Questo film non merita di essere offeso
proiettandolo in una multisala. Non è spettacolo. E' una cosa seria.
Meriterebbe che accadesse in un tempio.
Anno 1998. Nikita Michalkov è regista
di questo film, ma suo è anche il soggetto, la sceneggiatura.
Iniziamo ad inoltrarci nella trama. E
se non l'avete ancora visto, trovatelo. È un ordine. Vi farà bene.
È una medicina, un grande insegnamento. Non solo il corpo va
nutrito.
Prima scena brevissima. Una Troika (slitta con cavalli) in un paesaggio russo innevato. Un uomo grida qualcosa. Scopriremo che è un generale. É un attimo. Vediamo poi una persona con una curiosa maschera di cuoio dotata di filtro. È un altro attimo, e poi ecco che si inizia. Inizia qualcosa che ha una trama e quelle prime due scene sono dimenticate. Cadetti russi. Mosca. Cortile d'onore del Cremlino. È il giorno del giuramento. Si attende lo czar. L'aria si taglia a fette. Arriva. Lo svolgimento ci permette di identificare un generale, Radlov, il granduca fratello dello czar, e lo zarevic, l'erede al trono, il bambino. Ci son scene che sembra abbiano il compito di far solo sorridere, come per esempio quando l'erede al trono, sul cavallo col padre regnante, ripete l'ordine che questi ha appena dato. I soldati schierati sono per un attimo disorientati e poi salutano esattamente come han fatto col padre. Ma non è solo una scena per un sorriso. È la voce dell'innocenza. Michalkov ci mostra chiaro il registro, l'area, il valore, dei quel che farà. Abbiamo anche a che fare con un dialogo fra Czar e czarina. Lei è irritata e dice “Quante volte sarà necessario dirvelo! E' ancora troppo piccolo per questi urli, lo eccitano. Ma perché non mi ascoltate mai!” “E lo czar risponde “se io vi avessi ascoltato cara, non avremmo neanche un figlio.” Questo passo è fondamentale. Lo czar, archetipo del maschile. Lei, l'archetipo femminile. Lui, volto pratico, vissuto. Lei bella, quasi di plastica.
E ora devo aprire una parentesi. Tempo fa, dialogando con una celebre stilista milanese che ha una mente eccellente ed assai artistoide, mi sentii dire che le donne hanno ottenuto l'emancipazione ma la stanno usando male. Mi ha detto di avere conoscenti che vanno a Cuba o a Capo Verde esattamente per i medesimi motivi per cui ci vanno gli uomini. Una volta insomma che la donna ha avuto in mano la propria esistenza, non sempre ma troppo spesso, ha dimostrato di non essere migliore. Ebbene. La nostra epoca sta assai soffrendo di un maschio annichilito, che fatica a gestire un rapporto che si vorrebbe realmente alla pari, ma che diventa una curiosa lotta spezzettata dal quotidiano, dalle minime nervosità eccetera. Nessuna certezza. Ogni legame si può rompere. Si può scappare, tornare, sporcare, e pretendere di ripulire. Lo czar ama lei, ama anche la vita e ha desiderato un figlio e se lo gode. Questo figlio è il contraltare di un altro che scopriremo nel finale.
Lo czar se ne va, il giuramento è terminato. Rimane in scena la tavolata di cadetti che hanno brindato con lui, e iniziano a volare i cappelli. É la festa della gioventù, della giovinezza. A questa si opporrà una “festa” della follia, della disperazione, della gioventù sfregiata, in stazione, davanti ad un treno che parte e va …. in Siberia, più avanti.
Ora abbiamo uno dei cadetti che cammina
per strada. Il suo generale lo ferma e gli chiede/ordina di salire.
Questo grosso signore di mezz'età è emozionato perché sta andando
a fare la sua dichiarazione d'amore, la prima nella sua vita, ad una
donna. Chiede in un certo senso conforto morale al ragazzo che
essendo un suo subordinato, non può certo rifiutare.
… Ma la situazione che si crea è
paradossale. Lui, il cadetto, stava riportando il ventaglio a quella
medesima donna. Ci si era seduto sopra inavvertitamente in treno e lo
aveva tenuto, per farlo riparare … ma in fondo per rivederla. C'è
un vecchio, che si scopre essere il patrigno di lei, c'è il
generale, nel salottino, e il ragazzo. Il generale gli da un foglio e
gli chiede di leggerlo. Il generale va al piano e crea una fintissima
situazione romantica. Lui, il cadetto, il ragazzo, inizia a leggere,
ma poi non ce la fa più, va a ruota libera e fa non quella del
generale, ma la sua dichiarazione. Poi si scusa e se ne va. Noi
comprendiamo che lei è sorpresa ed emozionata. Il generale si ritira
incapace di reagire.
Ora il generale fa, prima cercare il
ventaglio che trovano sotto il cuscino della branda del ragazzo, e
poi, radunare il corso. Stanno provando “Le nozze di Figaro”. È
l'allegria, la festa della gioventù, alla quale partecipa anche la
corte nella persona del Granduca. Dicevo, il generale fa radunare il
corso. Fa fare cinque passi in avanti al cadetto Andrej Aleksej
Tolstoj (nessuna parentela con lo scrittore) e lo accusa
pubblicamente di aver rubato il ventaglio. Vuole punirlo subito, ma
si deve rimandare. Per lo spettacolo Andrej è insostituibile.
Scena successiva. Andrej ha bevuto e
sta rincasando. C'è Duniasha, la cameriera. I due rubli della bevuta
erano i suoi. Lei non risponde e dice che sopra c'è una persona.
Lui, distante anni luce dalla verità, pensa sia tornata la madre che
era in viaggio. Perché non capisce? Perché crede di aver commesso
un gesto folle, così pensa, e ora sta per abbattersi la punizione …
e invece i gesti dell'amore sono gli unici senza follia. … E invece
è lei. La donna alla quale ha fatto la dichiarazione. Leggiamo
subito in lui sorpresa ed emozione. (L'attore che interpreta il ruolo
del cadetto, è Oleg Menshikov. La sua parte era difficilissima e lui
è stato all'altezza. Chiarirò nelle prossime righe).
Ora inizia un “gioco” a tre. La
cameriera, Duniasha, ama il cadetto, e solo con il corpo, il viso e
il gesto, ci rivela la sua agitazione. Le parole, tutte quelle che
dice in questa scena, sono da cameriera, i gesti da innamorata. La
donna soffre in silenzio, la sofferenza silenziosa di chi costruisce
come la formichina, non l'impulsività di chi spacca tutto. Il
presente è sempre fragile. Con niente si rompe, e ripararlo spesso
richiede anni. Veniamo ora al cadetto e alla donna in visita. Non
abbiamo dubbi. Lui è innamorato perso. E lei? Sembra di sì poiché
è andata volontariamente in quella stanza. Inizia il dialogo. Lei fa
le domande e lui risponde, inciampando, tentennando, con molti
imbarazzati silenzi. E poi si arriva al culmine. “Veramente mi
ami?” chiede lei. E lui ammette. A questo punto lei agisce in un
modo che ci sorprende. Non vediamo cosa accade, ma lo scopriamo dalle
sue parole e dal volto di lui. Abbiamo qui una scena capolavoro.
Primo piano su lei al minuto 25.47. Lui è sfocato sullo sfondo,
seduto ad un tavolo. Lei esce di scena e sappiamo che è andata prima
a provare un carillon e poi sul letto. La macchina da presa rende
soggetto lui, il suo volto e il suo busto, e poi si focalizza sul
viso e possiamo cogliere le mille sfumature di uno stato d'animo
raffinato ed enorme. É in questa scena che Oleg Menshikov è secondo
me eccellente.
Quel che fa lei, e che noi capiamo
dalla reazione di lui e dalle di lei parole, è stendersi sul letto,
spogliarsi e chiamarlo. Notate per favore la finezza del regista. La
scena farebbe “audience”. Un po' di nudo di una bella donna. E
invece solo qualche frase lievemente lasciva. Siamo oltre il cinema
da cassetta. Qui le auto non esplodono appena le sfiori, il sangue
non sprizza o scorre a fiumi. É il cuore, e accade anche a noi, ad
esplodere. All'inizio quell'inquadratura che inizia al minuto 25:47,
e che dura fino al 27:22, ci disorienta. Al cinema siamo abituati a
scene rapide. Conta attualmente più l'azione che il senso, ma se il
viso del cadetto ci coinvolge, e questo accade particolarmente per
gli uomini, ecco che si vola in alto e ci si emoziona. Il culmine si
ha quando lei chiede “Non venite? Non avete voglia?”. E lui fa
cenno di no con la testa e dice con fatica, con sofferenza “così
no. Voi, voi non mi amate”. Attimo di silenzio, lei cambia tono di
voce, lo invita a girarsi perché è intervenuta la vergogna della
nudità, che è sconosciuta all'amore e al paradiso che son sinonimi,
e si veste. La scena, durata ben un minuto e trentacinque secondi, si
muove. Lei ha capito che ha sbagliato metodo. Le armi della sua vita
precedente non sanno affrontare l'amore, quello vero e sta per
andarsene sconfitta … ma lui ha un attacco, cade a terra, ha
problemi di respirazione. Lei si precipita su di lui, è sconvolta
Questa aria densa di realtà collegatela alla maschera di cuoio della
prima scena. Fatelo già da ora per favore. Si scusa e finalmente
elimina le sue barriere e si consegna al sentimento nella sua realtà
più vera. Ora sono nel letto. E' accaduto. Lei tenta di spiegare la
sua vita. Quello, il suo patrigno, divenne il suo amante. Racconta
tutto, e anche noi rimaniamo sconvolti da alcuni aspetti della sua
sincerità. Lei ammette che non può dire di essere stata traviata,
sedotta. Ha partecipato. Riesce ad ammettere che dopo il primo
amplesso col patrigno, rapporto estorto facendola bere, e che non
voleva, la mattina dopo scoprì se stessa, abbracciata a lui nel
risveglio. Ora sono soci in affari. Sono li, in Russia, alla corte
moscovita per reperire i soldi per una macchina che il patrigno ha
inventato e intende produrre. Comprendiamo che lui accetta quella
spiegazione, dalla scena successiva.
É tenero il dialogo sulla prima volta
di lui. Lei pensa che sia stata quella appena accaduta in quel letto,
ma lui nega in modo così imbranato da farci pensare che forse
qualcosa di superficiale, qualche amplesso, c'è stato. Piccole cose
e grandi, quelle di lui e quelle di lei, del passato non condiviso,
vengono comunque azzerate. La vita inizia in quel momento.
Lui torna alla camerata e fa uno
scherzo a tutti. É felice e non abusa della parola. Essa, la sua
scelta, non si appoggia su un progetto pratico, qualcosa di
funzionale alla quotidianità. Si basa sull'amore, il fondamento per
la casa di ogni rapporto che si desidera duraturo.
Ed ecco la sera a teatro. Ci sono Il
granduca e lo zarevic. Ci sono tutti. Inizia la recita ed è un
successo. Al termine del primo atto, Il generale, ancora invaghito,
presenta lei al granduca, e qui il bambino, il figlio di re, il
folletto, la voce dell'innocenza, compie un'azione che ci fa ridere
ma che sfugge ai più di senso. É in braccio al granduca zio, questi
saluta la presentata e rimedia una specie di ceffone in fronte, dal
bimbo. Chiede perché e si sente dire che c'era una mosca. Ma è
aprile, e per la primavera moscovita è presto per le mosche. Il
bimbo passa per maleducato quando invece è sincerità pura. L'occhio
del granduca aveva ammirato la femmina e non salutato la donna e la
purezza più pura lo ha strigliato.
Al termine del secondo atto di questa
opera di Mozart quindi, tranne il granduca, che è un po' scornato,
son tutti contenti, ma accade che casualmente il nostro cadetto sente
un dialogo di lei col generale. Lui è giovane e inesperto.
Nonostante le spiegazioni di lei non comprende la natura
utilitaristica del doppio gioco che lei sta facendo, e reagisce
fuggendo sotto la pioggia, con angoscia, e di nuovo con quei problemi
di respirazione. La sua dimensione accettabile, l'unica, è quella
della purezza del sentimento, senza contaminazioni. I compagni lo
recuperano. Non capiscono cosa succede, ma son tutti per uno e uno
per tutti. É un mondo ancora puro il loro, il male non esiste, ma
prima comparsa di essa nella loro generazione è avvenuta con
l'accusa bugiarda di furto di un loro collega. Lui arriva sul palco,
ma è sconvolto. Vede lei seduta sorridente vicino al generale e non
resiste. Prende l'archetto del violoncellista, va in platea e frusta
in viso il generale. La situazione crolla. L'onta del gerarca viene
nascosta nell'accusa di tentato omicidio nei confronti del granduca.
Processo, condanna a sette anni di carcere più cinque di confino in
Siberia.
Ed ecco la grande marcia dei condannati
verso la stazione e tutti che arrivano per vedere o salutare. Li
caricano sul treno e sentiamo le grida. Le principali sono “Figlio
mio!”, segue “Padrone mio!” ed è Duniasha, poi “amore mio”
ed è lei, e poi il grido dei compagni di corso. Essi inseguono il
treno, sono disperati. La loro generazione è stata sporcata,
intaccata, ed erano innocenti. La scena è eccezionale. Val più il
grido di loro che quello delle due donne amate e della madre. É il
grido di una vita distrutta? Non solo, Anche chi rimane non è più
lo stesso. Ora il male c'è, è stato creato, esiste. E' concreto e
non puoi più eliminarlo poiché, ricordatelo. La vita è il
paradiso. Il male ce lo mettiamo noi e si potrebbe, si dovrebbe farne
a meno … e questo, Michalkov sembra saperlo molto bene.
E lei, che nel film si chiama Jane,
aveva già incassato due batoste enormi. Era andata al carcere prima
della partenza a chiedere di vederlo. La guardia ha chiesto “Chi
siete per lui” e lei che non sa rispondere, propone dei soldi ma
viene lasciata fuori. E' poi andata a casa di lui e c'era la famiglia
riunita con la madre piangente. E' entrata come una valanga dicendo
che il figlio è innocente, che lei a teatro c'era, che ha visto
tutto. E la madre chiede “ma voi chi siete”, e lei deve ammettere
… che è nessuno.
Ha senso continuare a spiegare la
trama? Non più. Lei vive nel senso di colpa, in America. Non ha
avuto il permesso per potersi recare in Siberia e solo dopo dieci
anni, e nel frattempo aver sposato il patrigno, riesce ad andarci.
Una casa enorme e vuota la accoglie. Sente una presenza ma non la
vede. Vede comunque le foto. Lui si è sposato con Duniasha. Ormai ha
figli. E' arrivata tardi.
La scena della sua fuga da quella casa,
la scena della sconfitta definitiva e del dolore, è un capolavoro.
Sappiamo che l'invenzione del marito patrigno è “Il barbiere di
Siberia” una macchina taglia-alberi enorme, mostruosa, che spaventa
la gente. Gli alberi cadono, e questa scena si alterna con la
carrozza che corre corre corre, verso il nulla interiore che lei deve
accogliere in sè.
Il finale comunque ha un dono.
Quell'unico amplesso dell'amore puro, ha generato un figlio. É in
America. Porta il cognome del padre, ma è fragile e immenso come il
padre naturale. Ed ecco la magia dell'amore, della vita. Lo sentiamo
già nel legame padre figlio tramite mozart, qualcosa che sembra
venire dal dna. Quella maschera di cuoio con filtro,
che abbiamo
visto all'inizio è sul viso di quel figlio che non respirerà, che
non vuole respirare e quindi vivere l'aria che soffocò il padre.
Anche qui sembra che nella briciola di anima paterna passata a lui
nella fecondazione, fosse presente quel dato. Quell'esperienza di
soffocamento che noi due volte abbiamo visto all'apice di una
sofferenza. É simbolo estremo, quella mostruosità di cuoio, di non
voler essere contaminati, di aver paura della vita. Vedremo il
momento nel quale se la toglie.
Un gioiello. Una lezione per queste
nostre vite troppo concrete. Ciao.
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RispondiEliminaLo sto guardando adesso. È meraviglioso
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