giovedì 3 novembre 2011

Pistoletto e "Il Terzo Paradiso"

Mi accingo a leggere “Il Terzo Paradiso” di Michelangelo Pistoletto. Ammetto di partire prevenuto. Dopo aver letto la premessa, la prima pagina del primo capitolo e viste le immagini allegate, ero tentato di lasciar perdere. Il libro non è mio. Me l'ha prestato un amico col quale dialogo spesso di arte e roba confinante. Si chiama Gianluigi Miccoli, ha degli animali, gatti, quindi ha imparato a ragionare non solo con la mente. Legge molto e medita anche. Si litiga spesso bonariamente ed è capitato di recente che mi ero talmente accalorato nel difendere le mie posizioni che non condivideva, che ha sospeso il dialogo perché mi credeva adirato. Nell'immediato silenzio della discussione troncata, son riuscito a percepire il volume della mia voce, la mia gestualità eccessiva. Spesso quindi mi aiuta a regolare una passionalità che può essere fraintesa. Io non odio nessuno. Prima, un minuto fa, una cimice aveva deciso di passeggiare sul tavolo. L'ho presa e l'ho adagiata fuori su una pianta. Odiare è una perdita di tempo. Non mi riguarda. Ma quando si dialoga si deve stare attenti. La gente vive in una mistura che contiene anche l'odio, l'aggressività, la rivalità. Gianluigi spesso mi fa comprendere, e chissà se ne è consapevole, che forse ultimamente ho deciso di vivere un po' troppo ritirato. I motivi son svariati. Uno lo si può desumere anche da quel che scriverò ora in queste pagine. Il succo è questo. Ho motivi che potrebbero essere anche sbagliati, che mi fan credere che un mondo dell'arte non attualmente esista. Coloro che lo gestiscono e coloro che si definiscono artisti, per me non lo sono. È questo il punto. E per me che mi considero tale è un bel casino. Penso si sia capito che frequento Tonino Guerra. Ci rintaniamo, a casa sua, per pomeriggi interi e a volte per intere giornate e dialoghiamo. Mi rendo conto che su questo argomento “la vede” come me. In pubblico quando gli fan certe domande preferisce cambiare argomento e poi cerca con attenzione, di selezionare le frequentazioni. Di più non si può fare, mi dice, e io che son di un ottimismo nero, agisco nella relazionalità, meno, anzi, menissimo di lui senza rendermene conto.. è che si fa sera che non me ne accorgo.... e amo varcare il confine fra vivi e morti stando più spesso con quest'ultimi. Fregiarsi della frequentazione di Kafka, Melville, Fitzgerald, questa sera della Lispector, non è fantasia. Muore chi non ha saputo eternarsi. Loro son vivi, punto e basta, e mi danno molto. Non rifuggo certo le occasioni d'incontro, ma in un “mondo” dell'arte desertico ecc come quello attuale, mi vien più facile stare in casa e frequentare coloro che si son dileguati dalla tangibilità. Ho parlato di ottimismo nero e con esso intendo il credere in qualcosa di positivo, ma che costa quasi, se non completamente, la vita. Gianluigi è quindi un martire più che un privilegiato, poiché sono un po' (un po?) a senso unico. Mi aggrappo alle idee che ho maturato come ad una scialuppa di salvataggio e procedo in quasi solitudine. E ora mi ritrovo da leggere questo libro di Pistoletto perché, per correttezza non ha senso dir bene o male se non si conosce. Conoscendo comunque un poco il suo agire, penso che tenderò ad “usare” non tanto le sue idee ma il modo di porsi considerandosi un artista, per mostrare il vuoto che secondo me anche lui rappresenta e, penso, inconsapevolmente. Mi spiego. Nascere in ambienti carenti di artisti veri e pullulanti di artigiani sopraffini e intellettuali che spaccano il capello in quattro e ormai anche in otto e sedici..... come è possibile diventare qualcosa di diverso? Si è figli del proprio tempo, quasi totalmente, e raramente da esso si riescono a prendere le distanze. Si rotola nella valanga del tempo e non ci si accorge nemmeno che di una valanga, oltre il resto irreale, si tratta. Si deve provare a volare in alto a staccarsene, spesso. Farsi travolgere si ma poi osservare da lontano la valanga ed è ovvio che sarà un poco come osservare se stessi. Mettiamola così. L'intellettuale ha a che fare con una collana di perle. Le vede cadere dal filo del tempo e le fa sue, ma esse son passato.... e il presente, non lo domina poiché ne fa parte completamente e solo col pensiero. L'artista ha solo un particolare in più; sa distaccarsi anche da quella perla sospesa fra passato e futuro. Chiamarla presente è riduttivo. Provate a pensarla come qualcosa di sospeso, che sta cadendo nel mucchio delle altre e basta. L'artista vede la perla nella caduta e la osserva. Se ne è interiormente distaccato, sa farlo, poiché grazie ad un dono incontrollabile o una maledizione, si ritrova impigliato anche nella perla che fu futuro, la prossima, e la guarda con sgomento, comprendendola in una visione d'insieme che la rivela. Ne esce spaventato e si rifugia nell'opera producendo un riflesso imparagonabile di quella visione. E non usa l'intelligenza se non in seconda istanza. In lui il simbolo nasce da dentro. Lo ritrova che galleggia nell'io che nello spavento si è sciolto in un noi immenso. Lo raccoglie, cerca di comprenderlo il più possibile e più ci riesce più è grande, e poi lo trasforma in un linguaggio, di solito quello col quale ha più dimestichezza.

Il simbolo potrebbe stare nella parola, nella frase, nell'opera nella sua completezza. È imprendibile ma percepibile. Se qualcuno lo strappa dal suo mondo, si comporta come i fiori; resiste qualche giorno e poi il suo fascino si fa putrefazione. Volerlo “bere”, cercare di farlo nostro non può essere quindi un atto intellettuale. Si deve accettare di lasciarsi andare a Dioniso, e disgraziata quell'epoca recente che lo ha confuso con droghe e assenzio!

E l'uomo illuminista del quale quello odierno mi sembra un eccesso, una diversa caricatura, l'uomo illuminista dicevo, che fa di tutto un oggetto smontabile e comprensibile? Eh si, lui si arrabbia e non sapete quanto, se non capisce. Già gli sfuggì dio e decise di negarlo... e come non negare quell'essere che si percepisce come artista se non si riesce ad esserlo se non per un dono? E poi, si può effettivamente parlare di dono? Non credo. Forse la regola non è dimostrabile, ma non essendo io un fanatico dimostratore di tutto, non ne faccio una malattia, e ho comunque constatato che artista spesso, troppo spesso diviene colui che nell'infanzia ha scoperto la morte....e non la dimentica mai.

E cos'è l'artista, chi è se non necessariamente un mezzo matto per gli intellettuali? Ma lo sappiamo bene, e anche loro lo sanno, che è l'Albatro di Baudelaire e come lui è bello solo quando vola e quando è a terra vien dileggiato e gli si mette la pipa in bocca....

Come combatterlo? Rendendo pertinente all'intelligenza, con falsificazioni ben pronunciate, il ruolo di artista. Ecco quel che è accaduto. Se si riesce a rendere credibile l'indimostrabile, utilizzando una dialettica funambolica, ecco che la definizione di artista potrà contere l'intellettuale. Questi ci ha provato a sostituirlo, ma ha fatto cilecca. Se scorro le immagini di Pistoletto vedo solo e sempre un qualcosa, un segno, che lui definisce simbolo e che rifà con tutto quello che gli capita sottomano.

Ma.....si può costruire a tavolino un simbolo? Non vi sembra evidente che si tratta di una falsificazione? Ma a loro, a lui, è necessaria. Devono elaborarlo con l'intelletto perché non hanno imparato a “lasciarsi andare” a farlo emergere da dentro, da quell'io che non è mio ma nostro e che fa dell'arte vera un dono condivisibile.

Quando nacque l'arte concettuale, e fu in due luoghi quasi contemporaneamente, l'usurpazione del ruolo divenne definitiva. Dire che l'idea, o il concetto è l'aspetto più importante dell'opera è stato l'inizio del delirio. Facciamo un esempio. Idea. Abbasso la guerra. ok. L'idea c'è. Come la rappresento non è importante e esporrò, coerentemente con un pensiero ridicolo un secchio di bambole. Se vale l'idea e basta, l'opera deve essere accettata.....ma i fruitori, quelli semplici, che spesso parlano coi sogni, dei sogni, con un dio o anche più d'uno e che han maturato l'idea che l'artista sia il portatore di una follia positiva, chiarificatrice, non ci stanno. Stupiscono e tacciono, poiché immense associazioni di persone solo intelligenti non esitanoa trattarli con una superiorità impressionante. Lo fanno per difesa. Perchè sanno che hanno usurpato un ruolo che non viene assegnato dall'uomo, che non si può distribuire o far crescere con un ciclo anche calibratissimo di studi e frequentazioni stratosferiche.

Ti sfiora la morte. È questo. E non se ne può parlare, perché questo dono orrendo che rovina la vita a chi lo possiede ma fa brillare quel che involontariamente emana ma non produce, come di un'ostrica la perla, perché di questo dono, come se fosse possibile patteggiare alla Faust si cerca di trovare la formula che ne dà il possesso. E invece il segno arriva, mentre sei distratto dalla vita, mentre stai crescendo e ti sforzi di comprendere come si cammina in senso concerto e pure metaforico..... e non è detto che davanti al suo tocco ci si svegli. La morte sceglie, e scaglia il suo dono che ti rende morto in vita. Le rose nere di un regno immenso, incalcolabilmente più vasto del presente nel quale l'intelletto sguazza per soddisfare il corpo, sfugge a quelle opere che non hanno un pubblico vero, ma un'accolita furibonda che mira solo a difendere la possibilità di essere e calcolare quel che deve venire da un volo impalpabile, distante, non nostro.

Quando ho detto con Gianluigi detto che il libro di Pistoletto non mi attirava mi ha fatto, mi son comunque sentito a disagio. Lui almeno l'aveva letto. Ma quel che non m'ha detto!

“Secondo me da giovane è partito bene e poi si è riciclato con queste cose qui perché la vena è finita”.

Mi ha poi detto che l'idea del terzo paradiso è bella e ti prende, ma che è evidente che con l'arte non ha nulla a che fare. Si tratta di un pensiero, e quel simbolo ricorrente non ha senso se non si legge il libro. Io aggiungo che è evidente che l'opera deve avere un'idea. Quel che recrimino, e insisto su questo punto,è che non deve essere pensata, ma sgorgare da dentro.

Fitzgerald disse: “non si scrive per dire qualcosa. Lo si fa solo se si ha qualcosa da dire”.

Parole perfette. E si può aggiungere che quel qualcosa da dire non lo decidi a tavolino. Essere artisti è ormai un atteggiamento. A volte pretende di avere qualcosa del messianico, a volte agisce in modo così sgangherato che vai a una mostra e se chiedi “cosa vorresti dire?” ti rispondono che ognuno ci vede quello che vuole. Anarchia. Banalità.

Ci vuol coraggio a leggere il libro di una persona che inventa e non “sente” un simbolo, che lo riproduce con mille materiali diversi. Non è nemmeno un giocare, perché nel gioco non è prevista la noia.

E l'esito in me è solitudine. La solitudine dell'artista, che non deve temere solo chi lo sa monetizzare e che male che vada non è inutile. È solitudine, perché un secolo che ha deciso di valorizzare i linguaggi artistici e gode nel mimarli, mi fa una pena infinita.

Facciamo un esempio: l'ermetismo.

Si insegna una tecnica e la si imita. Andava così e oggi la si pensa in quel modo. Sembra riproducibile eliminando punteggiature, aggettivi, introducendo vocaboli stridenti che sembrano così più sonori, come “schiocco” e “stride” (che sia il pino o il gorgo è secondario), ma sempre di atteggiamento si tratta....

Ma come abbiamo colto l'ermetismo? Dal dolore. Esattamente da quel dolore talmente immenso che si rimane ammutoliti, e quando si riesce, e a fatica, a dire qualcosa, son poche parole, solide, intense.

Quando mai nella sofferenza, ci si perde in aggettivi e barocchismi?

E' da sempre il linguaggio del dolore. Altro che tecnica. Ridurla a questo è non comprenderla a fondo.....è giocare col dolore, e chi lo fa sarà punito con l'oblio.

L'ermetismo esiste anche in pittura. Lo vediamo quando la tavolozza si semplifica, quando un colore e le sue sfumature la fa da padrone. Il periodo blu di Picasso. Si soffre. Si intinge poco nel colore, che son le parole dell'immagine.....

Non leggo e vado a letto. Ma chi me lo fa fare!!!! la coerenza non è roba mia e particolarmente di giovedì. Ci vuol pazienza con gli artisti....

e non riesco a non pensare a quel genietto di Manganelli che scoprii solo e forse, per caso, mentre artisti come questi, come la gramigna, son dappertutto.

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