venerdì 1 luglio 2011

Moleskine I

21 gennaio - mattina

il 19 dico a Tonino: “domani nevicherà. E' qualcuno che ti saluta!”

Ormai qualcosa l'ha capito, del mio modo di ragionare. Conosce le mie fantasie, solide più della realtà. Ha letto quasi tutte le mie cose degli ultimi anni e non solo ... quindi forse sa di me anche qualcosa che anch'io ancora non vedo....

Risponde con un sorriso perplesso e poi parliamo d'altro.
Per quanto gli piacciano le mie fantasie, che qualcuno pomposamente potrebbe chiamare mondo interiore forse, anzi certamente, avrà pensato che questa volta ho esagerato. Avrà pensato che...”ci sta avere dei misticismi personalizzati, delle pseudo visioni, ma pretendere di prevedere il futuro! Questo un artista non lo deve mai fare perché se ci prende sarà più di un artista, e questo non va bene, e se non ci prende sarà un ciarlatano...”

E la mattina dopo Tonino mi telefona: “ciao Werner. Nevica....” Colgo il suo stupore e anche che si aspetta qualcos'altro. Gli chiedo “chi compie gli anni oggi?” ….cincischia e poi azzarda “uno scrittore famoso?”
“E' il compleanno di Federico”
“Os'cia è vero!”
“Brindi oggi?”
“Si”
“E' un bel salutare non trovi?”

Già gli avevo telefonato il sei per spingerlo a brindare al compleanno di Scriabin”

Chissà. Forse inizierà a credere in quel qualcosa che non so cos'è ma che sento.
In fondo nemmeno io ci credo. Ma.....

ore 20

Radio giornale del Veneto. Non sono in quella regione ma la mia sofisticatissima radio sceglie a caso fra le onde e intercetta sempre qualcosa di diverso.

E' stato imposto ad alcune biblioteche di togliere i libri di un certo numero di autori. Sembra siano una ventina. Ricordo una manciata di nomi: Saviano, Carlotto, de Carlo, Pennac.

La loro colpa: esser stati firmatari di una lettera in favore di Battisti, considerato in Italia pluriomicida e che ora è in carcere in Brasile. Non entro in merito della faccenda di questo uomo. Si dice troppo e troppo poco. Non so. I morti ci sono. Si disquisisce sul perché. Facile quando i morti son degli altri e la famiglia piange a porte chiuse e non son le porte e i muri di casa, ma l'omertà dei mass media che isola più di un esilio. Uccidere per me non è mai giustificabile. Accade però. Accade che qualcosa ci esasperi e allora si spara sul mucchio. E il mucchio non ha identità per noi ma per qualcuno, e tragicamente, si. Non si deve mai dimenticare l'individuo. Mai. Quel che ho detto è oltre la politica e l'ideologia. Anzi. Viene prima. Anni luce prima. Quindi questi pensieri non intendono condannare o assolvere. Personalmente soffro di chi muore e, si, anche di chi sta in carcere. Morto civile. Il male non si bilancia con nulla. Il male fatto è li. Non esiste punizione. Risarcimento. Esiste solo non farlo. Ma spesso è una catena. Il male fatto serve più o meno volontariamente non a risarcire, ma a fermare o a far rallentare un male che ci prende e pian piano ci asfissia. È complicato. Giudicare. Stare da una parte o dall'altra è troppo semplice. Troppo facile.

Torniamo ai libri esiliati da certe biblioteche.
Intervistano un assessore.
Dice che anche gli insegnanti non sono liberi di insegnare quel che vogliono e non per niente hanno un programma da seguire. Certi autori quindi si possono “sconsigliare”....

La storia gira in tondo.

Anch'io, giro nella mia stanza.

22 gennaio ore 10.30

Telefono a Tonino. Mi ha appena chiamato il dirigente della Maggioli editore per dirmi che il libro (“Tempo di viaggio”, che era colmo di errori) e stato finalmente stampato.

Non ne sapeva ancora niente. Era comunque soddisfatto anche se c'era, come per me, sorpresa nel fatto che abbiano avvisato prima me di lui.

Mi dice che c'è un metro e venti di neve: “ieri eravamo a settanta centimetri!”
E' sereno. Gli dico che Fellini ha esagerato con le manifestazioni di affetto e lui ora è chiuso in casa con cinquanta gatti, il cane Baba e la moglie.

Gli dico scherzosamente che non disponendo di una slitta con le renne come Babbo Natale, non passerò a trovarlo in giornata.

In lui è magnifico il fatto che sa essere sereno sempre, nonostante tutto.

7 febbraio

Ho scovato una buona artista e, in accordo con Tonino l'ho cercata per vedere se può far opere su tre sue fiabe.
Ieri ha risposto.
Non ho capito se si tratta di una e mail di circostanza con eccessi emotivi calcolati, o altro.

Comunque sia, nonostante il valore delle opere, non ritengo opportuno, almeno per me, approfondire la conoscenza e meno che mai di persona.

Fra artisti, che dovrebbero secondo me esser più umani degli umani o almeno provare ad esserlo, fra artisti dicevo, la sincerità ha senso. È fondamentale.

Gli artisti sono invitati da nobili e borghesi, ma nobili e borghesi non sono e se lo fossero dovrebbero spogliarsi di etichette simili. Non è facile. La Maraini per esempio non ci riesce e di etichette ne ha tre che oltre il resto “fanno a botte fra loro”. Nobile, borghese e sinistrata (nel senso che è di sinistra, di una sinistra ridicola). È bello “Marianna Ucrìa”, ma solo quello (meglio che niente certamente, e vale la pena rileggerlo, ma il resto! Quel libro che ha vinto lo Strega per esempio! Mi sembra si intitoli “Buio”. Falso, banale, scontato. Una scatola non vuota, ma piena di cose finte, atteggiate. Forme di dolore che dovrebbero essere indagate, vissute, comprese e invece sono un “come si pensa che siano in base ai mass media e alla percezione di chi non si sporca le mani con la realtà”, ma del tutto non concrete, non vissute. Tipico errore di chi viene a conoscenza dei fatti e ci spalma su la propria morale che si è formata su altro.
E la Mazzantini! Ricordo “Non ti muovere”. Finto. Una borghese che si atteggia anche quando parla in pubblico. Ho visto più che sentito una sua intervista e ne son rimasto men che disguastato (che strano errore che mi ha offerto la tastiera del computer! Seguo il consiglio di Savinio e prendo questo vocabolo come contenitore di una verità più completa dei quel che volevo usare). E quella “simpatica “ s.p.a. messa su col marito regista! Io scrivo e tu fai i film. Che bella vita. Parapapa! Tanti soldini!coli qua. …..Si, ma solo quelli. Rileggetevi, sia tu pomposa Margaret che il tuo signor marito Castellitto, si, rileggetevi la novella Mazzarò e ricordate che la “roba” non nobilita l'animo e non la portate con voi in un qualsiasi “altrove”. I soldi hanno senso certamente, ma solo fino a un certo punto, poi diventano assurdi, inutili, pesanti, ci rendono schiavi delle loro esigenze e poi, si, e poi? E poi soldi sono opportunità, non altro. Mai dimenticarlo.

La sincerità degli artisti quindi, riflessa nello specchio e anche donata al mondo esterno. In un periodo come questo, tutto sarà perdonato ai puri di spirito. Non c'entra la religione. Si tratta di coerenza. Se la sentono ti rispettano e ti amano perché è lei che manca da troppo tempo sul palcoscenico di questa epoca e della sua coscienza che son le arti. L'ultimo che ha mantenuto questo patto con se stesso e con un mondo impreparato a cotanto lusso, è stato Sciascia, e ne è uscito assai spennacchiato. Ma altri artisti di un domani che si sta facendo oggi, lo prendono e prenderanno ad esempio. E non solo lui. Savinio e Brancati per esempio, che i professoroni sistematicamente dimenticano di offrire ai loro allievi. Bella l'esigenza di libertà dell'artista di quest'ultimo, talmente in anticipo sui tempi e sui suoi contemporanei da esser condannato alla solitudine.

Dicevo, prima di questa invettiva diretta al nulla, che fra artisti solo la sincerità ha senso e che anche se sono invitati da nobili e borghesi, nobili o borghesi o ambedue contemporaneamente, non sono.

Si tratta di una casta di solitari che forse si apriranno ad un proprio simile, reale o irreale poco importa, o all'amore ... il resto è marketing e fraintendimento spesso pilotato.

Oppure caratteri anomali, ma certamente non normali, se mai questa parola possa ambire a significare qualcosa per un essere pensante.

Ho deciso che a questa artista, che sta partendo per Parigi, invierò per un certo tempo una e mail al giorno. Ho messo in chiaro che non voglio risposte. Un assaggio di concreta sincerità, con le sue asperità e le sue scioltezze. Ho poca fiducia in una persona che, mi sembra di aver capito, sguazza ancora nello stadio di chi comprende, e con sorpresa, se stessa dalle proprie opere ( e non è detto che una volta fatte, espulse da sé, decida di meditarle. Potrebbe temerle come un contatto con una realtà che da se stessa le impone di cambiare, di porre diversamente i pesi sulla bilancia interiore e gettare l'emotività). L'arte, quella grande, è lo specchio nitidissimo della nostra interiorità compresa. Anche un dubbio va bene, ma deve essere chiaro in noi, non un'ombra che vaga e che un giorno si fa gatto e un altro fiore.

Però le opere sono belle, belle nel senso che hanno un senso e appagano l'occhio. Semplicemente può fare di più e non per il mondo esterno, ma per se stessa. Quella maschera che ha indossato, rischia col tempo di diventare il volto e poi ….la vita si fa finzione che solo al mascherato sfugge.....

Capire è agire prima di tutto su se stessi. Almeno bisogna provarci. Lasciarsi vivere, sguazzare nel magma dei sentimenti e delle sue reattività che salgono alla gola come una sete, non va se non come inizio, ed è comune a tutti. I frammenti di specchio che l'uscita dall'infanzia ha sbriciolato con fragore, devono essere ricomposti con calma. Se ne otterrà la nostra immagine. L'abilità sta nell'essere talmente precisi da ottenere che nemmeno le crepe si vedano più. Ricostruire se stessi. Vedersi almeno per un attimo. L' “altro” è il martello. Noi la cura. E con la nostra immagine si potrà dialogare.

14 febbraio ore 10.30 - Treviglio

Nel Santuario. Troppo buio. Notevole la dimensione. Splendidi gli affreschi. Nella cupola, ogni “spicchio” rappresenta una chiesa celebre e sopra ha il suo santo.
Peccato che sia poco illuminata. Quel che son riuscito a vedere è stato ottenuto per mezzo di una battaglia assai stancante per gli occhi.

E' vero comunque che per il fedele di Treviglio, in questa vasta penombra rotta qua e là da luci fastidiose e appuntite, c'è la possibilità di abbassare lo sguardo in una simulazione di umiltà che l'abitudine al luogo, a se stessi, ai propri pensieri e ad una fede fatta di gesti ripetitivi, può far rivivere involontariamente ai miei occhi, una ritualità dei tempi antichi.
Quella luce che ferisce, fa fare al corpo quel che spesso più non riesce alla grandiosità della chiesa e della fede.

Ed è un minimo chinare il capo che nella millimetrica genuflessione rievoca il gesto antico che rappresenta il timore di dio.

Treviglio - Caffè Milano - ore 11

Una perla. Del 1896. Legni intarsiati. Tavolini di marmo verde scuro con il piede di ferro nero. Prodotti tipici belli a vedersi e sicuramente buoni. C'è un'attenzione tutta francese nella confezione e nella presentazione. Essi son talmente carini e particolari! ..al punto da poter essere considerati tipici non certo per una possibile antichità di tradizione, ma per l'originalità. Più appetibili all'occhio, così a prima vista, che non al palato....

Italietta ai tavoli. Argomento del giorno: la juve ha battuto l'inter (minuscolo accuratamente meditato), mentre il Nord Africa che si sta forse emancipando dalle dittature e che urla la sua dignità a caratteri cubitali da giornali comunque assai spettinati.......

E poi non parlano. Urlano. Di più. Nessuna sintonia con l'atmosfera del locale. L'abitudine a un luogo, ne uccide la bellezza. Una bellezza che questa volta non è esagerata e invadente come in quei capolavori che ci scoprono a noi stessi impiccati allo sguardo perché ci accorgiamo che la mente non respira più. Essa, la mente, ne è asfissiata, spenta quasi da troppa potenza. Amo le cose piccole, minute e graziose e “grazioso” non per caso deriva da grazia. La grande bellezza mi intimorisce. La rispetto, pago il mio tributo di pensiero e attenzione, ma poi torno per esempio al volo del gabbiano della mia tazza da tè di Folon con un sorriso sottilissimo che si accende sulle labbra e che rivela come quell'oggetto minimo sia più vicino alla mia anima di una torre perfetta o una chiesa spaventosamente imponente su una città antica fatta di solito di case minuscole e che mette comunque a disagio e umilia con la sua ostentata sproporzione anche il palazzo di un signore. Lotte fra simboli che non comprendo più e che mi valgono solo come documenti di un passato che opprimeva. Chi era più in alto aveva sotto una catasta di corpi che schiacciava con gioia. Dietro a certe piccole cose, piccole di dimensione e non certo di contenuto, dietro a certe piccole cose dicevo, c'è una leggerezza, un voler vivere per sorridere e non ci sfiora minimamente la necessità di far strumento di qualcuno per incidere una immagine nel tempo. Alla nostra mente val più Michelangelo del papa che gli commissionò la Sistina e infatti molti il suo nome non lo ricordano o lo recuperano dal solaio della mente con un certo sforzo. Ai nostri occhi sorprende la grandiosità di quel lavoro e per molti si tratta ne più ne meno che di un record di area dipinta, di numero di personaggi disegnati e di chili di colore macinati, cose degne di quel libro che si chiama “guiness dei primati”. Il pensiero che sta immediatamente dietro è troppo complesso e pesante, …..ed ecco che la grandiosità si appropria delle nostre esclamazioni di entusiasmo con le armi della banalità. E poi si entra al Bargello e davanti al Bruto e ai due tondi si percepisce qualcosa che prende forma di ebbrezza ceh non esita a diventare grazia che ci inonda ma non si piega se non in pochi genii, e alle parole loro per essere compreso almeno un po', anche dalla mente senza le vibrazioni dell'anima, che è l'intelligenza.

Torno con la mente nel Caffè Milano. Qui è il sapore di un'epoca che a tratti sembrava anche gentile e comunque era elegantissima. Potrebbe entrare in qualsiasi momento, almeno per me, Violetta Valery che chiede l'ombrellino che ha dimenticato e sorride alla vita anche se di fatto non ne ha motivo almeno per me e per quelli come me che del suo futuro grazie a Dumas e Verdi, san tutto. E io che so appunto che il suo futuro è un fiore nero che non si accontenta di essere raccolto una sola volta, ma per sempre, sui palcoscenici del mondo ripeterà il suo sgualcirsi, e brinderà elegante e cederà alla disillusione del sentimento e poi alla malattia …... io che so, la attendo ora, qui, nel 2011 seduto in un giorno di pioggia in un caffè in riva a Milano.

Ma qui, seduto al tavolo di marmo verde scuro mentre intravedo dai vetri la piccola piazza con la gente che passa, non posso non attendere che il selciato lucido di pioggia mi porti i suoi passetti brevi e svelti, il suo desiderio e il suo sorriso. Bella più che mai e per sempre, che questa è la Violetta che ricordo e che cerco ogni tanto anche nei vecchi caffè di Nancy.

...Ben misera questa epoca. E il mio novecento che ha sminuzzato la mia infanzia. Mi rimane una sola immagine femminile pura e carica di erotismo genuino. È Biancaneve di Walt Disney. C'è chi desideri nel letto, e chi a casa e nel cuore, e lei era ed è per me pulita, nel senso più alto del temine e femminile come raramente oggi ho occasione di vedere poiché troppo le donne imitano gli uomini e gli uomini le donne. Da bambino mi affidavo a quei gonìfiori gommosi che si chiaman seno per riconoscere nei casi estremi un uomo da una donna, non sapendo ancora che eran cosa diversa dal maschio e dalla femmina. Il seno era l'ultimo rimedio, ma ora, la borsetta, il trucco, le tinte, le mossette, le palestre che ingrossan spropositatamente i pettorali.... Spesso quando ti presentano qualcuno più del nome premerebbe porre un'altra domanda. E non si pensi a desideri luridi e comunque naturali che cercano un appiglio almeno per la fantasia. Da tutto può nascere un'idea e da essa un'ideale.... la mente e l'esperienza ci addestrano alla disillusione, ma l'anima, si sa, non si arrende mai ….e nemmeno la morte le fa problema.

Sabato 12 marzo - Firenze

Ho terminato da qualche giorno la stesura del racconto “senza titolo” Son scappato a Firenze per allontanarmi un po' da me stesso ma mi ritrovo sempre e ovunque. E mi viene un'idea mentre bevo un buon caffè al “Giacosa”:

una persona decide di scrivere cartoline ogni giorno. Le indirizza a caso scegliendo da elenchi o da nomi visti sui campanelli mentre è in viaggio in altri posti. Penso che sarebbe utile che mandasse sempre il medesimo testo che, brevissimo, invita ad un appuntamento fra vent'anni in un certo luogo e a una certa ora uguale per tutti.

Può piacermi. ma..... e poi?

Non so se è il caso di pensarci su per mesi come faccio di solito o mettermi a scrivere subito.
Comunque per oggi non se ne fa niente.

Ci penserò domani e si sa che domani non esiste.

Domenica 14 marzo

penso spesso a cosa può voler dire per me stabilità.
Non riesco a creare o ritrovare in me alcuna immagine.
Il lavoro, una casa mia, un conto robusto, non servono. Li vedo illusori.
Esistono le crisi come nel '29 e, perché no, anche i terremoti....

si tratterebbe solo di versioni differenziate di un senso di provvisorietà che negherei a me stesso con artifici nei quali non ripongo fede alcuna.

Chiedo alla nostalgia di identificare un paese, anche una sola via come un luogo al quale vorrei tornare, ma non ne trovo. Ed è giusto così, perché anche tornare è illusione.

E gli altri. Sento che la gentilezza, qualsiasi suo artificio, è la maschera che si indossa con indifferenza.

...la gentilezza della nonna portò Hansel e Gretel nel forno.....

19 novembre, ore 10

consegnerò tutto al nulla
qui di fronte

nel caos di tanti addii
perdo anche te....

ma oggi non ho paura.

Raccoglierò me stesso in un punto
lo farò esplodere in un lampo e avrà la nostra forma

di quando di fianco a me
annusavi il sole
e l'acqua
e l'erba.

Consegnerò tutto al nulla

è giusto così

e ora parti!

...è il tuo momento.

Ciao, Mafalda

ciao. Ma se puoi aspetta domani....

Ancora un giorno, un'ora.....

Ciao

si, lo vedo, scusa, ciao. Devi partire...


13 aprile pomeriggio e sera

Dal giorno stesso che Mafalda è partita son andato a prendere Sophie. La sua padroncina ha tanto da fare, la salute non la aiuta e quindi è stata contenta di darmela per così dire, in prestito.

L’idea di tornare solo, in quella casa nostra e ora solo mia, era intollerabile. Avevo scelto questo paesino in riva al mare perché da una parte c’è un lago salato nel quale nessuno mi ha mai vietato di far fare il bagno ala mia pelosa compagna. Se da un lato c’era la spiaggia bella d’autunno e inverno, con cavalli sguinzagliati e niente ombrelloni, in estate, quando i corpi degli umani si rosolano e riempiono di strida la musica naturale, si andava a quel lago che qui chiamano valle. C’era e c’è la musica di tanti uccelli. Spesso i fenicotteri in branco col loro colore di cicca alla fragola attiravano troppi turisti, ma non c’era problema. Ogni anno barchine prezzolate si avvicinavano troppo e i fenicotteri volavano via, in un silenzio che era una chiara sottolineatura di una colpa, di un turbamento. E tornava la pace con i pesci che guizzano, e Mafalda sguazzava che era un piacere rinfrescandosi, giocando, lei, più figlia della natura degli umani, che non arrecava disturbo ai cavalieri d’Italia, ai gabbiani e alle garzette, che la guardavano sorridendo e con un pizzico d’invidia perché il suo umano le risolveva il problema del cibo e poteva si, giocare e amare la vita più di loro che non la odiavano certo, ma per una buona metà del giorno dovevano faticare. Anche il sesso era una questione risolta. Se l’umano si arrabattava fra alti e bassi (maggiori quest’ultimi poiché due esseri che pensano mai potranno andare d’accordo, troppe irrealtà, come la pretesa eternità dei sentimenti, li disturbano), Mafalda, dopo aver sofferto due calori, con assalti di cani furibondamente innamorati, è stata salvata dalla sterilizzazione. Ora, con la pappa risolta e la guerra del sesso annullata per sempre, la vita era carezze di sole, passeggiate, gioco, infilarsi nel letto dell’umano mentre dormiva e conquistarsi la metà di un posticino singolo con un corpaccio di quaranta chili e divertendosi alla sorpresa che all’alba coloriva il suo sguardo e sentire il calore del suo corpo e lui di lei e riaddormentarsi in quella strana tana col materasso alla quale sfugge il linguaggio di vibrazioni della terra, il suo lento girare intorno a centinaia di assi, il suo attirare sottilmente la vita e esserne madre accogliente….

Sophie è una cockerina bianca e nera. Mi pare che si debba dire sale e pepe. È una vecchietta. Ha tredici anni e mezzo ma non si nota per via delle macchie bianche di pelo che secondo me hanno assorbito il suo incanutimento.
Come tutti i cani della sua razza, è buffa. Buffa nel passo e negli sguardi comicamente legati alle oscillazioni delle lunghissime orecchie nere. È quasi cieca. Distingue la luce dal buio. E poi è sorda come chi non vuol sentire. Ha anche un problemino alla pancia che la costringe a mangiare solo un tipo di scatoletta.

Così, con lei, ho recuperato l’aspetto più superficiale e più duro che è legato al dramma della fine dell’amore e della vita degli altri, ovvero la mia, anzi nostra, sequenza di abitudini.

Mi diverte pensare che di solito esiste il cane per i ciechi. In questo caso accade il contrario. Mi ingegno di esser bravo e i risultati mi sembrano buoni. Dopo qualche mese di tentativi, ora ci son due tratti di pineta che Sophie riesce a percorrere senza guinzaglio. Devo dire che se la cecità è per gli umani un dramma spaventoso è anche un poco colpa loro. Essi hanno incaricato di troppi compiti i sensi licenziando quasi l’olfatto e l’udito. Mi rendo conto ora che il merlo, quando canta per salutarmi e chiedere briciole, lo rintraccio in base al suo verso e spesso non chiedo nulla agli occhi perché già ne so abbastanza. E gli odori che una volta per ogni vivente erano una mappa, per Sophie son ora l’alternativa agli occhi.
Durante le nostre passeggiate, ogni tanto colgo il suo sguardo che mi cerca e le orecchie che si alzano di un minimo alla radice per cogliere il mio passo, ma inutilmente; allora allungo la mano le accarezzo la testa e da questo tocco recupera un poco di tranquillità. Dopo qualche passo, la posizione esatta sulla mappa di odori è recuperata al punto che, all’incrocio fra due sentieri dove di solito voltiamo a sinistra, mi sta di fianco sicura nei movimenti come se vedesse.

Sto cercando di darle, come feci per Mafalda, una vecchiaia felice.

I cani, come gli umani, non sopportano la solitudine. Gli umani, che hanno il pensiero, che complica, non sanno imparare a temere prima di tutto sé stessi. gli altri si possono ignorare, lasciare fuori dalla porta. Se stessi se lo devono tenere e poiché spesso son diventati troppo schizzinosi con gli umani, cercano se stessi in cani, gatti, volpi, ricci, tortore e merli.
Dagli animaletti imparano il fascino dei sensi che hanno smarrito. La carezza del sole, il fascino di un odore che spesso è puzza solo perché sconosciuto.

Si recupera a volte, il brivido che fa temere il tuono, che anticamente sembrò la voce di un dio e ora il pensiero ha spogliato di fascino riducendolo a scarica elettrica. Questo produce, se ci si lascia andare, un vibrare piccolo piccolo nell’insondabile centro dei sensi che, se gli si lascia lo spazio per crescere, anche ora che comunque il pensiero un poco lo doma, fa sentire, prima minuscolo, simile ad uno scoiattolo che corre sui sentieri cristallini del nervi e poi enorme da far vedere e sentire, totalmente presi, con i polpastrelli tirati, il naso che vibra, l’orecchio che si fa grande e la lingua che assapora, come al lupo o al merlo che guardano quell’urlo di luce, che fa vedere e sentire appunto, il frastuono che diviene musica colossale, che frusta il sangue, lo mescola della sua energia e, per rispetto e chissà cos’altro, ancora dopo anni sa fa vibrare. E chinano il capo i viventi tutti, si, come non sa fare il pensiero sublime, davanti a un imperscrutabile dio costruito e fatto sedere su un trono di fraintendibili, troppo umane, parole. E solo gli umani pensano di chiudere il discorso deviandolo con un parafulmine.

Mafalda aveva paura dei tuoni. Da vecchia poi, le bastava sentir piovere, e per loro, gli animali, la pioggia invade più sensi che ora anch’io sento. Le bastava sentir piovere per guardare un attimo solo il cielo, che ancora non sapeva della battaglia che avrebbe accolto, e correre in casa. Mettevo la Messa in si minore a tutto volume e la abbracciavo per un tempo indescrivibile mentre tremava come una foglia.

Quegli occhi color ambra.
Leggendo l’altro giorno “controcorrente” di Huysmans, mi ha colpito una considerazione che forse non è vera ma poco m’importa. Sembra che negli occhi degli animali, e particolarmente dei buoi, rimanga impressa nell’occhio, l’ultima immagine. E perché non anche agli umani mi son chiesto?

Ho poi pensato a cosa potrebbe essere rimasto in quelle biglie stupende. Ho ripensato al momento fatale. Era stesa al centro del salotto da un paio d’ore e io ero seduto di fianco a lei. Il viso (muso mi par brutto) era rivolto verso la siepe fuori dall’uscio, nel punto esatto dove di solito sta l’eterno pettirosso. Si. È così. Non può non essere così perché così c’è bellezza. I pettirossi poi, li sento come guide per l’aldilà. Ovunque vada mi accorgo di averne sempre uno vicino che mi osserva. Ricordo anche a Milano, mentre uscivo dal caffè di Armani, di aver colto la sua macchietta rossa sfrecciare fra la voragine del metrò e il semaforo che porta in via Montenapoleone.
Sono certo, grazie alla sua continua presenza, che non mi capiterà il destino crudele che condannò il cacciatore Gracco a vagare nel mondo sulla sua barca che, e non si è mai capito come, ha smarrito la via che porta al regno dei morti.
Si. Mafalda ha il suo giardino negli occhi, e mi piace pensare che resisteranno alla decomposizione facendosi duri come sassi con quell’immagine dentro….ma no. È meglio di no.
Per Mafalda chi non l’ha vissuta non sarebbero che due pendagli adatti forse per ornare le orecchie, che racchiudono sorprendentemente un paesaggio con una infinitesima, vibrante, macchiolina rossa.

Si. Il valore di una qualsiasi cosa non è pecuniario come la superficie del pensiero è portata oggi a pensare. In casa di una signora ormai “partita” trovai, in un piccolo scrigno, un fiore secco. Il diamante era nella memoria e, le mille sfumature di stella, le vedevo tutte. Vidi la mano tremante di tenerezza di un uomo pallido e roso dal timore di un no, che affida a petali sgargianti l’allegria del suo desiderio. Colgo il si di lei in quella salma di fiore accettata, anche se poi lui sarà fuggito, o avrà migliorato se stesso come accade a tanti uomini, solo nel far più spesso centro quando faceva pipì. Mi disse una donna dal corpo sfinito e dalla mente brillante. “gli uomini son bambini. Se glielo dici si offendono. Se non glielo fai essere, li perdi”. E penso a Lora che vede Federico (Fellini) e Tonino (Guerra) spaventati perché avevano scambiato due parole tempo prima con una persona che poi, si è scoperto, era malata di pertosse. Lei ha detto “so io un rimedio che si usa in Russia e che fa miracoli!” e in cucina ha spremuto varie verdure facendo un beverone da vegetariani. Mi disse che loro, quei due indiscutibilmente grandi senza i quali mi vien un po’ difficile immaginare quel rudere che chiamano Italia come qualcosa con un recente, dignitoso passato che ancora in loro dura, si, mi disse, che presero la caraffa a due mani come bambini, ci immersero il viso fino a svuotarla e ringraziarono. Per riconoscenza, Federico qualche giorno dopo, le regalò un libro sulle erbe italiane e i possibili intrugli che con esse si potevano fare, perché far finta di essere maga, una finta che lui prendeva veramente per vera, gli serviva per domare non solo la paura della pertosse.

Ecco un diamante. Questo viaggio nel ricordo ricordando, si, solo ricordando, innescato da un fiore secco in uno scrigno, ed ecco che riappaiono fatti vissuti e anche altri immaginati che per questo motivo non son certo meno fragili e distanti.

…e poi mi capita di pensare, tornando all’ambra di Mafalda, che un occhio era sprofondato nel cuscino e so, si, lo so, che in quell’occhio ci sono io e il bacio che il suo sguardo mi dava ogni mattina anche quando, decrepita e traballante, si avvicinava al letto per svegliarmi ed essere così certa che vedendo lei per prima ancora una volta, per quel giorno, alla vita avrei sorriso almeno per un istante.

Sorrido anche ora mentre sto scrivendo con un nodo in gola e gli occhi umidi e penso a quale cuccia assurda ma completa è un vero affetto, in questo mondo di umani distratti.

Ecco, il nodo si scioglie. Immagino ora, sotto terra, tanti occhi ormai senza volto, senza cranio, senza meta, che galleggiano perfetti, eterni, incorruttibili ormai, a tutto quanto è sporcabile da un gesto o un pensiero umano. E posso vedere, se decido di soffermarmi un poco, le ultime immagini lasciate da tutti i viventi. E quelle degli umani le distingui perché, men che raramente, rappresentano qualcosa di vivo ma quasi sempre muri bianchi, crepe, soffitti, fondi di bicchieri vuotati e luci artificiali troppo intense per poter essere comprese.

L’ultimo sguardo di un cane, di un cavallo, di un topo, si, anche di un topo, riflettono la vita, e assai raramente, troppo raramente essa è rappresentata da un umano e siamo ad un tal livello di rarità che se dovessi decidere per mezzo di un conteggio e di una statistica, da quelle immagini trattenute, quanti ce ne sono di umani lassù sotto il cielo, ne conterei da saziare a fatica le mie dita.

E invece tu Sophie? Si, mi fai ancora sorridere. Penso, per esempio a ieri notte. Dopo aver letto un libro di Fenoglio, ti porto fuori per la passeggiata notturna. Fai quasi subito la cacca. Non c’è nessuno e, forse per la prima volta in vita mia, mi produco in un insensato gesto ribelle e decido di non raccoglierla mantenendo ben stretto nelle mani della mente un pensiero che mi va di far crescere. Tu, Sophie, mi guardi sorpresa e poi riguardi la tua copiosa produzione. Sembri dire “ e che ha che non va! Non ti piace? E perché proprio questa non la raccogli? Se ci fai caso ho manovrato con cura con le mie vecchie zampe, si da farla di una forma nuova!”

Ti accarezzo e passeggiamo. Quel pensiero mi distrae troppo, cara Sophie e non la raccolgo, la tua opera degna certamente della Biennale di Venezia, come per rendere evidente almeno alla notte, la protesta contenuta nel mio ragionamento.
Penso al secondo dopoguerra che ha avuto talenti come Savinio, Flajano, Brancati e Pavese sopra tutti ma di essi così poco la loro patria fatta di ballerine e feste, ama parlare.
E poi c’è stato e c’è un sottobosco di mediocri che non fanno quasi mai completamente ribrezzo,(e attualmente anche il ribrezzo, la stupidità si fanno moda artistica quindi degna di tenzone), e un sottobosco di mediocri dicevo, che han fagocitato le luci del piccolo teatrino della loro epoca pieno spesso non di pubblico, ma solo di loro medesimi e si applaude l’alktro solo per esserecerti che poi successivamente per questo solo motivo si ricorderà di contraccambiare applaudendo. E ne so qualcosa io che amo leggere e provo ad assaggiare con un filo di speranza quel che dicono che sembri…. ed invece è noja.
Calvino lo leggo e non “mi prende”. Costruzioni artificiali della mente e mai della sensibilità ed invece è un diamante di essa che l’intelligenza deve tagliare accuratamente per tirarne fuori la miglior luce! E poi, sempre Calvino, in una prefazione che è l’unica cosa gradevole in un libro che contiene anche a un romanzetto da lui scritto, consiglia Fenoglio e mi da un titolo: “Una questione privata”, aggiungendo che su certi argomenti è stato il migliore della sua epoca. E penso a Gadda, Pasolini, Cassola, Silone, Sanguineti ed altri che senza partiti e università che li pompano più perché losro si, completamente, definitivamente, per sempre morti, brillano men di niente……. Ed ecco che questi piccoli esseri a propulsione politica e universitaria si son vendicati e mi ritrovo in casa con uno stuzzicadenti a rastrellare merda dalla rigatura della suola della scarpa da tennis. La Sophie mi guarda sorpresa. Sembra dire: “Ah, ora comprendo. La volevi portare a casa e poi fare tanti pallini. E poi dopo, ne fai degli stampi come i cuccioli di umani con la sabbia umida? Ma quanto siete strani voi umani. Raccogliete le nostre cacche con una meticolosità malata e poi, forse già dopo pochi metri dimenticate cosa ne volevate fare e la gettate in quei grandi bidoni grigi!”

E il discorso dei suoi occhi glauchi, mi fa sentire svitato, innaturale e punito da chi per esempio si è sentito citato e male accolto dal mio precedente pensiero e, non me lo toglie dalla testa nessuno, ha fatto bandiera dell’omosessualità che allora era un baubau spaventoso al punto che ancor oggi nel 2010si parla di un tipo che per quel motivo a Catania si è visto rifiutar la patente,ha fatto bandiera della sua sessualità al punto dicevo, da farci una carriera di regista e di poeta e di scrittore di roba che se non te lo impone qualcuno, da solo non la vai a cercare….

Ok Sophie, ho pensato. Ora si va a letto prima che Sanguineti mi faccia lo sgambetto arricciando il tappeto mentre passo e Gadda consumi la sua vendetta facendomi prendere la scossa mentre accendo la abat jour… i piccoli uomini son capaci di tutto. Perdono tempo anche nella vendetta. Quindi cauto cauto, sollevando ben bene i piedi e muovendo l’interruttore con la capocchia d’argento della matita di legno di cedro, apro la finestra e tiro giù la veneziana per far si che domattina la notte duri qualcosina in più e ci regali così forse, qualche briciola nuova del sogno appena sognato.

….e ripenso a quelle lucciole sotto terra, a quegli occhi inscalfibili dal tempo, pieni di immagini, a quel me stesso la sotto, veramente eterno, più delle parole che scrivo e di tutto il resto. Mi dono a quel me stesso riflesso dall’occhio d’ambra di Mafalda, più sereno di me, e mi infilo nel letto, ormai salvo dalle vendette di Gadda Pasolini and company, domandandomi cosa mai ci sarà, stampato per sempre, un giorno, nel mio occhio interiore, in quello che rimarrà schiacciato nel cuscino, e quell’ultimo sguardo della materia sul mondo che avrò vissuto, mi guida nel nulla. Mi prende il sonno, con Sophie ormai addormentata sulla poltrona accanto al letto e cullato dal suo russare leggero, parto per un mondo di gelatina trasparente che vibra gentilmente alla musica di Boccherini e guardo una per una le luccciole d’occhi del mondo di sotto. Una per una. E questi eterni portafoto del ricordo più bello, mi attirano cercando la bellezza che qualcuno è riuscito a costruire, per imparare da essi a ripercorrere l’unica via sensata, che sta nel sorriso, riflesso nel ricordo. Quando vago là sotto so che non esiste l’immagine riflessa nello specchio e che nemmeno lo specchio esiste. Solo il ricordo riflette una immagine vera, fatta di accumuli di tempo, quando invece una foto per esempio, di tanti attimi sensati sa raccoglierne uno solo, quasi a caso, e che ti riporta l’immagine di qualcosa che non sei mai completamente tu, che mai è veramente viva.

La persona stupida ama l’infanzia che non ha ricordo e che invece proprio per questo è angoscia e smarrimento. E nemmeno l’età tarda gli farà dire che ora, nel ricordo, se qualcosa di buono ha dato, lo riceverà mille volte moltiplicato. E non sarà mai più solo. Solo come quando, da bambini, si chiudeva la porta della cameretta e dovevi affrontare la notte con a disposizione solo la scatola dei sogni che ancora non sapevi usare e avevi paura…..

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