domenica 6 novembre 2011

Una domenica mattina

Questa mattina mi sono avviato di buon'ora a fare due passi. Il cielo prometteva acqua e infatti dopo pochi minuti sgocciolava. Non ho desistito e ho cercato un po' di verde e della terra da sentire sotto i piedi, sensazioni che sono come una messa, come un ricordare che la natura mi è madre e questa madre per quanto agisca secondo leggi che non amo, è talmente onnipresente che non la si può evitare. Anche nel centro di Manhattan, verrai sorpreso dall'alba, questo spettacolo troppo barocco, sempre diverso ma in fondo sempre uguale, e rimani sorpreso di te stesso quando, come il pigmeo che Schweitzer descrive, senti uscire un “Oh!” di meraviglia. Non lo emaniamo noi. È il corpo, che della natura è completamente figlio e sente spesso questo legame in un odore, anche in una forma di violenza che razionalmente aborriamo ma che dal basso, da un profondo terribile eppure nostro ci affascina ovviamente con sgomento. Io della natura accetto il legame ormai quasi come una sudditanza. Non accetto la sua lezione sui sentimenti che li vuole transitori. Anche l'esperienza mi dà torto, ma non posso vivere nessuna relazione, se in essa mi è tolta la possibilità di ipotizzare, sì, almeno ipotizzare, una forma di eternità. La natura dice che colui o colei che amerai, anche solo per abitudine o amicizia a qualcosa soccomberà, forse a se stesso, ma accadrà e se vuoi dimostrare al mondo o a te stesso ma in fondo solo alla Grande Madre che hai compreso, dovresti non dimenticare che chi non è più distinguibile per affetto, diventa preda, cibo, qualcosa di semplicemente usabile.

No. non lo accetterò mai, anche se è una realtà che anche solo passeggiando in un bosco, ci si rivela. Quando dico che ci vuole una morale, che questo decidere che non esiste, che è decisa arbitrariamente dall'uomo, è orribile; quando lo dico è perché una morale, che ovviamente limita il nostro agire, ci permette di comprendere che la natura e la sua filosofia feroce, altro non è che un punto di partenza. Ad essa ritorna solo il corpo e sarà cibo, nutriente per fiori piccoli e oscuri, sgradevoli animaletti. Ma se lasciamo quell'abito e non possiamo fare diversamente, perché nella vita sociale, l'unica che ci rende percepibili a noi stessi, si deve arrivare al punto che nessuno è affidabile? Che nessun volto è volto, ma tutti maschere talmente ben portate che spesso ci si è dimenticati di averle indossate? Sì, metterle non è un atto volontario bensì indotto da un tirocinio della vita, da una somma di esperienze che ci fanno capire quanto sia necessario ripararsi dietro la maschera appunto. Anticamente, molto anticamente, la maschera permetteva di essere un altro. Spesso un dio. Nel teatro, successivamente permise di essere a discrezione del ruolo assegnato e non scelto, o un dio o un uomo. Oggi la materia si fa subdola. La maschera copriva il volto, ora solo gli occhi. Sì, gli occhiali. Se negli Stati Uniti ci si sofferma troppo ad osservare una persona, si rischia la querela. Non scherzo. Possono raccontarci che gli occhiali a specchio son più protettivi, ma lo sappiamo benissimo che permettono agli occhi una mobilità, un'impunità che diversamente sarebbe considerata invadenza e anche di più. E pensateci. Quando comperate i sunglasses, forse involontariamente, selezionate lenti che occultano lo sguardo. E non si agisce così con piacere. Si vorrebbe poter guardare liberamente, ma per farlo ci vorrebbe un minimo di educazione. Sguardi che sembrano toccare, spogliare, infilarsi in anfratti detti anche scollature, son fastidiosi e lo sappiamo. Bisogna imparare a guardare. Saper guardare. E ormai anche per agli uomini può accadere di dover sostenere uno sguardo invadente e anche dal punto di vista sensuale. Ma non solo lo sguardo deve essere addomesticato. Anche il viso. Nelle culture neolatine, di solito, lo sguardo deve parlare e parla eccome! In Francia, questa Francia imbastardita fra Inghilterra e Mediterraneo, troppo vicina al nord per poterlo ignorare e con i piedi nel sud per non poter fare a meno di una relazionalità sensuale, non fa testo. La Francia è la Francia e basta. Ma l'Italia, la Spagna, l'America latina, san fare complimenti con gli occhi. Complimenti che spesso appagano anche se si deve far finta di non gradire e questa recita fa sorridere.... e poi vai in Gran Bretagna e....ricordo il mio primo viaggio. Scrivevo appunti brevi su un quadernetto con un Gauguin come copertina. Dopo una settimana, vedo due Punk (si scrive cosi?) che si baciano. Son seduti in un parco. La panchina, viene usata in modo molto personale. Il sedere appoggia dove dovrebbe stare la schiena e i piedi dove dovrebbe stare il sedere. In Italia, questo è un atteggiamento adolescenziale. Da loro ho capito che è un tentativo di protesta. Per loro l'abito, come se proseguissero un discorso iniziato nell'antichità, parla, definisce, protesta. Ed ecco cos'è un Punk: colui che osa e va contro le convenzioni. Non si guardino creste multicolori o giubbotti borchiati, facce truci e passo tipico di chi deve dare inizio ad una rissa. no. È tutt'altro. E in quella pagina del quaderno che battezza il settimo giorno in Gran Bretagna, scrivo che mi son reso conto che, per la prima volta ho visto due persone che si baciavano, ed erano quei due punk sulla panchina..... sì. Per i britannici l'abito è ancora distinzione sociale. Un minimo cambiamento è un grido dell'io e negli anni sessanta quell'io ha gridato molto. Non può essere diversamente per un popolo che vive ancora in una società strutturata in classi sociali. E così capita che sei in tram e “senti” degli sguardi, alzi gli occhi e immediatamente, come l'ombra delle rondini sul muro, volano via. E nervosamente, perché sanno di essere stati colti nell'atto illecito di osservare. Loro guardano a terra o fuori dal finestrino in modo fintamente distratto e io sorrido, ma amaramente. Questa è mancanza di libertà, alla quale soggiacciono inconsapevoli che di prigionia si tratta. Il pensiero, come ci raccontava Orwell, deve rimanere chiuso nel cervello e non va rivelato. Quel pensiero siamo noi e se lo riveliamo non abbiamo più un io e senza io si è nulla. Orwell insegna che si dovrebbe resistere all'insulto finale che in 1984 è descritto con una gabbia che contiene topi e che viene immersa nella testa. Si potrebbe aprire una finestrella e fra noi e quella bestia che è percepita come immonda, non ci saranno più difese.... sì, Orwell dice che si deve resistere anche a quello. La società vuole tutto, per soggiogarti. La Gran Bretagna è bella. Ricordo a Oxford, le papere che raggiungevo con un pane appena comprato. Mi sedevo per terra e lo spartivo. Mi rideva il cuore. E il cavallo che passò per William Street, dove stavo, e “assaggiò” la posta che non si rivelò di suo gusto, e l'immenso rispetto per i cani, e i gatti e perfino e giustamente anche per i criceti. Nei mondi che ci rendono soli, individui troppo individuali, ci si lega agli animali, che sempre senza maschera ci dicono se ci amano o se ci temono. Nella cultura di quel nord, si faceva il baciamano solo alle donne sposate. Farlo alle nubili era considerato lascivo, licenzioso. Ma come potevi saperlo? Nulla nell'abito lo rivelava. E qui si scopre il punto critico. Devi conoscere l'altro. Pretendere di aver a che fare con chi non conosci non è tollerato. Se ti interessa parlare con qualcuno, devi farti presentare. Ecco contro cosa lottavano quei ragazzi punk seduti nel parco. Ecco la liberà che invidiano al sud dell'Europa, che trovano volgare, sporco e disordinato, non perché lo sia, ma perché son attributi che si danno senza ragionare alla volgarità. Che sordide leggi! Ed esistono ancora. Smorzate ma le ho toccate. L'elite finge noncuranza, ma ci sta accuratamente attenta alle sue leggi. Un tempo era giusto, razionale quel che rispettava la procedura, nei riti come nella società. Quella è ancora la radice di troppi comportamenti che ci faranno sorridere solo quando nell'educazione impartita, sarà ridotto al minimo quell'intento che l'ha resa feroce, ingiusta, maschera, ovvero il dominare l'altro. L'unica regola deve essere il rispetto. Uno sguardo per esempio non ferisce, ma deve farsi spazio piano piano.



E camminando con le scarpe che si appesantiscono di terra e la pioggia sottile che mi costringe ad un cappuccio che mi fa pensare, con un sorriso, ai frati, raggiungo il caffè. Bastan due volte ad un essere umano tendente alla socievolezza per fare abitudine e se alla terza quel dato signore manca ci domandiamo come sta. Questa è la poesia originaria del vivere civile, come quella della natura, in cui ancora presente è quella del pigmeo di Schweitzer e del suo verso di fronte ad uno spettacolo naturale, che ancora sento sgorgare in me e incontrollatamente uscire. Se poi riuscirò ad unire l'istanza del mio essere sociale con la natura, ecco che sboccerà qualcosa, di positivo, che non ha bisogno che di una regola, la tensione verso la felicità del corpo e della mente, insieme.



Mi impossesso di un quotidiano e già alla prima pagina sorrido. È il sei novembre. In prima pagina de “La “Stampa”, brilla quello che è considerato un errore grammaticale. Un sottotitolo di un articolo dice “una coppia di alpinisti da mercoledì sono bloccati sulle Grandes Jorasses”.

Sento discutere da quei volti ai quali sono abituato da pochi giorni. Quel “sono” plurale su un soggetto singolare, brucia. I giornalisti, per l'ennesima volta si beccano vari improperi che son giusti quasi sempre, ma questa volta mi oppongo. Faccio presente che un paio di anni fa il cardinale di Genova disse, in un'intervista, “la gente fanno” e in un libro di narrativa di Pavese che è piemontese come quel giornale, in una prima pagina c'è qualcosa di simile. Invito a non indossare la rigidità dei benpensanti. Dico che la lingua non è immobile, che cresce e si spera che si semplifichi e che riesca a supportare o sopportare meglio i significati. Tante volte, se ci si fa caso, non troviamo frasi che sappiano contenere quel che vogliamo dire. I nostri pensieri son creature della lingua e la lingua è una nostra creatura. Un cerchio che si fa virtuoso se non si perde di vista il fine.



Una pacca sulla spalla, mi offrono il caffè e mi dicono che effettivamente, visto che tutti sanno l'inglese, il people dagli inglesi, vuole il “sanno” e non il “sa”.... rispondo che si tratta di una chimica più complessa. Il soggetto singolare che contiene un molti è fastidioso. Troverei più bello (che è qualcosa che va oltre la correttezza) veder scritto e sentir dire che le “genti sono”. In fondo people si regge su un articolo (mentalmente intendo, di fatto the people non si dice) che include tutto, il maschile, il femminile, il neutro e anche il plurale e il singolare. Penso quindi che gli inglesi dicano “le genti sanno” e non “la gente sanno” che comunque almeno per me suona stonato. Per un dittatore la moltitudine è un'unità, ma per me e per il mio cane, e rispetto le sue lezioni, essa è un insieme di singoli piacevolmente diversi.



Mi sono anche messo in tasca un tovagliolino. Ho riportato un frase letta sulla gazzetta dello sport. Fabio Cannavaro avrebbe detto in un'intervista “La Juve è l'Avversario, il potere. Ne so qualcosa anch'io quando tornavo”. Mi domando. Si tratta della trascrizione esatta di quel che il calciatore ha detto o di una trascrizione del giornalista? È solo questione di decidere chi è “messo da ridere....”.

Il giornalista che comunque trascrive una frase del genere o è messo male o intende sottolineare la “messomalanza” di un calciatore e per esteso di uno sportivo. Son mosche bianche quelli che san fare qualcosa di più che gestire il corpo nella loro attività. Ricordo per esempio Pessotto. E nel frattempo non dimentico le interviste ad Alberto Tomba, e penso di non essere l'unico. La prima volta che lo sentii, il giornalista gli chiese se nel tempo libero andava in discoteca e si coglieva che la ben poco sottile sottigliezza intendeva indagare se viveva come un asceta per accedere a grandi risultati oppure era un talento naturale che era in grado di rinunciare a ben poco della vita quotidiana. Ebbene lo sciatore rispose: “No, io in discoteca non ci vado mai però ogni tanto ci vado”. E mi domando se in un mondo come quello dello sport che attualmente si fa visibile nei media solo se supera un certo livello di resa economica, per intervistare menti così terra terra, serva una cima.... e così mi spiego gli strafalcioni che si leggono o sentono nel giornalismo sportivo. Devono parlare di poco, e quel quasi nulla deve riempire una marea di pagine. Non è semplice. E l'elementarità spesso al limite del ridicolo di certi sportivi, che vengono sorretti solo finché rendono soldi, fa il paio con giornalisti del medesimo livello. Qualcuno si domanda ancora se Alberto Tomba vada in discoteca? No. È pulsione di un attimo. Il solito inesistente presente che nell'essere stato definito come qualcosa di diverso da passato e futuro, si fa invadente e quasi unico protagonista. Ora altri idoli “tartagliano”. Brilla un Gattuso che dice di non dimenticare mai che se non “se la fosse cavata” col pallone sarebbe finito in una fabbrica e la sua sincerità semplice piace anche a me. Brilla neramente sull'Italia il comportamento ai mondiali di Materazzi che insulta Zidane. Questi reagisce con una testata che è più simbolo che danno. L'italiano cade a terra, si rotola nel suo finto dolore e ottiene l'espulsione dell'eccezionale rivale. Ci sta che il francese venga mandato fuori. Mai reagire, ma considerare positivamente il comportamento di quell'altro giocatore è sintomo di qualcosa di molto brutto. Il messaggio che passa è che tutto è lecito per vincere non solo nel calcio, ma per esteso anche nella vita. Ricordo un calciatore tedesco che ai mondiali dopo aver segnato fece un gestaccio rivolgendosi ai tifosi avversari. L'allenatore lo “mise giù” e a fine partita lo spedì a casa. Motivi? In quella situazione lui rappresentava la Germania e aveva agito in un modo che la sua nazione non considera proprio. Non voglio certo dire con questo che i tedeschi siano migliori. Difetti ce ne son ovunque e si fan pregi a seconda delle situazioni, ma almeno lassù hanno compreso che uno sport amato da un popolo viene percepito anche come palestra morale..... mah. Fortunatamente mi sono emancipato dallo sport. Se diventassi direttore di testata, penso che lo eliminerei completamente. Non serve scriverne sui quotidiani. Le notizie di quell'argomento son invadenti, potenti. Tanti anni fa la domenica pomeriggio la radio la sentivi ovunque. Poteva venirti il sospetto che ormai anche il vento parlasse di calcio. Ora è presente tutti i giorni. Un oppio a poco prezzo. Un bel giornale che se ne dimentica anche di lunedì..... sì, mi piacerebbe. Perché per come vanno le “cose” ora, sembra che conti più lo sport, della cultura, dell'arte, della storia, dell'ecologia, della pace (degli altri), della fame (sempre degli altri), eccetera.





Per aver fatto quel ragionamento su “people”, mi costringono bonariamente a bere un altro caffè , offerto anche quello. Solo vent'anni fa, questi piccoli premi per una discussione da Caffè, sarebbero, sarebbero stati grappe o Campari. Due dosi di caffeina le reggo, ma poi scappo e torno coi piedi nella terra e volo con la mente alla sensualità di Granada, sarà un luogo comune finché volete, ma ricordo che anche la curvatura di una caraffa era femminile, e il fiume, e il passo delle donne e il mordere di una pesca di una donna ormai negli anni, ma che in lei si fa ancora un gesto felino che scalda il sangue.....



dimenticavo... quel che ho meditato sullo sport in quel porto di mare che è un bar, non l'ho detto. Lo dico qui e lo getto nell'immensità, nell'infinito del web. Mi spetta l'oblio come premio finale, e così spero anche per le mie parole, e torno alla Yourcenar che rileggo con un piacere tale da farmi sentire questa giornata solitaria, viva come una festa.

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