Ho riletto, dopo tanti
anni, in un sorso, in un'unica giornata, “Pnin” di Vladimir
Nabokov. Di questo grande, noto ai più solo per Lolita, ho già
parlato in in altro post dedicato, se non ricordo male a “l'originale
di Laura”. Se quest'ultimo testo citato mi commosse alla prima
lettura e non esitai a regalarne immediatamente, appena uscito, sia
al caro Tonino Guerra e ad altri, “Pnin”, ha richiesto una dose
di tempo più forte. I motivi possono essere due; forse quella prima
lettura era contaminata da qualche frammento sgradevole di
quotidianità e quindi, potrei aver letto, diciamo, con un frammento
irrisorio della mente. Se i problemi ci assillano, anche un
capolavoro diventa inerte. A me capita anche un'altra situazione che
non so spiegare e in fondo non mi interessa farlo. Vado a periodi per
tante cose della vita. Questo è il secondo aspetto che potrebbe
avermi deviato dal cogliere lo splendore delicato e al contempo
monolitico, notevole, di “Pnin”. Vado a periodi per il cibo. Per
anni non ho toccato l'anguria. Mi è sempre piaciuta, ma non mi
attirava. Tutto qui. La sua aura di freschezza che in certe estati
torride vale quanto un salto in piscina, mi era totalmente
indifferente. E la catena di indifferenze approda all'arte se penso
alle fette di anguria di Mattia Moreni che comprendevo e mi rendevo
conto del loro valore, ma non ne ero attirato, e se avevo davanti
anche un originale, reagivo con indifferenza. Così è stato per il
gelato, che per una decina di anni non ho nemmeno sfiorato, e per la
musica classica che in certi periodi mi salva ed è uno specchio
salvifico, e in altri quasi mi indispone e tendo a spegnere lo stereo
e cercare le parole nei libri. Potrei aggiungere un terzo motivo,
forse più veritiero e che oltre il resto si può sommare ai
precedenti; leggo tanto e vivo, quindi evolvo o involvo, questo non
posso comprenderlo, ma comunque cambio. Il libro è sempre uguale, ma
io no. Questo è il punto, e oggi, “Pnin” mi si è rivelato forse
non ancora in tutta la sua pienezza. Serviranno altre letture.
Pnin è un esule russo.
Cosa accadde in una certa epoca agli esuli, Nabokov, esule egli
stesso, lo racconta in un passo che riporto qui:
“...il nucleo e
significante di una società in esilio che durante il terzo di secolo
in cui fiorì e rimase praticamente sconosciuta agli intellettuali
americani per i quali, grazie all'astuta propaganda comunista, il
concetto di emigrazione russa corrispondeva a una massa indistinta e
assolutamente fasulla di cosiddetti trockisti (qualunque cosa
fossero), reazionari in rovina,agenti della Ceka convertiti o
travestiti, dame titolate, preti di professione, proprietari di
ristoranti e raggruppamenti militari di russi bianchi, tutti privi,
comunque, della benché minima rilevanza culturale.”
Devo premettere, prima di
proseguire, che il libro, ho la versione Adelphi, purtroppo manca di
note e almeno due le avrei messe …
Mi sembra sia il caso di
spiegare cosa sia un Vecchio Credente, e credo che meriti la
maiuscola proprio perché vecchio credente, scritto così sembra
riferirsi ad una persona anziana che ha come caratteristica più
evidente, la sua fede.
Anche “russo bianco”
merita di essere spiegato. Non comprendo o faccio finta di non
comprendere, che chi gestisce le case editrici non sia consapevole
che, oltre all'ignoranza, che non considero tipica di questa epoca,
esista una generazione nuova che non nasce “saputa”. Si ricorda
Calasso che da piccolo portava il pannolone esattamente come Einstein
e il papa? Sembra di no. Nella vita si parte da zero e un sedicenne,
un ventenne eccetera, merita un rispetto che in questo caso consiste
nel non far “cadere dall'alto” il prodotto artistico, complicarlo
con piccole assenze che, come nel caso del vecchio credente, scritto
minuscolo, porta fuori strada. Se nel contenitore della nostra
cultura, un dato indossa perfettamente gli abiti di un altro, solo
l'aiuto esterno può salvarci …
Torniamo a “Pnin”. Con
la Rivoluzione russa, l'elite cercò la fuga per salvare la pelle.
Penso che non lo si possa dire in modo più chiaro. Pnin fu uno di
quelli che per un poco divenne Guardia Bianca, ovvero cercò di
opporsi all'ondata comunista, e bello su questo argomento è
l'omonimo romanzo di Bulgakov intitolato proprio “La guardia
bianca”. Ebbene, i russi scappano, e per me il riferimento più
bello è nel racconto “Lo spirito dei boschi” presente in Italia
nel volume di racconti “La veneziana”. Chi erano questi esseri
fuggiti? Persone con una educazione e un modo di intendere la vita
sociale che non aveva più senso a Parigi, Berlino o Wienna. Era poi
tragicamente fuori luogo negli Stati uniti, luogo nel quale un
docente, come ci racconta Nabokov, può avere alti incarichi anche se
è ignorante come un tronista. L'importante è che sappia attirare
capitali, che conosca ricconi e fondazioni e abbia amicizie ben
inserite per far allentare i cordoni della borsa.
Nella narrazione siamo
agli inizi degli anni cinquanta e leggiamo:
“...devo dire che mi ha
ricordato la figura probabilmente leggendaria di quel preside di
francese secondo il quale Chateaubriand era un famoso chef!
Attento! Disse Clemens,
-questa storia è stata raccontata per la prima volta a proposito di
Blorenge ed è vera-...
In un altro passaggio
leggiamo:
“... due interessanti
caratteristiche distinguevano Leonard Blorenge, preside del
dipartimento di lingua e letteratura francese: non poteva soffrire la
letteratura e non sapeva il francese. Questo non gli impediva di
coprire enormi distanze per partecipare a congressi sulle lingue
moderne, nei quali faceva sfoggio della propria inettitudine come se
si fosse trattato di un nobile vezzo, e parava con sapienti affondi
di pesante umorismo qualsiasi tentativo di invischiarlo nel
“parlevufransè”. Stimatissimo procacciatore di soldi ...”
Penso che possa bastare.
Il libro venne pubblicato nel '53. e mise a nudo una realtà ridicola
nella quale Nabokov rischiò di trovarsi invischiato. Questo libro è
la disavventura di una persona fine e veramente colta che viene
ridicolizzata e licenziata da un ambiente che con la cultura non ha
più niente a che fare. Son passati sessant'anni da quell'uscita
editoriale e la piaga americana si è diffusa a tutto l'occidente.
Ora anche il lecchino di partito deve cedere il passo al
procacciatore di soldi. Se poi per lui Dante è un capo indiano, come
una squisita biondina disse tempo fa in tivù, poco importa.
E a Pnin mi sento affine,
poiché in questa situazione è esule chiunque fa sul serio. Quando,
alla fine di una cena che per il protagonista, dopo anni di calvario
sembra finalmente un'apoteosi, e invece sarà un crollo,
sparecchiando, tiene gli avanzi per “...darli poi a un cagnetto
bianco rognoso, con chiazze rosa sul dorso, che a volte veniva a
trovarlo nel pomeriggio ...”.
Ecco, davanti a quelle
parole in me accade quel che un lettore sano non dovrebbe fare,
ovvero immedesimarsi.
Vivevo con tre cani, tutti
salvati, la rogna in questo caso era il destino. Mrti loro ora ho una
beagle, salvata anche lei e una levriera di undici mesi che ha
viaggiato dall'Irlanda per salvare la pelle. Non era destinata a me,
ma la sua salvatrice, un'anziana signora, si è rotta il femore, e
Philly, vecchia di ben undici mesi da un mese e mezzo è da me e
sembra che non ne voglia più sapere di andar via... Da ospite a
figlia pelosa il passo è stato breve.
E penso a finali col cane;
a Pnin che indignato se ne va con quello scarto dell'umanità
abbaiante e bianco, dichiarando che non insegnerà più e su quella
sgangherata macchinetta col berretto coi paraorecchie calati, sembra
ridicolo solo a chi un'anima non sa di averla e quindi non ce l'ha!
Via dalle meschinate! Penso a “Gran Torino” del Gran Eastwood, in
quella scena del ragazzo nell'auto ereditata, col cane ereditato e
una possibilità di serenità che è meglio di niente, data da una
generazione, quella del Vietnam, che così ammette le sue colpe, il
nero che ha disseminato ovunque. Penso ad un racconto che non trovo
più, di Isaac B. Singer. Racconta di un vecchietto che viveva con un
topolino. Anzi no. Viveva da solo e ogni tanto da un buco del muro
usciva quel topolino e lui gli faceva trovare il piattino col latte e
u po' di pane. Il vecchietto va in ospedale e cosa fa? Chiede ad una
persona di andare a dare da mangiare alla bestiolina. In quel letto
bianco, nella stanza bianca dell'edificio bianco con la croce rosso
sangue che non c'è ma si vede, pensa al suo unico amico. Grande
Singer, basta questo gioiello per il Nobel! Penso a Coetzee e alla
scena finale di Vergogna, a quell'ultimo lavoro che, guarda caso
sempre un ex docente decide di fare. Pensate all'idea capolavore che
contiene la freddezza della nostra epoca. I cani devono essere
preparati per l'iniezione finale. Lui va a caricarli e provvede. Non
lo fa con cinismo. Vuole star loro vicino in quel momento ultimo.
Traditi da tutti. Esseri della natura rigettati dall'uomo che della
natura fagocita tutto. E quello che Coetzee descrive, è l'ultimo
mestiere con un senso, con una morale. Essere umani almeno verso il
condannato infimo, il povero cane.
Esiste poi un capitolo di
Malaparte. Un cane condivise con lui il confino a Lipari e lo attese
fuori dal carcere per i mesi che Mussolini gli assegnò. Un giorno
sparì. Lo ritrovò con la pancia aperta in un centro sperimentale,
legato a tubi e tubicini. Chiese e ottenne l'unico gesto che il cuore
poteva donare. La sua fine da quel dolore immobile, da quella
aberrante costruzione simbolo della civiltà umana. Guai a chi mi
tocca Malaparte! “Kaputt”, “Mamma marcia” e “La pelle”
sono arrese constatazioni della capacità di violenza dell'essere
umano. Non era fascista e nient'altro. Era un grande scrittore che
dall'esperienza umana uscì distrutto … e ridotto a vivere con un
cane. E Axel Munthe! Curava gli uomini per vivere e gli animali per
amore...
e io vivo con cani salvati
come Pnin, come Pnin aborro le università e ogni apparato che
maschera una scalata al potere anche minuscolo come un pulpito
provinciale dal quale predicare incompetenti conati, e cerco
sincerità. E in essa appare il cane, che ama perché ama, che da
perché non può farne a meno e la sua sincerità mi ha salvato dalle
medesime scoperte di Pnin e non solo. Oggi chi fa sul serio è esule
ovunque. Non esiste patria se non si è corruttibili e non mi
interessa essere pagato col denaro. È ben altro il prezzo di quel
che faccio, e spero il suo valore.
Nabokov lo ha detto con
feroce ironia, lo ha detto e descritto bene. Il suo Pnin ha almeno,
ogni due anni un'isola di salvezza nella russità ricreata a casa di
un amico in mezzo ai boschi. Un mese ogni ventiquattro nel quale si
può essere se stessi e vediamo la goffaggine del protagonista
sparire anche nel non fondamentale ma appagante gesto atletico.
Ora, attualmente, nemmeno
quel mese di ferie esiste. Perdersi è più facile se non fosse che
il piacere di Fare con la effe maiuscola ha il potere di nutrire se
stesso.
amen
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