giovedì 24 ottobre 2013

Harold Bloom a Bologna (14 marzo 2000)






HAROLD BLOOM A BOLOGNA 14/03/2000

Argomento, Wilde.

Lo vedo entrare dall’ingresso dell’edificio e precipitarsi alla ricerca del bagno con la faccia stravolta. Sbaglia la prima porta, sbatte nella seconda che è chiusa a chiave e il suo sguardo diventa quello di Napoleone a Waterloo. Dico ad un impiegato che forse il dottor Bloom potrebbe avere bisogno di lui.

Mi risponde che la prof. Franci sa già tutto. Gli faccio notare che molto probabilmente non sa dove si trova il bagno degli uomini. Decide di soccorrerlo e, visto lo sguardo smarrito e assai urgente, gli apre il bagno più vicino, quello degli handicappati.

Il codazzo di eminenti attende a ridosso della porta. Le più vicine sono tre donne.

Una è talmente americana da non poter essere che sua moglie, penso, e due signore dai cappelli bianchi e gli abiti scuri.

Esce col volto più rilassato, ma di poco, e va a sedersi nella sala della conferenza in un posto del pubblico in prima fila. Arrivano delle signore con delle mises terrificanti. Cosa possono capire di arte o di letteratura delle persone così agghindate….

Mister Harold, canutamente oltre il quintale e quasi sferico, con pantaloni neri tirati troppo su, le scarpe da tennis serie, nere e lucide, unica caratteristica tipica del docente americano, e calzini rossi rigorosamente corti, che rivelano qualche centimetro di candida ciccia, mi ricorda il signor Pollunder.

L’aspetto esteriore è infantile, fiabesco, caricaturale come capita spesso di cogliere in “Amerika”, ovviamente quella di Kafka, non quella vera, nella quale i fiabesco è divenuto grottesco.

Da quando si è seduto, un ragazzo lo ha assalito con tanto di registratore e notes pieno di domande.

Tutto quel che sta accadendo è degno di un sorriso.

L’aura di Harold Bloom è irreale.

Egli, come Horowitz è un interprete raffinatissimo e come il grande pianista, dona la sensazione di essersi trovato per caso fra gli umani e li guarda spaesato e con occhi infantili.

L’unica differenza è che Horowitz dava idea di leggerezza.

Ricordo una foto. Due persone lo tengono a braccetto prima dell’ultimo concerto di Mosca. Passeggiano per strada. Si “sente” che se lo lasciassero andare volerebbe via come un personaggio di Chagall. Bloom dà invece idea di pesantezza. Si capisce che soffre il suo corpo ingombrante.

Me lo immagino solo soletto in una stanza, di notte, che guarda dalla finestra aperta il cielo, con desiderio. In esso vede volare, fra piccole nuvolette bianche, il suo amato Shakespeare e gli altri protagonisti del Canone Occidentale, e cova il sospetto che loro non si accorgano di lui nonostante tutto l’affetto che tracima dalle sue opere.

Non è colpa sua.

Il suo è un lavoro molto utile, ma produrre letteratura, “fare” l’Opera è diverso dall’interpretarla.

Colgo il conato di una gentildonna. Dice delle banalità fantastiche e il grande Harold, sgranando gli occhi, inventa qualcosa che non la offenda e nel frattempo salvi la sua dignità di luminare.

Bloom invita alla meditazione.

Trasmette passione per la letteratura.

E’ contagioso. Sa far ridere e sorridere e non è poco.

Alla sua radice non c’è un perché, ma un modo di vivere, un amore.

Non basta perché Kafka e Shakespeare e Dante si accorgano di lui, ma è una gran cosa per gli umani. Loro, gli artisti,che volano leggeri in un cielo di Chagall non lo vedono, non lo possono vedere, ma la sua passione permette al pubblico di fare un primo passo verso quella visione.





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