sabato 26 ottobre 2013

Quando nasce la "stagione che stagione non sente" (racconto)


Questo quaderno è destinato a conservare ricordi, emozioni di una vicenda irreale che però sta accadendo.

Più passano i giorni e più il sospetto che l’irrealtà sia dominabile, mi conquista.

Mesi fa, era la fine di novembre, una telefonata è sbocciata.

Desiderata e inattesa, l’ho colta, e da allora conto i giorni.

Esattamente un conto alla rovescia.

Devono passare mille giorni.

Il caso ha offerto questo numero che sembra scelto dalla razionalità o dal suo estremo più distante.

Lei è minorenne e allo scoccare di mille giorni da quella telefonata sarà “libera”.


Abita molto lontano. Ci separa un buon tratto di mare e una piccola catena di montagne, ma questo non la spaventa e ho deciso di assecondarla.

Non so dire esattamente quando ci siamo conosciuti, ma è facile ricostruire dai tanti particolari che non oso dimenticare, come è accaduto.

Non sarebbe successo nulla credo, se non avessimo avuto, sia lei che io, un cane.

Il suo Rex, il mio, Mafalda.

E se non ci fosse stato il divieto per portarli in spiaggia, esteso dall’inizio di maggio alla fine di settembre, forse quel giorno non sarei stato li. Forse.

Ma non fu questione di un solo giorno, per questo mi è concesso pensare che era destino che accadesse.

Il paese è lungo e stretto.

Da una parte il mare proibito e dall’altra la pialassa.

Dal veneto piglia e lascia, è un lago salato soggetto alle maree e popolato da uccelli bellissimi.

La pialassa fa quel che può per essere bella ma non ha vita facile.

Ogni sera ci prova con un tramonto che non di rado Turner terrebbe immobile sulla tela. Nella notte, ci vado anche di notte, il vento fa bisbigliare le onde e i raggi della luna si infrangono su di esse con scomposta, affascinante armonia. L’alba non le appartiene, ce l’ha come corredo il mare e ne fa buon uso, ma al mare manca qualcosa anzi, è meglio dire che ha qualcosa in più.

Quando ci passo scalzo, pantaloni rimboccati, sulla spiaggia, vedo le ombre assurdamente rimaste, come immagine di un desiderio, le ombre di quei corpi che di giorno l’hanno sconquassata.

La sabbia è fredda. Il vento non tace mai e sembra la raccolta delle voci raccolte durante il giorno.

Quel che più mi infastidisce è che non sei mai sicuro di essere solo, veramente solo.

Se alzo le braccia come un aeroplano e mi godo la brezza, vuol dire che non c’è nessuno.

Se mi vedessero, le braccia diventerebbero pesanti.

Dal lato dell’alba ci vado raramente. Quando mi rendo conto dal minimo frusciare degli alberi, che il mare dorme, che è piatto, fermo. Assenti, scomparse le ombre dei bagnanti e i loro discorsi trasformati in vento.

Queste notti accadono e come per incanto alzo le braccia e lascio i nervi terribili fra le righe di qualche foglio a casa, adagiato sempre pronto sul tavolo di vetro bianco.

Quando il lato dell’alba, il mare, sembra mercurio, è molto probabile che non ci sia nessuno.

Quando il mare tace nessuno c’è per ascoltare. Sembra poco ovvio, ma accade e non mi interessa capire il perché, ma fare mie completamente quelle leghe di solitudine leggera attendendo forse romanticamente, forse con una qualche recondita ignota nostalgia, l’alba che contiene una parte delle risposte ai più ardui enigmi nelle sua non rara sconvolgente bellezza, sì ... fare mie queste cose, mi interessa.

Il lato del tramonto, la pialassa, è sempre solo.

Un uomo e un cane possono farne parte senza turbarla, come le garzette, i cavalieri d’Italia, la lavanda e l’acqua. E quando un paesaggio non è stato disturbato, è possibile che ti accetti. Se ti accetta è possibile che ti parli e se lo fa non c’è motivo per non rispondere o anche solo ascoltare.

Penso che forse sono ragionamenti al limite.... Non per me, e se voglio, questa per me sarà la realtà.

Penso che ho dialogato col paesaggio e sono stato compreso e accettato.

Capito con maggiore delicatezza e verità di quella che ti può offrire una specchio……o uno psicologo.

La pialassa ha poteri delicati, irresistibili.

Ed ecco che ha offerto il meglio di sé ad una fanciulla che col suo cane cerca un po’ di pace allontanandosi quando riesce, da una casa troppo rumorosa.

Piccole cose. Un’anatra con i piccoli che le stanno dietro in fila mentre guadagnano l’acqua e lei, la mia piccola lei, che seduta ad una rudimentale palizzata di legno, con i piedi in acqua fino alle caviglie, li osserva.

Oppure un riccio che si è appallottolato per paura di Rex che invadente ma buono, lo annusa.

Qualcosa, queste cose, le sono piaciute ed è tornata.

Ci siamo semplicemente visti e i cani si sono annusati.

Dire ciao o buongiorno era ovvio, naturale, e un ciao oggi più uno domani, siamo passati senza sforzo a piccole formule magiche, banali solo agli orecchi di ipotetici assenti sconosciuti.

Come ti chiami? E il cane come si chiama? Piccoli fiori misti a sguardi incerti che inconsapevolmente coglievamo e a sera, prima di addormentarmi riapparivano ancora misteriosi e profumati.

11/02/ 2003

E così ci siamo pian piano cercati.

Per me era diventata una piccola malattia.

Un po’ alla volta, me ne rendevo conto, una passeggiata senza vederti era una passeggiata a metà.

Leggevo nei tuoi occhi, nei tuoi gesti, nel tuo corpo, che era così anche per te.

Non sapevo, non capivo cosa stesse accadendo.

Non pensavo all’amore.

Semplicemente mi rendevo conto che i tuoi occhi esprimevano un bisogno che nei miei si placava.

Ho pensato svariate volte che sei fragile.

E’ sempre chiaro nelle tue parole che qualcosa ti opprime.

In più sei minuta. Piccola.

E questi due aspetti, mi riducono, sommato al primo, ad una vittima designata.

Sono così da quando ho iniziato ad ammirare e temere l’incomprensibile gentil sesso.

Se in classe c’era una ragazza più piccola delle altre, e ovviamente, c’era sempre, le mie attenzioni erano per lei.

All’inizio non mi rendevo conto dell’attrazione. Semplicemente ero attento alle sue piccole esigenze ed ero soddisfatto nel vederle risolte.

La ragazzina in questione dava ovviamente un significato diverso alle mie attenzioni. Si sa che a quattordici anni una femmina ha spesso, quasi sempre, più maturità fisica dei maschietti coetanei.

Mi sentivo dire che ero l’unico della classe che usava tali attenzioni verso le “donne” e ne era lusingata. Col fatto di essere l’unica “femmina” trattata come una “donna” dall’unico “maschietto” con tendenza a comportarsi da “uomo”, riceveva in dono, l’invidia delle compagne che osservavano i miei comportamenti e sospiravano.

Se cadeva una gomma il gesto gentile, per quanto con sfumature più fredde, veniva elargito anche alle altre. Quella automaticità senza passione era dalla casuale lei, volutamente ignorata. Quel gesto, sostituendosi al nulla, valeva qualcosa.

Dagli altri “maschietti” non ero compreso e nemmeno dileggiato. Il gesto gentile raramente durava più di un attimo e non veniva colto se non con rapida superficialità si da non reggere, una volta terminato e immediatamente sostituito da altre piccole cose, il valore di una domanda incuriosita del tipo “ma cosa stai facendo?” eventualmente sottolineato dal temutissimo tono della voce che preludeva ad una presa in giro.

Esistevano però riti che dedicavo solo alla mia piccola lei.

Questo accadeva primo, perché tutte agivano simultaneamente, e quindi ero costretto a scegliere, secondo, perché ero irresistibilmente legato all’esigenza di risolvere tutti gli intoppi della sua piccola quotidianità, e che forse non lo erano per nulla … e solo dopo aver agito, riappariva ai miei sensi il resto del mondo, distante e finto come un fondale di teatro mentre la primadonna-farfalla, la mia minuta lei, si offre al mio bisogno irrefrenabile di aiutarla.

Aiutarla ad indossare il cappotto era il momento più atteso da ambedue.

Volevo semplificare un’operazione che mi sembrava la costringesse a gesti goffi, evitabili.

Da mio padre avevo imparato ad indossarlo in un colpo solo, quasi una piroetta, ma ero consapevole che non sarebbe stato un gesto altrettanto grazioso se fatto da lei e non ricordavo di aver mai visto una donna “abbassarsi” ad indossare il soprabito, o anche ad aprire una porta, da sola.

Era semplice. Uno sguardo bastava. E a volte neanche quello e un uomo presente interveniva. Questo era il mondo nel quale ero nato, e lo imitavo anche se non lo capivo.

Quei gesti ordinari che non si sa appunto per quale alchimia avevo l’esigenza di dedicare alla mia piccola lei, lei li considerava, come dicevo, alla stregua di prove d’amore.

Ma … i suoi sorrisi iniziarono ad eccedere la misura di quegli accenni cortesi ai quali ero abituato.

E’ vero; era capitato più di una volta che una signora, dopo il mio gesto automatico di aprire una porta, avesse elargito una carezza o qualche considerazione; era materiale di una natura altrettanto sgradevole che certi sogni, e che conoscevo a fondo. Una semplice maschera di freddezza risolveva la situazione.

Gli adulti sempre dimenticano che ai bambini, e ai ragazzini ancor di più, piace sentirsi trattati da adulti. Il mio sguardo freddo veniva percepito come un seme di serietà giocosa, come una recita per ricevere in cambio la “caramella” di un plauso, quando invece si trattava di un “trattenere il disappunto”. Ero stato educato come un uomo, certe cose non si chiedono e nessuno se le aspetta, giustamente, da un bambino.

La ragazzina si squagliava come gelato al sole e io, sorpreso quanto disorientato, utilizzavo la già sperimentata maschera di freddezza indagando poi con calma, da solo, a casa nella mia cameretta, quali reconditi messaggi dovevo cogliere da quell'eccesso di reazione o, peggio, cosa potevo aver sbagliato.

Col senno di poi, mi rendo conto, oggi, che la ragazzina, già un po’ donna, come le signore che mi trattavano da bimbo, apprezzava il mio gioco, ma ...

La signora però, ai miei occhi, esprimeva un tipo di banalità che coglievo nel sordido gioco che intrecciano le madri fra di loro per mostrare, le une alle altre, la loro capacità di educare.

Sempre le madri, che son donne, e questo non è scontato come può sembrare, dimenticano che stanno plasmando uomini, che da questo spicciolo nascerà una curiosa amalgama che può nutrire più alti orgogli.

Forse sarebbe il caso che, dopo una certa età, esattamente da quando gestire le funzioni fondamentali del corpo è un problema risolto, fossero gli uomini ad allevare uomini e le donne ad allevare donne. Se escludo i nonni e i vecchi zii, di solito i maschi con i maschi, si comportano più da maschi. Tutto sarebbe forse più franco, più virile, più semplicemente non femminile.

Se all’età di sette anni, per ipotesi, mia madre avesse ceduto le redini della mia educazione, forse il sorriso della ragazzina sarebbe diventato un mistero d’amore. Troppo spesso invece mi è toccato sentirmi rimbrottare perché il tal comportamento fa soffrire una donna e nulla, dico nulla ed è un nessuno, si poneva il minimo sospetto che anche un uomo potesse, si potesse soffrire. Materia bruta da addomesticare e da consegnare prima o poi ad un’altra donna, e ovviamente il compito era più semplice se la madre era stata madre e donna nell’educazione.... mah...

I discorsi delle donne a proposito di uomini un po’ li conoscevo. Quelli degli uomini sulle donne quasi per nulla. Papà, per quanto fosse un buon padre, apparteneva al mondo di fuori. Tornava a sera e lo studiavo il sabato e la domenica. Colsi, ora ricordo, una considerazione che fece con un amico. Vittima una cameriera al ristorante. Sembrava che le sue curve avessero particolari irresistibili. Ricordo che avevo circa dieci anni e per me un sedere era utile per non dire necessario per sedersi e ovviamente per alleggerire l’intestino e un seno? Un seno non era altro che il modo più semplice per distinguere una donna da un uomo. Spesso senza quel particolare mi trovavo disorientato. Mi resi conto che quel sedere e quel seno desideravano toccarlo. Riuscivo solo ad immaginare la loro consistenza gommosa e di conseguenza lasciavo l’amico single di papà alle sue strane fantasie con sguardo liquido, per dedicarmi alle mille novità dell’ambiente.

Quello sguardo, lo sguardo della compagna di scuola quattordicenne, quando non eccedeva la misura apparteneva al rituale di ringraziamento ed era giusto attenderselo, ma quando la sua mano sfiorava la mia, oppure il sorriso era spaccato da una frase, quando questo accadeva, iniziava l’imbarazzante mistero. Un enigma assai sgradevole perché non riuscivo proprio a capire, nemmeno ad intuire, almeno un lontano barlume di significato. Non sapevo nemmeno a chi chiedere consiglio.

E’ in questi casi che un fratello maggiore diventa necessario, ma non esisteva.

Alcune letture amene mi avevano fatto incontrare dialoghi e sguardi amorosi, ma non avevo minimamente pensato a collegarli alla mia banale, per nulla altrettanto magnifica, quotidianità.

Un giorno volò sul banco un biglietto.

Accadeva spesso per comunicazioni di vitale importanza del tipo “ci sei oggi pomeriggio per giocare a calcio al campetto del prete”? Bastava alzare gli occhi e trovare lo sguardo che mi stava illuminando come un faro. Essere un “uomo di lettere” quale già mi sentivo nell’intimo, non mi era sufficiente per resistere alla partitella. Tutt’altro! In certi giorni attendevo il biglietto quasi con ansia. Non era bello far capire che ci tenevo. Se mi volevano doveva accadere perché secondo loro valevo la sfida. Mi chiamavano sempre e le media era di due volte alla settimana. La mia attesa non era frustrabile più di tanto dal dubbio che preferissero qualcun altro, ma dal fatto che non c’era una logica fissa nei giorni prescelti e mi struggevo dal desiderio di scatenarmi in una partita. Tutto qui.

Il bigliettino che però volò fra le mie mani intente ascrivere, divenne una sorpresa.

Un enigma esattamente.

Penso che ormai tu me lo possa dire…..”

Dire cosa?

Studiai la calligrafia.

Una femmina.

Sull’angolo destro era disegnata con la penna una margherita che rideva e di fianco le lettere TVTTTTBXS.

Chi poteva aver mandato una “roba” simile e per giunta in codice?

Il mio sguardo cercò di cogliere qualche sguardo. Niente.

Il biglietto sparì nella tasca dei calzoni e ripresi a scrivere. In quel momento urgeva pensare al compito in classe.

Quel giorno, due ore della mattina furono dedicate alla visita della biblioteca scolastica.

Il prof mi chiese di aiutarlo nella spiegazione del funzionamento di quelle stanze.

Fu imbarazzante. Non amavo si sapesse in giro che leggevo molto perché non era un’esperienza condivisa e nemmeno condivisibile.

I miei compagni leggevano solo i testi obbligatori … e poi la lettura portava alla solitudine e trovo fosse normale che volessero evitarla, ma trovavo anche normalissimo, come respirare il fatto che io tendessi a cercare una stanza isolata e mi perdessi per ore nelle avventure più impensabili.

Trovarmi in un certo senso costretto dagli eventi a spiegare come funziona un archivio cartaceo, corrispondeva anche con l’ammettere una mia caratteristica che mi rendeva diverso.

A quell’età si vuole a tutti i costi essere come gli altri e grande è la paura di essere carenti in qualcosa di condiviso o anche minimamente diversi per qualcosa di non condivisibile. Le scarpe e il giubbotto e altri particolari che sapevo essere totalmente insignificanti già a cento metri dalla scuola, là dentro mi erano necessari e sufficienti se esattamente di un certo modello, proprio come diceva la prof di matematica.

Per questo motivo ero agitato. C’erano doti lecite, anzi fondamentali, come saper giocare a calcio e altre che, non sapendo come potevano venir considerate, te le tenevi ben nascoste.

Penso che la mia piccola lei avesse colto qualcosa di questi miei timori e per questo forse, decise di contraccambiare, in modo per me salvifico e sorprendente, i miei gesti gentili.

I miei compagni erano intorno a me e lei si sedette alla mia sinistra. Prese con decisione la mia mano che ciondolava spaesata oltre la coscia. Il tavolone rese tutto l’avvenimento assai discreto, o almeno così volli. credere per non complicarmi l’esistenza con un’altra emozione sgradevole, e la sua piccola manina, morbida e un po’ fredda, mi fece reagire.

Iniziai a spiegare e ad un certo punto, per scorrere uno schedario, dovetti lasciare la sua mano, ma appena tornai a sedere, vidi la mia tornare quasi con angosciosa fretta alla sua manina.

Non potevo, non riuscivo a controllare per niente la mia emotività.

Dovevo stare attento, anzi, attentissimo. Più che durante un’interrogazione.

Se ti interrogavano potevi essere teso o spavaldo. In questo caso, per far sopportare la mia diversità, li in biblio, mi sentivo in dovere di alleggerire l’atmosfera con qualche battutina e spiegare, fra le righe, perché sapevo quelle cose.

Andò tutto bene e la sua manina ormai era calda.

Sentivo di non avere più bisogno di quel contatto, ma osservavo ogni tanto, le sue piccole dita raccolte attorno alle mie. Quando suonò la campana, che per la prima volta avrei voluto ritardare all’infinito, sensazione anche questa stupefacente e inaspettata che mi faceva sentire un po’ straniero a me stesso, ci ritraemmo nello stesso istante, quasi fossimo stati d’accordo.

Non ci guardammo una mezza volta per tutto il tragitto e una volta in classe, con studiata noncuranza, e anche questa volta senza una briciola dai suoi e dai miei occhi, mi passò il suo diario ben aperto. C’era scritto solo “grazie”.

Mi resi conto che quella calligrafia era la medesima del biglietto.

Ebbi un tonfo al petto.

Lo recuperai dalla tasca e feci un confronto non necessario.

Penso che ormai tu me lo possa dire”. Continuavo a non capire. L’avere scoperto che il messaggio era il suo non mi aiutava minimamente. Era tutto assai imbarazzante. Non mi sfiorò nemmeno per un attimo il desiderio di utilizzare la sperimentata maschera di freddezza. Era un espediente molto utile. Lo sguardo corrispondeva ad un attacco assai misurato, ma sufficientemente affilato da ritenerlo capace di salvarsi dalla minaccia di sentirsi punzecchiare, e … dietro a quella maschera mi ci potevo nascondere e ribollire di sdegno a mio piacimento. Ma qui c’era da sdegnarsi? Nessuna mia esperienza precedente mi veniva in aiuto. Nulla del già accaduto assomigliava nemmeno per un infinitesimo a questa stranezza. Se per caso risultava una faccenda innocua la maschera di freddezza avrebbe ferito un innocente e non uno a caso , ma proprio la mia piccola lei.

Non avevo il coraggio di usare lo sguardo e … infatti si alzò da solo.

La mia piccola lei mimava una richiesta in silenzio per non disturbare la lezione.

Dovevo scrivere una frase sul diario.

Mai! Non potevo. Se scrivevo una scemenza lei avrebbe potuto sbandierarla fino alla morte del diario ovvero la fine dell’anno scolastico. E poi c’era la possibilità che si andasse anche oltre. Due femmine si portavano sempre appresso anche quello dell’anno scorso. Inutile ricordare che erano le più antipatiche?

Mai! E nel frattempo non potevo dire “mai” alla mia piccola lei.

E se fosse stato tutto un mio frainteso? Anzi! Era ben evidente che lo era.

Fratello maggiore dove sei! In momenti come questi saresti stato necessario e sufficiente come diceva sempre la prof di matematica e invece mi ritrovo una sorella quindi ovviamente femmina e più piccola di me, dio sia ringraziato almeno per questo, ci mancava pure che fosse più grande! E pensare che l’ho voluta io e guai se non fosse stata ……una femmina!

Idea!

Dillo prima tu” scrissi e lo gettai.

Arrivò nel giro di due minuti un foglietto rosa, passando di mano in mano.

Lo presi con noncuranza? Chiamala noncuranza! Ero rosso come un vulcano.

Rosa! Un foglio rosa! Non si era mai visto un maschio ricevere un biglietto da una femmina e ora pure rosa e piegato solo a metà... Lo avranno letto? Non potevo essere certo di niente perché mi ero reso conto del passaggio di mano in mano, solo quando una mano mi aveva battuto sulla spalla, e già da quel tocco avevo percepito la perplessità che raccolsi tutta poi dallo sguardo che me lo porse.

Lo ricevetti dunque ostentando una disastrosa noncuranza.

Con un sospiro che cercava di mimare un certo senso di fastidio, ma che in fondo se ne era venuto da solo assolutamente imprevisto, lo lessi: “WO AI NI” scritto in stampatello, bello, grande, femminile e incomprensibile.

Chiesi stupito a me stesso ”Cos’è?” e lei che colse il labiale, si tirò su gli occhi con gli indici.

Cinese?” sussurrai e la mia piccola e ora assai enigmatica lei, accennò di si con un delizioso movimento appena accennato del capo.

Doveva passare l’ultima ora e i nostri rituali furono per il resto apparentemente identici al solito, ma in fondo era cambiato tutto.

Sentivo ancora la sensazione della sua mano nella mia, e ogni tanto tiravo su la mano e me la guardavo come se fosse stata quella di un altro, e la stringevo in un pugno per vedere se con la tensione dei tendini, quella delicata e amata sensazione sarebbe rimasta … e con sollievo la ritrovavo.

E poi mi sentivo in debito. E’ vero che non le avevo chiesto niente, e nemmeno lei chiedeva a me di aiutarla per tutte quelle piccole cose, e comunque lei sempre mi ringraziava. Decisi che mentre la aiutavo a mettersi il cappotto, le avrei detto grazie io, questa volta. Era la prima volta che toccava a me e mi rendevo conto che quel leggero senso di fastidio che provavo era fuori luogo, perché i suoi grazie ormai li attendevo e mi avrebbe preoccupato la loro assenza, quindi era pensabile che lei ora attendesse il mio.

Ma accadde che, mentre la aiutavo, non riuscii a dirlo. Non era orgoglio. Avevo come la sensazione che ci voleva qualcosa di più, ma era solo una timida, sgarbata inesprimibile sensazione.

Percepii che i suoi grazie erano collegati con un’occhiata dritta e decisa che andava a conficcarsi in fondo ai miei occhi. Dovevo decidermi, altrimenti lo avrebbe detto lei per l’ormai abituale rito della vestizione e questa volta non lo meritavo.

I grazie si scontrarono in aria e non so perché ... ma sentii l’esigenza irrefrenabile di rattoppare con uno “scusa”. E quale scusa dissi dentro di me! Divenni di nuovo rosso e persi completamente il controllo di me stesso. Mi teneva su come un gancio, il suo sguardo azzurro, deciso, ma infinitamente dolce, e a quella dolcezza adagiai me stesso come un malato, al letto, il corpo sofferente.

Sentii con una certezza grande, condita ad un timore simile a quando si sta sui bordi di un abisso, ma non per gioco, sentii che se avessi stretto nuovamente la sua piccola mano…… si…..se non mi fossi vergognato dei compagni e l’avessi fatto, sarei tornato tranquillo come poco prima in biblioteca.

Lei raccolse quel che restava di me e gli ridiede dignità chiedendo: “ce l’hai qualcosa di cinese a casa?”. Risposi di no e mi ritrovai fra le mani un libretto azzurro. “Te lo presto”, disse “me lo rendi domani”. Per un attimo, mentre mi passava il libretto le nostre dita si sfiorarono.

Sei di nuovo fredda”. Un sorriso e si allontanò chiamata da una compagna.

I pensieri a quell’età si sovrappongono con estrema facilità.

Era sufficiente incontrare un gatto randagio o un albero fiorito o una nuvola bizzarra e i pensieri, indomabili, sregolati e friabili, prendevano le strade più inaspettate mentre le gambe, fedeli all’abitudine, mi portavano a casa.

Il piccolo libro azzurro che faceva capolino da una tasca del giubbotto, catturò l’attenzione di mio padre quando, a sera, rincasò e lo vide all’attaccapanni dell’entrata. Non fu mai indiscreto e anche in questa occasione chiese il permesso. Dissi che era un libretto sulla lingua cinese e nel frattempo frugavo nelle tasche dei pantaloni, in un crescendo di nervosismo perché il foglietto……

E ovviamente era nel libro.

E’ sempre così e sempre sarà.

I veri disordinati si conoscono e tentano di curarsi peggiorando infine la situazione.

Spesso quel che cerchiamo è divenuto introvabile perché è al suo posto e noi disordinati, abituati al nostro essere tali, lo cerchiamo a caso, dimentichi di avere agito in via del tutto eccezionale contro la nostra indole per salvaguardare una cosa che ci sta ….a cuore…..

Il biglietto risultò accucciato nel libretto e si rivelò immediatamente all’occhio di Pà.

Lo guardò e per un attimo non disse niente poi mi porse il tutto dicendo che forse poteva essermi utile. “E come” chiesi. “Non lo so, ma se ne parliamo posso dirti se vuoi, come comportarti. La calligrafia è di una ragazza. Vero?” Non capii perché ma divenni viola. Lui lasciò sgocciolare un po’ di silenzio si da farmi recuperare la normalità e poi disse in un sorriso: “Loro, le donne, sono l’altra metà del mondo. Se diventi rosso così si vede che qualcosa l’hai già capito”.

Rosolai a fuoco lento e presi a sudare, e come un malato al primo attacco, non comprendevo cosa mi stesse accadendo. “Ma Pà, se fanno questo effetto è più una malattia che un bene.”

Ti va una birra?”

Risposi di si.

Ci vediamo in salotto” aggiunse.

Andai al frigorifero e lui a cambiarsi.

La birra mi affascinava per il suo bel colore dorato, ma il sapore un po’ amaro, e la schiuma anzi, amarissima, mi lasciavano perplesso.

Sapevo che esistevano le birrerie ovvero locali nei quali si beve solo birra, e Pà ogni tanto ci andava con gli amici. Guidava sempre lui perché sapevano che non eccedeva mai, ma gli altri! Gli altri spesso li recuperava a fine serata o sotto un tavolo o addormentati su una panca. La birreria rappresentava un tipo di perdizione, pensavo, ma non riuscivo a comprendere la “bellezza” di quel piacere. Il rito si svolgeva prevalentemente alla sera e spesso comprendeva un pasto, ma quell’alito sgradevole, gli occhi lucidi e spenti appartenevano secondo me al ritorno da un inferno.

Il fatto comunque che Pà avesse detto “ti va una birra?”, mi inorgogliva.

Quella schifezzuola è roba da adulti, pensavo.

Mi domandavo spesso se dovevo considerarmi ancora un ragazzo oppure no. Il mio corpo aveva acquisito il corredo di peli che sapevo essere necessario per essere definito un grande, e quella parte di me che in modo meno inequivocabile di seni e sederi, mi distingue dalla femmine, aveva tenuto dei comportamenti sorprendenti e risultava indomabile alla volontà.

Pà mi aveva accennato con molto imbarazzo che era tutto normale, che quando avessi avuto una donna avrebbe avuto il suo nutrimento. Io, sveglio come un’aquila impagliata risposi colmo di sorpresa “ Mangia? E solo dalle donne? Ma cosa dici Pà!” … e non si pensi che io stia rincarando la dose. Ero veramente così estraneo a certe leggi di natura....

Mio padre, quella volta, roso dall’imbarazzo si incamminò verso la porta, prese il pallone da dietro il portaombrelli e mi sfidò a palleggi contro il muro. Ovviamente la mia gioia fu tale e tanta che il discorso da me così ben frainteso, volò via sovrapposto alla frenetica gioia fisica della sfida.

Ero solo un ragazzino ovviamente, ma sentivo, davanti alla promessa della birra, che una porta si stava schiudendo e là avrei trovato la soluzione di alcuni misteri, che già mi sembravano più che altro noiosi e poco utili, solo delle complicazioni ... del mondo degli altri, composto per la maggioranza di adulti.

Due bottiglie identiche da due diverse mani versarono la birra nei bicchieri. Imitavo il suo lento gesto col bicchiere un poco reclinato e, seduto sulla poltrona di fronte a lui, attendevo il sapore amaro. Poi fece scontrare i bicchieri in un rumoroso brindisi. “Come si chiama?” E io virando dal mio ordinario rosa chiaro al rosso, pronunciai il nome aggiungendo un ma…

Ma brindiamo! L’Hai baciata?” Le orecchie presero fuoco. “Baciarla?” dissi “ma……perché?” Pa’ bevve un sorso e poi disse “Bevi, se non bevi subito dopo un brindisi ti attiri la sfortuna. Ma ti piace?” Il mio imbarazzo non aveva più limiti. Quando mi aveva chiesto se l’avevo baciata mi aveva corroso per un attimo il dubbio che dietro l’angolo mi attendesse una lavata di capo. Son talmente tante le cose che non si possono fare ... che forse il bacio rientrava fra questi strani ostacoli o soluzioni, che quotidianamente archiviavo, spesso senza pensarci troppo.

La mia risposta fu più che altro un pensiero fra me e me a mezza voce. “Dunque avrei potuto baciarla? ma…. perché avrei dovuto!” Mio padre capì che al bacio non avevo proprio pensato e da quell’ ”avrei potuto baciarla”, dedusse il mio sospetto che si trattasse di un atto proibito. “Puoi baciarla se lei vuole, ma di solito non te lo dice chiaro e tondo. Devi capirlo.”

Risposi che se voglio una cosa la faccio o la chiedo. “Si, è vero” disse Pà “se lo vuoi lo fai o lo chiedi. Qui però non si tratta di volere, ma di desiderare. Se vuoi bevi una birra, ma se vuoi fare una cosa con un altro ti devi proporre. Imporsi è brutto. Per esempio tu non dici con i tuoi amici voglio giocare a calcio con voi, ma chiedi se puoi giocare. Quando ci sono di mezzo gli altri si fa così altrimenti finisce che qualcuno reagisce male e se non oggi sarà domani, ti farà un dispetto che alla tua età può ridursi al luogo d’incontro per giocare che è stato deciso e nessuno che ti avvisa. Ma quando sei adulto….”

Quando sei adulto?” chiesi.

Quando sei adulto ti fanno dispetti veramente gravi.”

A me sembra grave anche se cambiano campetto senza avvisarmi!”

E’ si” rispose, “ogni età ha le sue cattiverie.”

Forse è così, ma non vedo perché quelle che capitano ad un ragazzo, gli adulti le vogliano considerare robetta. Non è giusto.”

E’ vero, non è giusto ... e poi sai che è capitato qualcosa di simile anche a me il mese passato, anche se sono un grande!”

Col calcio?”

No, con gli scacchi. Ti ricordi Alfred?”

Certo” risposi “Quel tuo amico che ha detto delle cose sul sedere e il seno della cameriera quella sera al ristorante!” Mio padre rise: “Si, proprio lui. Sai che non voleva ci fossi anch’io una sera ad un torneo di scacchi, roba piccola, tanto per stare insieme. Non voleva perché lo batto sempre.”

E io come un ragazzino, piuttosto che stare ad ascoltare per tentare di comprendere cosa quel discorso potesse voler dire, feci un esempio che inneggiava al calcio e portava il ragionamento metaforicamente vicino al portaombrelli e al pallone, che dietro, attendeva di essere preso a calci rimandando di nuovo la mia iniziazione: “Ecco vedi” risposi “ se giochi a calcio non succede. Se sei bravo non hai problemi! Stai pure certo che ti vogliono tutti.”

Va bene” disse, e poi finisce che fra due minuti giochiamo a palleggi!!”

Ovviamente non capii e non si curò di spiegare.

Fece “ciccare” nuovamente i bicchieri. “Hai tradotto il biglietto?”

Non ancora” risposi. Appoggiai il bicchiere e mi misi a sbirciare nel libretto azzurro.

Vuol dire ti amo. WO è io, Ai è amo e NI vuol dire te. Io amo te.”

Chiusi il libro e lo guardai meravigliato. “Sei sicuro?”. “Si, sono sicuro.”

Decisi di sfruttarlo più che potevo, vista la carenza irrimediabile di fratelli maggiori, e raccontai dell’altro biglietto. Scoprii così che quel “ Penso che tu ormai me lo possa dire…” che avevo deviato con un “dillo prima tu”, aveva come risposta ... ti amo.

Ero agitato. “Ma Pà, ma cosa ho fatto! Perché lo vuole”.

Non lo vuole, lo desidera. In amore non si può assolutamente volere. Si desidera e basta.”

Sarà...” e replicai: “ma se non glielo dico pensi che si vendicherà?”

Dipende. Dipende da come la prende. Di solito le donne vanno in bestia se dici picche.”

E adesso cosa faccio! E’ un bel pasticcio...”

Ma dimmi una cosa. Per essersi spinta al punto … da scrivere quei biglietti, ormai me lo puoi dire ... qualcosa devi pure averlo fatto. Le hai parlato? Sei stato gentile con lei?. E’ vero che a volte basta uno sguardo, ma quell’ ”ormai” del primo biglietto, mi dice che qualcosa di più concreto di uno sguardo c’è stato.

Quel “qualcosa” iniziai ad intuirlo: “E’ vero” ammisi, “sono gentile con lei. La aiuto a mettere il cappotto quando si esce, per esempio. Sono un po’ le cose che fai tu con la mamma.”

E le fai solo con lei?”

Il mio silenzio fu rivelatore.

... quindi glielo devo dire?”

Papà brindò per la terza volta. Guardò il mio bicchiere quasi pieno e il suo quasi vuoto.

Adesso conto fino a tre e bevi la metà della tua birra!”

Contò, e come per tutte le sfide che ci proponevamo, andai oltre.

Bevuta tutta d’un sorso, quella robaccia sembrava meno amara.

Bravo! Forse hai esagerato e “frappoco” ti girerà la testa. Lei ha la tua età?”

Un anno in meno”, risposi. “Forse è meglio così. Della tua età sarebbe forse troppo grande. Ora prova a pensare al perché ... Perché hai compiuto quei gesti gentili con lei e non con un’altra.”

Io la risposta la sapevo. Era piccola. Tutta piccola. Le mani, il viso, il naso, la statura, i piedi ... e mi attendevo che Pà dicesse “perché è piccola!” e invece, spinto dal mio silenzio dovuto al fatto che consideravo la risposta fin troppo ovvia, mi sentii dire “perché lei ti piace!”.

Ah!” fu tutto quello che riuscii a dire. Ero visibilmente stupefatto.

Quindi secondo te io sono gentile con lei perché mi piace! ... ma allora a te non piace solo la mamma!”

Cosa centra? Non capisco”

Mi sembra che quei gesti gentili tu li faccia con tutte le donne, anche con la nonna. Non mi dirai ora che ti piace la nonna!” Rise abbondantemente. Mi rendevo conto che si stava divertendo un mondo e io mi indispettivo perché non ci trovavo proprio niente da ridere anzi, mi sentivo proprio nei guai.”Sappi che siamo, anzi dobbiamo essere gentili con tutti. Ma con qualcuno lo siamo di più.

Tu per esempio aiuti tutte le tue compagne a mettersi il cappotto?”

Ovviamente no, perché non è possibile. Lo hai detto tu Pà che si deve essere gentili con tutti, ma il cappotto se lo mettono tutte contemporaneamente!”

E tu hai scelto di aiutare solo lei! Io quando si alzano mamma e nonna per uscire, aiuto prima la nonna per rispetto, e poi la mamma, ma mentre glielo metto questo benedetto cappotto, spesso le do un bacio. Sono questi gesti a volte piccoli per te che le fai, ma grandi per chi li riceve, che fanno la differenza. Metti il caso che una tua compagna, proprio vicino a te, si vesta con un attimo di ritardo e tu hai già finito con la tua lei. Pensi che la aiuteresti o no?”

Penso di si”

Ma ti rendi conto che lo fai con un altro spirito? La tua lei è la preferita! Ci sarà qualcosa nel suo modo di fare che ti è piaciuto e che ti spinge a lei!”

Si c’è Pà, ma si tratta del fatto che è la più piccola e mi viene spontaneo….”

Si, questo è l’inizio, il motivo della prima volta, ma poi c’è dell’altro.”

Pensai, con un ennesimo evidente rossore, alla sua piccola mano che si stringeva alla mia sotto al tavolo in biblioteca. Si è vero, c’era qualcos’altro. Qualcosa del quale sentivo di avere bisogno.

Qualcosa di ignoto che mi faceva stare bene. Qualcosa che volevo solo da lei e che sentivo che solo lei poteva darmi.”

Sei diventato rosso...” Risposi secco riprendendo il bicchiere quasi vuoto in fondo solo per nasconderci dentro la faccia: “Si, penso di avere capito”.

Vedi, piccolo ragazzo che sta per diventare un uomo, se aiuti solo lei a mettersi quel benedetto cappotto, e poi non vai mai oltre al vestirla, cosa gravissima” e rideva e rideva, ma cos’aveva da ridere!”, “...lei ti manda un biglietto e ti dice che puoi fare di più, che se lo aspetta.”

Ok Pà, si aspetta qualcosa, ma dire che è gravissimo poi non ci sto e non ho capito cos’è che è grave!” “Dicevo gravissimo nel senso che “frappoco”, forse anche solo fra un anno, la vorrai svestire !” e rise ancora di gusto, e con uno sguardo che esprimeva forse furbizia o forse … ma che ne sapevo io a quattordici anni di quella roba li e io, solita aquila impagliata fra i miei voli al campetto da calcio e nella letteratura , risposi “spogliarla? Cosa dici!”

E lui rideva e rideva, e ridendo andò a prendere una seconda birra, me ne versò la metà e chiuse dicendo “il resto alla prossima puntata, molto te lo spiegherà la natura … se ti succederà come è accaduto a me, qualcosa te lo insegnerà lei……. e qualcosa io ... e alla fine stapperò quella bottiglia che non c’è ancora in frigorifero ma che andrò a comperare domani. Ricordatelo! Sarai tu a dirmi Pà apri quella bottiglia e ce la berremo tutta tu e io!”

Mistero! Ma è mai possibile che ci siano così tanti enigmi nell’età adulta? Molto meglio stare con gli amici e rispettare le poche regole del calcio per esempio!

Il giorno seguente tutto accadde come sempre, ma al momento della vestizione, mentre si girava per infilare la seconda manica non trovai la forza per quel bacio, ma le soffiai leggermente sul collo.

Mi fai venire i brividi”

Papà quando mette il cappotto alla mamma le da sempre un bacio”

Non replicò.

Mi guardò ben oltre gli occhi.

Avevo costruito uno di quei momenti nei quali non sapendo cosa dire o fare, stavo immobile, un bel po’ perplesso se visto da fuori, ma un furore di agitazione dentro.

Era più piccola di me.

Era piccola così.

Una ragazza grande così tu sei

e per il mondo tutto questo è follia...

Una miniatura deliziosa.

Ora, c’era solo lei qui davanti a me.

Sembrò prendere il volo e invece si sollevò sulle punte e mi baciò la guancia destra.

Pensai a Cristo che diceva “porgi l’altra guancia” e dedussi di essere assurdo.

Lei atterrò nuovamente al suolo, proprio li, davanti a me, e dal nulla metafisico nel quale mi aveva portato, mi ritrovai in classe vicino alla porta.

Banalmente, una volta tornato alla realtà, non sapendo cosa fare, pensai bene di preoccuparmi, di comprendere se eravamo stati visti, ma tutti erano presi dalla voglia di migrare verso l’esterno i prati e la primavera.

Ci sfiorò la sua amica e sparirono.

Toccai con la mano sinistra il punto che le sue labbra avevano consacrato.

Una farfalla, leggero come una farfalla il tocco, ma la sensazione ancora presente.

Non capivo la bellezza, la dolcezza di quanto era accaduto.

La sentivo dentro.

Aveva, a differenza delle sue compagne, un modo leggero, letteralmente senza peso, di muoversi

E questo curioso miracolo lo doveva alla danza.

Tanti anni dopo, a San Pietroburgo, passeggiando lungo il Nevskij Prospekt dopo aver sorseggiato un caffè disgustoso nel locale che Puskin lasciò per andare incontro al duello mortale, tanti anni dopo, mi accorsi che il mio solito viaggiare fra realtà e fantasia era inquinato da una sensazione forte che, entrata dagli occhi, faceva desistere Puskin al mio fianco.

Gettai lo sguardo distrattamente dove sembrava che lui guardasse, ma in fondo dove già da un po’ i miei occhi origliavano timidamente, guidati da una strana febbre, per impossessarsi di quel che non avevano il coraggio di osservare liberamente … quel frutto del passato, della memoria, che si rimaterializzava e, pian piano, da enigma dei sensi e dell'anima, si rivelava in alcuni passi leggeri.

Passavano delle ragazze.

Non notai la loro bellezza, ma il passo spedito e senza peso nonostante la zavorra di orribili e mastodontici zainetti.

Rientravano da scuola?

Puskin rimase con la schiena mollemente appoggiata al muro del “suo” Caffè; le mani in tasca e lo sguardo allentato, mentre io, calamitato dal loro passo svelto, leggero anzi, capivo e non capivo quel che mi stava accadendo.

Mi venne in soccorso Proust, malaticcio come sempre nella mia memoria, elegantissimo e sorridente. Mi disse, dopo il cenno minimo di saluto che si fanno amici di vecchia data, “ti ricordi quella sera che entrai a casa infreddolito e bevvi l’infuso di tiglio?”

Si che lo ricordo; quell’odore, quel sapore, la madeleine che aveva avuto come stampo una conchiglia scanalata come una cappa santa. Si, ricordo tutto. Qualcosa allora, dal profondo riemerse, antico e irresistibile ... e riapparve come per incanto la casa di tua zia Leonie”

Mi interruppe appoggiandomi una mano sulla spalla e dicendo” E basta! Non descrivere tutto, lo so bene cosa mi è accaduto. Ora osservale bene quelle ragazze, getta l’amo nel tuo passato, sorseggia con lo sguardo; lasciati andare e vedi di arrivare a qualcosa, altrimenti ho scritto tutte quelle pagine per niente!”

Il buon Marcel si fermò non prima di avermi lasciato in mano una cattleya che si era tolto dalla giacca. E sapevo quanto quel fiore per lui fu importante.

Proseguii come ipnotizzato seguendo con discrezione le ragazze.

Arrivarono ad un teatro e s’infilarono in una porticina piccola piccola.

Rimasi fermo, perplesso, con quell’orchidea in mano e nel giro di qualche attimo la porticina, all’improvviso, si riaprì.

Una delle ragazzine venne a me, prese la cattleeya e camminando leggera, senza lasciare traccia di sé sulla bianca ghiaia, si girò per salutarmi e sparì.

Sono sempre stato un pollo nelle questioni di cuore.

Non dissi una parola con quell’angioletto.

Poteva scapparmi un how are you, un ca va, e invece niente.

Tornando sui miei passi vidi Marcel e il grande russo seduti ad una panchina che parlottavano. Puskin fece per alzarsi e venire da me ma il francese lo trattenne per il braccio.

Non dovevo venire distratto perché ciò che forse avrei potuto catturare dal mio passato era legato ad un filo assai fragile. Mi rendevo conto che quel qualcosa era scattato osservando quell’incedere leggero delle tre ragazze, e ora ero lievemente deviato da questo filo sottile che dovevo seguire per via della sorpresa; poiché la deliziosa fanciulla si era impossessata del fiore irreale che pensavo esistesse solo per me e la mia fantasia di quei due grandi amici che passeggiavano come coetanei ridanciani, sul Nevsky Prospekt.

Giunto in albergo chiesi ad una cameriera se sapeva qualcosa a proposito del corpo di ballo di quel teatro e se si poteva avere il programma degli spettacoli.

Il mattino seguente a colazione, una busta mi rivelò che quella sarebbe stata la sera del saggio della scuola di danza. C’era un numero di telefono; parlavano tedesco e prenotai un posto in platea.

Mi sentivo ridicolo con quel piccolo delizioso bouquet fra le mani e, con mia grande sorpresa, unico in quella serata, con lo smoking. Ero invisibile come un prete nella neve.

Mi chiusi in poche pose che mi sembrarono abbastanza semplici, per riuscire nel mio tentativo di passare inosservato.

Dai lati del palcoscenico vedevo i volti delle ballerine che ogni tanto spuntavano, con i capelli raccolti in un elegante chignon. Tutte bianche, uguali e bellissime.

Una salutò con un gesto semplice e delizioso. La mia mano si apprestò a preparare una risposta simile, ma mi trattenne il vedere altri che rispondevano.

Un signore anziano dietro me mi chiese in perfetto inglese se ero straniero.

Accennai di si col capo.

Mi chiese poi se amavo la danza o una danzatrice … e mi aggrappai a lui come un naufrago raccontandogli non certo di Proust e Puskin e nemmeno della provenienza del fiore, ma del suo singolare furto che intendevo diciamo perdonare … con questo bouquet.

Mi ammonì dolcemente dicendo che la Russia ha povertà, sensibilità e bellezza.

Colga tutto, ma non abusi della povertà per avere un corpo ... sono angeli ...

E’ vero” risposi “sono angeli”, e quella parola, angeli, innescò un sottile tormento alla guancia destra ... una farfalla appena posata sembrava, ed era collegato ad un indefinito alzarsi leggero leggero in punta di piedi di un fantasma, di un ricordo.

Rubando parole al grande De Andrè, vidi una scena annebbiata nella memoria, non era chiara ma coglievo tutto il suo senso. Fu il momento della mia esistenza nel quale nacque “la stagione che stagione non sente”.

Lo spettacolo fu semplice e bello e alla fine, mentre eravamo in piedi ad applaudire, il bel vecchio mi disse “getti ora quei fiori!” Lo feci e una ragazza, un angelo bianco, lo prese.

Sparì immediatamente dietro le quinte e me la trovai di fianco con la cattleya in una mano e il bouquet nell’altra. Anche gli altri angioletti erano scesi fra noi mortali e si lasciavano baciare e ammirare.

Dissi “brava!” che so essere un complimento internazionale, e lei, guardandomi ben oltre gli occhi, prese il volo dalle sue caviglie leggere, mi baciò sulla guancia destra e finalmente quella sensazione di farfalla posata che per anni mi accompagnò come una sete sottile, si spense.

Presi un po’ di coraggio e, raccolto il suo viso fra le mani, baciai prima la fronte, poi il naso e approdai, leggero quanto lei, alle labbra.

Tornò a terra dal suo bel volo sulle punte, per suggere fino all’ultimo aroma, il nettare del bacio, mi rese la cattleya e si unì alla altre farfalle per concedere il bis.

Di nuovo non la riconoscevo più.

Era tornata angelo fra gli angeli.

Guardavo l’ultima danza, come fosse stata l’ultimo momento della mia vita. Come se il resto, davanti a tanta bellezza, avrebbe potuto essere solo condanna.

Adoravo l’insieme del quale lei era una particella, frammento di quella grande fragile emozione che è la bellezza.

Mi girai, a danza terminata per ringraziare l’anziano signore, ma non c’era già più, e tornai solo percorrendo il Nevskij Prospekt, radioso come un apollo.

Sentii due monelli rincorrersi nel buio deserto di quel lunghissimo marciapiedi. Si avvicinavano. Una manata mi colpì la spalla e l’orchidea mi sfuggì di mano. Marcel la raccolse e se la rimise all’occhiello.

Giocavano a calcio con un barattolo spaventando i gatti, e giunto all'albergo mi salutarono, vispi come folletti, proseguendo nella loro notte eterna e leggera.

Lo so da sempre.

Loro sono vivi.

Io non ancora, ma forse, forse vivrò notti eterne da ragazzino, come loro.

Con loro.

Ora ho la vita che mi corrompe

Che mi tiene occupato con questo strano tempo cadenzato dal sole e diviso in giorni.

Quella notte recuperai un frammento che, riosservato e in parte rivissuto in quella magica avventura pietroburghese, ti dona un valore infinito, stellina mia.

Sono un imbranato? No. Ora so di essere un albatro anzi, qualcosa in più.

Se tutto andrà come deve, per me, per noi, anche camminare sulla terra sarà aggraziato, e non solo il volare nei cieli di una realtà immensamente piena che ho intuito e che tanta, troppa gente non avrà mai nemmeno la più minima possibilità o la volontà … per apprezzare.

Per questo, per ora, sembro un imbranato. Come quell'enorme gabbiano, l'albatro che, finché è appoggiato sulla barca, strascicando le ali enormi e sgraziate è un divertimento dei marinai.

Per metà reale e per metà, anzi, forse anche un po’ di più, irreale o meglio, già dentro ad una realtà più degna.

Uno spirito.

Un Fantasma di me stesso che rischia ad ogni pensiero di volare via come un palloncino.

Da quando ti ho conosciuta però, sento che un filo mi lega e il mio viaggiare sta diventando un orbitarti intorno.

Il filo è lungo, lo so, ma giorno dopo giorno si accorcia.

Sono le tue mani deliziose che lo tengono e lo arrotolano.

Tutto è possibile sai … anche questo amore.

Ma ti desidero

E ora volo leggero, attento ad ogni istante che il filo che ci unisce non si spezzi

Perché tramite te, deliziosa Beatrice di questi tempi insensibili, anche questa terra potrà finalmente fare parte di quella realtà che la razionalità non vede e io, frammento di terra contenente un oscuro dono, forse in te, con te, capirò in te me stesso, il perché delle cose e l’assurdità del dolore.

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(Un uomo adulto rivive le prime sensazioni che appartengono alla nascita in ogni essere umano, del sentimento dell'amore. E' un sognatore. Lei ha più o meno l'età del primo amore e accetta di attenderla mille giorni, fino alla maggiore età. Lei è distante. tutto quel che accade è nella mente, e rivivere, spesso, certi frammenti di ricordi, quando la vita si è resa marinaia che dileggia l'albatro che non riesce a prendere il volo, è una salvezza. Dopo questa lettura molti mi hanno detto che ho avuto un padre esemplare. Non lo ebbi. Fu preso dalla malattia. A me rimase la possibilità di idealizzarlo poiché dal poco che riuscii a viverlo, ebbi la certezza che era un uomo buono.)





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