Questo
quaderno è destinato a conservare ricordi, emozioni di una vicenda
irreale che però sta accadendo.
Più passano i giorni e
più il sospetto che l’irrealtà sia dominabile, mi conquista.
Mesi fa, era la fine di
novembre, una telefonata è sbocciata.
Desiderata e inattesa,
l’ho colta, e da allora conto i giorni.
Esattamente un conto alla
rovescia.
Devono passare mille
giorni.
Il caso ha offerto questo
numero che sembra scelto dalla razionalità o dal suo estremo più
distante.
Lei è minorenne e allo
scoccare di mille giorni da quella telefonata sarà “libera”.
Abita molto lontano. Ci separa un buon tratto di mare e una piccola catena di montagne, ma questo non la spaventa e ho deciso di assecondarla.
Non so dire esattamente
quando ci siamo conosciuti, ma è facile ricostruire dai tanti
particolari che non oso dimenticare, come è accaduto.
Non sarebbe successo nulla
credo, se non avessimo avuto, sia lei che io, un cane.
Il suo Rex, il mio,
Mafalda.
E se non ci fosse stato il
divieto per portarli in spiaggia, esteso dall’inizio di maggio alla
fine di settembre, forse quel giorno non sarei stato li. Forse.
Ma non fu questione di un
solo giorno, per questo mi è concesso pensare che era destino che
accadesse.
Il paese è lungo e
stretto.
Da una parte il mare
proibito e dall’altra la pialassa.
Dal veneto piglia e
lascia, è un lago salato soggetto alle maree e popolato da uccelli
bellissimi.
La pialassa fa quel che
può per essere bella ma non ha vita facile.
Ogni sera ci prova con un
tramonto che non di rado Turner terrebbe immobile sulla tela. Nella
notte, ci vado anche di notte, il vento fa bisbigliare le onde e i
raggi della luna si infrangono su di esse con scomposta, affascinante
armonia. L’alba non le appartiene, ce l’ha come corredo il mare e
ne fa buon uso, ma al mare manca qualcosa anzi, è meglio dire che ha
qualcosa in più.
Quando ci passo scalzo,
pantaloni rimboccati, sulla spiaggia, vedo le ombre assurdamente
rimaste, come immagine di un desiderio, le ombre di quei corpi che di
giorno l’hanno sconquassata.
La sabbia è fredda. Il
vento non tace mai e sembra la raccolta delle voci raccolte durante
il giorno.
Quel che più mi
infastidisce è che non sei mai sicuro di essere solo, veramente
solo.
Se alzo le braccia come un
aeroplano e mi godo la brezza, vuol dire che non c’è nessuno.
Se mi vedessero, le
braccia diventerebbero pesanti.
Dal lato dell’alba ci
vado raramente. Quando mi rendo conto dal minimo frusciare degli
alberi, che il mare dorme, che è piatto, fermo. Assenti, scomparse
le ombre dei bagnanti e i loro discorsi trasformati in vento.
Queste notti accadono e
come per incanto alzo le braccia e lascio i nervi terribili fra le
righe di qualche foglio a casa, adagiato sempre pronto sul tavolo di
vetro bianco.
Quando il lato dell’alba,
il mare, sembra mercurio, è molto probabile che non ci sia nessuno.
Quando il mare tace
nessuno c’è per ascoltare. Sembra poco ovvio, ma accade e non mi
interessa capire il perché, ma fare mie completamente quelle leghe
di solitudine leggera attendendo forse romanticamente, forse con una
qualche recondita ignota nostalgia, l’alba che contiene una parte
delle risposte ai più ardui enigmi nelle sua non rara sconvolgente
bellezza, sì ... fare mie queste cose, mi interessa.
Il lato del tramonto, la
pialassa, è sempre solo.
Un uomo e un cane possono
farne parte senza turbarla, come le garzette, i cavalieri d’Italia,
la lavanda e l’acqua. E quando un paesaggio non è stato
disturbato, è possibile che ti accetti. Se ti accetta è possibile
che ti parli e se lo fa non c’è motivo per non rispondere o anche
solo ascoltare.
Penso che forse sono
ragionamenti al limite.... Non per me, e se voglio, questa per me
sarà la realtà.
Penso che ho dialogato col
paesaggio e sono stato compreso e accettato.
Capito con maggiore
delicatezza e verità di quella che ti può offrire una specchio……o
uno psicologo.
La pialassa ha poteri
delicati, irresistibili.
Ed ecco che ha offerto il
meglio di sé ad una fanciulla che col suo cane cerca un po’ di
pace allontanandosi quando riesce, da una casa troppo rumorosa.
Piccole cose. Un’anatra
con i piccoli che le stanno dietro in fila mentre guadagnano l’acqua
e lei, la mia piccola lei, che seduta ad una rudimentale palizzata di
legno, con i piedi in acqua fino alle caviglie, li osserva.
Oppure un riccio che si è
appallottolato per paura di Rex che invadente ma buono, lo annusa.
Qualcosa, queste cose, le
sono piaciute ed è tornata.
Ci siamo semplicemente
visti e i cani si sono annusati.
Dire ciao o buongiorno era
ovvio, naturale, e un ciao oggi più uno domani, siamo passati senza
sforzo a piccole formule magiche, banali solo agli orecchi di
ipotetici assenti sconosciuti.
Come ti chiami? E il cane
come si chiama? Piccoli fiori misti a sguardi incerti che
inconsapevolmente coglievamo e a sera, prima di addormentarmi
riapparivano ancora misteriosi e profumati.
11/02/ 2003
E così ci siamo pian
piano cercati.
Per me era diventata una
piccola malattia.
Un po’ alla volta, me ne
rendevo conto, una passeggiata senza vederti era una passeggiata a
metà.
Leggevo nei tuoi occhi,
nei tuoi gesti, nel tuo corpo, che era così anche per te.
Non sapevo, non capivo
cosa stesse accadendo.
Non pensavo all’amore.
Semplicemente mi rendevo
conto che i tuoi occhi esprimevano un bisogno che nei miei si
placava.
Ho pensato svariate volte
che sei fragile.
E’ sempre chiaro nelle
tue parole che qualcosa ti opprime.
In più sei minuta.
Piccola.
E questi due aspetti, mi
riducono, sommato al primo, ad una vittima designata.
Sono così da quando ho iniziato ad ammirare e temere l’incomprensibile gentil sesso.
Se in classe c’era una
ragazza più piccola delle altre, e ovviamente, c’era sempre, le
mie attenzioni erano per lei.
All’inizio non mi
rendevo conto dell’attrazione. Semplicemente ero attento alle sue
piccole esigenze ed ero soddisfatto nel vederle risolte.
La ragazzina in questione
dava ovviamente un significato diverso alle mie attenzioni. Si sa che
a quattordici anni una femmina ha spesso, quasi sempre, più maturità
fisica dei maschietti coetanei.
Mi sentivo dire che ero
l’unico della classe che usava tali attenzioni verso le “donne”
e ne era lusingata. Col fatto di essere l’unica “femmina”
trattata come una “donna” dall’unico “maschietto” con
tendenza a comportarsi da “uomo”, riceveva in dono, l’invidia
delle compagne che osservavano i miei comportamenti e sospiravano.
Se cadeva una gomma il
gesto gentile, per quanto con sfumature più fredde, veniva elargito
anche alle altre. Quella automaticità senza passione era dalla
casuale lei, volutamente ignorata. Quel gesto, sostituendosi al
nulla, valeva qualcosa.
Dagli altri “maschietti”
non ero compreso e nemmeno dileggiato. Il gesto gentile raramente
durava più di un attimo e non veniva colto se non con rapida
superficialità si da non reggere, una volta terminato e
immediatamente sostituito da altre piccole cose, il valore di una
domanda incuriosita del tipo “ma cosa stai facendo?”
eventualmente sottolineato dal temutissimo tono della voce che
preludeva ad una presa in giro.
Esistevano però riti che
dedicavo solo alla mia piccola lei.
Questo accadeva primo,
perché tutte agivano simultaneamente, e quindi ero costretto a
scegliere, secondo, perché ero irresistibilmente legato
all’esigenza di risolvere tutti gli intoppi della sua piccola
quotidianità, e che forse non lo erano per nulla … e solo dopo
aver agito, riappariva ai miei sensi il resto del mondo, distante e
finto come un fondale di teatro mentre la primadonna-farfalla, la mia
minuta lei, si offre al mio bisogno irrefrenabile di aiutarla.
Aiutarla ad indossare il
cappotto era il momento più atteso da ambedue.
Volevo semplificare un’operazione che mi sembrava la costringesse a gesti goffi, evitabili.
Da mio padre avevo
imparato ad indossarlo in un colpo solo, quasi una piroetta, ma ero
consapevole che non sarebbe stato un gesto altrettanto grazioso se
fatto da lei e non ricordavo di aver mai visto una donna “abbassarsi”
ad indossare il soprabito, o anche ad aprire una porta, da sola.
Era semplice. Uno sguardo
bastava. E a volte neanche quello e un uomo presente interveniva.
Questo era il mondo nel quale ero nato, e lo imitavo anche se non lo
capivo.
Quei gesti ordinari che
non si sa appunto per quale alchimia avevo l’esigenza di dedicare
alla mia piccola lei, lei li considerava, come dicevo, alla stregua
di prove d’amore.
Ma … i suoi sorrisi
iniziarono ad eccedere la misura di quegli accenni cortesi ai quali
ero abituato.
E’ vero; era capitato
più di una volta che una signora, dopo il mio gesto automatico di
aprire una porta, avesse elargito una carezza o qualche
considerazione; era materiale di una natura altrettanto sgradevole
che certi sogni, e che conoscevo a fondo. Una semplice maschera di
freddezza risolveva la situazione.
Gli adulti sempre
dimenticano che ai bambini, e ai ragazzini ancor di più, piace
sentirsi trattati da adulti. Il mio sguardo freddo veniva percepito
come un seme di serietà giocosa, come una recita per ricevere in
cambio la “caramella” di un plauso, quando invece si trattava di
un “trattenere il disappunto”. Ero stato educato come un uomo,
certe cose non si chiedono e nessuno se le aspetta, giustamente, da
un bambino.
La ragazzina si squagliava
come gelato al sole e io, sorpreso quanto disorientato, utilizzavo la
già sperimentata maschera di freddezza indagando poi con calma, da
solo, a casa nella mia cameretta, quali reconditi messaggi dovevo
cogliere da quell'eccesso di reazione o, peggio, cosa potevo aver
sbagliato.
Col senno di poi, mi rendo
conto, oggi, che la ragazzina, già un po’ donna, come le signore
che mi trattavano da bimbo, apprezzava il mio gioco, ma ...
La signora però, ai miei
occhi, esprimeva un tipo di banalità che coglievo nel sordido gioco
che intrecciano le madri fra di loro per mostrare, le une alle altre,
la loro capacità di educare.
Sempre le madri, che son
donne, e questo non è scontato come può sembrare, dimenticano che
stanno plasmando uomini, che da questo spicciolo nascerà una curiosa
amalgama che può nutrire più alti orgogli.
Forse sarebbe il caso che,
dopo una certa età, esattamente da quando gestire le funzioni
fondamentali del corpo è un problema risolto, fossero gli uomini ad
allevare uomini e le donne ad allevare donne. Se escludo i nonni e i
vecchi zii, di solito i maschi con i maschi, si comportano più da
maschi. Tutto sarebbe forse più franco, più virile, più
semplicemente non femminile.
Se all’età di sette
anni, per ipotesi, mia madre avesse ceduto le redini della mia
educazione, forse il sorriso della ragazzina sarebbe diventato un
mistero d’amore. Troppo spesso invece mi è toccato sentirmi
rimbrottare perché il tal comportamento fa soffrire una donna e
nulla, dico nulla ed è un nessuno, si poneva il minimo sospetto che
anche un uomo potesse, si potesse soffrire. Materia bruta da
addomesticare e da consegnare prima o poi ad un’altra donna, e
ovviamente il compito era più semplice se la madre era stata madre e
donna nell’educazione.... mah...
I discorsi delle donne a
proposito di uomini un po’ li conoscevo. Quelli degli uomini sulle
donne quasi per nulla. Papà, per quanto fosse un buon padre,
apparteneva al mondo di fuori. Tornava a sera e lo studiavo il sabato
e la domenica. Colsi, ora ricordo, una considerazione che fece con
un amico. Vittima una cameriera al ristorante. Sembrava che le sue
curve avessero particolari irresistibili. Ricordo che avevo circa
dieci anni e per me un sedere era utile per non dire necessario per
sedersi e ovviamente per alleggerire l’intestino e un seno? Un seno
non era altro che il modo più semplice per distinguere una donna da
un uomo. Spesso senza quel particolare mi trovavo disorientato. Mi
resi conto che quel sedere e quel seno desideravano toccarlo.
Riuscivo solo ad immaginare la loro consistenza gommosa e di
conseguenza lasciavo l’amico single di papà alle sue strane
fantasie con sguardo liquido, per dedicarmi alle mille novità
dell’ambiente.
Quello sguardo, lo sguardo
della compagna di scuola quattordicenne, quando non eccedeva la
misura apparteneva al rituale di ringraziamento ed era giusto
attenderselo, ma quando la sua mano sfiorava la mia, oppure il
sorriso era spaccato da una frase, quando questo accadeva, iniziava
l’imbarazzante mistero. Un enigma assai sgradevole perché non
riuscivo proprio a capire, nemmeno ad intuire, almeno un lontano
barlume di significato. Non sapevo nemmeno a chi chiedere consiglio.
E’ in questi casi che un
fratello maggiore diventa necessario, ma non esisteva.
Alcune letture amene mi
avevano fatto incontrare dialoghi e sguardi amorosi, ma non avevo
minimamente pensato a collegarli alla mia banale, per nulla
altrettanto magnifica, quotidianità.
Un giorno volò sul banco
un biglietto.
Accadeva spesso per
comunicazioni di vitale importanza del tipo “ci sei oggi pomeriggio
per giocare a calcio al campetto del prete”? Bastava alzare gli
occhi e trovare lo sguardo che mi stava illuminando come un faro.
Essere un “uomo di lettere” quale già mi sentivo nell’intimo,
non mi era sufficiente per resistere alla partitella. Tutt’altro!
In certi giorni attendevo il biglietto quasi con ansia. Non era bello
far capire che ci tenevo. Se mi volevano doveva accadere perché
secondo loro valevo la sfida. Mi chiamavano sempre e le media era di
due volte alla settimana. La mia attesa non era frustrabile più di
tanto dal dubbio che preferissero qualcun altro, ma dal fatto che non
c’era una logica fissa nei giorni prescelti e mi struggevo dal
desiderio di scatenarmi in una partita. Tutto qui.
Il bigliettino che però
volò fra le mie mani intente ascrivere, divenne una sorpresa.
Un enigma esattamente.
“Penso che ormai tu me
lo possa dire…..”
Dire cosa?
Studiai la calligrafia.
Una femmina.
Sull’angolo destro era
disegnata con la penna una margherita che rideva e di fianco le
lettere TVTTTTBXS.
Chi poteva aver mandato
una “roba” simile e per giunta in codice?
Il mio sguardo cercò di
cogliere qualche sguardo. Niente.
Il biglietto sparì nella
tasca dei calzoni e ripresi a scrivere. In quel momento urgeva
pensare al compito in classe.
Quel giorno, due ore della
mattina furono dedicate alla visita della biblioteca scolastica.
Il prof mi chiese di
aiutarlo nella spiegazione del funzionamento di quelle stanze.
Fu imbarazzante. Non amavo
si sapesse in giro che leggevo molto perché non era un’esperienza
condivisa e nemmeno condivisibile.
I miei compagni leggevano
solo i testi obbligatori … e poi la lettura portava alla solitudine
e trovo fosse normale che volessero evitarla, ma trovavo anche
normalissimo, come respirare il fatto che io tendessi a cercare una
stanza isolata e mi perdessi per ore nelle avventure più
impensabili.
Trovarmi in un certo senso
costretto dagli eventi a spiegare come funziona un archivio cartaceo,
corrispondeva anche con l’ammettere una mia caratteristica che mi
rendeva diverso.
A quell’età si vuole a
tutti i costi essere come gli altri e grande è la paura di essere
carenti in qualcosa di condiviso o anche minimamente diversi per
qualcosa di non condivisibile. Le scarpe e il giubbotto e altri
particolari che sapevo essere totalmente insignificanti già a cento
metri dalla scuola, là dentro mi erano necessari e sufficienti se
esattamente di un certo modello, proprio come diceva la prof di
matematica.
Per questo motivo ero
agitato. C’erano doti lecite, anzi fondamentali, come saper giocare
a calcio e altre che, non sapendo come potevano venir considerate, te
le tenevi ben nascoste.
Penso che la mia piccola
lei avesse colto qualcosa di questi miei timori e per questo forse,
decise di contraccambiare, in modo per me salvifico e sorprendente, i
miei gesti gentili.
I miei compagni erano
intorno a me e lei si sedette alla mia sinistra. Prese con decisione
la mia mano che ciondolava spaesata oltre la coscia. Il tavolone rese
tutto l’avvenimento assai discreto, o almeno così volli. credere
per non complicarmi l’esistenza con un’altra emozione sgradevole,
e la sua piccola manina, morbida e un po’ fredda, mi fece reagire.
Iniziai a spiegare e ad un
certo punto, per scorrere uno schedario, dovetti lasciare la sua
mano, ma appena tornai a sedere, vidi la mia tornare quasi con
angosciosa fretta alla sua manina.
Non potevo, non riuscivo a
controllare per niente la mia emotività.
Dovevo stare attento,
anzi, attentissimo. Più che durante un’interrogazione.
Se ti interrogavano potevi
essere teso o spavaldo. In questo caso, per far sopportare la mia
diversità, li in biblio, mi sentivo in dovere di alleggerire
l’atmosfera con qualche battutina e spiegare, fra le righe, perché
sapevo quelle cose.
Andò tutto bene e la sua
manina ormai era calda.
Sentivo di non avere più
bisogno di quel contatto, ma osservavo ogni tanto, le sue piccole
dita raccolte attorno alle mie. Quando suonò la campana, che per la
prima volta avrei voluto ritardare all’infinito, sensazione anche
questa stupefacente e inaspettata che mi faceva sentire un po’
straniero a me stesso, ci ritraemmo nello stesso istante, quasi
fossimo stati d’accordo.
Non ci guardammo una mezza
volta per tutto il tragitto e una volta in classe, con studiata
noncuranza, e anche questa volta senza una briciola dai suoi e dai
miei occhi, mi passò il suo diario ben aperto. C’era scritto solo
“grazie”.
Mi resi conto che quella
calligrafia era la medesima del biglietto.
Ebbi un tonfo al petto.
Lo recuperai dalla tasca e
feci un confronto non necessario.
“Penso che ormai tu me
lo possa dire”. Continuavo a non capire. L’avere scoperto che il
messaggio era il suo non mi aiutava minimamente. Era tutto assai
imbarazzante. Non mi sfiorò nemmeno per un attimo il desiderio di
utilizzare la sperimentata maschera di freddezza. Era un espediente
molto utile. Lo sguardo corrispondeva ad un attacco assai misurato,
ma sufficientemente affilato da ritenerlo capace di salvarsi dalla
minaccia di sentirsi punzecchiare, e … dietro a quella maschera mi
ci potevo nascondere e ribollire di sdegno a mio piacimento. Ma qui
c’era da sdegnarsi? Nessuna mia esperienza precedente mi veniva in
aiuto. Nulla del già accaduto assomigliava nemmeno per un
infinitesimo a questa stranezza. Se per caso risultava una faccenda
innocua la maschera di freddezza avrebbe ferito un innocente e non
uno a caso , ma proprio la mia piccola lei.
Non avevo il coraggio di
usare lo sguardo e … infatti si alzò da solo.
La mia piccola lei mimava
una richiesta in silenzio per non disturbare la lezione.
Dovevo scrivere una frase
sul diario.
Mai! Non potevo. Se
scrivevo una scemenza lei avrebbe potuto sbandierarla fino alla morte
del diario ovvero la fine dell’anno scolastico. E poi c’era la
possibilità che si andasse anche oltre. Due femmine si portavano
sempre appresso anche quello dell’anno scorso. Inutile ricordare
che erano le più antipatiche?
Mai! E nel frattempo non
potevo dire “mai” alla mia piccola lei.
E se fosse stato tutto un
mio frainteso? Anzi! Era ben evidente che lo era.
Fratello maggiore dove
sei! In momenti come questi saresti stato necessario e sufficiente
come diceva sempre la prof di matematica e invece mi ritrovo una
sorella quindi ovviamente femmina e più piccola di me, dio sia
ringraziato almeno per questo, ci mancava pure che fosse più grande!
E pensare che l’ho voluta io e guai se non fosse stata ……una
femmina!
Idea!
“Dillo prima tu”
scrissi e lo gettai.
Arrivò nel giro di due
minuti un foglietto rosa, passando di mano in mano.
Lo presi con noncuranza?
Chiamala noncuranza! Ero rosso come un vulcano.
Rosa! Un foglio rosa! Non
si era mai visto un maschio ricevere un biglietto da una femmina e
ora pure rosa e piegato solo a metà... Lo avranno letto? Non potevo
essere certo di niente perché mi ero reso conto del passaggio di
mano in mano, solo quando una mano mi aveva battuto sulla spalla, e
già da quel tocco avevo percepito la perplessità che raccolsi tutta
poi dallo sguardo che me lo porse.
Lo ricevetti dunque
ostentando una disastrosa noncuranza.
Con un sospiro che cercava
di mimare un certo senso di fastidio, ma che in fondo se ne era
venuto da solo assolutamente imprevisto, lo lessi: “WO AI NI”
scritto in stampatello, bello, grande, femminile e incomprensibile.
Chiesi stupito a me stesso
”Cos’è?” e lei che colse il labiale, si tirò su gli occhi con
gli indici.
“Cinese?” sussurrai e
la mia piccola e ora assai enigmatica lei, accennò di si con un
delizioso movimento appena accennato del capo.
Doveva passare l’ultima
ora e i nostri rituali furono per il resto apparentemente identici
al solito, ma in fondo era cambiato tutto.
Sentivo ancora la
sensazione della sua mano nella mia, e ogni tanto tiravo su la mano e
me la guardavo come se fosse stata quella di un altro, e la stringevo
in un pugno per vedere se con la tensione dei tendini, quella
delicata e amata sensazione sarebbe rimasta … e con sollievo la
ritrovavo.
E poi mi sentivo in
debito. E’ vero che non le avevo chiesto niente, e nemmeno lei
chiedeva a me di aiutarla per tutte quelle piccole cose, e comunque
lei sempre mi ringraziava. Decisi che mentre la aiutavo a mettersi il
cappotto, le avrei detto grazie io, questa volta. Era la prima volta
che toccava a me e mi rendevo conto che quel leggero senso di
fastidio che provavo era fuori luogo, perché i suoi grazie ormai li
attendevo e mi avrebbe preoccupato la loro assenza, quindi era
pensabile che lei ora attendesse il mio.
Ma accadde che, mentre la
aiutavo, non riuscii a dirlo. Non era orgoglio. Avevo come la
sensazione che ci voleva qualcosa di più, ma era solo una timida,
sgarbata inesprimibile sensazione.
Percepii che i suoi grazie
erano collegati con un’occhiata dritta e decisa che andava a
conficcarsi in fondo ai miei occhi. Dovevo decidermi, altrimenti lo
avrebbe detto lei per l’ormai abituale rito della vestizione e
questa volta non lo meritavo.
I grazie si scontrarono in
aria e non so perché ... ma sentii l’esigenza irrefrenabile di
rattoppare con uno “scusa”. E quale scusa dissi dentro di me!
Divenni di nuovo rosso e persi completamente il controllo di me
stesso. Mi teneva su come un gancio, il suo sguardo azzurro, deciso,
ma infinitamente dolce, e a quella dolcezza adagiai me stesso come un
malato, al letto, il corpo sofferente.
Sentii con una certezza
grande, condita ad un timore simile a quando si sta sui bordi di un
abisso, ma non per gioco, sentii che se avessi stretto nuovamente la
sua piccola mano…… si…..se non mi fossi vergognato dei compagni
e l’avessi fatto, sarei tornato tranquillo come poco prima in
biblioteca.
Lei raccolse quel che
restava di me e gli ridiede dignità chiedendo: “ce l’hai
qualcosa di cinese a casa?”. Risposi di no e mi ritrovai fra le
mani un libretto azzurro. “Te lo presto”, disse “me lo rendi
domani”. Per un attimo, mentre mi passava il libretto le nostre
dita si sfiorarono.
“Sei di nuovo fredda”.
Un sorriso e si allontanò chiamata da una compagna.
I pensieri a quell’età
si sovrappongono con estrema facilità.
Era sufficiente incontrare
un gatto randagio o un albero fiorito o una nuvola bizzarra e i
pensieri, indomabili, sregolati e friabili, prendevano le strade più
inaspettate mentre le gambe, fedeli all’abitudine, mi portavano a
casa.
Il piccolo libro azzurro
che faceva capolino da una tasca del giubbotto, catturò l’attenzione
di mio padre quando, a sera, rincasò e lo vide all’attaccapanni
dell’entrata. Non fu mai indiscreto e anche in questa occasione
chiese il permesso. Dissi che era un libretto sulla lingua cinese e
nel frattempo frugavo nelle tasche dei pantaloni, in un crescendo di
nervosismo perché il foglietto……
E ovviamente era nel
libro.
E’ sempre così e sempre
sarà.
I veri disordinati si
conoscono e tentano di curarsi peggiorando infine la situazione.
Spesso quel che cerchiamo
è divenuto introvabile perché è al suo posto e noi disordinati,
abituati al nostro essere tali, lo cerchiamo a caso, dimentichi di
avere agito in via del tutto eccezionale contro la nostra indole per
salvaguardare una cosa che ci sta ….a cuore…..
Il biglietto risultò
accucciato nel libretto e si rivelò immediatamente all’occhio di
Pà.
Lo guardò e per un attimo
non disse niente poi mi porse il tutto dicendo che forse poteva
essermi utile. “E come” chiesi. “Non lo so, ma se ne parliamo
posso dirti se vuoi, come comportarti. La calligrafia è di una
ragazza. Vero?” Non capii perché ma divenni viola. Lui lasciò
sgocciolare un po’ di silenzio si da farmi recuperare la normalità
e poi disse in un sorriso: “Loro, le donne, sono l’altra metà
del mondo. Se diventi rosso così si vede che qualcosa l’hai già
capito”.
Rosolai a fuoco lento e
presi a sudare, e come un malato al primo attacco, non comprendevo
cosa mi stesse accadendo. “Ma Pà, se fanno questo effetto è più
una malattia che un bene.”
“Ti va una birra?”
Risposi di si.
“Ci vediamo in salotto”
aggiunse.
Andai al frigorifero e lui
a cambiarsi.
La birra mi affascinava
per il suo bel colore dorato, ma il sapore un po’ amaro, e la
schiuma anzi, amarissima, mi lasciavano perplesso.
Sapevo che esistevano le
birrerie ovvero locali nei quali si beve solo birra, e Pà ogni tanto
ci andava con gli amici. Guidava sempre lui perché sapevano che non
eccedeva mai, ma gli altri! Gli altri spesso li recuperava a fine
serata o sotto un tavolo o addormentati su una panca. La birreria
rappresentava un tipo di perdizione, pensavo, ma non riuscivo a
comprendere la “bellezza” di quel piacere. Il rito si svolgeva
prevalentemente alla sera e spesso comprendeva un pasto, ma
quell’alito sgradevole, gli occhi lucidi e spenti appartenevano
secondo me al ritorno da un inferno.
Il fatto comunque che Pà
avesse detto “ti va una birra?”, mi inorgogliva.
Quella schifezzuola è
roba da adulti, pensavo.
Mi domandavo spesso se
dovevo considerarmi ancora un ragazzo oppure no. Il mio corpo aveva
acquisito il corredo di peli che sapevo essere necessario per essere
definito un grande, e quella parte di me che in modo meno
inequivocabile di seni e sederi, mi distingue dalla femmine, aveva
tenuto dei comportamenti sorprendenti e risultava indomabile alla
volontà.
Pà mi aveva accennato con
molto imbarazzo che era tutto normale, che quando avessi avuto una
donna avrebbe avuto il suo nutrimento. Io, sveglio come un’aquila
impagliata risposi colmo di sorpresa “ Mangia? E solo dalle donne?
Ma cosa dici Pà!” … e non si pensi che io stia rincarando la
dose. Ero veramente così estraneo a certe leggi di natura....
Mio padre, quella volta,
roso dall’imbarazzo si incamminò verso la porta, prese il pallone
da dietro il portaombrelli e mi sfidò a palleggi contro il muro.
Ovviamente la mia gioia fu tale e tanta che il discorso da me così
ben frainteso, volò via sovrapposto alla frenetica gioia fisica
della sfida.
Ero solo un ragazzino
ovviamente, ma sentivo, davanti alla promessa della birra, che una
porta si stava schiudendo e là avrei trovato la soluzione di alcuni
misteri, che già mi sembravano più che altro noiosi e poco utili,
solo delle complicazioni ... del mondo degli altri, composto per la
maggioranza di adulti.
Due bottiglie identiche da
due diverse mani versarono la birra nei bicchieri. Imitavo il suo
lento gesto col bicchiere un poco reclinato e, seduto sulla poltrona
di fronte a lui, attendevo il sapore amaro. Poi fece scontrare i
bicchieri in un rumoroso brindisi. “Come si chiama?” E io
virando dal mio ordinario rosa chiaro al rosso, pronunciai il nome
aggiungendo un ma…
“Ma brindiamo! L’Hai
baciata?” Le orecchie presero fuoco. “Baciarla?” dissi
“ma……perché?” Pa’ bevve un sorso e poi disse “Bevi, se
non bevi subito dopo un brindisi ti attiri la sfortuna. Ma ti piace?”
Il mio imbarazzo non aveva più limiti. Quando mi aveva chiesto se
l’avevo baciata mi aveva corroso per un attimo il dubbio che dietro
l’angolo mi attendesse una lavata di capo. Son talmente tante le
cose che non si possono fare ... che forse il bacio rientrava fra
questi strani ostacoli o soluzioni, che quotidianamente archiviavo,
spesso senza pensarci troppo.
La mia risposta fu più
che altro un pensiero fra me e me a mezza voce. “Dunque avrei
potuto baciarla? ma…. perché avrei dovuto!” Mio padre capì che
al bacio non avevo proprio pensato e da quell’ ”avrei potuto
baciarla”, dedusse il mio sospetto che si trattasse di un atto
proibito. “Puoi baciarla se lei vuole, ma di solito non te lo dice
chiaro e tondo. Devi capirlo.”
Risposi che se voglio una
cosa la faccio o la chiedo. “Si, è vero” disse Pà “se lo vuoi
lo fai o lo chiedi. Qui però non si tratta di volere, ma di
desiderare. Se vuoi bevi una birra, ma se vuoi fare una cosa con un
altro ti devi proporre. Imporsi è brutto. Per esempio tu non dici
con i tuoi amici voglio giocare a calcio con voi, ma chiedi se puoi
giocare. Quando ci sono di mezzo gli altri si fa così altrimenti
finisce che qualcuno reagisce male e se non oggi sarà domani, ti
farà un dispetto che alla tua età può ridursi al luogo d’incontro
per giocare che è stato deciso e nessuno che ti avvisa. Ma quando
sei adulto….”
“Quando sei adulto?”
chiesi.
“Quando sei adulto ti
fanno dispetti veramente gravi.”
“A me sembra grave anche
se cambiano campetto senza avvisarmi!”
“E’ si” rispose,
“ogni età ha le sue cattiverie.”
“Forse è così, ma non
vedo perché quelle che capitano ad un ragazzo, gli adulti le
vogliano considerare robetta. Non è giusto.”
“E’ vero, non è
giusto ... e poi sai che è capitato qualcosa di simile anche a me il
mese passato, anche se sono un grande!”
“Col calcio?”
“No, con gli scacchi. Ti
ricordi Alfred?”
“Certo” risposi “Quel
tuo amico che ha detto delle cose sul sedere e il seno della
cameriera quella sera al ristorante!” Mio padre rise: “Si,
proprio lui. Sai che non voleva ci fossi anch’io una sera ad un
torneo di scacchi, roba piccola, tanto per stare insieme. Non voleva
perché lo batto sempre.”
E io come un ragazzino,
piuttosto che stare ad ascoltare per tentare di comprendere cosa quel
discorso potesse voler dire, feci un esempio che inneggiava al calcio
e portava il ragionamento metaforicamente vicino al portaombrelli e
al pallone, che dietro, attendeva di essere preso a calci rimandando
di nuovo la mia iniziazione: “Ecco vedi” risposi “ se giochi a
calcio non succede. Se sei bravo non hai problemi! Stai pure certo
che ti vogliono tutti.”
“Va bene” disse, e poi
finisce che fra due minuti giochiamo a palleggi!!”
Ovviamente non capii e non
si curò di spiegare.
Fece “ciccare”
nuovamente i bicchieri. “Hai tradotto il biglietto?”
“Non ancora” risposi.
Appoggiai il bicchiere e mi misi a sbirciare nel libretto azzurro.
“Vuol dire ti amo. WO è
io, Ai è amo e NI vuol dire te. Io amo te.”
Chiusi il libro e lo
guardai meravigliato. “Sei sicuro?”. “Si, sono sicuro.”
Decisi di sfruttarlo più
che potevo, vista la carenza irrimediabile di fratelli maggiori, e
raccontai dell’altro biglietto. Scoprii così che quel “ Penso
che tu ormai me lo possa dire…” che avevo deviato con un “dillo
prima tu”, aveva come risposta ... ti amo.
Ero agitato. “Ma Pà, ma
cosa ho fatto! Perché lo vuole”.
“Non lo vuole, lo
desidera. In amore non si può assolutamente volere. Si desidera e
basta.”
“Sarà...” e
replicai: “ma se non glielo dico pensi che si vendicherà?”
“Dipende. Dipende da
come la prende. Di solito le donne vanno in bestia se dici picche.”
“E adesso cosa faccio!
E’ un bel pasticcio...”
“Ma dimmi una cosa. Per
essersi spinta al punto … da scrivere quei biglietti, ormai me lo
puoi dire ... qualcosa devi pure averlo fatto. Le hai parlato? Sei
stato gentile con lei?. E’ vero che a volte basta uno sguardo, ma
quell’ ”ormai” del primo biglietto, mi dice che qualcosa di più
concreto di uno sguardo c’è stato.
Quel “qualcosa”
iniziai ad intuirlo: “E’ vero” ammisi, “sono gentile con lei.
La aiuto a mettere il cappotto quando si esce, per esempio. Sono un
po’ le cose che fai tu con la mamma.”
“E le fai solo con lei?”
Il mio silenzio fu
rivelatore.
“... quindi glielo devo
dire?”
Papà brindò per la terza
volta. Guardò il mio bicchiere quasi pieno e il suo quasi vuoto.
“Adesso conto fino a tre
e bevi la metà della tua birra!”
Contò, e come per tutte
le sfide che ci proponevamo, andai oltre.
Bevuta tutta d’un sorso,
quella robaccia sembrava meno amara.
“Bravo! Forse hai
esagerato e “frappoco” ti girerà la testa. Lei ha la tua età?”
“Un anno in meno”,
risposi. “Forse è meglio così. Della tua età sarebbe forse
troppo grande. Ora prova a pensare al perché ... Perché hai
compiuto quei gesti gentili con lei e non con un’altra.”
Io la risposta la sapevo.
Era piccola. Tutta piccola. Le mani, il viso, il naso, la statura, i
piedi ... e mi attendevo che Pà dicesse “perché è piccola!” e
invece, spinto dal mio silenzio dovuto al fatto che consideravo la
risposta fin troppo ovvia, mi sentii dire “perché lei ti piace!”.
“Ah!” fu tutto quello
che riuscii a dire. Ero visibilmente stupefatto.
“Quindi secondo te io
sono gentile con lei perché mi piace! ... ma allora a te non piace
solo la mamma!”
“Cosa centra? Non
capisco”
“Mi sembra che quei
gesti gentili tu li faccia con tutte le donne, anche con la nonna.
Non mi dirai ora che ti piace la nonna!” Rise abbondantemente. Mi
rendevo conto che si stava divertendo un mondo e io mi indispettivo
perché non ci trovavo proprio niente da ridere anzi, mi sentivo
proprio nei guai.”Sappi che siamo, anzi dobbiamo essere gentili con
tutti. Ma con qualcuno lo siamo di più.
Tu per esempio aiuti tutte
le tue compagne a mettersi il cappotto?”
“Ovviamente no, perché
non è possibile. Lo hai detto tu Pà che si deve essere gentili con
tutti, ma il cappotto se lo mettono tutte contemporaneamente!”
“E tu hai scelto di
aiutare solo lei! Io quando si alzano mamma e nonna per uscire, aiuto
prima la nonna per rispetto, e poi la mamma, ma mentre glielo metto
questo benedetto cappotto, spesso le do un bacio. Sono questi gesti a
volte piccoli per te che le fai, ma grandi per chi li riceve, che
fanno la differenza. Metti il caso che una tua compagna, proprio
vicino a te, si vesta con un attimo di ritardo e tu hai già finito
con la tua lei. Pensi che la aiuteresti o no?”
“Penso di si”
“Ma ti rendi conto che
lo fai con un altro spirito? La tua lei è la preferita! Ci sarà
qualcosa nel suo modo di fare che ti è piaciuto e che ti spinge a
lei!”
“Si c’è Pà, ma si
tratta del fatto che è la più piccola e mi viene spontaneo….”
“Si, questo è l’inizio,
il motivo della prima volta, ma poi c’è dell’altro.”
Pensai, con un ennesimo
evidente rossore, alla sua piccola mano che si stringeva alla mia
sotto al tavolo in biblioteca. Si è vero, c’era qualcos’altro.
Qualcosa del quale sentivo di avere bisogno.
Qualcosa di ignoto che mi
faceva stare bene. Qualcosa che volevo solo da lei e che sentivo che
solo lei poteva darmi.”
“Sei diventato rosso...”
Risposi secco riprendendo il bicchiere quasi vuoto in fondo solo per
nasconderci dentro la faccia: “Si, penso di avere capito”.
“Vedi, piccolo ragazzo
che sta per diventare un uomo, se aiuti solo lei a mettersi quel
benedetto cappotto, e poi non vai mai oltre al vestirla, cosa
gravissima” e rideva e rideva, ma cos’aveva da ridere!”,
“...lei ti manda un biglietto e ti dice che puoi fare di più, che
se lo aspetta.”
“Ok Pà, si aspetta
qualcosa, ma dire che è gravissimo poi non ci sto e non ho capito
cos’è che è grave!” “Dicevo gravissimo nel senso che
“frappoco”, forse anche solo fra un anno, la vorrai svestire !”
e rise ancora di gusto, e con uno sguardo che esprimeva forse
furbizia o forse … ma che ne sapevo io a quattordici anni di
quella roba li e io, solita aquila impagliata fra i miei voli al
campetto da calcio e nella letteratura , risposi “spogliarla? Cosa
dici!”
E lui rideva e rideva, e
ridendo andò a prendere una seconda birra, me ne versò la metà e
chiuse dicendo “il resto alla prossima puntata, molto te lo
spiegherà la natura … se ti succederà come è accaduto a me,
qualcosa te lo insegnerà lei……. e qualcosa io ... e alla fine
stapperò quella bottiglia che non c’è ancora in frigorifero ma
che andrò a comperare domani. Ricordatelo! Sarai tu a dirmi Pà apri
quella bottiglia e ce la berremo tutta tu e io!”
Mistero! Ma è mai
possibile che ci siano così tanti enigmi nell’età adulta? Molto
meglio stare con gli amici e rispettare le poche regole del calcio
per esempio!
Il giorno seguente tutto
accadde come sempre, ma al momento della vestizione, mentre si girava
per infilare la seconda manica non trovai la forza per quel bacio, ma
le soffiai leggermente sul collo.
“Mi fai venire i
brividi”
“Papà quando mette il
cappotto alla mamma le da sempre un bacio”
Non replicò.
Mi guardò ben oltre gli
occhi.
Avevo costruito uno di
quei momenti nei quali non sapendo cosa dire o fare, stavo immobile,
un bel po’ perplesso se visto da fuori, ma un furore di agitazione
dentro.
Era più piccola di me.
Era piccola così.
Una ragazza grande così
tu sei
e per il mondo tutto
questo è follia...
Una miniatura deliziosa.
Ora, c’era solo lei qui
davanti a me.
Sembrò prendere il volo e
invece si sollevò sulle punte e mi baciò la guancia destra.
Pensai a Cristo che diceva
“porgi l’altra guancia” e dedussi di essere assurdo.
Lei atterrò nuovamente al
suolo, proprio li, davanti a me, e dal nulla metafisico nel quale mi
aveva portato, mi ritrovai in classe vicino alla porta.
Banalmente, una volta
tornato alla realtà, non sapendo cosa fare, pensai bene di
preoccuparmi, di comprendere se eravamo stati visti, ma tutti erano
presi dalla voglia di migrare verso l’esterno i prati e la
primavera.
Ci sfiorò la sua amica e
sparirono.
Toccai con la mano
sinistra il punto che le sue labbra avevano consacrato.
Una farfalla, leggero come
una farfalla il tocco, ma la sensazione ancora presente.
Non capivo la bellezza, la
dolcezza di quanto era accaduto.
La sentivo dentro.
Aveva, a differenza delle
sue compagne, un modo leggero, letteralmente senza peso, di muoversi
E questo curioso miracolo
lo doveva alla danza.
Tanti anni dopo, a San
Pietroburgo, passeggiando lungo il Nevskij Prospekt dopo aver
sorseggiato un caffè disgustoso nel locale che Puskin lasciò per
andare incontro al duello mortale, tanti anni dopo, mi accorsi che il
mio solito viaggiare fra realtà e fantasia era inquinato da una
sensazione forte che, entrata dagli occhi, faceva desistere Puskin al
mio fianco.
Gettai lo sguardo
distrattamente dove sembrava che lui guardasse, ma in fondo dove già
da un po’ i miei occhi origliavano timidamente, guidati da una
strana febbre, per impossessarsi di quel che non avevano il coraggio
di osservare liberamente … quel frutto del passato, della memoria,
che si rimaterializzava e, pian piano, da enigma dei sensi e
dell'anima, si rivelava in alcuni passi leggeri.
Passavano delle ragazze.
Non notai la loro
bellezza, ma il passo spedito e senza peso nonostante la zavorra di
orribili e mastodontici zainetti.
Rientravano da scuola?
Puskin rimase con la
schiena mollemente appoggiata al muro del “suo” Caffè; le mani
in tasca e lo sguardo allentato, mentre io, calamitato dal loro passo
svelto, leggero anzi, capivo e non capivo quel che mi stava
accadendo.
Mi venne in soccorso
Proust, malaticcio come sempre nella mia memoria, elegantissimo e
sorridente. Mi disse, dopo il cenno minimo di saluto che si fanno
amici di vecchia data, “ti ricordi quella sera che entrai a casa
infreddolito e bevvi l’infuso di tiglio?”
“Si che lo ricordo;
quell’odore, quel sapore, la madeleine che aveva avuto come stampo
una conchiglia scanalata come una cappa santa. Si, ricordo tutto.
Qualcosa allora, dal profondo riemerse, antico e irresistibile ... e
riapparve come per incanto la casa di tua zia Leonie”
Mi interruppe
appoggiandomi una mano sulla spalla e dicendo” E basta! Non
descrivere tutto, lo so bene cosa mi è accaduto. Ora osservale bene
quelle ragazze, getta l’amo nel tuo passato, sorseggia con lo
sguardo; lasciati andare e vedi di arrivare a qualcosa, altrimenti ho
scritto tutte quelle pagine per niente!”
Il buon Marcel si fermò
non prima di avermi lasciato in mano una cattleya che si era tolto
dalla giacca. E sapevo quanto quel fiore per lui fu importante.
Proseguii come ipnotizzato
seguendo con discrezione le ragazze.
Arrivarono ad un teatro e
s’infilarono in una porticina piccola piccola.
Rimasi fermo, perplesso,
con quell’orchidea in mano e nel giro di qualche attimo la
porticina, all’improvviso, si riaprì.
Una delle ragazzine venne
a me, prese la cattleeya e camminando leggera, senza lasciare traccia
di sé sulla bianca ghiaia, si girò per salutarmi e sparì.
Sono sempre stato un pollo
nelle questioni di cuore.
Non dissi una parola con
quell’angioletto.
Poteva scapparmi un how
are you, un ca va, e invece niente.
Tornando sui miei passi
vidi Marcel e il grande russo seduti ad una panchina che
parlottavano. Puskin fece per alzarsi e venire da me ma il francese
lo trattenne per il braccio.
Non dovevo venire
distratto perché ciò che forse avrei potuto catturare dal mio
passato era legato ad un filo assai fragile. Mi rendevo conto che
quel qualcosa era scattato osservando quell’incedere leggero delle
tre ragazze, e ora ero lievemente deviato da questo filo sottile che
dovevo seguire per via della sorpresa; poiché la deliziosa fanciulla
si era impossessata del fiore irreale che pensavo esistesse solo per
me e la mia fantasia di quei due grandi amici che passeggiavano come
coetanei ridanciani, sul Nevsky Prospekt.
Giunto in albergo chiesi
ad una cameriera se sapeva qualcosa a proposito del corpo di ballo di
quel teatro e se si poteva avere il programma degli spettacoli.
Il mattino seguente a
colazione, una busta mi rivelò che quella sarebbe stata la sera del
saggio della scuola di danza. C’era un numero di telefono;
parlavano tedesco e prenotai un posto in platea.
Mi sentivo ridicolo con
quel piccolo delizioso bouquet fra le mani e, con mia grande
sorpresa, unico in quella serata, con lo smoking. Ero invisibile come
un prete nella neve.
Mi chiusi in poche pose
che mi sembrarono abbastanza semplici, per riuscire nel mio tentativo
di passare inosservato.
Dai lati del palcoscenico
vedevo i volti delle ballerine che ogni tanto spuntavano, con i
capelli raccolti in un elegante chignon. Tutte bianche, uguali e
bellissime.
Una salutò con un gesto
semplice e delizioso. La mia mano si apprestò a preparare una
risposta simile, ma mi trattenne il vedere altri che rispondevano.
Un signore anziano dietro
me mi chiese in perfetto inglese se ero straniero.
Accennai di si col capo.
Mi chiese poi se amavo la
danza o una danzatrice … e mi aggrappai a lui come un naufrago
raccontandogli non certo di Proust e Puskin e nemmeno della
provenienza del fiore, ma del suo singolare furto che intendevo
diciamo perdonare … con questo bouquet.
Mi ammonì dolcemente
dicendo che la Russia ha povertà, sensibilità e bellezza.
Colga tutto, ma non abusi
della povertà per avere un corpo ... sono angeli ...
“E’ vero” risposi
“sono angeli”, e quella parola, angeli, innescò un sottile
tormento alla guancia destra ... una farfalla appena posata sembrava,
ed era collegato ad un indefinito alzarsi leggero leggero in punta
di piedi di un fantasma, di un ricordo.
Rubando parole al grande
De Andrè, vidi una scena annebbiata nella memoria, non era chiara ma
coglievo tutto il suo senso. Fu il momento della mia esistenza nel
quale nacque “la stagione che stagione non sente”.
Lo spettacolo fu semplice
e bello e alla fine, mentre eravamo in piedi ad applaudire, il bel
vecchio mi disse “getti ora quei fiori!” Lo feci e una ragazza,
un angelo bianco, lo prese.
Sparì immediatamente
dietro le quinte e me la trovai di fianco con la cattleya in una mano
e il bouquet nell’altra. Anche gli altri angioletti erano scesi fra
noi mortali e si lasciavano baciare e ammirare.
Dissi “brava!” che so
essere un complimento internazionale, e lei, guardandomi ben oltre
gli occhi, prese il volo dalle sue caviglie leggere, mi baciò sulla
guancia destra e finalmente quella sensazione di farfalla posata che
per anni mi accompagnò come una sete sottile, si spense.
Presi un po’ di coraggio
e, raccolto il suo viso fra le mani, baciai prima la fronte, poi il
naso e approdai, leggero quanto lei, alle labbra.
Tornò a terra dal suo bel
volo sulle punte, per suggere fino all’ultimo aroma, il nettare del
bacio, mi rese la cattleya e si unì alla altre farfalle per
concedere il bis.
Di nuovo non la
riconoscevo più.
Era tornata angelo fra gli
angeli.
Guardavo l’ultima danza,
come fosse stata l’ultimo momento della mia vita. Come se il resto,
davanti a tanta bellezza, avrebbe potuto essere solo condanna.
Adoravo l’insieme del
quale lei era una particella, frammento di quella grande fragile
emozione che è la bellezza.
Mi girai, a danza
terminata per ringraziare l’anziano signore, ma non c’era già
più, e tornai solo percorrendo il Nevskij Prospekt, radioso come un
apollo.
Sentii due monelli
rincorrersi nel buio deserto di quel lunghissimo marciapiedi. Si
avvicinavano. Una manata mi colpì la spalla e l’orchidea mi
sfuggì di mano. Marcel la raccolse e se la rimise all’occhiello.
Giocavano a calcio con un
barattolo spaventando i gatti, e giunto all'albergo mi salutarono,
vispi come folletti, proseguendo nella loro notte eterna e leggera.
Lo so da sempre.
Loro sono vivi.
Io non ancora, ma forse,
forse vivrò notti eterne da ragazzino, come loro.
Con loro.
Ora ho la vita che mi
corrompe
Che mi tiene occupato con
questo strano tempo cadenzato dal sole e diviso in giorni.
Quella notte recuperai un
frammento che, riosservato e in parte rivissuto in quella magica
avventura pietroburghese, ti dona un valore infinito, stellina mia.
Sono un imbranato? No. Ora
so di essere un albatro anzi, qualcosa in più.
Se tutto andrà come deve,
per me, per noi, anche camminare sulla terra sarà aggraziato, e non
solo il volare nei cieli di una realtà immensamente piena che ho
intuito e che tanta, troppa gente non avrà mai nemmeno la più
minima possibilità o la volontà … per apprezzare.
Per questo, per ora,
sembro un imbranato. Come quell'enorme gabbiano, l'albatro che,
finché è appoggiato sulla barca, strascicando le ali enormi e
sgraziate è un divertimento dei marinai.
Per metà reale e per
metà, anzi, forse anche un po’ di più, irreale o meglio, già
dentro ad una realtà più degna.
Uno spirito.
Un Fantasma di me stesso
che rischia ad ogni pensiero di volare via come un palloncino.
Da quando ti ho conosciuta
però, sento che un filo mi lega e il mio viaggiare sta diventando un
orbitarti intorno.
Il filo è lungo, lo so,
ma giorno dopo giorno si accorcia.
Sono le tue mani deliziose
che lo tengono e lo arrotolano.
Tutto è possibile sai …
anche questo amore.
Ma ti desidero
E ora volo leggero,
attento ad ogni istante che il filo che ci unisce non si spezzi
Perché tramite te,
deliziosa Beatrice di questi tempi insensibili, anche questa terra
potrà finalmente fare parte di quella realtà che la razionalità
non vede e io, frammento di terra contenente un oscuro dono, forse in
te, con te, capirò in te me stesso, il perché delle cose e
l’assurdità del dolore.
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(Un uomo adulto rivive le prime sensazioni che appartengono alla nascita in ogni essere umano, del sentimento dell'amore. E' un sognatore. Lei ha più o meno l'età del primo amore e accetta di attenderla mille giorni, fino alla maggiore età. Lei è distante. tutto quel che accade è nella mente, e rivivere, spesso, certi frammenti di ricordi, quando la vita si è resa marinaia che dileggia l'albatro che non riesce a prendere il volo, è una salvezza. Dopo questa lettura molti mi hanno detto che ho avuto un padre esemplare. Non lo ebbi. Fu preso dalla malattia. A me rimase la possibilità di idealizzarlo poiché dal poco che riuscii a viverlo, ebbi la certezza che era un uomo buono.)
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