HAROLD BLOOM A BOLOGNA
14/03/2000
Argomento,
Wilde.
Lo vedo entrare
dall’ingresso dell’edificio e precipitarsi alla ricerca del bagno
con la faccia stravolta. Sbaglia la prima porta, sbatte nella seconda
che è chiusa a chiave e il suo sguardo diventa quello di Napoleone
a Waterloo. Dico ad un impiegato che forse il dottor Bloom potrebbe
avere bisogno di lui.
Mi risponde che la prof.
Franci sa già tutto. Gli faccio notare che molto probabilmente non
sa dove si trova il bagno degli uomini. Decide di soccorrerlo e,
visto lo sguardo smarrito e assai urgente, gli apre il bagno più
vicino, quello degli handicappati.
Il codazzo di eminenti
attende a ridosso della porta. Le più vicine sono tre donne.
Una è talmente americana
da non poter essere che sua moglie, penso, e due signore dai cappelli
bianchi e gli abiti scuri.
Esce col volto più
rilassato, ma di poco, e va a sedersi nella sala della conferenza in
un posto del pubblico in prima fila. Arrivano delle signore con delle
mises terrificanti. Cosa possono capire di arte o di letteratura
delle persone così agghindate….
Mister Harold, canutamente
oltre il quintale e quasi sferico, con pantaloni neri tirati troppo
su, le scarpe da tennis serie, nere e lucide, unica caratteristica
tipica del docente americano, e calzini rossi rigorosamente corti,
che rivelano qualche centimetro di candida ciccia, mi ricorda il
signor Pollunder.
L’aspetto esteriore è
infantile, fiabesco, caricaturale come capita spesso di cogliere in
“Amerika”, ovviamente quella di Kafka, non quella vera, nella
quale i fiabesco è divenuto grottesco.
Da quando si è seduto, un
ragazzo lo ha assalito con tanto di registratore e notes pieno di
domande.
Tutto quel che sta
accadendo è degno di un sorriso.
L’aura di Harold Bloom è
irreale.
Egli, come Horowitz è un
interprete raffinatissimo e come il grande pianista, dona la
sensazione di essersi trovato per caso fra gli umani e li guarda
spaesato e con occhi infantili.
L’unica differenza è
che Horowitz dava idea di leggerezza.
Ricordo una foto. Due
persone lo tengono a braccetto prima dell’ultimo concerto di Mosca.
Passeggiano per strada. Si “sente” che se lo lasciassero andare
volerebbe via come un personaggio di Chagall. Bloom dà invece idea di
pesantezza. Si capisce che soffre il suo corpo ingombrante.
Me lo immagino solo
soletto in una stanza, di notte, che guarda dalla finestra aperta il
cielo, con desiderio. In esso vede volare, fra piccole nuvolette
bianche, il suo amato Shakespeare e gli altri protagonisti del Canone
Occidentale, e cova il sospetto che loro non si accorgano di lui
nonostante tutto l’affetto che tracima dalle sue opere.
Non è colpa sua.
Il suo è un lavoro molto
utile, ma produrre letteratura, “fare” l’Opera è diverso
dall’interpretarla.
Colgo il conato di una
gentildonna. Dice delle banalità fantastiche e il grande Harold,
sgranando gli occhi, inventa qualcosa che non la offenda e nel
frattempo salvi la sua dignità di luminare.
Bloom invita alla
meditazione.
Trasmette passione per la
letteratura.
E’ contagioso. Sa far
ridere e sorridere e non è poco.
Alla sua radice non c’è
un perché, ma un modo di vivere, un amore.
Non basta perché Kafka e
Shakespeare e Dante si accorgano di lui, ma è una gran cosa per gli
umani. Loro, gli artisti,che volano leggeri in un cielo di Chagall
non lo vedono, non lo possono vedere, ma la sua passione permette al
pubblico di fare un primo passo verso quella visione.
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