mercoledì 10 luglio 2013

Silvia Larenza: "Campanelle azzurre e fischietti magici"


Una telefonata: “Te la senti di presentare un libro?”

Ma di cosa si tratta ...”

E' una favola. Immagino che prima vuoi leggere qualcosa”.

Di solito rifiuto una volta scorse alcune pagine. Troppa gente si atteggia ed è talmente abituata a farlo da non riuscire più a rendersi conto conto che, la maschera che indossarono, è ormai diventata per loro, il volto. Amo le favole ma, poiché scrivo, so per certo che è difficile, veramente difficile scriverne una vera. Servono, in una vita, delle coincidenze rare per riuscirci.

E penso a Jane Francesca Elgee che era nota per le sue, di favole, al punto che il figlio non veniva mai presentato col suo nome ma come figlio di Lady Jane … anni dopo si invertirono i ruoli e presentavano la madre come mamma di Oscar Wilde …

e lui, Oscar Wilde, è stato uno dei pochissimi a scrivere anzi, inventare, favole. Ebbe una madre che lo guidò nel difficile compito di avere fantasia. Accadde qualcosa di simile al grande poeta Esenin. Era un bambino e chiese col padre: “ma chi ha messo la luna in cielo!” E il bravo genitore gli disse. “Ti ricordi di quel tale grande e grosso che vende pentole al mercato? È stato lui. La prossima volta che andiamo te lo mostro!” Non vi fa sorridere? A me si, mi allarga il cuore; ma quel padre, nella sua bonaria comicità, forse non sapeva che così si alleva il sogno, la mente che impara ad andare oltre la concretezza. E per il profumo di favola penso a Trilussa, ormai poco letto se non nella sua Roma.

Ci fu un periodo nel quale, alla corte del re sole, poi in Germania con i Grimm e in Finlandia, per esempio, si raccolsero testimonianze orali di racconti ormai senza tempo. Li chiamano favole. Ma lo sono? Per me la favola è una conquista enorme. Le scrive chi ama la vita.

Ma dimmi qualcosa di questa persona...”

E' una donna.”

Succede e non è grave. Anche Beatrix Potter era una donna e tuttora la leggo e guardo i suoi acquerelli con piacere! Ma come mai ha deciso di scrivere una favola?”

Penso che sia perché è nonna.”

Va bene. La presento.”

Ma ti fidi anche se non hai letto niente?”

Si. È l'intenzione che mi interessa, e assai più del risultato. Maometto e Cristo la pensano allo stesso modo e penso si tratti di personaggi affidabili, non credi?”

E così, via e mail è arrivato il testo.

Devo dire qualcos'altro sulla favola. Essa esiste e “cammina” con passi nel novecento, ai più, sconosciuti. Nabokov racconta un incontro con un folletto. Un gioiellino breve, perfetto che si trova nel volume “La veneziana”. Axel Munthe, ingiustamente quasi dimenticato, ne incontra uno simile, e lo potete leggere ne “La storia di San Michele”. In ambedue le narrazioni siamo accolti dal fremito della nostalgia. Quel mondo magico, vero per l'infanzia, è distrutto, in Russia, dalla violenza della rivoluzione, in Svezia dalle esplosioni per produrre i tunnel per far viaggiare i treni. Civiltà e violenza, la prima nella sua follia, e la seconda nel suo eccesso di razionalità, non hanno più posto per questi voli sognanti… ma accade che un meccanismo antico, qualcosa di arcaico alla base del cervello più primitivo, fa riemergere un mondo. Albert Schweitzer raccontò la sua emozione quando vide l'incontro di un pigmeo con l'alba nella foresta. Questi, mentre osservava estasiato, modulò semplicemente un lungo e basso “ooooooh”. Schweitzer intuì, giustamente, che quel verso, introvabile in un vocabolario, era la nascita, continua, della poesia.

La civiltà può relegare la favola nel libro e nell'infanzia, ma ci son due momenti dell'esistenza nei quali si inventa col cuore in mano; quando si diventa genitori e quando si diventa nonni. Di solito è più la seconda tappa a permetterlo, poiché i nonni non sempre ma spesso, hanno più tempo.

E mi permetto di dire con una certa rabbia, che un assassino di favole è l'ospizio. Quegli idioti che si liberano dei loro vecchi, della loro memoria, gettandoli in una morte in vita, non sanno di defraudare i figli di una ricchezza che vale tanto, troppo e li consegnano all'età adulta senza difese contro la tristezza.

Silvia Larenza è una nonna e la sua gioia, il suo modo di promuovere la vita, ha preso la forma di una favola. Ho chiesto com'è nata l'idea e ho compreso che di fatto non è accaduto nulla di pensato, di calcolato. Il nipotino abita distante e la sera, l'appuntamento telefonico, si è trasformato in una narrazione.

A questo punto mi ha incuriosito l'argomento. Ha inventato? Ha fatto un collage di quel che le passava per la mente? E invece no. E mi racconta di una nonna che indubbiamente le voleva bene, ma non le permetteva, per paure varie, di uscire dal recinto del giardino. E come fare allora ad oltrepassare quel muro che lo cintava? Con l'aiuto di un folletto che la guidò, lei bambina, nel suo mondo incantato.

È bello e mi piace che quel ricordo sia tornato a galla così. Vi posso raccontare di un bambino che in un giardino enorme in Lombardia, troppo spesso solo, diede il nome a gli alberi e con essi parlava. Ora che è adulto, ha ancora cura di loro e sempre chiede al giardiniere come stanno. Se qualcuno di loro “soffre” cerca la cura, se uno muore, va a salutarlo per l'ultima volta. Quel bambino ora cresciuto si chiama Piersilvio, il cognome lo intuite, e io spero che con l'innocenza della sua infanzia, ai figli o nipoti, racconti dei suoi consessi con alberi saggi e birichini.

Come potere cogliere da questi due esempi, da quello di Silvia e Piersilvio, tutto parte da una sofferenza intollerabile che si chiama solitudine. Quel che è capace di fare un bambino se lasciato libero di vivere ed esplorare lo potete leggere con divertimento nel libro autobiografico di Gerald Durrell intitolato “La mia famiglia e altri animali”. Vale la pena di farlo per comprendere lo spazio enorme che quei due bambini dovettero riempire con la fantasia … e dopo anni, quel sottile dolore, in Silvia si fa favola.

E disegna anche. È stata vittima di un'accademia, ma si sa che nessuno ci dice che quel che ami non devi fartelo insegnare ma impararlo da solo … comunque, quelle immagini colorate, che invadono d'infanzia anche la copertina, sono sicuro che per i bambini funzionano.

Ora sta scrivendo qualcos'altro. Mi auguro che vi sia sempre un motivo valido poiché come scrisse Fitzgerald, “si scrive solo se si ha qualcosa da dire....”

Nel primo libro la gioia di un nipote è stata per lei il coronamento dell'esistenza. Ora essere nonna, vispa e piena di voglia di fare, prenderà forme ammiccanti, come dolci squisiti, pietanze di quella terra, la Puglia, che secondo il mio palato è la migliore d'Italia e … immagino che a sera, quando ha scritto l'ultima parola, prima di consegnarsi all'oblio del sonno, immagino che canticchia qualcosa di elementare e profondo come quell' Ohhhh del pigmeo, qualcosa di antico e vero che è alla base di tutto quanto diventerà poesia.




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