domenica 10 luglio 2011

leggendo un articolo di Paolo di Stefano apparso sul Corriere della sera il 10-luglio 2011

Domenica 10 luglio mattina.

Sono a Milano. Mentre bevo un buon caffè leggo il “corriere della sera” (minuscolo voluto) e rimango tristemente incantato da due articoli: uno di Paolo di Stefano e l'altro di Cesare Segre.
Il secondo non lo liquido certo in due parole, ma per ora lo rimando. Faccio solo notare che ci si trova davanti ad un linguaggio che nulla ha a che fare con la vita. Parole che servono solo per il suo settore, la critica, che non ha ancora compreso di non avere asssssssolutamente nulla a che fare con arte, letteratura grande musica eccetera....

Affronterò il testo di Segre in un secondo momento.

L'articolo di Paolo di Stefano si intitola: “Il paradosso dei poeti. Migliori dei narratori, ma ormai invisibili”.

Ho tardato fino al pomeriggio. Ero indeciso se scrivere, rispondere. Di Stefano è sicuro, convinto di quel che dice. La venatura del dubbio che renderebbe così sensato il suo articolo, manca.

E cosa dire a chi è cosi certo? La grande malata sembra essere la poesia, che per me non è malata affatto. Diciamo che fino a poco tempo fa, il poeta era un essere noto per una serie di motivi che quel termine racchiudeva e sembra difficile, per non dire “issimo”, definirlo oggi. E cosi, si danno colpe in giro. I mass media sono al primo posto, ma....

Primo problema della nostra epoca. La definizione di potere. Prego di avere un po' di pazienza, è vero che “la prendo un po' larga” ma …..

Attualmente si tende a ritenere che il denaro sia l'aspetto concreto del potere. Niente di più sbagliato. Boris Eltsin, che di potere s'intendeva, si recò con la scorta ad una salsicciata popolare, si mise in fila, prese la sua parte di “pappa” e, volendosi comportare da “persona comune” senza però saperne nulla, quando gli chiesero di pagare, si rivolse a una delle sue guardie e chiese di dargli una cartamoneta. Lo zar Boris, così lo chiamavano, guardò ben bene quella roba e poi esclamò: “questi dunque sono i rubli! Belli!”: non son chiacchiere da barbiere....

Chi ha il potere sa dove trovare i soldi e può, paradossalmente per il popolino, farne a meno per periodi lunghissimi. A cosa servono i soldi? Detto in parole povere, a comperare oggetti. Col potere gli oggetti li prendi direttamente, senza l'intermediazione del denaro.

Quella definizione sappiamo però che appartiene ad un mondo perfetto. Col denaro invece, si comprano non solo gli oggetti, ma anche le persone. Per tornare al mondo perfetto, ma questa volta solo nella testa dell'uomo di potere, possiamo dire che per lui gli esseri umani, e per estensione i viventi sono, quando lo ritiene necessario, oggetti.

Questa manfrina apparteneva all'epoca nella quale la nobiltà, grande piramide con a capo un re, deteneva appunto il potere. Moralizzarla era impossibile. Ci pensò la religione sputtanandosi non poco.Disse “Il potere ve lo da Dio!”. E ora che Dio è tornato a preoccuparsi delle anime? Ecco che il potere si è perso. Il borghese, col suo mito del guadagno, non può permettersi di essere troppo fine e si accontenta di macchine grosse, qualche donna comprata da ostentare e oggetti oggetti e oggetti. Il potere esiste però ugualmente.... esso, non riferendosi però più ad un sistema di valori codificato, fa battaglia senza quartiere. Ognuno ha le sue regole e decide un mondo nel quale spendersi.

Veniamo ora al settore letteratura.
Parlerò anche di esperienze personali, ma non farò nomi.

Esame di maturità. Ho preparato in accordo con la prof d'italiano una tesina su Marquez. Dodici libri letti e non solo. Alla prova orale finale, la prof incaricata di interrogarmi ironizza sulla mia scelta. Non accetto passivamente e le chiedo davanti alla commissione, cosa trova di sgradevole nella mia scelta. Mi dice che secondo lei ho portato un autore fuori programma nella speranza che la incanti e che chieda solo quello. La invito ad interrogarmi su quello che vuole. Lo fa e le cose le so. Ne è infastidita. Le faccio presente che la scelta dell'autore l'avevo concordato con la prof dell'anno. Mi chiede di motivare la mia scelta. Faccio presente che Marquez è argentino e che quasi un quinto della popolazione di quello stato è di origine italiana e quindi secondo me Marquez è un po' italiano. Mi rendo conto che gradisce la risposta. Mi fa presente che comunque anche in Italia avrei trovato molti autori validi senza, “pescare” in un certo senso, in una colonia. Le faccio presente che Marquez non è argentino ma colombiano e che, avendo vinto da poco il Nobel (non ho più vent'anni da qualche mese...) potevo sperare che una prof di lettere ne avesse almeno una “spolveratina”.... in poche parole la svergognai, perché avevo intuito che la sua ironia era la maschera dell'ignoranza.

So che questo fatterello da solo non basta per spiegare “un mondo” e infatti vi costringerò a sorbirne vari anche non personali....ma indirettamente da me vissuti.

Sempre di quel periodo delle superiori ricordo la prof d'italiano che disse a lezione che il fra Cristoforo de “I promessi sposi”, era populista. Mi permisi di contrastare e mi si fece notare che lo aveva scritto Carlo Salinari. Un luminare, mi disse, e mi mostrò un suo scritto sull'argomento. Non ero per nulla convinto. Quell'uomo poteva averlo detto, ma mai ho creduto per autorità e la lettura del romanzo mi dava ben altre sensazioni. Qualche anno dopo trascorro un mese a Fano. Mi capita, frequentando una libreria in centro, di conoscere alcune persone colte che li amavano incontrarsi. Ero l'unico giovane e mi presero a benvolere. Quando raccontai il fatto di fra Cristoforo mi fecero presente che Carlo Salinari, in un certo periodo della sua vita si vide costretto ad assecondare delle direttive che appena poté, non esitò a disconoscere. La cara scritta che tanti, troppo italiani, metterebbero sulla bandiera.... tengo famiglia. Io non ho famiglia. Non ho nulla, quindi non perderò nulla nello scrivere queste cose e a voi se infastidiscono, basterà ignorarle ma sarete anche consapevolmente distanti dalla realtà.... per scelta...e di conseguenza non disposti ad ammettere che parlate per nascondere.

Qualche tempo dopo (poco), mi ritrovo finalista ad un premio letterario. Situazione apparentemente simpatica. Una giuria di quattro tecnici ha scelto quattro testi. Una giuria popolare composta da cento studenti delle superiori, sceglierà fra questi, colui che riterrà il migliore (odio la parola vincitore...). Sono finalista. Parto in treno per questa antica città del centro Italia. Quando giungo alla meta, non ricordando se porta fortuna scendere prima col piede destro o il sinistro, salto a occhi chiusi e piedi pari e centro una merda colossale. Calzini da buttare nei bagni della stazione e scarpe salvate con acqua e chilometri di carta igienica, ma la sensazione che accadrà qualcosa di buono. Si tenga conto che non sono asssssolutamente superstizioso e quel che accadde mi confermò che era il caso di non esserlo. Mi accorsi con stupore che alcuni di questi cento “giuristi” mi avevano aspettato in albergo. Chiacchierarono con me e qualche fanciulla mi chiese, per la prima volta nella vita, l'autografo. Questo non accadde agli altri tre finalisti. Al premio letterario era annesso un piccolo convegno sulla poesia gestito dai quattro tecnici che avevano selezionato i finalisti. Erano “indocenti“ universitari. Dopo aver fatto le loro prolusioni, davanti ad un folto uditorio di giovani, chiesero a noi quattro finalisti di dire la nostra. Gli altri tre si rifiutarono, chi per timidezza chi perché si trovava disagio nell'intervenire “a braccio”. Io, che “purtroppo” non ho mai temuto il pubblico e non ho problemi a parlare a ruota libera, mi avviai al pulpito. Gli interventi dei quattro indocenti erano stati dei lamenti sulla situazione della poesia. Morale: gli italiani non leggono e sono degli ignorantoni.
La forza dei miei vent'anni non mi aveva ancora fatto comprendere che la verità non la si può dire e fu uno spasso... feci presente che “se ci fossero dei poeti decenti gli italiani li leggerebbero. In Italia è mancato un Lorca, un Neruda, un Mandel'stam per esempio. E poi l'ambiente è ridicolmente chiuso. Non conta scrivere bene. Sei io do un premio a te, tu poi lo dai a me, e la ristretta cerchia coinvolge solo chi ha.....una fetta di potere (ma guarda un po' che bella parolina!) da dare in cambio.....
I quattro esplosero. Mi infamarono. Dissero che ero solo un povero diplomato che si era montato la testa. Reagii dicendo che dovevano prendere atto che la poesia italiana fa schifo. I loro insulti mi avevano fatto arrabbiare. Potevo anche sbagliare, ma parlavo col cuore e loro lo sapevano. Quel che non sapevo io è che dicendo così annullavo ogni valore del loro sistema clientelare. Loro erano tanti, maturi e grossi. Io ero semplicemente solo. Me ne uscìì dalla sala con l'ira negli occhi. Avevo fatto presente che qui non si sapeva bene chi decidesse se un poeta, e per esteso un artista, fosse valido. Il pubblico era eliminato da qualsiasi stima e invece secondo me una buona parte di esso, non è stupida e non ci sta ad esserlo. Era evidente che un ambiente ristretto imponeva dall'alto, con motivazioni in professorese, delle sentenze di valore che quella parte del pubblico interessato non sentiva, e quindi, quatto quatto questo si allontanava rifugiandosi, com'è ovvio nei classici, perché chi ama l'arte e la letteratura, non può, non sa, non vuole farne a meno. Passeggiai per la città odiata dal conte Ugolino con alcune persone dell'organizzazione che cercavano di convincermi a non dare peso alle parole offensive elargite dai quattro santoni. Andai in camera per cambiarmi e ad aspettarmi di giovani ce n'erano ora molti. Volevano dialogare, condividevano. Si sentivano gioiosamente e finalmente liberi di dire per esempio “anche a me questo autore non piace, si capisce lontano un chilometro che è imposto da un partito”. Salii in camera, mi cambiai e poi, con questa compagnia, mi avviai verso un edificio antico, salii uno scalone notevole e mi trovai in una sala tutta affrescata. Era la cena di gala. La mattina seguente ci sarebbe stato lo spoglio delle schede e la premiazione. Era il penultimo atto. Mi sedetti al posto indicato e attesi senza guardare nessuno. Mi sentivo in territorio nemico. I “santoni”, come si addice alle nobildonne senza più risorse, arrivarono mentre iniziava il secondo. Inveirono e dissero che si sarebbero seduti solo se io me ne fossi andato. Me ne andai. Una situazione assurda. La mattina dopo, spoglio delle schede. Ebbi settantatré voti su cento e ricevetti il premio dalle mani del “santone” più truce che si metamorfosò, davanti all'esito della votazione, in un vaso di miele. Ero sconvolto, sconcertato e per niente appagato. Questo personaggio mi diede il numero di telefono, disse che mi stimava e che avrebbe voluto conoscermi meglio. In effetti, qualche tempo dopo, mi invitò nella città dove fa l'indocente. Arrivai, perché a vent'anni, nel dubbio si agisce, attualmente per meno di nulla mando a quel paese con biglietto di sola andata. Mi ricevette in casa e mentre si dialogava in salotto una studentessa passò due o tre volte mezza nuda e poi, quando fu pronta andò via. Rimanemmo lui e io. Passeggiata per la cittadina e pranzo insieme. Un massacro. Non ci capii niente. Pianse come un vitello perché la moglie lo aveva lasciato e nel frattempo mi consigliò di fare carriera universitaria perché: “io, che ho ormai una certa età e sono pure brutto, ti garantisco che me ne scopo almeno due all'anno...” Lo rividi per caso un'altra volta. Roba di due parole. Ora lavorava pure per una delle più rinomate (una volta) case editrici italiane. Qualche anno fa vidi il suo faccione in una foto enorme sul giornale. L'articolo raccontava che il poeta tal dei tali avrebbe partecipato quella sera al festival della letteratura di Mantova......

Non ho finito. Intanto che ci sono oltre a rimescolare il pitale lo rovescio tutto.

Veniamo qualcosa di meno personale.
Nell'articolo si dice: “Un tempo i poeti erano funzionari o consulenti editoriali di riferimento “Sereni, Bertolucci, Fortini, Porta, Sanguineti, Raboni.”. In un altro passo dice: ”e vale la pena di aggiungere che Mondadori, Einaudi, Garzanti, Feltrinelli, Guanda Scheiwiller stampavano raccolte poetiche in collane ad hoc a ritmi tutt'altro che laschi e con risultati non trascurabili.”

Lego queste poche righe a Roberto Sanesi1 che fu un amico col quale, a casa sua, o al Giamaika ci si trovava spesso a dialogare. Mi disse che Guanda si basava su quote che i soci pagavano. Ogni anno una commissione ristretta sceglieva i libri da pubblicare utilizzando i fondi accumulati dalle quote associative. Roberto si tolse e non solo lui. Mi raccontò che chiese come mai si pubblicavano “sempre gli stessi” e quali erano i criteri. Gli rispose, un certo Giovanni Raboni, che le scelte erano collegiali della commissione. Anche un certo Cucchi era della partita e una tipa vestita di nero un po' (un bel po' ) vistosetta che risultava essere la moglie di Raboni. Quest'ultimo lo conobbi. Ci incontrammo per caso in Brera. Ero con Vittoria Palazzo, poetessa milanese scomparsa di recente. Lui non mi piacque e Vittoria mi disse che era un potente e particolarmente immanicato dentro una certa casa editrice (ma che bella parolina che ritorna....ma stavamo parlando di poesia o appunto di....potere?).

A questo punto, signor Paolo di Stefano, le dico come si usa a Roma: o ci sei o ci fai.

Ho la sensazione che lei queste cose le sappia, ….e come non saperle se si mette il naso fuori di casa e si cerca di fare qualcosa in un ambiente che, finché ci è ignoto, può attirarci? Io il naso l'ho messo fuori, me lo sono scottato e son tornato a casa. Non le dice nulla il fatto che Kafka, nonostante un editore che lo corteggiasse e amici che lo stimavano tantissimo, decidesse di ritirarsi a Zurau e anche il caro amico Max Brod, per un lasso di tempo di circa un anno, sia riuscito a vederlo solo una volta?....e che l'editore, Kurt wolff, alla sua sollecitazione di mandare qualsiasi cosa che sarebbe stata seduta stante pubblicata, nemmeno rispose?

Gli ideali Paolo di Stefano, gli ideali.
La sete di purezza, il non voler ottenere sporcandosi le mani dell'anima.

È una questione di potere e io lo temo in tutte le sue forme. Se fossi un capocameriere sarei a disagio, preferirei essere cameriere proprio per non ritrovarmi, volontariamente o involontariamente ad esercitare una qualsiasi forma di limitazione sulla libertà di pensare e agire altrui.

…..e lei?

Raccontando in quell'articolo non la storia della crisi della poesia, ma una sua finzione fatta di luoghi comuni cosa ottiene?....penso di saperlo e non ho motivo di considerarla diversamente perchè altrimenti non avrebbe potuto dire certe cose.

Per esempio, ma cosa diavolo c' entrano Raboni e Sangiuneti con la poesia? E si offendono molto quelli del suo mondo se anche l'altro elenchino che ha sciorinato e qui ho riportato, per me rappresenta una schiera di mediocri? Quando iniziamo a fare sul serio?

Il suo articolo è un cimitero di segni rossi.

Lei cita Fernanda Pivano. La conobbi personalmente. Sembra che un certo Gianni d' Elia ricorderebbe come “un equivoco clamoroso” quello della Pivano che dichiarò Fabrizio de Andrè “il miglior poeta contemporaneo.” Bene, dica al signor d'Elia che non legga più l'Iliade, le saghe, i provenzali eccetera. Era roba cantata. La poesia è un'altra cosa. Ma lei sa trovare saggezza solo in cialtronate? Anni fa asserivo che de Andrè meritava di essere candidato al Nobel, mi risero dietro. Ora altri candidano un Dylan che di de Andrè vale molto meno.

Precisiamo che il Nobel non è più quello di una volta. Pamouk per esempio, lo meritava per la pace e anche il cinesino di Francia che lo ha vinto. Richiedono un impegno diretto nel sociale e secondo me saper scrivere non è necessariamente legato a questo. Comunque sia, valeva sicuramente più de Andrè di qualsiasi altro. E sa chi gli si avvicina? Nell'ordine Tonino Guerra e poi Roberto Vecchioni. Se non le va bene non mi preoccupo, mi farò come al solito una sporta di affari miei, ma dovete smetterla di incensarvi addosso fra di voi e negare un certo ruolo a chi vale solo perché vi mette in ombra. Fare le categorie, definirle rigorosamente e pure credere alla loro realtà, è la prova più evidente che la categoria dei finti poeti e degli altrettanto finti letterati, ha bisogno di dire delle balle per salvare la faccia.

Le dono una notiziola che la sconvolgerà! Un certo Arsenij Tarkovsky, racconta nel libretto “Costantinopoli” che verso i primi del novecento nella parte nord del mar Nero lui incontrava i poeti cantori. Erano ciechi. Uno era famosissimo. Si riteneva che chi nasceva non vedente o lo diventava, avesse il compito di farsi poeta. Per lei e d'Elia cretinate. E ci si mette pure a fare il cretino un certo Primo Levi. Ne “La tregua”, racconta qualcosa di simile che vide nel suo viaggio di ritorno dal campo di concentramento in un giorno di mercato. Se non ricordo male la zona era chilometro più chilometro meno, quella indicata da Arsenij Tarkovsky.

E se mandassimo d'Elia a zappare la terra? Penso che per lui sarebbe un'esperienza importante. Vede, esiste una differenza enorme, abissale fra gli intellettuali e gli artisti. Questi ultimi usano cervello e cuore, una somma che io considero in senso laico, l'anima. Gli intellettuali si sbizzarriscono con il pensiero. Il problema sta nel fatto che quest'ultimo, il pensiero, si comporta come i bicchieri di vino. Se si esagera ci si ubriaca e gli intellettuali italiani son secondo me degli “alcolizzati”annosi. Capita anche la personcina che non è abituata a pensare e, come chi non bevendo mai, con una birra media in corpo si potrebbe piantare contro un platano in macchina e, dicevo, quando ci prova, non sapendo usare la testa dice corbellerie stratosferiche, tipo Emilio Fede per intenderci.

Robina non rara. Di solito i giornalisti, che causa una tessera d'iscrizione all'albo si sentono Pico de Paperis anche su quel che son certissimi di non conoscere....

Mi sorge un dubbio.... è giornalista lei?
No. non mi risponda in fondo non me ne frega niente.

Proponevo per il signor d'Elia zappare la terra ma non è stagione. Ora si raccolgon pesche e pomodori. L'importante in questo consiglio è viversi un po' di fatica, sbatter il grugno eventualmente inciampando in un rastrello, arrivare a sera col corpo spossato ma sereno come racconta un certo Tolstoj che le piacerà perché non cantava, nella sua “Anna Karennina”. In parole povere, vi siete persi la realtà. Perché, se per caso l'avete dimenticato, sappiate che è da essa che parte tutto. Si, ogni cinque anni, uno di sana fatica. Anche operaio va bene, e tornare in una casa dove si dialoga e non si ha sempre ragione....

Torniamo a Fernanda. Al tempo che viveva in via Senato si dialogò di tante cose. Io attendevo che si arrivasse ad un certo argomento, ma non accadde fin quando non gliela portai esplicitamente io. Non ne potevo più dei “suoi americani” e ne parlava sempre. Le chiesi a cosa doveva l'onore di aver tradotto Hemingway in un'epoca nella quale c'erano personaggi ben più quotati di lei per farlo. Glissò. Ora il traduttore a fatica è citato nel testo e tranne casi rarissimi2 non ha alcun ruolo nella presentazione dell'opera. Quando le dissi che secondo me glielo aveva offerto su un piatto d'argento un certo Pavese che era il migliore e quindi ovviamente il prescelto, ha sgranato tanto d'occhi e ha ammesso. Non amava parlare di quegli anni. Cercò di cambiare argomento e la buttò su Don de Lillo. Si ricordi una cosa che mi disse al telefono: era al ristorante dell'Acquarium di Genova, con amiche. Pochi tavoli più in là sedeva Sotsass dal quale aveva divorziato da poco. Lui la ignorò totalmente. A me lo raccontò al telefono. Intendevo avvisarla che passavo da Milano e se stava bene sarei andato a farle un saluto. Continuava a ripetere “cosa, cosa ho sbagliato!” si aprì un po'. Mi disse quel che pensava di se stessa. E ora so che quel colpo di pistola che portò via all'Italia uno dei suoi talenti più sinceri, uccise quasi completamente anche lei. Vivere dopo, da morti, non è vita.... ma a lei della vita ben poco interessa. Categorie, schemi....
A Milano non ebbi il coraggio di passare da lei. Le mandai una rosa con un biglietto. “due rose. Fatevi compagnia”.

Di tante che disse che potevano essere un po' circensi, ad esempio che se gli americani avessero letto un libro di de Lillo non avrebbero più fatto la guerra, quella di de Andrè era vera. Ne era abbagliata, commossa. E non può essere diversamente. Nella terra dove il “si sòna”, esistono poeti e scrittori, ma non è la gente come lei a capirci qualcosa.

Vogliamo arricchire il menu di schifezzuole? Eccone una carina su Umberto Eco.

Al centro di studi umanistici (minuscolo voluto), il filosofo Paolo Rossi deve tenere tre lezioni. Una alla settimana. Amo i suoi libri e mi presento con un discreto anticipo per poter occupare i posti in prima fila. Seduto nella sala che fa da anticamera a quella pronta per la conferenza, vedo arrivare Paolo Rossi (che non conoscevo ancora personalmente). Va dritto all'ufficio di Eco e lascia la porta aperta. Vedo che si danno la mano e scambiano due chiacchiere. Paolo Rossi esce, si fa aprire l'aula e io sono il primo a sedermi. Dopo circa un'ora di prolusione, aula colma, si sente bussare. E' Umberto Eco. Guarda Paolo Rossi come se fosse la mamma che rivedi quando torni dalla guerra, corre ad abbracciarlo e si srotola un dialogo che mi lascia stupefatto. Quelli che mi siedono vicino sentono che dico non troppo piano “che ridicolo” e spiego loro che un'ora fa si son salutati nell'ufficio e che quel siparietto è finto, fintissimo, recitato per noi. I due colossi della cultura che si lisciano. Dialoghi alti. E noi siam comuni mortali.... ma è scena. Mi vien in mente una incisione di Goya (non cantava...) che rappresenta un momento di fine processione. Il santo non è tenuto dritto, ma steso e si vede che sotto l'abito c'è una armatura di legno....

Lei dice anche, in quel famigerato articolo: “Ma il sistema della comunicazione letteraria ha ridotto la poesia a Cenerentola. Quando mai capita di vedere un poeta in televisione?”

Figo. Un bel luogo comune al sapor di aria fritta. La potrebbe invitare la de Filippi, ma lei è ambizioso. Cita Fazio piangendo come un vitello perché non ha mai chiamato poeti. Ma ha capito cos'è la televisione? Io che lo so bene avendoci pure lavoricchiato, da quindici anni l' ho esiliata da casa mia. E le sembra che il poeta vero, il vero scrittore, voglia andare a fare il tacchino, il galletto amburghese, il pavone in tivù. Se è serio la evita come la peste. Essa può solo incrementare le vendite e quegli acquirenti raramente son lettori.

Esiste un pubblico per letteratura, arte e poesia, ma dovete affrontarlo senza puzza sotto il naso. Come si spiega che Tonino Guerra fa circa un incontro alla settimana nella sua fondazione e di solito trabocca di gente? Saranno tutti scemi se ascoltano lui e non ne vogliono sapere di Sanguineti? La gente c'è e va rispettata e la dimensione di scrittori e poeti è l' incontro con il pubblico e non la freddezza della tivù. Quella gente, quella che crede nelle arti, si muove, vuol far domande e ascoltare. Vuole amare. E cerca tanta purezza.

Io non sono poeta e nemmeno scrittore. Son etichette che mi sembrano ridicole. Son gli altri a dire chi ricopre questi ruoli e se l'università e un tempo i partiti volevano decidere chi erano per poi farli parlare a loro uso e consumo, ora son le case editrici che pensano di poter decidere chi vale. Ma l'anima, quella parte di noi che è colpita dall'arte, voi avete dimenticato che è composta di pensiero e di cuore. Il pensiero da solo non basta.

Una delle migliori scrittrici italiane è Paola Capriolo. Perché è quasi invisibile e difficile da trovare? Mah! Sarà un po' snob. Le sguinzagliate di partito tipo la Maraini, a momenti le trovate anche sotto il letto.... chissà! mistero della vita....

E quel che dice della Merini! Per dimostrarle che non dico fandonie eccole il numero di telefono. Renderlo noto ora la danneggia ben poco....02 58104755.

Lei dice che “La poesia, nel senso di parola poetica, conta molto meno di una biografia ritenuta interessante”. Fa presente che si tratta dell'ultimo poeta che ha avuto un successo di massa.
Lei lo sa che era era costruito intorno a lei? Non ne trasse giovamento. E forse lei non sa nemmeno perché Alda finì in manicomio. Si sa che fu a causa di un certificato che il marito richiese al medico curante, allora bastava questo, ma, lo sa perché il marito volle liberarsi di lei? Ho scritto altrove, di casa sua sui navigli e ricordo che quando, l'ultima volta le dissi “ciao, ora vado”. Mi disse quasi implorando, erano i primi di dicembre, “vieni a trovarmi per natale?” aveva un vuoto dentro che faceva tenerezza ed era uscita dai binari della vita. Così scardinata ne han fatto uno zimbello. Anche a me la sua poesia non diceva niente, ma la gente l'ha amata perché per quanto in modo patetico e un po' ridicolo, era vera, lusso che voi non sapete permettervi. Bella la canzone di Vecchioni per Alda. Vera. Ma a lei e d' Elia le cantatine, Omero, provenzali, de Andrè, van di traverso. È un'altra categoria.

Chissà che per voi non sian versi decenti e all'avanguardia quelli della manifestazione Rutto Libero che si svolge ogni estate in Romagna. Ah le avanguardie.....forse li si sentirà a casa.

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