giovedì 7 maggio 2015

Lettera ad un diciottenne disorientato

Causa salute, ho lasciato l'insegnamento. Non lo facevo per soldi. So fare ben poco per soldi e ben poco merita di essere sporcato … coi soldi.
Accade comunque che ex studenti cerchino dialogo e di recente uno di essi ha agito con un'urgenza che non sapevo come soddisfare. Troppo grandi le sue domande. Troppo assurda questa epoca.
Egli è al quinto anno. Ha l'esame di maturità. Va bene e manca un mese al termine delle lezioni. Non vorrebbe più frequentare e presentarsi all'esame che, visto il suo livello, sarà una formalità, ma qualche docente lo ha già sgridato per le troppe assenze che di recente ha accumulato. Esse sono molto al di sotto del limite che il regolamento interno considera come una condanna e io gli do ragione. Non è la frequenza che può essere utile a colui che ha già raggiunto il livello richiesto! Ricordo con un pizzico di Ironia, quando mio padre fu richiamato per le mie eccessive assenze. Non c'erano problemi di voti. Mio padre disse che lo sapeva e che sapeva anche dove andavo, ma questo essere che giudico tuttora ridicolo, si permise di sgridarlo. Mio padre, assai malato e claudicante, venne a scuola, lo costrinse ad uscire e a venire a vedere dov'ero. Biblioteca pubblica, davanti a me un libro. UN LIBRO! Perché volevo veramente crescere! E è inaccettabile rimanere parcheggiati in un banco perché la burocrazia, l'ipocrisia e quant'altro esista di fesso, doveva essere assecondata. Ricordo anche all'università. Per la prima laurea terminai gli esami e la tesi con sei mesi abbondanti di anticipo … ma niente, per quella cloaca, che si considera la più vecchia d'Europa (quando invece fu la schola medica di Salerno), dovevo attendere quel tempo, buttarlo via, e vidi la sessione passarmi davanti e odiai quell'inaccessibilità, quello spreco di tempo, del mio tempo, della mia esistenza che stava cercando di fiorire.
Ricordo un dialogo con X (così chiamerò questo studente). Mi racconta del nonno. È sera, è seduto al tavolo e lo sguardo è immerso nella tivù. X chiede “nonno, per te cosa c'è di più importante dopo i soldi!”, il nonno ci pensa un po' e poi dice “forse la salute”. X prosegue, parlando con me ma in fondo con se stesso “lo so che pensano sempre e solo ai soldi, ma mi aspettavo che almeno dicesse i figli! La moglie! I nipoti! no. Io non voglio diventare come loro.”
Ed ecco che un ragazzo di diciotto anni, che pensa (e capita assai di rado), ha cercato un prof che sembrava disposto ad ascoltare … e desiderava, desidera delle risposte. Durante l'ultimo dialogo, proprio in conclusione, come se la domanda bruciasse, ma non avesse comunque avuto il coraggio di liberarsene, ha detto “Ma per cosa posso vivere ...” e gli ho detto “non esiste risposta. Se tela dessi sarei un falsario, uno che vende illusioni. Devi vivere, lanciarti nella vita, e un poco alla volta scoprirai cosa ti piace fare. Potrebbe essere anche semplicemente fare il padre, o amare una donna, o un mestiere. Io non posso darti una risposta.”
ma quel che mi fa male in quella domanda è che conosco la mia epoca a sufficienza per comprendere che la sua generazione, come la mia, rimarrà schiacciata dai fatti enormi e volgari che stanno accadendo. E non ci si può affidare ai media per comprendere.
Se mai, quando venni in Italia, toccai con mano una situazione di raccomandazioni di partito e privilegi talmente feroci da distruggere tutti coloro che non ne godevano anche se di valore, se mai compresi che la lotta era vana e feci scelte estreme che tuttora vivo senza rimpianti, la sua generazione, che si affaccia su una crisi indotta da potenze che ho ben nitide davanti agli occhi della mente, questa generazione che ha ora diciotto anni, cosa può fare se non comperare tutto? E comperi solo se hai i soldi, ma tutto, veramente tutto ormai, si acquista.
Feci sentire di recente a due ex studenti che vennero a trovarmi (e uno di questi era X), il discorso sul PIL di Bob Kennedy. Rabbrividirono, non per il discorso, che approvarono (è su youtube), ma per il fatto che sia Bob che John Kennedy pagarono con la vita quei pensieri che volevano trasformare in azione politica.
Quel discorso dimostra che nelle alte sfere si sa quel che è giusto e quel che è sbagliato. Non accade che l'economia liberista produca un'azione fisiologicamente inevitabile. Tutt'altro. Ci basti pensare alla Federal Reserve che, fondata nel 1903, da alcuni privati (sette per l'esattezza) accorpava capitali per un totale superiore a quel che si trovava nelle casse degli Stati Uniti … cosa dire poi della Gran Bretagna che con la fine della prima guerra mondiale, era talmente indebitata con mister Morgan (uno dei sette della fed), da poter essere considerata da questi come una proprietà privata … e che sensi di colpa per me insegnare storia quando si sanno queste cose e i libri che rifilano a questi diciottenni nemmeno dopo un secolo quella verità la dicono … e non la dicono perché essa vige tuttora …
Ora salto, ma solo in apparenza, di palo in frasca. “Suite francese”, di Irene Nemirovsky. Lei aveva in mente un opera composta da cinque libri. Arrivò a produrne due e poi una malattia la fece soccombere in un campo di concentramento. La prima parte è una lezione enorme, oltre che un gioiello all'altezza dei più grandi scrittori di sempre. Si intitola “Temporale di giugno”. Narra della Francia che soccombe ignobilmente all'avanzata tedesca. Una famiglia benestante fugge in provincia. Ebbene, chiedo ad X di leggere “Temporale di giugno” proprio perché ho compreso la natura delle sue domande e vorrei mostrargli che è nella grande arte che ci sono le risposte vere. Gli chiedo qual'è il capitolo che lo ha colpito di più. Mi dice “quello del prete ucciso dai ragazzini”. “Esatto rispondo” e gli chiedo se mi sa spiegare il senso di quella scena. Tace, ci pensa un po e poi con lo sguardo chiede la risposta. “Quei ragazzi, mantenuti e pseudoeducati in un mare di ipocrisia per nulla celata, sono il punto più basso della società, l'essere umano ridotto alla bestia, senza una minima educazione, una minima cultura. Tutto intorno a loro è orrendo. Le parole del prete sono una bolla vuota, la carità che ricevono è una umiliazione continuamente rimarcata, e sin dai primi capitoli vediamo una borghesia inconsapevole dell'umiliazione continua alla quale fa soggiacere servi e, in fondo, tutti coloro che borghesi non sono. Quando il prete porta i ragazzi in fuga verso le campagne, in quel tremendo capitolo venticinque, assistiamo prima all'uccisione gratuita di due lucertole prese a sassate, preludio del dramma, e poi la violenza pura, nella quale più singoli, uccidono e si appropriano di una libertà totale, che “sentiamo” essere spaventosa, perché basata sulla totale assenza di regole che porta alla lotta di tutto contro tutti.
Ecco quel che La Nemirovsky ci disse in “Temporale di giugno”. Ipocrisia, sottomissione umiliante, mancanza di cuore in fondo, ed ecco che una massa sterminata è avviata verso la china della bestialità.
Proseguo affidandomi ad Edoardo Weiss.
Vi invito a leggere quanto segue: “Poteva sopravvivere soltanto il furbo che ogni giorno, con attenzione sempre desta, conquistava il suo palmo di terreno. Gli inetti, gli apatici, i miti, gli agitati, gli inadatti, gli afflitti, quelli che si commiseravano, erano schiacciati.”
Quelle parole descrivono secondo voi la situazione attuale? Questo oggi che dura ormai da tanti anni? Secondo me si … e che effetto vi fa scoprire che sono le parole del testimone numero cinque del processo di Francoforte (1963-65) che riguardò funzionari ed SS di Auschwitz?
Quel che per me è tremendo è la sensazione che la realtà che si tentava di sopportare in quei campi per salvare la pelle, ora è la nostra realtà quotidiana. Sopravvive soltanto il furbo …. e chi sono gli inetti per il furbo? Coloro che amano, che vivono secondo dei principi morali. Ricordare! Ogni principio morale è una zavorra, il furbo corre leggero verso la meta … una meta anafettiva, che poi scoprirà non essere soddisfacente e che lo renderà spesso arrabbiato col mondo.
Un Rockfeller anzianissimo (uno dei sette della fed), abitava da anni a Venezia. Parlava ormai anche il veneziano. Lo videro passare e gli chiesero “Come va!”, lui rispose “la me sta de drio ma non ghe dago confidensia... “ (mi sta dietro ma non le do confidenza). Bella amica la morte ….
ma ad un'altra domanda, diede una risposta meno ironica e con un fondo drammatico che a certi livelli spesso ho visto: “che differenza c'è tra l'essere ricchi e l'essere poveri?”: “essere ricchi non da la felicità ma permette di pagare una buona equipe per studiare il problema”, aggiunse poi, a microfoni spenti, che i ricchi hanno case più grandi nelle quali è più facile sentirsi soli” … e muoiono più soli? si. L'ho visto spesso. Tutti contro tutti. Sempre la Nemirovsky ce lo racconta in “David Golder”, e io sorrido amaramente pensando al “mio” studente che mi manda oggi una poesia. Mi dice che è la prima volta in assoluto che scrive:

“Sono quant'altro
seduto su uno scoglio
circondato da uno strato di nebbia
avvolgente come i dubbi
che attraversano la mente

pian piano l'acqua si ritira.

Vedo un pescatore.
Si ritira anche lui
… non preso niente.

Non posso fare a meno di notare
le numerose macchine che lavorano
sulla spiaggia,
per proteggere quella poca sabbia

mentre a pochi chilometri da qui
i terreni pian piano
si trasformano in deserto.

E penso …
ad un futuro sempre più incerto
osservando il mondo,
e capendoci ben poco
che va a fondo.

Penso a noi, ad esso
guardando le onde
guardando la nebbia cieca
e non comprendo l'essenza.

E sono seduto
su uno scoglio del tempo
circondato di nebbia.

Avevo la sua età e scrissi qualcosa di simile. Sentivo la forza fisica, la voglia di fare immensa. Sempre il mare e la voglia di remare, e quella domanda a me stesso, se era possibile nei miei vent'anni io che potevo remare per ore, scalare per ore, studiare per ore, mesi, anni, se era possibile che mi si consumassero gli anni migliori dietro alle marche da bollo, l'ipocrisia, la sottomissione a chi, a chi, a chi, a un nulla che ti schiaccia.
Quella nebbia di X, l'ho vissuta e si è diradata negli anni grazia all'amore dei cani e della letteratura.
In fondo è andata bene. L'anima è un seme. Devi scoprire che ce l'hai e poi concentrarti, ascoltarla e nutrirla. Ormai sono vivo ed eterno, ma la mia è stata ed è una vita assurda, al limite, che non consiglio a nessuna.
E a X cosa posso dire? Con questi governanti ovunque nel mondo? Con queste regole del più ricco che anche se è stupido è il più forte? Una volta si ascoltavano i poeti. Ora essi son cattive coscienze, fanno pensare, e sono stati buttati via. Ora è dura. Accarezzo il cane e dico che nelle mie scelte estreme (mai l'uomo però sceglie, s'illude, ma è scelto...) ho trovato un poco di serenità. E i rapporti umani son diventati troppo speculativi, in senso economico ovviamente.
Vai caro X, illuditi prima di tutto che qualcosa di buono possa accadere e, se la tua generazione riuscirà ad essere meno individualista della mia, e meno feroce di quella dei nostri nonni, allora forse …. tornerà la poesia.


(Non l'ho riletto. Scritto di getto. Torno al mio mondo. ciao)

martedì 28 aprile 2015

Io non sono Charlie Hebdo

Questa mattina, 28 aprile, la lettura del titolo di un articolo del “Corriere della sera”, mi ha dato una scossa positiva. “Scrittori Usa contro Charlie Hebdo”, scritto da Giuseppe Sarcina, che ringrazio per avere dato spazio ad un argomento che secondo me è molto importante. Non mancherò di inviagli questo scritto come ringraziamento e lo invito a parlarne ancora.

Non ho letto subito l'articolo e i motivi erano due che si davano vicendevolmente forza. Primo, dovevo terminare la rilettura di un'opera alla quale sono molto affezionato e sentivo il dovere di mantenere la mente e il cuore liberi per quel solo compito. Secondo, ammetto di avere gustato con la mente a priori, dicendo “finalmente!”, come i veri golosi, il contenuto dell'articolo; ho così accettato di martoriare il palato della mente con la presenza tattile e visiva dell'oggetto agognato per divorarlo poi, una volta raggiunto l'acme del desiderio.
Verso l'ora del te, il testo di Canetti era riletto meditato e parzialmente digerito. Il resto della comprensione, forse, lo compirà la parte non consapevole di noi, quella in contatto con paradiso, inferno o, se si è degni, con le muse.
Ebbene. Ho così letto l'articolo e mi ha colto un disagio, certamente lieve, ma che mi ha fatto sentire come l'arciere di Eugen Herrigel, sicuro di sé, ma che scocca distante dal centro, anche se in una zona dignitosa del bersaglio.

Prima di parlare dell'articolo dico cosa penso del caso delle vignette satiriche contro Maometto: secondo me il problema non è partito dalla strage di Parigi, ma da una mancanza di consapevolezza storica sull'azione di chi, in precedenza ha iniziato a satireggiare pesantemente su
uno dei simboli più sacri dell'Islam.

Mi presento anche, poiché secondo me un testo che mira ad essere utile alla comunità, deve chiarire la posizione di chi scrive per poi poterla confrontare con l'elaborato prodotto.
Sono europeo. Non mi sento italiano anche se di madre lo sono, ma all'estero capita troppo spesso che preferisca parlare un'altra lingua.... dell'Italia, Come ebbe a dire la Hannah Arendt della Germania, mi rimane la lingua, nella quale penso e scrivo, anche se so che mi basta un poco di soggiorno in un'altra terra che non è necessario citare, per pesnare in un altro idioma. Attualmente so di sognare in due lingue quindi, per risolvere l'ambiguità, amo definirmi europeo, a nessuna realtà nazionale perfettamente somigliante, ma ad alcune vicina e mediamente appunto, europeo.
Dal punto di vista religioso dico, spero con umiltà, che nonostante non sia più un ragazzino da “qualche mese”, non mi sento pronto per dare una risposta. Ogni tanto ho una sensazione immensa che mi pervade e mi fa dire che non può non esistere, che è assurdo anche solo supporlo, ma poi, calato nella quotidianità, che è gretta per tutti, l'idea di Dio, svanisce e rimangono atti dei quali sento pesantemente la banalità. Non laico e nemmeno credente. E penso che non si tratti di decidere e di agire per categorie logiche. La religione ed il sentimento sfuggono a quelle sequenze, che chiamiamo razionalità.

Ebbene, questo essere che io sono, ancora in divenire su tante, troppe cose, un punto certo sulla religione ce l'ha, ed è il seguente. Questa epoca è piena di credenti, e chi ipocritamente ignora la loro esistenza è a dir poco ridicolo. Negare l'esistenza di Dio, e di conseguenza farsi beffe di chi crede come se fosse un inferiore, capita spesso in Francia e in Italia, aree culturali “sinistrate”, nel senso che sono state rovinate da una sinistra che ha dettato legge imponendo le proprie idee anche in campi che non le competono. In generale Dio, nelle sue varie forme, ha sofferto anche un discreto attacco da quando la scienza e la tecnica hanno proposto, direi quasi quotidianamente, delle novità in tutti i campi. Si vive meglio e più a lungo, e siamo calati in una consapevolezza, indotta da più di un secolo e mezzo di eventi continui ad un ritmo elevatissimo, che pensiamo si migliorerà ancora e infinitamente. La prospettiva di vita che si allunga sempre più è l'arma che più rende coraggioso un essere comunque mortale; talmente coraggioso, e in questo secondo me appunto ridicolo, da avere il coraggio di negare l'esistenza di Dio. Non si nega il dubbio. Il resto è vita!
Quel primo vignettista che sbeffeggiò Una figura sacra dell'Islam, secondo me ha mancato di rispetto verso milioni, anzi miliardi di persone, che hanno una visione della vita molto diversa da quella che impera in occidente, un occidente che troppo spesso si ricorda di Dio solo quando la morte bussa alla porta. Ritengo quindi che, indirettamente, abbiano offeso i credenti islamici, ma anche messo a disagio i fedeli di altre religioni poiché è evidente che nessuno di loro si salva da questo ostentato disprezzo.

Antonioni, Flaiano e Guerra, nel film “La notte” avevano dato forma a questo aspetto assurdo fatto di morte e assenza di fede. Nelle prime scene vediamo un'auto che gira in città. Si sentono tutti i suoi rumori di vita. La vettura passa un cancello e si entra in un parco con un silenzio assordante che ci conduce ad un edificio che, anche se non sembra, è una clinica. Il malato è in una stanza tutta di design d'avanguardia. Sembra un hotel. L'ospedale come lo immaginiamo noi ad un certo livello sociale non esiste … il malato sta bene in apparenza. Brinda con in due amici in visita. Calici, Champagne, infermiere top model ... sa che è l'ultima volta che li vedrà. Sa che sta morendo, ma nulla, tranne le sue parole, preparano lo spettatore alla morte.
Ecco la nostra epoca, ben delineata da un capolavoro degli anni sessanta. Ricordo quella scena iniziale, con Marcello Mastroianni e la Vitti, perché il suo messaggio è tremendo e, più passa il tempo, sempre più vero. Chiesi a Mastroianni come aveva recepito quella parte. Sapevo che lui amava discutere a fondo prima di recitare e mi disse che quei due maestri di sensibilità, Tonino e Flaiano, lo sconvolsero, nonostante il dialogo fosse stato spesso al ristorante, apparentemente leggero e umoristico. Ma quando la sera chiudeva la porta della camera e pensava alla scena da girare l'indomani, allora, sentiva un'enorme responsabilità, perché quel significato immenso non doveva sfuggire a nessuno.
Ecco una delle povertà dell'occidente! In un sistema di vita senza morale, morire diventa spaventoso. Ma anche vivere, e la religione, per quanto possa sembrare a molti un qualcosa di opprimente e arcaico, offre una definizione chiara di ciò che è bene e ciò che è male e permette, ai suoi adepti, di saper cosa fare nella vita. Se qualcuno ha dei dubbi valuti le statistiche dei suicidi di ogni stato occidentale e li confronti con i medesimi dati di stati o comunità islamiche; quasi zero il dato in queste ultime ... Intorno ad un ente che offre una morale, si struttura immediatamente una comunità. L'occidente comunità non è, il corollario è evidente. Conta solo il profitto e le leggi, per chi è un poco addentro alle “cose”, oltre un certo livello, sono solo apparenze.
Una cultura così amorale, poiché credere solo nell'incremento del proprio capitale, morale non è, una cultura del genere, che oltre il resto sbeffeggia sistemi che una morale ce l'hanno!
Volete vivere così? Viveteci pure, ma lasciate vivere anche chi diversamente crede! Ecco quello che penso! e diventa quindi un comportamento sgradevole, maleducato, condannabile, produrre vignette che offendono il senso del sacro di tantissime persone e di comunità intere.
Questo non vuol dire che io abbia approvato quel che degli estremisti hanno fatto a Parigi con dei mitra. Sono contrario alla violenza. Concepisco e controvoglia, solo la legittima difesa, quindi condanno quel gesto come condanno tutti gli estremismi.
Però penso anche che la satira debba avere dei limiti. Se per esempio faccio leva continuamente sull'omosessualità di un politico, agisco secondo me scorrettamente. Se prendo in giro un ebreo per i suoi cernecchi sono banale. L'umorismo deve sapersi affrancare dalla cattiveria gratuita. Le riviste satiriche sono poche secondo me, e dovrebbero scatenarsi per mettere in risalto situazioni sulle quali, in fondo, c'è ben poco da ridere. Ma sembra che non sia così. Troppo spesso, le due celebri riviste francesi, non mi hanno fatto e non mi fanno ridere e nemmeno sorridere, e trovo volgarità o attacchi che non comprendo, in fondo perché non c'è niente da comprendere.
Sai che un miliardo e passa di persone credono nell'Islam e sbeffeggi il loro profeta? Allora secondo me meriti di essere punito. Ma prima di tutto con un dialogo costruttivo. E mi immagino come condanna concreta, un po' di vita vera, per esempio a fare l'operaio in fabbrica o roba simile.

Due categorie sono un mondo a sé che purtroppo non ha nulla a che fare con la vita. I potenti (i ricchi ne sono una sottocategoria, illusa di contare qualcosa ma sono altrettanto fuori dalla realtà. Il ricco potrebbe non essere potente e il potente se vuole può essere ricco, ma il suo intento è ben altro …) e quegli intellettuali che, con un buono stipendio si sono tirati fuori dai problemi della quotidianità spesso a vita. Questi intellettuali sono in grado di fare pettegolezzi sul loro ambiente, ma dal mondo esterno si sono esclusi. Il prezzo di una ignava sicurezza è l'uscita dalla propria epoca. Triste. Assai triste.

Veniamo ora all'articolo di Giuseppe Sarcina che, insisto, ha il merito di averci fatto sapere che non tutti sono Charlie Hebdo, come andava di moda scrivere e dire subito dopo l'attentato. Io per esempio “non sono e non mi sentirò mai Charlie Hebdo”, poiché avrei condannato quelle vignette causa mancanza di rispetto di un valore molto profondo per più di un miliardo di persone!!!
Ma non ho avuto il coraggio di dirlo e non me ne vergogno. “A botta calda” sarei sembrato troppo controcorrente. La reazione è stata emotiva e i media così l'hanno gestita.
Ogni evento, se visto e vissuto troppo da vicino e in più, se ci si lascia guidare appunto dai media, perde di lucidità. Sono i nervi a gestire la situazione. Ma ora siamo distanti dall'accaduto. A livello di tempo esso è ancora assai vicino, ma la quantità di informazione giornaliera è talmente esagerata che è come se quel sanguinoso e triste attentato fosse distante ormai vent'anni.

E ora, un gruppetto di scrittori, sei per l'esattezza, negli Usa, dagli Usa, “si mette di traverso” per l'assegnazione del premio “Freedon of expression courage” edizione 2015. In data ventisette marzo è stata decisa l'assegnazione. Fra poco ci sarà il ricevimento e il giornalista ci mostra le cifre per la manifestazione e per il pranzo che “sanno” solo di evento mondano (e questa sottolineatura non è superficialità da parte sua, ma critica spietata ...) e la danarosa premiazione, ma sembra che tutto sia stato sospeso perché Michael Ondaatje, Peter Carey, Teju Cole, Francine Prose, Rachel Kushmer e Taiye Selasi hanno rifiutato di aderire. Dei motivi, poco sappiamo dall'articolo. Immagino che ognuno di questi scrittori abbia una sua idea precisa e vorrei conoscerla. Sappiamo qualcosa solo di uno di essi che avrebbe motivato la ripulsa verso quella premiazione perché ci vede la segregazione sociale attuata da una Francia, definita culturalmente arrogante, verso una parte della sua medesima popolazione. Carina come versione. A me sembra talmente diluita! … immaginate di ricevere una torta di ottimo sterco, bella fumante, e voi vi lamentate perché le ciliegine sono troppo dure. Una cosina simile per intenderci. Io lo dico chiaro e tondo. Nel 2015, ci sono miliardi di credenti, e trovo volgare negarne l'esistenza perché si è laici e permettersi di conseguenza di dissacrare. Il sacro esiste ancora per tantissima gente. Allo stesso modo ho visto vignette irriverenti verso la figura di Cristo. Il problema è quindi di un gruppo di persone che ritiene di avere la verità in tasca e irride chi non la pensa allo stesso modo.

E', come ho accennato, anche una questione morale e porto un esempio per spiegarmi in modo un po' deciso. Penso a quella finale dei Mondiali di Calcio fra Francia e Italia e ad un calciatore italiano, Materazzi, che insulta ripetutamente in campo Zidane. Il francese ha reagito e ci sta l'espulsione, ma un italiano secondo me dovrebbe avere il coraggio di dire che non si riconosce nel modo di agire di Materazzi. Vincere deve avvenire secondo delle regole e l'educazione, anche se non è scritta, non può essere trascurata! Avrei immaginato, in un paese civile, che una volta rientrato in Italia, quel giocatore si vedesse escluso per sempre dalla nazionale. E invece non è accaduto niente. L'importante è vincere, non importa con quali mezzi. Ecco una grave carenza di principi morali. Questo gesto che non ebbe conseguenze alcune, è per me esemplare. Ma si sa che ormai l'occidente industrializzato non ha più individui, ma solo consumatori. La cultura viene allontanata sempre più dalle esigenze strutturali di questi stati, ma solo un essere colto, preparato, è in grado di pensare e forse anche dedurre il rispetto e agire democraticamente!
Un'ultima parola per Rushdie. Ha deplorato questa mini ribellione. È arrivato a dire che allora il Pen Club non ha più senso. Ma chi è Rushdie? Per me che l'ho letto è un emerita nullità. Libri banali. È estremamente soggettivo, lo ammetto, ma il valore per me è un po' diverso dalla moda ...

E poi, non sopporto che menti che devono essere totalmente libere per creare, siano tesserate in qualsiasi modo. Che sia la Coop o un partito o il Pen Club non mi interessa. Ammiro personaggi come Kafka e la Ortese che hanno parlato chiaro al mondo, lo hanno vissuto e frequentato la loro epoca e i suoi individui, ma poi in solitudine hanno creato le condizioni per far esprimere l'io interiore! La vita mondana fa perdere tempo. Ad una conferenza ricordo che provai un forte senso di fastidio per i continui applausi; ad un certo punto dissi “per favore. Un applauso trasforma un evento come questo incontro in uno spettacolo. L'arte vera non è spettacolo. Cerchiamo di usare tutti i momenti di questo incontro per darci qualcosa di vero. Non mi interessa l'apparente senso di sazietà che da l'applauso!” Ero a Pennabilli, ospite di Tonino Guerra. E terminato l'incontro, nel giardino della sua casa si fece notte dialogando un po con tutti, con tutti ... con tutti.

domenica 8 marzo 2015

"MACCHIA UMANA" di Philip Roth





- Premessa - 

Questo saggio ha una forma per nulla canonica. Non sopporto da anni gli scritti nei quali una persona si limita a giudicare. secondo me deve accadere dell'altro. Un testo mi colpisce, colpisce me, e io sono essere altamente individuale, definito da una storia personale, un qui geografico e un'epoca. Ci si deve mettere in gioco. Il lettore deve poter cogliere di quale natura è la soggettività che gli parla. Non importano i titoli. Tutto si compera, da una laurea ad una cattedra universitaria, e si sa che anche cariche più alte hanno un prezzo esprimibile in soldi e dignità spregiata. Nessun titolo quindi, ma un io che tenta di essere sincero e cerca di spiegare come e perché pensa di essere arrivato a certe considerazioni leggendo uno o più libri. buona lettura. 

Perché ho scelto questa forma estrema ma spero discorsiva:
Ho acquistato di Finkielkraut "Un cuore intelligente". Sembrava una guida alla lettura e quasi tutti i testi consigliati li conoscevo, ma già alle prime righe sono entrato in crisi:. Eccole per il lettore: "L'opera d'arte, diceva in sostanza Alain, non appartiene alla categoria dell'utile. Se vogliamo determinarne il valore non dobbiamo quindi chiederci a che cosa possa servirci, ma da quale automatismo di pensiero possa liberarci." Ebbene. in questo inizio vi è una contraddizione.  Ve la smonto: A) l'opera d'arte è inutile. E poi ... B) l'opera serve per liberarci da un automatismo di pensiero. A e B sono in contraddizione evidente. In A l'arte è inutile, in B l'arte serve a qualcosa. Perché accade questo? Al solito perché Finkielkraut è un intellettuale e non un artista, e di fatto si cimenta con  opere che hanno un tasso di intellettualità assai elevato e che con l'idea che ho di opera d'arte hanno solo l'apparenza. Leggendo le opere che consiglia si fa un viaggio nella storia dell'uomo, non nell'Uomo, e allo scrittore secondo me la storia, particolarmente quella vista troppo da vicino, serve solo se allontana la carne e porta alla purezza dell'ideale, come accade per esempio in Primo Levi o in certe opere di Pavese. Lo scrittore è spinto a scrivere da motivi diversi da quelli che portano l'intellettuale a parlare di intellettuali e artisti, e il fatto stesso che mescoli le due categorie fino a confonderle dimostra che non ci siamo ... l'arte è nella categoria dell'inutile ... l'arte serve a liberarci da un automatismo di pensiero. L'arte non SERVE a niente .. l'arte SERVE a qualcosa ... questo cortcircuito di un intellettuale è la sua morte, e cerco di dimostrarlo anche con questo scritto.


QUANDO FUI AIACE


Il cucchiaino della marmellata, sfuggendomi dalle mani, macchiò la tovaglia peraltro già sporca. La si cambiava la domenica, giorno del bianco. Dal lunedì al sabato si usava quella stampata oppure le tovagliette di materiale dozzinale, a colori. Ricordo che ognuno sedeva di fronte ad una favola. Sotto la mia tazza c'erano Hansel e Gretel. Venivano spinti nel forno dalla strega cattiva. Su quella tovaglietta o tovaglia, ora non ricordo, la favola non proseguiva. Eternamente i due bambini finivano nella bocca a semicerchio, bordata di mattoni rosa. Il loro urlo, per me, sovrastava il cinguettio della primavera appena nata. Per me, quando cadde il cucchiaino, iniziarono ad esistere solo la bocca del forno, il ghigno di stoffa e l'urlo, sempre di stoffa, rosso, potente, fino a diventare nero. Sangue del buio.
Il cucchiaino della marmellata dunque, cadde e macchiò. Volò uno schiaffo. Poi un altro. Sapevo che se, minimamente avessi cercato di evitarli, sarebbe stato peggio. Si sarebbe arrabbiata di più.
Immobile, attendevo che terminasse il rito. Il terzo di solito era l'ultimo. Con una delle belle unghie laccate di rosso mi ferì vicino all'occhio destro, quello più distante dal cuore. Lo vide. Vide il sangue. Cercai di dire che il segno c'era già, che ero caduto prima in camera, ma era tardi per tutto. Ogni parola, ogni azione avrebbe solo peggiorato la situazione. Lo sapevo bene.
E le sue parole … e le sue mani …
“Alzati!”
“Come ti ho fatto ti disfo!”
Detto senza rancore, con calma.
“Se stavi fermo non sarebbe successo! Io ti punisco ma lo faccio con attenzione. E lo sai perché lo faccio? Dimmi, lo sai?”
Sì, lo sapevo. Se avessi risposto, ripetendo il suo pensiero, non si sarebbe calmata perché dimostrare di sapere e perseverare nella colpa era un'aggravante. Se tacevo avrei dimostrato di voler resistere al senso di quelle parole.
“Voi uomini andate addomesticati finché siete piccoli! Altrimenti … “
E oltre non andava mai, con le parole.
Mia sorella guardava o non guardava? Non l'ho mai capito. Continuava a fare colazione e guardava oltre me, fuori dalla finestra, il vasto cielo azzurro che all'undicesimo piano sembrava a volte entrare, carnoso denso, pulito e inodore. E poi venivo mandato in camera. Colazione terminata per me. Sentivo ora il loro dialogare sereno, qualche lieve risata, come un cinguettio quella di mia sorella, come una cascatella quella della madre. Senza la mia presenza, ecco oltre la porta della punizione, una scena di civiltà.
Una volta ho trovato il coraggio di aprire pian piano la porta, e pattinando solo coi calzini sul pavimento di marmo grigio, sono arrivato vicino a loro, dietro all'ultimo stipite. Talmente vicino che tentai di guardare. Avevano liberato il tavolo della mia presenza. La tovaglietta, la tazza, il piattino con la fetta imburrata e la marmellata di albicocca. No, non era tutto. Riconobbi la mia fetta, tagliata in due. Erano all'ultimo boccone. Non potevo sbagliarmi. Le mie fette le riconoscevo. Tagliavo il bordo scuro con precisione, facevo finta di mangiarlo e lo mettevo in tasca. Lo avrei poi sbriciolato sul davanzale esterno della mia camera, per i piccioni che ormai mi aspettavano.
La mia fetta mangiata … Chiacchieravano. Sentii con la mano il pane nella tasca e, sempre pattinando sul calzini sul marmo lucido, cosa bellissima da fare e non solo perché era proibita, tornai in camera mia. Mia mia mia … no. Non mia. C'era la serratura, ma la chiave la teneva lei, e da quel buco spesso mi spiavano per controllare anche se veramente studiavo. Mi diceva che era suo dovere farlo perché i maschi si masturbano. Io nemmeno sapevo cosa voleva dire e per questo ogni mia azione, che non consistesse nel girare la pagina o scrivere, stando compostamente seduto, mi preoccupava. Forse questo era masturbarsi? Questo riempire le O e farci gli occhi e la bocca che sorridono? Oppure era il dondolarsi mentre leggevo?

Mattina. Otto marzo 2015. Sereno. Un po' di vento gelido. Fra un paio d'ore sarà caldino al sole e freddino all'ombra, ma potrò indossare la mia amata giacca tirolese verde da mezza stagione e passeggiare un po' col cane.
Non è ancora primavera … secondo gli uomini. Ma è festa. Una festa strana. Un po' ipocrita, un po' di sinistra e decisamente troppo convenzionale. Un po' come quando dicono che il tal giorno si deve essere buoni. E a me sembra che invece di promuovere una qualche versione della bontà, intendano promettere trecentosessantaquattro giorni da orchi. Morirono in tante in una fabbrica, negli USA. Allora non è festa, ma un giorno della memoria per i crimini sul lavoro. Ma l'umanità è molto indietro e ancora deve convincere tutti che bianchi neri rossi e gialli sono uguali se non davanti a un dio, almeno davanti alle leggi. E poi, donne contro uomini. E questa parità che non sarà mai se non nell'apparenza perché i due generi sono purtroppo nati per fingere sintonia e combattersi. Semplicemente la finzione deve crescere d'intensità, la carta pesta deve essere lavorata con più virtuosismo e un uomo deve sembrare un uomo e una donna una donna. E poi, a lavoro ultimato dovrebbe essere promosso l'essere umano che, maschio o femmina o gay o trans o interista poco importa, dispone comunque quasi sempre di una tale carica di aggressività che prima o poi emergerà e distruggerà se stesso e l'altro e il mondo. Otto marzo. E le gemme non sbocciano ancora ma ci stanno seriamente provando nonostante il vento gelato e i telegiornali ipocriti. Medea e Achille popolano il pianeta.

Non è ancora primavera secondo il calendario degli uomini, ma nel corpo di tutti gli esseri viventi la metamorfosi già accade. Le giornate si sono sensibilmente allungate. La luce entra dagli occhi e, quando supera un certo “peso”, riesce a schiacciare un pulsante delle ghiandole. Gli ormoni allora si moltiplicano e così, artificialmente, chimicamente, e non per un pensiero liberatorio, viene la voglia di fare che sembra voglia di vivere. Nel centro Italia, dove in questo momento mi trovo, il primo segnale lo si sente già a febbraio con i gatti in amore. Il loro grido, la loro sofferenza, l'urlo della carne che le femmine placano solo facendosi ingravidare e i maschi ingravidando fino a ridursi pelle ed ossa …
Gli alberi e tutte le piante urlano coi colori e i profumi.
Gli umani cambiano odore ma non ne sono più consapevoli, e si vestono come i fiori ma non se ne rendono conto. E poi ci sono i modi di camminare e di parlare … cambia tutto in primavera.
Ogni senso ha il suo “rumore” che si desta o intensifica. Controllarsi in questo caos sembra stupido, ma è saggezza o così almeno si pensa d'inverno. In autunno è ancora stanchezza e paura ma poi il cappio del freddo ferma il respiro del corpo e riesci forse almeno a pensare. Ma la primavera annienta le buone intenzioni e si riparte per tornare ammaccati. A meno che … a meno che, l'urlo di Hanse e Gretel dalla tovaglietta non sia presente in te e se c'è, è per sempre.

Come ho raccontato, un'unica volta uscii per vederle, per cercare di capire cosa accadeva di buono nella loro vita durante la mia assenza. Poi decisi di costruire la mia. Avevo i pezzi di pane in tasca. Aprivo la finestra, li sbriciolavo e poi li appoggiavo sul davanzale. Poi dovevo chiudere. I piccioni venivano per il cibo. Non per me. Mangiavano tutto poi volavano via. Potevo solo guardare la vita attraverso un vetro, una porta socchiusa. Se aprivo il vetro, se andavo oltre la soglia, qualcosa di sbagliato accadeva sempre. Qualcosa che non sempre capivo. E poi non era un capire. Si, la reazione era certamente legata ad un fatto preciso, isolabile dal contesto, come per esempio il cucchiaino sporco di marmellata che cade sul ghigno della strega. Ma se ci ragionavo, se mi avventuravo oltre, solo una risposta resisteva, almeno in casa. E sembrava che la mia colpa fosse di essere un maschio. Ma, per esempio a scuola … Ero diligente, lo ammettevano. Ma c'era qualcosa in me di imperdonabile che mi sfuggiva. E dal prete, al campetto da calcio, le poche volte che riuscivo ad andare, mi facevano giocare perché con me era più facile vincere, ma spesso, quando ero distante, fra di loro bisbigliavano, mi indicavano con lo sguardo e sorridevano con un sottilissimo ghigno. All'inizio ben disposto da quella specie di sorriso, mi avvicinavo, ma sempre loro si dissolvevano, volavano via come i piccioni quando aprivo la finestra.
E poi ci fu la festa di carnevale a scuola. Ero vestito da Arlecchino. A tutti diedero o una spada o una clava di plastica o una bacchetta magica con in cima una stella. Il bidello decise che ad Arlecchino nulla si addiceva se non, vagamente, una delle clave di plastica morbida, perché era assai colorata, in tinta quasi, col mio costume. In fondo aveva un buco con un fischietto. Se colpivi non facevi male ed usciva un suono divertente. Si decise di fare un torneo di duelli. Io ero al terzo turno. La prima coppia duellò bene. Gli altri, e anch'io con loro, facevano il tifo. Ricordo quanto era divertente scegliere chi incitare. Uno studente piccolo e grasso, che per questo chiamavamo Buddino, inesorabilmente lento in qualsiasi gioco, ascoltò la tattica che gli proposi. Gli dissi: “poiché dopo due minuti di incontro, il vincitore lo decide il pubblico ai voti e tu hai poche speranze, devi farti furbo. Limitati a parare i colpi e mostrati più imbranato di quel che sei, il tuo rivale si farà sempre più sicuro di sé, si scoprirà e tu devi concentrare tutto te stesso su un solo colpo ma potente”. E così accadde. Il rivale saltava come un grillo e lui, Sancho tragicomico, accentuava la sua incapacità. Ogni tanto mi guardava e io gli facevo cenno di attendere e poi gli feci il segno convenuto e come un fulmine, la clava colpì lo snello rivale proprio in mezzo alla fronte. Il fischio della clava fu enorme, le risate che seguirono fecero il resto. A nulla valsero gli attacchi successivi del saltellante. Sancho aveva vinto e fu per un attimo, re del carnevale di classe. Poi toccò a me. Io, piccolo e magro, sapevo di essere veloce e instancabile. Avevo capito le mie potenzialità giocando al calcio. In Germania, nella squadretta dove giocavo, la palla la si toccava solo dopo un'ora di allenamento. In Italia invece la si prendeva subito e, se erano più abili di me di piede, erano comunque senza resistenza. Di solito nel secondo tempo delle partite io diventavo un campione in mezzo a una massa di gente cotta che faceva fatica a fare due passi di corsa. Decisi così di lasciar sfogare il mio rivale per un minuto e mezzo e scatenarmi negli ultimi trenta secondi. Ma accadde qualcosa di imprevisto. Il pubblico, che era appunto anche giuria, iniziò in modo prima debole e poi sempre più travolgente, a insultarmi. Ero sbalordito. Mi difendevo dal duellante e ascoltavo. Ecco di cosa parlavano sorridendo quando ero distante. Ero “il tedesco”. Ecco il problema. Ma per quale motivo essere tedesco era degno d'insulto non riuscivo proprio a comprenderlo. Non persi comunque il controllo della situazione. Scattai negli ultimi trenta secondi e la mia superiorità si dimostrò netta. Ma la vittoria andò all'altro con un giudizio unanime. Mi allontanai senza parole. Non capivo. A casa avevo concluso che non era colpa del cucchiaino sporco di marmellata, poiché anche davanti agli altri le macchie non mancavano. Potevo comprendere i piccioni che non si lasciavano avvicinare, poiché sapevo che c'era gente che li mangiava e forse i piccioni lo sapevano e pensavano che la mia intenzione fosse di attirarli con le briciole per poi metterli in pentola. Ma qui, anche qui un enigma. Un enigma non fra animali, ma fra umani, che sussisteva, sia qui a scuola che a casa. Andai da un'insegnante che, con ogni evidenza, dalla posizione in cui stava, aveva assistito alla scena e chiesi se poteva spiegarmi il senso di quel che era accaduto. Mi disse che i tedeschi, in Romagna e non solo, erano mal visti per via di quel che era accaduto durante la guerra. E io cosa c'entro! Risposi. Io non ero nemmeno nato! L'insegnante sorrise e rinunciò al suo comodo posticino, stravaccato ad una finestra con la schiena al sole. Mi dimostrò così il suo consenso a quanto era accaduto. Ricordo fior di lezioni sui partigiani, sull'Italia che aveva vinto la guerra, e io, che già allora studiavo più di quel che mi era richiesto, sapevo che non era vero … la mia reazione a quell'assurdità, fu altrettanto assurda. Andai in bagno. Tolsi il tappino-fischietto alla clava di plastica e la riempii d'acqua. Tappai poi in qualche modo alla buona e tenendo un dito sul foro precario che era il punto debole del mio piano, mi avviai verso quel pubblico che mi aveva insultato e tolto ingiustamente la vittoria. Urlai che li sfidavo tutti insieme. Si lanciarono e nel giro di due minuti erano tutti a terra doloranti o in fuga. Con mia sorpresa scoprii di non aver agito da solo, Sancho, il mio piccolo Sancho, mi aveva osservato e aveva “caricato” anche lui la clava. Lui non aveva un motivo. Non aveva un perché per me comprensibile, ma la sua soddisfazione fu quasi più grande della mia. Solo più tardi, mi fece comprendere che si era vendicato di anni di beffe e che mi rispettava perché io, quando scherzavo, si capiva che lo facevo per gioco, senza cattiveria. Tutti stesi, tutti ammaccati. Nessuno, nemmeno gli insegnanti, osarono avvicinarmi. Chiamarono mia madre che ascoltò la loro versione, poi la mia, e poi disse agli insegnanti che erano una massa di deficienti. Mi aspettavo che si sarebbe arrabbiata con me e la celebre minaccia del collegio stavolta si sarebbe concretizzata, e invece mi difese. Anche a casa mi trattò come un eroe. Ero disorientato. Ma cosa c'era in quell'azione che mia madre potesse tanto apprezzare! Ed ecco, con gli anni affiorare e prendere forma, le risposte. Il nonno paterno era fascista e fu parecchio turbolento. Lo uccisero alla fine della guerra. Per lei, in quella mia reazione contro “i partigiani”, c'era un poco di vendetta per un ideale suo, che non era forse fascista, ma legato al dispiacere per il padre morto con un colpo di pistola alla stazione di Bologna. Compresi poi altre cose, come tasselli di un puzzle che, una volta entrati nella memoria, da soli si mettono al posto giusto. Le quattro zie, sorelle di mia madre, finché le gambe glielo permisero, mai rinunciarono al pellegrinaggio annuale a qualche sacrario dei caduti. Non è difficile immaginare un parcheggio pieno di autobus che arrivano da tutta la nazione. Con essi toccano il suolo della distesa di croci, coloro che erano giovani durante il fascismo, coloro che a scuola indossavano divise del partito e amavano in esse in fondo, più di un ideale, la loro giovinezza, fatta di vita gregaria e poco ragionamento. Se inizialmente ci “caddero” anche personaggi come Vitaliano Brancati e Curzio Malaparte, che erano essere finemente pensanti, loro che erano solo future chiocce cosa potevano fare ...
Se la reazione di mia madre al mio comportamento, mi fu chiara col tempo, mi domandavo comunque perché, nella mia mente mi paragonai da subito, non ad Achille o Odisseo, ma ad Aiace. Amavo già i drammi greci. In essi mi affascinava, ora ne sono consapevole, più l'antichità, del senso e della poesia. La poesia la trovai dopo in altre opere. Ma sentii di essere stato Aiace, strumento degli dei che non accetta il suo destino, e non meritevole quindi io come lui di stima quando “sterminai” un “gregge” di bambini, innocenti nella loro banale ignoranza.
Il dato immediato che più mi fece soffrire fu, una volta rincasato e finalmente solo, questa enorme quantità di violenza che era scaturita dalle mie mani, dal mio corpo, dal mio pensiero che, sfuggito alla mente si era affidato a qualcosa che riuscivo solo a chiamare follia.
Nei giorni successivi, a scuola accadde l'inverosimile. Gli insegnanti ignorarono completamente l'accaduto. Nessuno ne parlò, nessun genitore venne a far drammi, e i miei compagni iniziarono a trattarmi con un rispetto che per me non aveva alcun senso. Sempre cercavano il mio consiglio. Nei giochi ero il primo ad essere conteso e le ragazze, beh, le ragazze mi mandavano bigliettini e sguardi conturbanti. Solo in me era presente la consapevolezza che era accaduta un'enormità, che ero sfuggito a me stesso e mi ero trasformato in una belva.
Non ci capivo niente.
E poi, col tempo, la vita inserì altre esperienze, altri pezzetti che misero ogni senso al suo posto. Accadde così che compresi che in mia madre c'era un'esigenza di violenza che saltuariamente le era necessaria come sfogo. Forse perché mio padre era malato e non poteva più “ammansirla” nelle battaglie del letto? Mio padre aveva il suo bel da fare con la tigre che lo consumava nella carne...
questo lo compresi con gli anni, ma c'era in me una colpa che precedeva, agli occhi di mia madre, il desiderio di violenza? Non sapevo e forse ora so, ma quel che mi turbava allora e mi spaventa oggi, è questa esigenza umana, insopprimibile in quasi tutti i suoi rappresentanti, di dare prima o poi sfogo alla violenza. E quale fu l'esito sconcertante nel mio caso? I compagni mi elessero a capo e saggio. Io, nel mio piccolo, se avessi subito una simile lezione invece di darla, avrei isolato il violento. Avrei costruito la mia giornata escludendo il più possibile quel massacratore che ero stato. E invece no. Eroe e capo. Eroticamente appetibile per molte mie compagne. Era tutto assurdo. Non mi bastava allora. Ma ora mi basta. Ora so. Tutto è violenza. E il mio primo compito consiste nell'agire su me stesso per evitare di diventare di nuovo quel folle Aiace. Così sei senza amore, senza sudditi, ma sei te stesso, sei più forte della violenza. E questa sensazione vale la vita.
Ricordo quella volta che vidi due anatre copulare. Di fatto fu uno stupro. Mi disse, il vecchio zio che mi accompagnava, che le anatre fanno così. Il maschio sottomette la femmina con violenza. Sembra più un tentato omicidio che una copula. Gli uccelli sono assai primitivi. Ma in fondo noi umani, se si toglie il peso dell'educazione, che ad altro non serve se non a tentare di controllare gli istinti aggressivi, siamo identici. Spesso ho definito il rapporto sessuale come la compensazione di due egoismi. Ognuno è convinto di prendere, tutto sembra armonia, ma è solo precario equilibrio. La carne per un poco si accorda, e la primavera aiuta, dosando le valvole che squilibrano la nostra capacità di autocontrollo, di pensiero, di educazione, di rispetto, di spiritualità, di, sì, di vita. Tutto è tentativo di sottomissione. Raramente nei drammi e nella storia, dei e padri, coi figli, non vengono alle mani. Il padre dei padri, Urano, viene eliminato da Saturno. Saturno da Giove e quest'ultimo viene alla fine dimenticato. Ma Saturno evirò il padre, gesto che vuol dire fine della fertilità, della vita, e poi dopo, Saturno, per paura che i figli eliminassero lui, li divorava. Non esisteva ai primordi la sottomissione, ma l'annientamento. Così però non era possibile vivere anzi, organizzarsi forse non proprio per vivere poiché allora il problema principale era sopravvivere. Vivere è un lusso che tutt'ora a pochi è concesso. La sottomissione crea la comunità. Ma la sottomissione è possibile solo con la forza, la violenza. Dopo due guerre colossali e un secolo, il ventesimo, pieno di stragi e genocidi, l'essere umano ha iniziato ad avere paura di se stesso, della sua capacità di follia, come io ebbi paura di ricadere in una reazione come quella che ebbi a scuola. Vinsi, divenni il beniamino con servi e odalische, ma il mio io era strutturato diversamente. Altre erano le sue intenzioni, le sue ambizioni. Io ancora ricordo e invece la mia epoca ha già dimenticato le due grandi guerre e i genocidi e questo deve spaventare un mondo che non vuole e non sa ricordare.

Ora, apro la finestra, metto le briciole e i piccioni vengono. Non hanno più paura di finire in pentola. La volpe la notte viene, mangia il cibo che le preparo e sta a pochi passi da me. Mi osserva. Lei è tranquilla, io sono tranquillo. Nessuno sottomette l'altro, o peggio, lo evira, come faceva con me mia madre ogni giorno, o lo mangia, come fanno quasi tutti quotidianamente. Ho anche compreso in cosa consiste, in fondo in fondo questa idea così apparentemente assurda, del peccato originale. La vita degli umani si basa sulla morte di altri esseri. Indubbiamente si tratta quasi sempre per nutrimento. La caccia è un residuo medievale tremendo. Non è uno sport uccidere. Se in natura ogni essere ne mangia un altro per sopravvivere, l'essere umano, ritrovandosi il pollice opposto alle altre dita, iniziò a possedere una tecnica, e con essa un pensiero, e ora è in grado di vivere senza più uccidere. Il cibo lo può costruire. E non solo quello. Nel giro di un tempo che non so quantificare ma che sento essere breve, potrà costruire corpi migliori, produrre quei cambiamenti genetici che prima secondo Darwin erano frutto del caso con un prezzo in sofferenza individuale, altissimo.
Ma a qualcosa l'essere umano non riesce per ora a rinunciare. Si tratta di una aggressività che spesso si fa violenza pura, sangue, strage. E va ben oltre le paure di Saturno e di Urano. All'origine ogni essere umano era per l'altro, solo cibo. Poi si raffinò e l'altro divenne, fra umani, da sottomettere, e gli animali sempre e ancora cibo. Per me, in me, l'errore, in relazione a questa epoca, è che non mi interessa sottomettere e gli animali non sono cibo. Tutto vibra della possibilità dell'affetto, del pensiero. Un alone di affetto possibile che non posso umiliare con la regressione alla violenza. Spesso comportamenti umani mi hanno portato alla soglie di una ripetizione di quella volta che fui un Aiace, ridicolo in fondo solo a me stesso, ma sufficientemente ridicolo da resistere e non cadere più nel tranello della violenza, che della sottomissione è l'unico strumento. E violenza non è solo usare le mani, i coltelli, le pistole, le bombe, ma consiste anche nell'illudere, manipolare menti, creare leggi che di fatto costringono ad essere schiavi di una banca, di una organizzazione, di una mentalità, di una tradizione.
Nelle sere d'autunno, le porte e le finestre aperte, le foglie secche che entrano, il vento muove tende sottilissime. Non ho porte. Non amo le porte, se non quella d'entrata, come anticamente nelle caverne dove un sasso, uno messo di guardia o il fuoco, aiutavano ad esorcizzare la paura del buio. Il sangue nero degli incubi, più veri della realtà.
E per me, non esiste soddisfazione maggiore del vedere che l'animale spegne davanti a me a poco a poco, la sua diffidenza. Solo così può nascere la civiltà. Questa è la vera non violenza.
Vedo il mondo degli uomini come un palcoscenico di cartapesta. Finto più di quanto nemmeno Fellini potesse immaginare. Ogni sedia la si vuole trasformare in trono e tutti cercano il centro sul quale devono, assolutamente devono, convergere gli sguardi di tutti.
Da questo palcoscenico, da anni sono sceso. Ogni tanto scrivo e vivo una piccolissima vita.
E di recente ho scoperto di non essere l'unico ad avere capito queste cose.
Philip Roth nel suo libro “La macchia umana”, arriva a queste parole: “chiunque abbia l'audacia di far questo, non vuole semplicemente essere bianco. Vuol essere capace di far questo. E' qualcosa di più del desiderio di godersi una beata libertà. Ha qualcosa in comune con la ferocia dell'Iliade, il libro preferito da Coleman, sullo spirito barbaro dell'uomo, dove ogni delitto ha il suo carattere, e ogni strage è più efferata della precedente.”

Coleman, il protagonista, è di origine nera, da parte di madre. È assai “sbiadito”. Per chi non se ne intende potrebbe passare per bianco. Il padre è ebreo. L'idea di Roth, ha radici quotidiane. Ricordo che a New York girava una barzelletta che raccontava di un gay che si lamentava di essere discriminato. Una persona gli fece notare che era nero, ebreo e omosessuale. I newyorchesi ridevano. A me non faceva ridere per niente. E Roth è riuscito a farci un libro. Non un capolavoro, ma una cosa interessante, che fa pensare, e pensare è meglio di niente.
Coleman decide quindi di negare le sue radici per avere le possibilità sociali di un bianco. Tutto scattò da un evento di gioventù. Fu buttato fuori da un bordello per bianchi poiché la prostituta lo aveva riconosciuto per quel che era. Per realizzare questo “sogno-incubo” deve rinnegare le origini e quindi la famiglia. La madre è nera. La madre lo adora. La madre deve dimenticarlo. Lui diventa preside di facoltà in una università americana e insegna la materia più “bianca”, ovvero letteratura classica. E ora torniamo a quelle righe di Roth. “ chiunque ha l'audacia di fare questo, non vuole semplicemente essere bianco. Vuol essere capace di fare questo. … ha qualcosa in comune con la ferocia dell'Iliade”. Ecco, ci siamo. Roth, per un attimo, ha “sentito” che la questione di fondo non si spiega con il bisogno di realizzare una vita piena. Coleman potrebbe realizzarla solo in qualità di bianco? No. E per un attimo Roth ci dice che la realtà è un'altra. Ti butti nella mischia. Devi essere più forte dei forti. E da ragazzo questo Coleman fu anche pugile. Questo sport, ormai tramontato, fino agli anni novanta era la perdizione. Era adorato. Per questo un lettore attuale non può comprendere in pieno la portata di quella descrizione. Nel novecento il top dell'intelligenza, quasi divina era rappresentato da matematici, fisici e giocatori di scacchi. Lo sport preferito, prima dell'intervento dell'organizzazione dei college che preferirono gli sport di gruppo e poi dei media, fu il pugilato. Per vedere un incontro dei pesi massimi in Europa si facevano delle levatacce assurde. Era triste se non vedevi quegli scontri titanici in compagnia. Era triviale, antico, possente. Con un piede nelle primordiali sfide dell'Iliade e l'altro nel presente. C'erano regole. Ci si lavava la coscienza con quelle, ma si attendeva la morte per un colpo proibito che andava contro tutto, contro l'essere umani, cristiani, divini o anche solo bestie. E un uomo solo era lassù, che si chiamasse Clay o Einstein o Fischer. Erano i padroni della psiche, di un mondo. Ora, Coleman da ragazzo, da bravo ragazzo, di nascosto si sdoppia e rivela il lato aggressivo. In fondo quasi tutti gli sport hanno questo compito. Che l'idea del migliore si sia fatta in alcune specialità, sempre meno violenta, non cambia il concetto di una graduatoria di valore fra gli umani che presuppone un rispetto che è forma latente ma non troppo di sottomissione resa evidente da un cronometro, da una pallina che è finita o fuori o dentro o sulla riga. E nella boxe Coleman era il migliore. Poteva esserlo senza ferire, con stile, nel modo più elegante e moderno, Il maestro gli diceva di essere elastico e di mettere a segno piccoli colpi magistrali. Avrebbe sempre vinto ai punti, ma non gli bastava. Vinse per ko. Poi, una volta all'università passò professionista, e anche li gli consigliarono di andare piano. La gente paga il biglietto. Non fargli vedere solo un round, fanne passare qualcuno. Buttalo giù se proprio non resisti, verso la fine. E invece al primo round il rivale era già al tappeto. Lasciò il professionismo perché … e questo perché Roth non lo dice, ma è nell'aria … perché Coleman ha bisogno di lotta primitiva, feroce, che dimostri la sua “belvità”, e pretende che questa sia premiata.
E in questo romanzo chi vince realmente lo scontro? Se proviamo a dare dei punti ai vari personaggi, Quella professoressa di origine francese che approda al college, assunta dallo stesso Coleman, innesca una scena teogonica ben nota. Coleman-Urano, viene evirato-distrutto dalla neoassunta-saturnina, che cerca un partner per figliare un Giove ecc. accade che lei il partner non lo trova e scopre suo malgrado che l'unico adatto per potenza era proprio colui che ha distrutto. Questa complicazione aggiunta abilmente (e che stimo), dall'autore, ci mostra la sfida impazzita di tutti contro tutti e anche l'aspetto generazionale e il vincolo erotico che deragliano nel non senso, nel caos.
Ma per quale motivo Roth sfiora due volte la chiave di quel che ha scritto, ma non va oltre? Perché non ne è consapevole se non a sprazzi, a brevi illuminazioni che probabilmente lo spaventano. Penso anche che con l'età, abbia risentito di sconfitte dal punto di vista erotico e probabilmente di stima, non tanto dalla massa e dalle vendite di libri, ma da qualche individuo che avendo ricevuto un poco del suo disprezzo, ha saputo non temerlo e reagire.
Penso che, calato troppo nel compito consapevole di mascherare una sua realtà personale e vissuta, non abbia saputo superare se stesso.
Mi spiego. Si leggano “L'avvoltoio”, “Nella Colonia Penale” di Kafka e si “sentirà” una certa atmosfera di sopraffazione e annientamento incombente, inesorabile, irrimediabile. In essi è presente il sangue come limite superato, punto di non ritorno, della violenza che si fa primigena. Ecco il pugile che fa sanguinare l'avversario ma che per esigenze di spettacolo deve trattenersi e stare al gioco di una finzione che la ferocia primordiale non può sopportare. Essa si esprimerà nel ruolo “civile” del preside di facoltà spietato. Ricordo un passo, sempre in questo libro di Roth, che parla di arrivismo e di come siano stati gli ebrei ad avere portato questa battaglia all'estremo nelle università americane … e io penso a Paul Nash, che a Princeton si trovò inserito in un dottorato gestito da un personaggio ebreo con le mani ustionate del quale ora non ricordo il nome, che non voleva sentir parlare di voti. Quelli te li garantiva da subito. Pretendeva che lo studente frequentasse le lezioni che preferiva, liberamente e senza obblighi, e poi producesse materiale di valore. L'ora del tè, che si svolgeva fra gli studenti dottorandi e i loro professori, serviva a creare un'atmosfera di competitività che rasentava l'ossessione e spesso sfociò nella nevrosi. Ecco il mondo che Roth da per scontato nel libro, ma che al lettore non nordamericano va spiegato. La facoltà era la selva feroce. I morti erano coloro che in qualsiasi modo venivano esclusi, e la neoassunta professoressa di origine francese, riesce ad annientare Coleman che è il suo datore di lavoro. Lui non accetta la sudditanza erotica inclusa nell'assunzione e lei lo distrugge. Come? Non ha importanza. In un mondo nel quale la morale è solo una facciata, proprio non importa.
Ma Roth, per l'ennesima volta ha mancato il centro del bersaglio, e ormai penso che sia accaduto perché ha paura di quella consapevolezza latente che appare e scompare come scrittura automatica nei suoi libri.
Terminando la recente rilettura de “La macchia umana”, mi tornava continuamente in mente “Mr Vertigo” di Paul Auster. Non capivo perché e poi la risposta è arrivata nel sonno. La mia idea di letteratura è la seguente: descrivere una realtà che ci turba per mezzo della fantasia. La fantasia non usa la sola realtà, ma tutto tutto tutto. Non importa se un asino vola o si limita a camminare e nemmeno se è rosso e fa chichirichì. Importa che il significato arrivi al cuore, che il cuore ci esploda e che si debba ristrutturarlo a nuove irrinunciabili consapevolezze. Roth ha sempre usato solo la realtà per descrivere la realtà. Ricordo solo un racconto dal titolo “il seno”. Una cosina triste che non parte e non arriva da nessuna parte. Ma che legga “L'avvoltoio” e mediti la possibilità di lasciarsi andare ai suoi mostri … basta arrivismi e erotismi. Ormai è solo, in un carcere che è il corpo, che invecchiato, non è più trionfo di potenza adulata ma sudditanza estorta. Si deve andare oltre, (anche lui l'ha intuito ma non ha il coraggio di renderlo esplicito), ed è la rivelazione della paura della violenza, scoperta che accade in noi stessi, e l'esigenza del continuo annientamento dell'altro come soddisfazione mascherata ma inesorabilmente dominante. Basta lotte fra uomini e donne. E basta all'insensata fame di dominio, di superiorità, di soldi, tanti soldi fino a non accontentarsi mai, dimenticando che i soldi sono possibilità, che oltre un certo limite perdono ogni senso nella dimensione individuale (e, se non si riesce a diventare altruisti, donando possibilità ad altri, si diventa mostri, caricature).
In “Mr Vertigo” Auster, ha inventato qualcosa di irreale che rappresenta magnificamente la realtà che “sente”. Più passa il tempo e più amo quel libro. Più passa il tempo e più rifuggo chi sa scrivere e non affonda la lama in se stesso fino in fondo … per paura di soffrire, per paura delle proprie radici primordiali. Ma solo l'artista può farlo, solo il vero artista ha questo coraggio. Ci vuol più forza interiore ad essere un carrierista di successo che descrive con abilità la superficie delle cose oppure a rinunciare ai tanti, troppi cavalli di un'auto come non seppe mai fare Brecht? E in quei medesimi anni, in silenzio, senza riflettori, un Kafka, nella medesima Berlino toccava il cuore umano, lo descriveva e lo metteva davanti allo specchio, per sé stesso, per me, per tutti!
E penso al Miller del teatro americano con opere come “Morte di un commesso viaggiatore”, nel quale la finzione americana si sgretola, oppure “Erano tutti figli miei” nel quale invece esplode e fa molto, troppo male. Ma a quel male chi è andato oltre? Per ora nessuno dopo Kafka, purtroppo. Ci stava arrivando Camus, ma un incidente stradale gli ha tolto la possibilità di terminare “Il primo uomo”. Con fantasia stupenda Strindberg e Bulgakov hanno abbozzato, aperto vie, ma se l'artista non si libera di erotismi e arrivismi, malattie epocali che fanno volare basso, troppo basso quel che in noi va oltre il pensiero … allora la letteratura, in mano ai commercianti, ha finito di esistere.
L'uomo messo a nudo, che osserva le sue radici e le ri-fonda. Questo deve accadere. E quando, come accade a me, la violenza ti invita con doni di sudditanza ed erotismo, si deve resistere, perché c'è di più, e non può comprenderlo chi non ha mai atteso umilmente di essere accettato da una volpe, da un merlo, dal riccio. La violenza, nelle sue varie forme porta al successo si, ma nella carne, nella solitudine. Ti offre qualcosa di perennemente transitorio e che qualcuno con altrettanta violenza ti porterà via. Ma c'è qualcosa di più. Esiste un'armonia che se solo ti sfiora ti fa tremare in tutto il tuo fragile esistere, e sentirai che essere vivi è solo una tappa enorme, infinitamente infinita, e che da serenità, e ti fa ridere di chi vuole arrivare primo dimenticando che non esiste gara, ma un percorso che sembra a tappe, che abbiamo trasformato in tappe perché l'infinità, in tutte le sue forme ci sembra spaventosa e inafferrabile.


amen

martedì 4 marzo 2014

Osservando una foto di Kafka (visione onirica)




Leggo l'opera di Kafka con assiduità. Penso, ormai lo so per esperienza, che negli anni, una goccia alla volta, ogni goccia, diventa un diamante.
Ho trovato per puro caso sulla bancarella di una fiera dell'antiquariato, questa domenica, il volume fotografico edito dal Centre Pompidou. Foto del Praghese, manoscritti leggibili,

prima pagina de "La metamorfosi"


e pezzi figurativi, alcuni validi, che ricordano l'opera di questo grande. Un disegno stupendo di Gacometti.



Una foto mi "guardava" con intensità. Mi ha commosso la sensazione di tarlo che come una lenta carie divora l'anima, la sua. Chiudo il libro e la mente va in corto circuito cadendo in un sonno brevissimo; veramente solo qualche attimo ... e lo vedo, lo vedo davanti a me che osserva se stesso allo specchio. Penombra vibrata, quella delle candele, e dal silenzio la sua voce scandisce parole che ricordo perfettamente:

"Puoi arrenderti solo davanti al nulla

ma pensa, pensa profondamente se quel che vivi è il nulla.

Se ti arrenderai e non è il nulla
ti spetta la condanna

Se prosegui ed è nel nulla
il nulla sarà la condanna".

Le parole mi si sono incise dentro, nella carne, nelle viscere. Lui, che osservava se stesso, si è girato verso me. Occhi negli occhi, tristi ma decisi. Una guida da sempre, e ora mi affida quelle parole. Le ripete. Le dice a me, esattamente come un attimo prima le scandiva a se stesso ... e poi silenzio e poi lo specchio, e poi nemmeno quello ... ecco il nulla? E mi sveglio in questa giornata di pioggia battente. Mi son ripreso da un piccolo incantesimo o è accaduto qualcosa di più importante? Non lo so. Il mondo, il solito mondo fuori dalla finestra, deformato dalle gocce rapprese, non è più lo stesso. Il mondo, carico di quell'enigma si fa enigma egli stesso? Strisciante, una sensazione satura di certezza mi guida verso un sorriso che non vorrei, che non comprendo, che mi sembra giungere nel momento sbagliato, ma sorge, alba sulle labbra, e lo sondo allo specchio. "Pensa, pensa profondamente se quel che vivi è il nulla..."
Solo la risposta esatta può condurre alla vita, solo una certa risposta, e si rivela da quel sorriso stampato sul mio volto, sorriso indecifrabile che tocco con le dita per vedere se esse comprendono. Lascio lo specchio alla sua solitudine e torno alla foto di Kafka e un profumo, un profumo d'infanzia, un profumo che non ho vissuto ma riconosco, scaturisce da un cassetto della mente che doveva diventare, ma mai fu aperto, e quel profumo trasforma il sorriso del mio volto, quel sorriso non mio ma su di me posatosi, in una canzoncina infantile che mi culla, e dallo specchio vedo qualcosa muoversi ... torno a lui,  all'io riflesso, osservo il me stesso che mi concede e nel frattempo qualcuno mi tocca la spalla. Non mi volto, è li, dietro di me ... non oso guardare .... é la risposta che ha preso un aspetto concreto per parlare agli occhi. Vibro, attendo senza respiro per vedere, ma una risata enorme, brillante e allegra, di ragazzo, la risata forte dei miei vent'anni, annulla tutto. Non c'è più specchio, stanza, pioggia e dubbio, solo il profumo d'infanzia ... lo sento, solo quello rimane di me e si spande nel nulla, per sempre.


lunedì 3 marzo 2014

Il film "La grande bellezza" di Sorrentino



Vengo invitato da giorni a dire cosa ne penso. Sembra che la mia interpretazione de “La grande bellezza” sia sorprendente, che nobiliti, e invece non consiste in altro che nel rendere evidente quel che una lettura impulsiva non concede. Quando anticamente si parlava di sette esoteriche spesso si spregiava un ristretto gruppo che si concedeva tempo per meditare e l'esito non era inaccessibile per regolamento, ma per tempo dedicato appunto. Era il tempo da dedicare alla meditazione che rendeva inarrivabile... e che nobilita l'esistenza.

Veniamo al film. Meglio essere rapidi. Questa è un'epoca rapida e quindi impulsiva, emotiva ....
Trama: un uomo vive a Roma in modo salottiero. Dei salotti è il re. Re del nulla, di una concatenazione di apparenze. Comprendiamo che non è appagato. In lui qualcosa è bloccato. Vive fra gente che nega la sua stessa realtà e un ricordo affiora, una ragazza alla fine della loro adolescenza, quando la vita si appresta a diventare realtà ed esce dall'ipotesi, dal sogno. Ed ecco l'ultimo atto del loro "rapporto". Lui e lei bellissimi, belli della loro età, un'isola, un sogno. È notte, uno di fronte all'altro, soli, candidamente felici, pieni di desiderio che può realizzarsi. Ma …. ma lei lo guarda, si apre la camicetta, mostra il seno, come anticipo del dono e poi sparisce. Scopriamo che la ragazza ha poi sposato un altro. Ha vissuto con lui e, una volta morta, un diario che il marito ha trovato per caso ci dice che lei ha continuato ad amare quel primo amore al quale non si è concessa. Il protagonista interpretato da Servillo non capisce. Ha in sé quell'enigma. e penso che il pubblico ... e non solo, no abbia risolto quell'enigmatico comportamento Il primattore incontra una ragazza che vive in un modo strano, ruolo ben interpretato dalla Ferilli.



Lei ha segreti col padre. Sentiamo lo scarto generazionale. Una generazione ormai canuta che ha massacrato, per egoismo e superficialità, la precedente. Medesima risposta ci viene dalla artista che fa quella performance buttandosi contro il muro e la bambina che colora non con le mani ma con i nervi esplosi.Nulla si consumerà anche questa volta per il protagonista. Lei è un fiore reciso dal destino, dal padre egoista inconsapevole (la razza peggiore), e dalla malattia in fondo liberatoria.

Il film non si srotola quindi in una trama lineare, ma gira intorno ad un enigma. Il comportamento di quella ragazza alla soglia dell'età adulta, che rifiuta l'amore e però continua ad amare è il perno e il mistero di senso.
Ci piace il film? Probabilmente per le scene, per idee valide come l'incrocio fra turisti giapponesi e il coro femminile dell'inizio, oppure la veggente anziana della quale non avrei mostrato il volto e le citazioni felliniane secondo me un poco consumate e ritrite, quando ognuno sa che si può passeggiare per Roma attualmente un'intera giornata senza vedere una suora..... Perle di scene che si alternano alla volgarità descritta purtroppo in modo troppo diretto, ovvero con la volgarità per esempio nelle scene salottiere e in discoteca, scene non romane ma purtroppo, parlo non per luoghi comuni ma per esperienza diretta, internazionali.

Veniamo all'enigma della ragazza..... preferisco far parlare un “amico”. Un genio. L'Italia del novecento è stata la terra che ha avuto più talenti in assoluto …. ma raramente se n'è accorta.
Alberto Savinio. Brano tratto da “Ascolto il tuo cuore città”. La mia edizione è la seconda del 1944 di Bompiani e il brano si trova a pagina 90. (nell'immagine la reperibile versione di Adelphi)



Savinio ci parla di un amore da uomo in fiore, ancora imberbe ma sensibilissimo alle leggi del cuore. Riesce a portare la ragazza in una camera d'albergo e per la prima volta sono soli: “.... Quanto sprecona la gioventù. Quanto poco sa approfittare dell'attimo che fugge. Tante fatiche da superare, tanti ostacoli da vincere, tanti pericoli da affrontare; e quando alfine ci troviamo in camera, soli, al sicuro, chiusi nel cerchio del lume galeotto, ; anziché cogliere il premio sospirato, consumavamo la notte a guardarci negli occhi, a divorarci con gli occhi, ad amarci con gli occhi, soltanto con gli occhi. Ma è generosità forse, spreco, o non saggezza piuttosto e arte di capitalizzare la felicità? IL DESIDERIO INSODDISFATTO VENT'ANNI FA, OGGI è ANCOR VIVO IN ME, CHE ALTRIMENTI SAREBBE MORTO. E UNA MORTA FELICITA' COSA CONTA, IN CONFRONTO A UN DESIDERIO VIVO?

Ho messo in grande la parte fondamentale e sottolineato la frase chiave. Una geniale raffinatezza quel pensiero, non trovate? Se ti amo consumo e non rimane più nulla. Se non accade il desiderio rimarrà in eterno in te... e questo accade al protagonista del film, eternamente legato a quella ragazza. Questo lei desiderava. Averlo per sé per sempre, e la via non era nella carne.
Il protagonista non comprende, ma è legato appunto, come stragato, e per sempre. … e io mi domando che senso ha per lui se alla fine non comprende. In questo sento il film inconcluso. Il cerchio non si chiude. Lui che capisce dovrebbe sorridere finalmente, e invece la pellicola si chiude con quel ricordo enigma puntato secondo me, con caduta di gusto, su gustose ghiandole mammarie.

Savinio ci fa sapere, da umile qual'è, che l'idea è di un certo Francesco Petrarca (sonetti XXI e XXII). Ma quel che il sommo ci racconta della sua Laura è calato in un'epoca nella quale si tendeva ad idealizzare la fanciulla una volta spirata. Così fa Dante e non solo appunto.
Savinio non sa, glielo comunico ora in sogno, che da queste righe da lui genialmente coniate poco prima della fine della seconda grande guerra, Savinio non sa dicevo, che ne è nata una sequenza di opere capolavoro poiché è impensabile che i suoi grandi contemporanei non lo leggessero visto che loro almeno sapevano che la sua sensibilità era oro puro. Inizia Pavese nel 1949, appena cinque anni dopo, con “Tra donne sole”,



 da questo Antonioni trae un bel film, "Le amiche" del 1955.



 Da Antonioni l'idea colpisce Tonino Guerra e in un libretto prodotto col disegnatore Mattotti intitolato “Cenere”, la ritroviamo.



 Ma Antonioni non è sazio dell'idea e la ricalcola, la ri misura nel film “Al di là delle nuvole”. Film a scene. In una di queste, una ragazza bellissima (Ines Sastre)



arriva alla fine nel letto con l'uomo che ama, ma non consuma e scappa, e la fuga è spiegata dalle parole di Savinio, ma non dal film purtroppo, poiché spesso Antonioni amava sottindendere rendendo la sua opera adatta ad una setta di sensibili legati al tempo della comprensione e dello studio, come ho accennato all'inizio. Il genio è una lunga pazienza, diceva Savinio. Il genio è tale perché non ha fretta e si prende tutto il tempo che gli necessita per tentare di comprendere non con l'intelletto, ma con l'anima che si trova in un punto invisibile a metà strada fra cervello e cuore. Non aveva fretta Antonioni, e nemmeno ne aveva Pavese. ne ha quest'epoca che così perde l'occasione di comprendere e ... comprendere è elevarsi. setta quindi, ma con la regola sola della calma, del tempo centellinato non a far soldi. regola che pochi hanno il coraggio di rispettare.



Il caso di Tonino Guerra con Mattotti è interessante. Una torre. Qualcuno che ambisce a raggiungere la cima, è la meta della sua vita. Arriva fino alla porticina ma non la apre e torna indietro. L'idea di Savinio quindi, legata all'amore, si fa qui regola generale di vita, e Tonino aveva ragone a pensarla così. Consumare è una forma di morte, di fine. Io da piccolo, da adolescente, scrissi una favoletta nella quale lo sceriffo della contea di Sherwood ha catturato finalmente Robin hood. Ma lo sceriffo, dopo una prima gioia non è soddisfatto, anzi, si rattrista e beve fino all'angoscia. Comprende che se Robin è preso la sua vita, basata su quella sfida, perde di senso e splendore. Libererà il rivale, in fondo per non morire lui stesso.

Ecco spiegato il film che ha vinto l'oscar. Avrei preferito un finale che rendesse più chiaro il contenuto. L'eccessiva sottigliezza potrebbe diventare invisibilità e penso che sia il caso del senso profondo di questa pellicola. Ora una domanda non sibillina ma onesta. Penso che il regista abbia letto Pavese e sicuramente visto i due film su quell'argomento girati da Antonioni. Potrebbe esser rimasto quindi bloccato da un senso non compreso, cosa che accade in chi vede quella scena de “Al di là delle nuvole”. Potrebbe aver omesso un finale più chiaro perché anche lui non sapeva e non sa spiegarsi quel comportamento della ragazza del film, comunque avvallato da mostri sacri come Pavese, Guerra e Antonioni. Questo penso sia accaduto, perché il libretto “Ascolto il tuo cuore città”, di Alberto Savinio è un capolavoro asssssssoluto, ma trascurato, oserei dire dimenticato....
Posso dire che di questo regista preferisco “Le conseguenze dell'amore”, titolo in fondo perfetto anche per questa sua ultima creatura che ha vinto l'oscar. In esso, l'amore e la fatalità, mescolati, hanno un esito grande e commovente. Tutti i conti tornano, il cerchio si chiude a livello di senso e ci sento una grande bellezza.... Ma poteva vincere l'oscar un film che non accondiscende nemmeno un po' al kitsch e alla volgarità? Ai significati sempliciotti accessibili anche ad emilio fede? se non fosse così l'Italia e non solo non esiterebbero a considerare "Nuovo mondo" di Crialese il capolavoro degli ultimi anni, ma capolavoro senza effetti, senza volgarità che parla di volgarità .... che bello il linguaggio indiretto ....

Solo un dubbio ho e lo ripeto: che il regista abbia letto e visto le opere col medesimo tema di Antonioni Pavese e Guerra e nulla sappia delle parole perfette di Savinio e quindi del senso profondo della scelta di quella ragazza, e dal film traggo la sensazione che anche lui Sorrentino, come il protagonista si domandi ... perché l'ha fatto, domanda che si è posto, immagino nella mia eccessiva fantasia, dopo aver visto la scena di "al di là delle nuvole".

post scriptum. Nella notte altri pensiero hanno condito l'argomento. Penso a "Lolita" di Mabokov. medesima situazione. due adolescenti. primo amore. sta per consumarsi ma dalla finestra della villa la chiamano. Lei partirà dal sud della Francia per proseguire le vacanze in Grecia e qui fatalmente morirà. Si crea in lui, nel ragazzo rimasto solo col suo desiderio inappagato, la condizione descritta magistralmente da Savinio.
Ebbene ... La situazione descritta da Savinio viene da un fatto vero a lui accaduto. Quella raccontata da Nabokov si suppone inventata ma sicuramente possibile. Il problema che "sento" nell'idea utilizzata da Antonioni prima in "Al di là delle nuvole" e in Sorrentino di recente, ha per me la colpa dell'impossibilità. Cerco di spiegarmi. A Savinio accade un fatto e l'esperienza di questo gli fa dedurre quel che dice.  ....Ma la ragazza del film, come la Sastre di Antonioni ... sono persone senza esperienza regressa, sono frutti fino a ieri acerbi e in fondo con un piede ancora nell'acerbità dell'adolescenza. Immaginare che la ragazzina di Sorrentino, neonata come donna, sappia quel che solo l'esperienza insegna!!! a quell'età gli ormoni sono grossi come conigli e la simbiosi fra spiritualità e carnalità fa dell'amore un tutt'uno irripetibile per intensità. Rinunciare è possibile, in grazia di quel ragionamento di Savinio, solo a chi sa, ha chi già ha vissuto quella situazione. Fare nell'arte cose prettamente mentali, non realizzabili nella vita, non possibili, secondo me ci sta, ma fino a un certo punto. Porto un esempio. Scena di Antonioni e Guerra: lei stesa sulla spiaggia. Dorme al sole. Un uomo la vede e si avvicina cauto per guardarla. Quando l'ombra di lui sfiora i suoi piedi lei si sveglia. Questa scena, di una delicatezza stupenda, va servita come corollario di una grande idea. E' un tassello di una sensibilità irreale che rappresenta per traslato qualcos'altro, ovvero la sensibilità della solitudine e forse anche dell'amore. Ma quando il nucleo fondante di un'idea artistica è irreale, impossibile ... come la facciamo riverberare nella nostra interiorità? come si trasforma in succo nutriente per l'anima? per la vita futura? La scena di "al di là delle nuvole" so per certo che lasciò di sasso il pubblico. Savinio dice, se proseguiamo la lettura di quel brano, che solo le persone grezze hanno bisogno di consumare e che una grande raffinatezza nel sentire porta alla sospensione dell'agire per mantenere il desiderio.  ... penso, come ho già detto, che possa accadere in una persona dotata di esperienza ed eventualmente sconfitta dalla vita. Non agire è anche evitare la vita per paura di farsi male....



lunedì 20 gennaio 2014

Le bugie della storia: La prima grande guerra e Waterloo


Quanto espongo è reperibile nel volume “Il secolo americano” edito Adelphi 1996 in Italia, e Grasset e Frasquelle, Francia, 1996.



Alvi fu segretario, presso la BRI (Banca Regolamenti Internazionali) di Ginevra, di Paolo Baffi quando questi era Governatore della Banca d’Italia. Questo istituto di consultazione internazionale, disponeva di una biblioteca notevole e accessibile, rigorosamente, solo agli addetti ai lavori. In essa la storia economica era oggettiva senza ombra di dubbio e quotidiani e enti simili, assolutamente non vi avevano accesso. Ebbene, Alvi ci racconta che, con il consenso burbero, ma solo in apparenza, che sempre si stemperava in un sorriso furbamente accondiscendente, Paolo Baffi, lasciava che facesse ricerche libere, e di esse poi dialogavano. Il libro rappresenta un ricordo dei fatti “scovati”.

Veniamo al dato storico. Lo spiegherò in modo breve per evidenziare la crudezza del contenuto. La Prima Guerra Mondiale è l’argomento che si analizza. Porterò alcuni brani direttamente dal testo (Alvi – Il secolo americano – ed. Adelphi -):

“Dal tesoro di Sua Maestà dipendeva la sorte economica dell’Intesa.” (p.19)

Ammissione del segretario al Tesori di Washington: “Per mantenere la nostra prosperità dobbiamo finanziarla, se no terminerà, e sarebbe un disastro.” (p.21)

“Una Inghilterra estenuata e senile, che dipendeva ormai tutta dalle energie venali d’oltreoceano.” (P.23)

“Entro il marzo del ’17 i titoli e l’oro per pagare le importazioni dagli Stati Uniti, sarebbero, questa volta, davvero finiti.” (p.24) (soldi, aggiungiamo noi, che servivano per sovvenzionare la costosissima guerra)

“Da una breve lettera del governatore della Federal Reserve di Washington; = Non posso sfuggire alla conclusione che gli Stati Uniti hanno in loro potere di abbreviare la guerra a seconda dell’attitudine che assumono in quanto banchieri =. Vi si aggiungeva poi che gli acquisti alleati e i prestiti che li finanziavano generavano inflazione; e dunque non si poteva ancora per molto assecondare l’Intesa.” (p.25)

“La banca Morgan era dal 15 gennaio 1915 l’agente degli acquisti di guerra inglesi negli Stati Uniti. Sommandosi all’incarico di agente finanziario del Tesoro inglese, quest’ultima esclusiva aveva mutato la Morgan and co. di New York in un ministero de facto del governo di Sua Maestà. … E coordinava di fatto tutte le operazioni inglesi a Wall Street.” (P.27)

John Pierpont Morgan Junior, era più ricco dello stato, gli USA, del quale era cittadino.



Non era l’Unico, Rockfeller, Vanderbildt sono altre due “Casate” altrettanto capaci. L’intesa non poteva chiedere prestiti allo stato americano poiché esso si era dichiarato neutrale e si asteneva da ugni investimento che incentivava la battaglia in corso. Il presidente Wilson, quando si rese conto che L’intesa si rivolse al più potente e spregiudicato banchiere americano, fece notare che quell’azione era in contrasto con la linea intrapresa dallo stato, ma lui era il meno potente …

“… dei molti libri dedicati, fra le due guerre, dagli storici americani, alla fine della neutralità del ’17. Sbrigativi, essi attribuivano ai banchieri di Wall Street e al tornaconto degli Stati Uniti, la prima causa della dichiarazione di guerra. Le ricerche minutissime negli archivi non hanno aggiunto da allora novità eclatanti; eppure adesso questa spiegazione è dimenticata, talora citata per essere troppo ingenua.” (p.33)

Scrittura privata del consigliere Robert Lansing indirizzata al presidente Wilson databile alla metà del ’15: “Alla Germania non deve essere concesso di vincere la guerra … questa necessità basilare dobbiamo sempre tenerla a mente … La pubblica opinione americana deve venir preparata, per il momento, che potrebbe venire, in cui dovremo disfarci della neutralità …”

Lettera di Wilson al colonnello House: “ A guerra finita possiamo costringerli al nostro modo di pensare.” (P.40) (soggetto, la Gran Bretagna, e per esteso, l’Intesa)

Questo frammento estrapolato dalla missiva rivela il ruolo di completa subalternità economica che giocheranno vari stati europei al termine della prima grande guerra, diventando di fatto mercati della merce americana e senza la possibilità di deciderne il prezzo che veniva gonfiato.

Bene. Anzi, male. Prendiamo un libro qualsiasi di storia della scuola secondaria in Italia, oppure del medesimo ciclo di studi in un qualsiasi stato europeo e di queste notizie, di questi dati oggettivi, non troveremo traccia. E si può uscire da un corso di laurea in storia contemporanea alla Sorbona, come ad Halle o a Bologna, rimanendo vergini completamente, di questa verità storica. Questa visione distorta, deviata, mondata che viene offerta, delle responsabilità di quell’epoca, ci porta a percepire il ruolo negativo dell’alta finanza, nella crisi in atto, come un evento nuovo. La percezione di una continuità nelle speculazioni negli ultimi due secoli e mezzo, che oserei definire selvaticamente amorali, dell’alta finanza, sarebbe assai utile al cittadino-utente attuale per porsi poi un quesito che consideriamo irrinunciabile e per il quale umilmente ammettiamo di non avere risposta: “La democrazia dal primo dopoguerra in poi è stata suddita dell’alta finanza. Attualmente la situazione non sembra cambiata e in quel scivoloso diaframma che vediamo fra le leggi transnazionali e quelle statali, sentiamo passare opzioni che rappresentano interessi che non si curano del benessere del cittadino. Come pensa la democrazia di riuscire a fare i conti, ad imbrigliare questo Leviatano invisibile?

Ebbene … ultimamente cito spesso Fitzgerald. Il suo volume autobiografico che l’editore rifiutò e che in Italia ha visto le stampe solo circa un mesetto fa, in un passo breve ma altamente sarcastico, che strappa almeno a me un riso amaro, tratta l’argomento Morgan e prima guerra (minuscolo sempre, perché un evento così tragico merita raccoglimento…). È la seconda conferma che incontro. Una di uno studioso, Alvi, che sento essere libero e quindi eretico, e un artista fra i più puliti del novecento.

E’ solo sulla consapevolezza della verità storica che si può tentare di organizzare un futuro almeno passabile. Quel che Morgan fece, e prima di lui altri, e dopo di lui ancora altri è presente anche oggi.

Non ci devono incantare telegiornali propaganda.

Penso anche che la verità non sia venuta a galla non per mancanza di volontà o per paura. Siamo abituati ad olocausti vari, alla strage dei kulaki (circa quarantacinque milioni di morti) attuata da Stalin, alle “depurazioni” di Mao eccetera. Non ci spaventerebbe questa verità se non per la constatazione per nulla difficile che quella ingerenza amorale non è certo terminata.

Ricordo un altro fatto storico che non è mai stato spiegato chiaramente, e in questo caso penso che il dubbio, la mancanza di certezza, sia servito agli studiosi per produrre migliaia di pagine utili. Si ricordi che il docente deve pur campare, e se non sforna novità …. Ebbene. Battaglia di Waterloo. Perché Napoleone perse? Trovate di tutto. Fortuna, calcoli sbagliati, distrazioni, il generale Ney che doveva disobbedire ad un ordine di Napoleone, ma aveva il difetto, che negava la sua genialità, e lo faceva ordinario, di obbedire ciecamente e sempre, questo per esempio ci narra Stefan Zweig in “Momenti fatali” …

Ma leggiamo quel che si scopre da uno scrittore acuto di nome Leonardo Sciascia:



“Ieri ho ricevuto da lui (Vitaliano Brancati) la fotocopia di una sua conversazione con Paul Valery pubblicata in cento esemplari nel 1957. Una conversazione sulla storia che comincia con questa battuta di Valery: Tutta la storia è un falso, e per conseguenza è inutile. Non ho mai subito la seduzione della storia.” E nel corso della conversazione fa poi un esempio. “Ho visto recentemente” dice Valery, una lettera autografa del generale sir Henry Shrapnel,



scritta quattro o cinque giorni dopo la battaglia di Waterloo, in cui dice: “Sono stati i miei nuovi obici a vincere la battaglia”. “Dunque”, commenta Valery, tutto quello che ci hanno raccontato finora su Waterloo è falso. Sono stati i proiettili di Srapnel – e cioè gli shrapnel di cui si è tanto parlato cent’anni dopo, nella prima guerra mondiale – a vincere la battaglia”.



Questa suggestiva rivelazione di Valery ha stimolato Lo Duca a cercare una prova; e l’ha trovata nella descrizione che Stendhal fa della battaglia ne “La Certosa di Parma”. Il lettore non ha che da controllare: quegli schizzi di terra fangosa che volano a tre o quattro piedi di altezza, non possono essere effetti della fucileria; si spiegano come effetti degli shrapnel. Ed ecco dunque che ancora una volta, un romanzo dice una verità che il libri di storia non dicono.” (da “L’adorabile Stendhal” ed Adelphi, pag 176/77).

E come non ricordare quell’azienda inglese, citata da Hugo, che anni dopo quella immane battaglia, rastrellò ossa di cavalli e soldati, li macinò e li vendette un po’ in tutta Europa come mangimi per animali? Qualcuno quindi, come non pensarlo, ha mangiato carne che si è nutrita delle ossa dei figli. Ma benedetta o stramaledetta economia senza morale!!!

E altre cose fanno sorridere … Sempre Napoleone. Campagna di Russia. Sembra che abbia ritardato l’avanzata per un attacco di emorroidi (fonte Luciano Sterpellone “Pazienti illustrissimi”).



Stava nella tenda a pancia in basso ad attendere che l’infiammazione passasse. Voleva guidare personalmente l’avanzata, e così partì con un mese di ritardo. Morale, Napoleone non fu sconfitto dal Generale Inverno … ma in questo caso gli storici li comprendiamo … ce la vedete su un libro di storia questa pur veritiera versione? Sorrido e comprendo, ma è roba di poco conto in confronto a quel che fece quel Morgan con la tacita approvazione di tutti i suoi colleghi finanzieri.


amen