uomini a relazionarci? Perché era evidente che dinnanzi ad una donna libera di amare e odiare, libera di scegliere o fuggire, l'uomo, abituato a imporsi senza tante storie, col portafogli in mano anche per un matrimonio, si era trovato disorientato. Ora c'era un sentimento di lei che non si poteva ferire, perché se ne sarebbe andata e la famiglia sarebbe crollata perché, c'è poco da dire, ma la donna è madre sempre dei suoi figli e il padre troppo spesso solo in una apparenza, il che ha il sapore metallico dell'orgoglio animale.

Ecco uno dei grandi passaggi, secondo me, del '68 che sembra essere un tumulto giovanile semplicemente e banalmente utopico. Si ha la generazione che ha vinto la guerra, fatta di uomini che fanno i capifamiglia come nell'ottocento, troppo spesso col denaro e non col cuore. E si hanno quei figli, maschi e femmine, che si vivono alla pari, che non sanno viversi diversamente che così. È vero solo fino a un certo punto, come han detto molti personaggi poco-pensanti, che quei figli si sarebbero trasformati nei padri e avrebbero ricalcato esattamente le stesse orme. Questo è accaduto e accade nel ruolo di consumatore, di rapace quando non esiste il cuore, ma ora il maschio sa che, se a fine rapporto, come di solito fa con le prostitute, si è dimenticato del piacere di lei ma ha pensato solo al suo, la perderà. L'uomo per secoli, millenni si è cullato in una società che con la forza e falsi credo, gli permetteva di rimanere un eterno adolescente. Ora è finita. Ma non vuol dire che è finita la festa. Trovo che sia molto più bello sedurre un cuore e da lì un'anima, e possibilmente con le carte scoperte, senza segreti, che pagare o truffare, che in fondo si truffa solo se stessi.



Ormai si sa che godersi un corpo o un essere umano son due cose profondamente differenti. E non si tratta di riesumare il pur amatissimo Platone e la sua guida divina che si pensa tuttora fosse semplicemente un uomo e si chiamasse Socrate. Davvero amare eleva. Davvero potrebbe dare senso all'esistenza. Nella cultura indiana (dell'India) si dice che hai vissuto veramente solo quando hai amato, e non ci serve l'India per saperlo. Lo sapevano anche i nostri nonni, ma comandavano e questo non faceva crescere. È relazionarsi ora l'argomento nel quale è importante diventare esperti e per dare un senso alla vita, bastano pochissime relazioni vere, sincere e che si tratti di un cane o un gatto o un amico o un amore, non fa differenza. Io, a sera, mi rintano nel letto e sento la presenza magica di tre cani che vicino a me si accucciano. Non sono mai morti, non moriranno mai, perchè ho amato e a loro devo la mia eternità. Non so più cos'è il nulla, l'ho sconfitto. È così che accade quando si ha un corpo. Una relazione profonda, solo quella, ci eleva.



E le Paure di quella generazione, le paure di Tobino, Palazzeschi, Pratolini, dei nostri nonni, degli impressionisti, dei dittatori che ora percepiamo come caricature assurde e che inneggiavano ad una famiglia con un capo al quale obbedire, tutto questo, è passato. E la seconda, la terza generazione dopo il sessantotto, vede queste cose come scorie di un passato. Si domanda come sia stato possibile. Ora la donna è un mistero per l'uomo e l'uomo lo è per la donna. E due misteri che si uniscono non han bisogno di comprendersi ma, come davanti alla morte, di accettarsi. Il resto, quel che c'è da capire è una canzone che canti la mattina quasi inavvertitamente e che ti dice che qualcosa di grande sta accadendo, è una vecchiaia che ha imparato a temere più la solitudine della morte che quest'ultima è solo togliersi un vestito di carne, rinunciare a cinque sensi, per ottenerne uno solo, enorme, che ci mostra come il tempo, che dividiamo erroneamente in passato presente e futuro, non è altro che un attimo immenso e tu sei tu, ma anche il tutto e quest'ultima considerazione, quella che sembra più assurda è la più importante, la più irrinunciabile. Senza tempo ritroverai chi hai amato, e l'essere io e il tutto porta a compimento quel particolare angosciante dell'atto sessuale che nella spinta di due corpi mai riesce a farsi uno. E lì, infinitamente accade.