domenica 14 luglio 2013

Vladimir Nabokov: "Pnin"


Ho riletto, dopo tanti anni, in un sorso, in un'unica giornata, “Pnin” di Vladimir Nabokov. Di questo grande, noto ai più solo per Lolita, ho già parlato in in altro post dedicato, se non ricordo male a “l'originale di Laura”. Se quest'ultimo testo citato mi commosse alla prima lettura e non esitai a regalarne immediatamente, appena uscito, sia al caro Tonino Guerra e ad altri, “Pnin”, ha richiesto una dose di tempo più forte. I motivi possono essere due; forse quella prima lettura era contaminata da qualche frammento sgradevole di quotidianità e quindi, potrei aver letto, diciamo, con un frammento irrisorio della mente. Se i problemi ci assillano, anche un capolavoro diventa inerte. A me capita anche un'altra situazione che non so spiegare e in fondo non mi interessa farlo. Vado a periodi per tante cose della vita. Questo è il secondo aspetto che potrebbe avermi deviato dal cogliere lo splendore delicato e al contempo monolitico, notevole, di “Pnin”. Vado a periodi per il cibo. Per anni non ho toccato l'anguria. Mi è sempre piaciuta, ma non mi attirava. Tutto qui. La sua aura di freschezza che in certe estati torride vale quanto un salto in piscina, mi era totalmente indifferente. E la catena di indifferenze approda all'arte se penso alle fette di anguria di Mattia Moreni che comprendevo e mi rendevo conto del loro valore, ma non ne ero attirato, e se avevo davanti anche un originale, reagivo con indifferenza. Così è stato per il gelato, che per una decina di anni non ho nemmeno sfiorato, e per la musica classica che in certi periodi mi salva ed è uno specchio salvifico, e in altri quasi mi indispone e tendo a spegnere lo stereo e cercare le parole nei libri. Potrei aggiungere un terzo motivo, forse più veritiero e che oltre il resto si può sommare ai precedenti; leggo tanto e vivo, quindi evolvo o involvo, questo non posso comprenderlo, ma comunque cambio. Il libro è sempre uguale, ma io no. Questo è il punto, e oggi, “Pnin” mi si è rivelato forse non ancora in tutta la sua pienezza. Serviranno altre letture.

Pnin è un esule russo. Cosa accadde in una certa epoca agli esuli, Nabokov, esule egli stesso, lo racconta in un passo che riporto qui:

...il nucleo e significante di una società in esilio che durante il terzo di secolo in cui fiorì e rimase praticamente sconosciuta agli intellettuali americani per i quali, grazie all'astuta propaganda comunista, il concetto di emigrazione russa corrispondeva a una massa indistinta e assolutamente fasulla di cosiddetti trockisti (qualunque cosa fossero), reazionari in rovina,agenti della Ceka convertiti o travestiti, dame titolate, preti di professione, proprietari di ristoranti e raggruppamenti militari di russi bianchi, tutti privi, comunque, della benché minima rilevanza culturale.”

Devo premettere, prima di proseguire, che il libro, ho la versione Adelphi, purtroppo manca di note e almeno due le avrei messe …

Mi sembra sia il caso di spiegare cosa sia un Vecchio Credente, e credo che meriti la maiuscola proprio perché vecchio credente, scritto così sembra riferirsi ad una persona anziana che ha come caratteristica più evidente, la sua fede.

Anche “russo bianco” merita di essere spiegato. Non comprendo o faccio finta di non comprendere, che chi gestisce le case editrici non sia consapevole che, oltre all'ignoranza, che non considero tipica di questa epoca, esista una generazione nuova che non nasce “saputa”. Si ricorda Calasso che da piccolo portava il pannolone esattamente come Einstein e il papa? Sembra di no. Nella vita si parte da zero e un sedicenne, un ventenne eccetera, merita un rispetto che in questo caso consiste nel non far “cadere dall'alto” il prodotto artistico, complicarlo con piccole assenze che, come nel caso del vecchio credente, scritto minuscolo, porta fuori strada. Se nel contenitore della nostra cultura, un dato indossa perfettamente gli abiti di un altro, solo l'aiuto esterno può salvarci …

Torniamo a “Pnin”. Con la Rivoluzione russa, l'elite cercò la fuga per salvare la pelle. Penso che non lo si possa dire in modo più chiaro. Pnin fu uno di quelli che per un poco divenne Guardia Bianca, ovvero cercò di opporsi all'ondata comunista, e bello su questo argomento è l'omonimo romanzo di Bulgakov intitolato proprio “La guardia bianca”. Ebbene, i russi scappano, e per me il riferimento più bello è nel racconto “Lo spirito dei boschi” presente in Italia nel volume di racconti “La veneziana”. Chi erano questi esseri fuggiti? Persone con una educazione e un modo di intendere la vita sociale che non aveva più senso a Parigi, Berlino o Wienna. Era poi tragicamente fuori luogo negli Stati uniti, luogo nel quale un docente, come ci racconta Nabokov, può avere alti incarichi anche se è ignorante come un tronista. L'importante è che sappia attirare capitali, che conosca ricconi e fondazioni e abbia amicizie ben inserite per far allentare i cordoni della borsa.

Nella narrazione siamo agli inizi degli anni cinquanta e leggiamo:

...devo dire che mi ha ricordato la figura probabilmente leggendaria di quel preside di francese secondo il quale Chateaubriand era un famoso chef!

Attento! Disse Clemens, -questa storia è stata raccontata per la prima volta a proposito di Blorenge ed è vera-...

In un altro passaggio leggiamo:

... due interessanti caratteristiche distinguevano Leonard Blorenge, preside del dipartimento di lingua e letteratura francese: non poteva soffrire la letteratura e non sapeva il francese. Questo non gli impediva di coprire enormi distanze per partecipare a congressi sulle lingue moderne, nei quali faceva sfoggio della propria inettitudine come se si fosse trattato di un nobile vezzo, e parava con sapienti affondi di pesante umorismo qualsiasi tentativo di invischiarlo nel “parlevufransè”. Stimatissimo procacciatore di soldi ...”

Penso che possa bastare. Il libro venne pubblicato nel '53. e mise a nudo una realtà ridicola nella quale Nabokov rischiò di trovarsi invischiato. Questo libro è la disavventura di una persona fine e veramente colta che viene ridicolizzata e licenziata da un ambiente che con la cultura non ha più niente a che fare. Son passati sessant'anni da quell'uscita editoriale e la piaga americana si è diffusa a tutto l'occidente. Ora anche il lecchino di partito deve cedere il passo al procacciatore di soldi. Se poi per lui Dante è un capo indiano, come una squisita biondina disse tempo fa in tivù, poco importa.

E a Pnin mi sento affine, poiché in questa situazione è esule chiunque fa sul serio. Quando, alla fine di una cena che per il protagonista, dopo anni di calvario sembra finalmente un'apoteosi, e invece sarà un crollo, sparecchiando, tiene gli avanzi per “...darli poi a un cagnetto bianco rognoso, con chiazze rosa sul dorso, che a volte veniva a trovarlo nel pomeriggio ...”.

Ecco, davanti a quelle parole in me accade quel che un lettore sano non dovrebbe fare, ovvero immedesimarsi.

Vivevo con tre cani, tutti salvati, la rogna in questo caso era il destino. Mrti loro ora ho una beagle, salvata anche lei e una levriera di undici mesi che ha viaggiato dall'Irlanda per salvare la pelle. Non era destinata a me, ma la sua salvatrice, un'anziana signora, si è rotta il femore, e Philly, vecchia di ben undici mesi da un mese e mezzo è da me e sembra che non ne voglia più sapere di andar via... Da ospite a figlia pelosa il passo è stato breve.

E penso a finali col cane; a Pnin che indignato se ne va con quello scarto dell'umanità abbaiante e bianco, dichiarando che non insegnerà più e su quella sgangherata macchinetta col berretto coi paraorecchie calati, sembra ridicolo solo a chi un'anima non sa di averla e quindi non ce l'ha! Via dalle meschinate! Penso a “Gran Torino” del Gran Eastwood, in quella scena del ragazzo nell'auto ereditata, col cane ereditato e una possibilità di serenità che è meglio di niente, data da una generazione, quella del Vietnam, che così ammette le sue colpe, il nero che ha disseminato ovunque. Penso ad un racconto che non trovo più, di Isaac B. Singer. Racconta di un vecchietto che viveva con un topolino. Anzi no. Viveva da solo e ogni tanto da un buco del muro usciva quel topolino e lui gli faceva trovare il piattino col latte e u po' di pane. Il vecchietto va in ospedale e cosa fa? Chiede ad una persona di andare a dare da mangiare alla bestiolina. In quel letto bianco, nella stanza bianca dell'edificio bianco con la croce rosso sangue che non c'è ma si vede, pensa al suo unico amico. Grande Singer, basta questo gioiello per il Nobel! Penso a Coetzee e alla scena finale di Vergogna, a quell'ultimo lavoro che, guarda caso sempre un ex docente decide di fare. Pensate all'idea capolavore che contiene la freddezza della nostra epoca. I cani devono essere preparati per l'iniezione finale. Lui va a caricarli e provvede. Non lo fa con cinismo. Vuole star loro vicino in quel momento ultimo. Traditi da tutti. Esseri della natura rigettati dall'uomo che della natura fagocita tutto. E quello che Coetzee descrive, è l'ultimo mestiere con un senso, con una morale. Essere umani almeno verso il condannato infimo, il povero cane.

Esiste poi un capitolo di Malaparte. Un cane condivise con lui il confino a Lipari e lo attese fuori dal carcere per i mesi che Mussolini gli assegnò. Un giorno sparì. Lo ritrovò con la pancia aperta in un centro sperimentale, legato a tubi e tubicini. Chiese e ottenne l'unico gesto che il cuore poteva donare. La sua fine da quel dolore immobile, da quella aberrante costruzione simbolo della civiltà umana. Guai a chi mi tocca Malaparte! “Kaputt”, “Mamma marcia” e “La pelle” sono arrese constatazioni della capacità di violenza dell'essere umano. Non era fascista e nient'altro. Era un grande scrittore che dall'esperienza umana uscì distrutto … e ridotto a vivere con un cane. E Axel Munthe! Curava gli uomini per vivere e gli animali per amore...

e io vivo con cani salvati come Pnin, come Pnin aborro le università e ogni apparato che maschera una scalata al potere anche minuscolo come un pulpito provinciale dal quale predicare incompetenti conati, e cerco sincerità. E in essa appare il cane, che ama perché ama, che da perché non può farne a meno e la sua sincerità mi ha salvato dalle medesime scoperte di Pnin e non solo. Oggi chi fa sul serio è esule ovunque. Non esiste patria se non si è corruttibili e non mi interessa essere pagato col denaro. È ben altro il prezzo di quel che faccio, e spero il suo valore.

Nabokov lo ha detto con feroce ironia, lo ha detto e descritto bene. Il suo Pnin ha almeno, ogni due anni un'isola di salvezza nella russità ricreata a casa di un amico in mezzo ai boschi. Un mese ogni ventiquattro nel quale si può essere se stessi e vediamo la goffaggine del protagonista sparire anche nel non fondamentale ma appagante gesto atletico.

Ora, attualmente, nemmeno quel mese di ferie esiste. Perdersi è più facile se non fosse che il piacere di Fare con la effe maiuscola ha il potere di nutrire se stesso.

amen


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