Per riuscire ad inoltrarsi in questo
post è necessario avere la possibilità di vedere e rivedere certe
scene de “La dolce vita” e di leggere e rileggere il racconto
“Adriano” tratto dal volume “Una e una notte” di Ennio
Flajano.
Cerco ora di posizionarli nel flusso
storico. Il volume di Flajano è edito per la prima volta nel 1959.
Il Film risulta datato 1960, ma so per certo che la sua lavorazione
non fu immediatamente precedente a quella data. Veniamo ai fatti: ci
fu un problema con il primo produttore e il secondo, che fu Angelo
Rizzoli, il celebre editore fu protagonista di una vicenda che ho
l'impressione sia poco nota, ma che diventa molto importante per quel
che intendo scrivere: a Rizzoli il film non piaceva per niente, lo
giudicava troppo esplicito come messaggio sessuale. La sua posizione
fu così netta che preferì rimetterci il costo di produzione e diede
ordine di archiviarlo senza metterlo sul mercato. Accadde però che a
una sua segretaria chiesero un film della sua casa di produzione
(Cineriz), da presentare ad un festival in Svizzera. Lei non sapeva
del divieto di diffondere quella pellicola e la diede. Si deve quindi
al caso l'uscita di questo capolavoro.
“Una e una Notte”, il volume che
contiene il racconto “Adriano”, fu pubblicato per la prima volta
nel 1959. Quel che mi interessa mostrare è il grande lavoro attuato
dietro le quinte da Flajano, per portare a maturazione le scene del
film e vedremo che il nocciolo delle idee fondamentali sono presenti
al racconto “Adriano” che può essere considerato, come stesura,
coetaneo del film.
Devo fare un'altra precisazione: la
collaborazione seria, vera, profonda, di Fellini con Flajano, ebbe il
suo battesimo vero ne “I vitelloni”. Dico battesimo vero poiché
per la prima volta lo scrittore ebbe uno spazio notevole nella
progettazione del film. Vi porto qualche esempio: il titolo, “I
vitelloni”, non viene dal dialetto di Rimini come solitamente si
pensa. Il vocabolo originario è “vudellone” che tradotto alla
buona sta per budellone e indica quella persona che non non fa niente
dalla mattina alla sera, sta al bar a giocare a biliardo o a carte
eccetera. Esattamente il personaggio che nel film è interpretato da
un ottimo Alberto Sordi. Negli anni che precedono la preparazione de
“La dolce vita”, Flajano ha pian piano introdotto, nel rapporto
con Fellini, un modo di lavorare che penso si chiarisca da sé con un
esempio. Si consideri la scena de “La dolce vita” nella quale, a
piazza del Popolo, viene caricata la prostituta in macchina, si
recano a casa sua, eccetera. Vi racconto come si arrivò alla scena
del film. Fellini e Tullio Pinelli, andarono a casa di Flajano e gli
dissero che avevano in mente di mettere una scena nella quale
Mastroianni e la sua avventuretta, avrebbero caricato una prostituta,
si sarebbero fatti portare a casa di lei e così avrebbero potuto
mostrare la tristezza della vita di questa donna che avrebbe di
conseguenza rappresentato tutta la sua categoria, e non solo, poiché
si intendeva riprendere anche il quartiere in generale. Vi invito a
notare come la scena sia ancora profondamente attaccata al
neorealismo … Flajano li ascoltò e poi rispose che la situazione
non era così come loro l'avevano immaginata, quello era appunto
neorealismo, che ormai, a differenza delle origini, non rappresentava
più, come tutti pensavano, uno specchio fedele della realtà. Li
portò a piazza del Popolo, fermarono una
prostituta, che come nel film manifestò una certa diffidenza poiché
si trattava di tre uomini ma cedette davanti al loro fare tranquillo
e al fatto che la pagavano non per fare sesso ma per poter prendere
il caffè a casa sua. Da qui inizia la scoperta di una donna che ha
scelto la prostituzione non per miseria, ma come via molto più
rapida di quella normale per ottenere una normalità che consisteva
in un appartamento del quale doveva finire di pagare le rate e in
tutta quella serie di piccole esigenze ormai indotte dal boom
economico. Veramente Fellini Pinelli e Flajano camminarono sulle assi
di un pianoterra allagato e presero il caffè sentendo le lodi del
tavolino sul quale erano appoggiate le tazzine …
Penso che la conoscenza di questo
fatto, renda evidente il lavoro grande di Flajano. Sgretolare i
luoghi comuni presenti nella mente degli altri due, e porli davanti
alla realtà senza i patetismi venuti di moda col neorealismo.
Vedete, ci fu un modo di vivere, un uscire insieme e dialogare
vivendo. Quel che accadde fra Fellini e Flajano non fu semplicemente
un lavoro. Immaginate attualmente i compartimenti stagni dei un film.
Si cerca un'idea (quasi sempre scollata dalla realtà ma affidata al
senso comune come accadde con la scena iniziale della prostituta), si
scrive un soggetto, qualcuno che spesso nemmeno dialoga col regista
prepara la sceneggiatura, e … mettetela come vi pare, quell'unione
di menti che si frequentano per arrivare ad una buona sintonia, e che
richiede tempo, oggi non è considerata una variabile capace di
influire sulla qualità di un film. É una voce che incide sul costo
di produzione e quindi viene annullata. Quando accade, si tratta
quasi di un miracolo. Così fu per esempio dell'incontro fra Wim
Wenders e Peter Handke.
Veniamo al racconto “Adriano”. È
diviso in sette capitoli, ognuno con un titolo. In esso, in generale,
sentiamo la presenza di un mondo vecchio e un mondo nuovo che sono
sovrapposti. Il mondo nuovo prenderà definitivamente piede, e
Adriano è in bilico fra le due realtà. La scena chiave è
nell'ultimo capitolo. Il protagonista è in aperta campagna e sta
cercando dei ruderi antichi. Ferma la macchina e cerca il sentiero.
Non lo trova ma, incrocia casualmente una donna e le chiede la
strada. Il momento è cruciale. Lei si presenta esteriormente come
una ragazza di città. Riporto per comodità, il passo:
“ Da un altro sentiero, che saliva
dalla pianura, vide allora avanzare una giovane donna. Doveva essere
bella ed elegante e man mano che si avvicinava Adriano si chiedeva
chi potesse essere: l'avanguardia di una comitiva di turisti? -una
donna delusa che, come lui, andava a cercare la pace in quella
desolazione?- una fidanzata che ha piantato di colpo il fidanzato per
una lite e ora finge di volersene tornare a piedi in città? Sembrava
una signora da album di mode, l'abito celeste ampio e sciolto,
trattenuto giù ai polpacci da una cintura ornata di fiocchi, il viso
imbambolato (come appunto richiedeva l'abito infantile), gli occhiali
da sole ornati di lustrini, l'andatura dinoccolata”.
Nel linguaggio utilizzato si sente
ormai il peso del tempo, e siamo solo nel 2012, quindi devo dare
qualche chiarimento. Quasi più nessuno dice fidanzato o fidanzata,
ma boy friend o semplicemente il mio ragazzo o la mia ragazza. I
lustrini sono ora Pajettes. L'album di mode invece, si può dire che
non esiste più: si trattava di una pubblicazione che conteneva i
cartamodelli dei vestiti in voga. Immagino che molti abbiano
mentalmente tradotto “album di mode” con “rivista di moda”
immaginando una rivista come per esempio Vogue, ma si tratta
completamente di un altro oggetto e con una funzione, in questo
contesto, rivelatrice. Le riviste di moda, più o meno come le nostre
attuali esistevano, ma se piaceva un vestito, ancora pochi lo
comperavano confezionato. Si comperava l'album di mode e poi, o
l'abito veniva fatto in casa, poiché tutte le donne sapevano più o
meno cucire, oppure, per i più abbienti, si andava dalla sarta.
Questa precisazione potrebbe sembrare una divagazione, ma non è
così. Essa fa sentire a noi, anche per mezzo di un dato ormai
storico e quindi non utilizzato come significante chiave dall'autore,
quel passaggio fra due modi di vivere che si stava consumando
all'epoca del racconto. Immaginate ora il popolo che si fa il vestito
in casa e la borghesia che va dal sarto e che inizia ad andare nel
negozio nel senso che lo intendiamo noi oggi. La scena che la ragazza
presenta, così accuratamente alla moda, come una ragazza di città
(e così anche Flajano la definisce in un altro passaggio), non è di
rapida preparazione come quella di una ragazza odierna. C'è un lungo
lavorare di ago e forbici, per costruire quella che l'autore, poche
righe più sotto non esita a definire una “maschera”. Abbiamo
dunque una ragazza di campagna, che parla in dialetto e ha modi che
possiamo definire tranquillamente dialettali o popolani.
Quell'abbigliamento che rappresenta l'epoca che sta avanzando, quella
del boom economico, è quindi portato da una personcina appartenente
al “mondo” che sta finendo. L'abito non aderisce ad uno stili di
vita interiorizzato. L'insieme diventa così grottesco. L'imitazione
del nuovo funziona finché lei tace, ma col dialogo questo essere in
bilico fra passato e futuro si “sente” in tutto il suo stridore.
Passiamo ora a “La dolce vita”. Non
è importante cercare una figura identica a questa appena analizzata,
ma quel significato. Abbiamo già una metamorfosi sconcertante nella
prostituta precedentemente descritta, che quando dialoga a casa e
serve il caffè, sembra in tutto e per tutto, e in effetti lo è, una
persona qualsiasi con la sua vita ordinaria non sporcata da nulla di
moralmente discutibile. Saltano certe norme, segno evidente questo,
del passaggio alla nuova era del boom economico. La regola sacra
diventa la seguente: ottenere! Questo è l'imperativo! Qualsiasi
strategia è accettabile. Qualcuno qualche anno prima, un certo
Michelangelo Antonioni, aveva già dimostrato l'esistenza di questo
cambiamento, in modo forte nel film “I vinti” dando però una
motivazione diversa. Egli descrive la generazione che diventa
maggiorenne agli inizi degli anni cinquanta, che ha caratteristiche
storicamente tremende. Nata e allevata sotto il fascismo, con culti e
stili discutibili, ebbe poi padri assenti nell'adolescenza perché
c'era la guerra. Tutto coerente nel film, e penso debba far pensare
il fatto che la generazione descritta ne “La dolce vita” e
“Adriano”, per motivi diversi, ovvero il cambio epocale del
sistema di produzione con tutto quel che ne consegue, porta con se le
stesse problematiche.
Quel che ne “La dolce vita” accade,
non è, come nel racconto di Flajano, la costruzione di una persona
antica con una maschera nuova, ma la coesistenza di persone antiche e
nuove a diversi gradi di metamorfosi o alienazione nel tentativo di
adattamento. Nel film, la fidanzata di Mastrojanni è indubbiamente
carica di valori che son sentiti come vecchi. Sposarsi, la vita di
coppia, sembrano assurdi ad un Mastrojanni che vive la dolce vita
romana a piene mani. Un altro personaggio del vecchio mondo mentale è
sicuramente lo scrittore che si suicida. Egli mima il nuovo modo di
vivere, ma in lui la crisi si fa estrema. La sua uccisione anche dei
figli, che teneramente ama e mette a letto come il migliore dei
padri, equivale ad un liberarli da un futuro che non è accettato.
Esiste poi una figura che amo
moltissimo e che per me è il capolavoro … di chi? Di Fellini? Di
Flajano?
E qui ci si deve chiarire una volta per
tutte. Ci hanno insegnato che il film è del regista, ma non è
sempre vero. Spesso c'è dietro, o non troppo dietro, una mente
notevole. Fellini aveva buone idee, un buon uso della macchina da
presa e … una capacità eccezionale nel creare un gruppo, quel che
cinematograficamente si chiamerebbe cast. Guardate che non è facile
ammettere che il tale è bravo e tenerselo ben stretto! Il
narcisismo, particolarmente fra artisti, crea situazioni
inimmaginabili … Lui Fellini, lo fece e questa umiltà fu ripagata.
“I vitelloni”, “La dolce vita” e “Otto e mezzo”, son
considerati capolavori. Ebbe poi la buona idea, dopo aver vagato un
po' quasi solitario, di legarsi a Tonino Guerra ed ecco altri due
capolavori: “Amarcord” e “E la nave va”. Non fu il solo
comunque. Antonioni col film “La notte”, che considero il
capolavoro assssssoluto del cinema italiano, riuscì a riunire
Flajano e Guerra, con la presenza del regista asssssssolutamente più
innovativo a livello mondiale, nell'uso della macchina da presa
qualcosa di eccezionale non poteva non nascere. Si può notare, oltre
il resto, che questo film potrebbe essere considerato come una
possibile puntata successiva a “La dolce vita”. Mastrojanni ha
sempre il ruolo dello scrittore. Se ne “La dolce vita” sta
scrivendo un libro, qui è ormai lanciato e si potrebbe pensare che
la coppia in crisi di un film sia stata ripresa pari pari anni dopo,
scoprendo così che si son sposati e che incontreranno un ultimo
momento fragile, in quella “strana” “Notte”, sensuale e
tentatrice per entrambi.
Domanda? Se Flajano era così bravo,
perché Fellini ad un certo punto lo “mollò”? Accadde che, dopo
“Otto e mezzo”, si dicesse con troppa insistenza “il film di
Flajano” e questo fece male al narciso felliniano. Si limitò a
“lasciarlo andare” verso altre collaborazioni, non proponendogli
più nulla. Flajano, quando gli chiedevano spiegazione sul distacco
spiegava che l'amico, con “Giulietta degli spiriti” si era
inoltrato nello spiritismo, materia nella quale lui non si
considerava competente. Risposta politicamente corretta? Sembra, ma è
anche vera. Si vedano su You tube i video di Gustavo Rol e si
comprenderanno molte cose ora dimenticate …
Dopo queste parentesi torniamo alle
figure antiche o nuove, figlie del boom economico, presenti nel film
di … Flajano. Verso la metà della pellicola, troviamo Mastrojanni
seduto in un ristorantino che da sulla spiaggia. Una parte è in
muratura bianca e un'altra è di … come definire quei muri fatti di
canne che possono sì delimitare uno spazio ma ci rendono difficile
affermare che siamo in una stanza? Osserviamo il fotogramma che
segue. Vediamo il lato del ristorante fatto in muratura e, riflesso
su questo uno dei “muri” fatti di canne. Ebbene, il vocabolo
giusto ce lo offre Flajano nel racconto “Adriano”. Si chiama
cannucciato. La ragazzina inquadrata è importantisssssima.
Riepiloghiamo: la fidanzata del protagonista è in crisi nera (e poi
scopriamo, dal film “La notte” che ce la farà...), lo scrittore
prova a mettersi al passo con i tempi ma si suicida e libera del
futuro anche i figli piccoli, ed ecco Paola, che rappresenta il mondo
antico, quello che sta finendo, in tutta la sua purezza e il suo
splendore, senza alcuno sforzo di adattamento al nuovo modo divivere.
La scena inizia con Mastrojanni che telefona alla fidanzata e
litigano. Ha fatto abbassare il volume del junke box ordinandolo in
malo modo alla camerierina. Questa obbedisce e accetta il suo ruolo
subordinato senza rancore. Mastrojanni torna alla macchina da
scrivere che è a un tavolo della sala “all'aperto” del
ristorante, e Paola, quella della foto, mentre apparecchia,
canticchia. Mastrojanni si irrita nuovamente e chiede silenzio, ma si
rende conto che non riesce a scrivere e dialoga con lei. Questo è il
momento grande del film. Finalmente Mastrojanni “vede” la
bellezza di quel mondo che sta finendo. Ricordiamo che “La dolce
vita” è la seconda parte, diciamo così di qualcosa di più vasto
che è iniziato con “I vitelloni”. Si fa presto anche a
“incollare i ruoli”, poiché si sa che Sordi bramava il ruolo che
fu dato al bel Marcello. Se Sordi lo avesse ottenuto, determinati
ragionamenti, e il fatto stesso che i film erano collegati, sarebbe
stato più evidente. Mastrojanni è dunque il provinciale che è
giunto a Roma e che ha perso completamente il contatto con il suo
passato e il suo significato. Per sottolineare l'enormità del
cambiamento avvenuto, abbiamo la scena del padre, che viene a Roma a
trovarlo. Egli non regge il ritmo del figlio e “sentiamo” che non
è solo questione di età. C'è qualcosa che travolge anche la psiche
più decisa quando ci si trova calati improvvisamente in un'altra
realtà e poi, quando detta realtà contiene e offre senza alcuna
fatica, ciò che eroticamente si è desiderato per una vita … si
crolla, e si prende subito il treno per tornare a casa.
Siamo dunque al momento magico.
Mastrojanni “vede” e “sente” tutta la bellezza di Paola. Le
dice che è bella come gli angeli della pittura umbra, regione dalla
quale proviene, e non si dimostra insensibile quando lei dice di
arrivare quasi alle lacrime quando la domenica è li a lavorare e non
la famiglia. La famiglia … il frutto
dimenticato. Lui, Mastrojanni è il fiore maschile, la sua fidanzata
è il fiore femminile e il frutto, ormai antico, l'unione stabile,
brilla nelle parole della quale la ragazzina con quelle parole che
pronuncia, incarna il risultato. Osserviamola. Sarà figlia ancora
per poco e poi donna. La scelta dell'attrice fu eccellente e si sa
che Fellini dedicava mesi e mesi a questa selezione.
Per l'epoca, quell'attrice, si trattava
di un frutto acerbo e secondo me riesce ad essere percepita un po'
così, anche oggi, anche se per motivi diversi. É pulitina,
ordinata, acque e sapone. Si direbbe un tipo di femminilità in via
d'estinzione se non già estinta, nella cultura consumistico
occidentale. Per tanta gente che la vede oggi, non si tratta di un
angioletto della pittura umbra, che forse non ha mai visto, ma di
qualcosa di quasi etereo. La nostra attuale percezione della
femminilità è cambiata tanto. Per l'epoca invece, era sicuramente
una ragazzina anche perché mancava della “polpa”, qualche
chilo di carne, forse anche una decina, per avvicinarsi all'ideale
femminile in voga. La Bardot, che era uno scricciolo, era
un'eccezione. Si riconosceva comunque anche a questa Paola, a quel
tipo di signorina, un fascino che aveva una matrice più intima,
affettiva. Anche l'abbigliamento è stato scelto con cura. L'abitino
a quadretti, chiuso fino all'ultimo bottone, rappresenta una visione
che permette alla licenza erotica più grossolana, di appigliarsi
solo ad un piccolo accenno di seno … e all'epoca non bastava. Negli
anni cinquanta le donne non avevano gambe, ma cosce … non so se mi
spiego, la carnalità proprio diversa.
Paola, la dolce camerierina, potrà
riaccendere il junke box, ma quel dialogo ha sortito un effetto:
Mastrojanni ritelefonerà alla bistrattata fidanzata. Si riapre
quindi il dialogo e si dimostra a noi, che stiamo guardando il film,
che non è impossibile immaginarli anni dopo, sposati e belli come
nel film “La notte” nel quale, sempre Flajano, fu il burattinaio
e creatore.
La ragazzina, l'angelica Paola, la
rappresentazione bellissima dei quel che il boom economico sta
sgretolando, riapparirà dopo più di un'ora di pellicola, alla fine
del film.
Mastrojanni ha toccato il fondo. È in
crisi nera anche come scrittore. Ha capito che quel mondo gira in
tondo senza approdare a niente ed ecco che, dopo una cosa sgradevole
che avrebbe dovuto essere una festa, con le macchine parcheggiano in
una pineta e raggiungono il mare perché sono incuriositi da alcuni
pescatori che stanno tirando le reti e … c'è stata una pesca
strana. Osserviamo la scena. Pini e la spiaggia da raggiungere.
Abbiamo dei Gay, delle donne che per l'abbigliamento e la somma delle
scene viste, sentiamo sole, povere cose incapaci di darsi un senso in
quella dolce vita che sa solo ripetere se stessa. Ora sono
sessualmente libere, ma c'è libertà in un mondo senza regole? Gli
omosessuali presenti rappresentano non una libertà sessuale
conquistata, ma un'anarchia che uccide ogni senso. C'è smarrimento,
e il loro camminare ridicolo, i loro comportamenti, tutto, sembra
stupido. La comitiva si avvicina ai pescatori. La rete mostra un
enorme pesce che ha anche del mostruoso, ed ecco che, nel rumore
della gente e del mare, al di la di una piccola foce, riappare Paola.
Lui vede questa ragazza che saluta e che tenta di dire qualcosa, ma
le fa capire che non sente e che i suoi gesti, che mimano anche la
macchina per scrivere, non sono compresi. Ho letto spesso che si
pensa che lui semplicemente non la sente, ma per me la situazione è
più potente. Lui non la riconosce. Quando lei mima lo scrivere a
macchina lo fa per fare in modo che lui ricordi quel giorno al
ristorante, ma non accade. La sua abiezione è giunta ormai a un
punto tale che non c'è salvezza. Riconoscerla in quel momento,
quando si è raggiunta la consapevolezza che quella dolce vita è
vuota, equivale ad avere una possibilità di salvarsi. Mi raccomando,
salvarsi non vuol dire che immagino che si mettano insieme.
Mastrojanni è al minimo, è disilluso. Già una volta Paola,
semplicemente parlandogli, lasciandosi vivere, lasciandosi guardare,
aveva ottenuto, involontariamente, che lui richiamasse la fidanzata,
e questo equivale a riconoscer un valore in chi fino a un secondo
prima ne era destituito.
Questo fotogramma ci mostra Paola che
saluta, ormai rassegnata. Mastrojanni ha appena fatto un gesto,
ridicolo, finto, che sta a significare che non sa cosa farci se non
capisce i suoi gesti, se non sente le sue parole. Una ragazza del
gruppo lo chiama, lo prende per mano, lui si gira e se ne va.
Lei continua a salutare e poi accade
una cosa che forse è sembrata inspiegabile ai più e lo dimostro col
prossimo fotogramma:
Paola, termina il saluto che non ha più
senso perché Mastrojanni si è girato e allontanato, e lei fa un
piccolo movimento e guarda la macchina da presa, cioè noi. Noi, il
pubblico, ma sgranandolo, individualizzandolo. Lei ci guarda e ci
dice che esiste, ci invita, diversamente da quel che ha fatto
Mastrojanni, a riconoscerla … e con lei quel che rappresenta.
Commovente. Grande.
Veniamo ora ai collegamenti di queste
due scene col racconto “Adriano”. La spiaggia con la foce, il
cannucciato. Ci rendiamo conto che lo scenario dei capitoli IV e V, è
il medesimo del finale del film. Ma dal libro sappiamo qualcosa in
più. A quella spiaggia venivano anticamente le sirene … e nel
capitolo cinque abbiamo la sensazione che l'incontro mitologico stia
per realizzarsi. La razionalità arriverà a far dire che si trattava
di un delfino, ma si sente che il mondo del mito, della favola,
dell'immaginazione non solo concreta e dimostrabile, appannaggio di
quel passato che si sta spegnendo, quel mondo, stava per riapparire.
Com'è potuto accadere?
Adriano, vive un primo capitolo da
dolce vita notturna e annoiata stile Mastrojanni nel film:
nel secondo vaga in macchina,
nel terzo il suo vagare lo porta sul
set da un amico regista,
nel quarto e quinto, a rifugiarsi, a
nascondersi nella casa al mare rimanendo anche quando la stagione
balneare è conclusa con pochi pescatori che vivono una vita quasi
primordiale, elementare. L'ultimo capitolo, il quinto, è il ritorno
a Roma e il senso di estraneità definitivo reso con la magistrale
scena collettiva della televisione.
La possibilità del mito, nel
protagonista, diventa concreta dopo mesi di distacco dalla città,
quando si è riconquistato il contatto con la natura, con gli aspetti
elementari dell'esistenza. È un attimo, sta per accadere, ma non
accade. Nel secondo capitolo, abbiamo un accenno del diverso senso
della realtà appartenente a quella dimensione che verrà stritolata
dal boom economico. Adriano si ferma , in macchina, davanti ad un
casolare. Sa che in quel luogo anticamente c'era una città e ora ci
son solo campi. Scende. Ci son due contadini, uno giovane e uno
vecchio, che stanno lavorando davanti all'edificio. Adriano chiede di
chi è la casa, ma loro non rispondono e poi:
“Adriano non poteva andarsene così
sconfitto. Additò allora un piccolo stemma della facciata, una
colomba col ramo d'olivo nel becco e chiese: “è dei Doria?” Il
contadino giovane rispose: “Prima si, era dei Doria” e infilate
le mani nelle tasche del giubbotto fissò Adriano per fargli capire
che non avrebbe aggiunto una parola. Invece il più anziano,
scavalcando i secoli con quel breve senso del Tempo, che sanno i
contadini, più legati al corso delle stagioni o a un modello di
tempo misurato sulla vita dell'uomo, aggiunse quasi con alterigia:
“Prima ancora era di Marc'Aurelio.”. “Marc'Aurelio? …
l'Imperatore?”. “Non so se era imperatore” rispose il
contadino. “Era un antico romano. Era Padrone di tutto, da qui a
Ponte Galeria”. E accennò lontano, verso il mare nascosto dalle
colline”
Idea geniale o fatto realmente accaduto
a Flajano? Non lo so, ma non dimentico che nelle culture orali, come
di fatto fu quella contadina fino agli anni cinquanta del novecento,
più o meno dopo la quinta generazione, la narrazione diventava
mitica, entrava in una dimensione nella quale il tempo non era più
qualcosa di lineare come accadde poi, e i contadini, fino a qualche
anno prima di quello scritto, vivevano il tempo circolare della
coltivazione, e quello lineare delle tappe individuali di infanzia
maturità e vecchiaia. Questa contrazione del tempo che fa sentire
nientemeno che Marc'Aurelio dietro l'angolo, in un ieri che sembra
appena accaduto, è un altro di quei possibili contatti, o accessi ad
una fantasia più vasta, che apparteneva a quel mondo che il boom
economico ha destituito.
Un altro momento nel quale qualcuno,
questa volta già con un piede nel boom economico, ci offre la
visione di qualcosa di grande, è nel capitolo III. Qui, Adriano,
dopo la noia della dolce vita romana e il vagare per i dintorni che
lo ha portato ad un passo da Marc'Aurelio, arriva sul set da un amico
regista. Si sa che si tratta di Fellini, e offro una conferma in più,
che all'epoca, nell'ambiente romano era evidente e ora, se non lo si
sottolinea, va perso. Fra le comparse per il film ci sono un boxeur,
descritto magistralmente come “immerso nel suo stupore di colosso”,
e Rob, un organizzatore e campione di gare di ballo di resistenza.
Erano veramente due amici di Fellini. La mattina erano a casa sua
assai presto e il boxeur faceva la parte di quel che attualmente
sarebbe un personal trainer mentre l'altro assaltava il frigorifero.
Quel che Fellini faceva erano due simulacri di piegamenti sulle
ginocchia, in fondo, per dare una anche se insostenibile
giustificazione alla loro assidua presenza. A chi gli chiese
spiegazione rispose: “E' nel buio più completo che puoi vedere
anche la minima luce” … e aveva ragione.
Veniamo a noi. Si deve riprendere la
scena di un pellegrinaggio e accade che una delle donne si comporta
in modo inaspettato. Tutti recitano: “Non era una folla chiamata
alla fede, né spinta dalla speranza di nessun miracolo. Ma pure
qualcosa successe, quando una donna, che insieme ad altre doveva
chiedere a gran voce il miracolo, gridò che lei lo chiedeva davvero;
e intanto vere lacrime le bagnavano il volto povero e informe ...”
Ci vengono in mente gli esperimenti che
Pavlov fece sui cani, ma che valgono per tutti. Se io vedo un dolce,
io che sono goloso, ho la salivazione che mi aumenta parecchio. Ecco
Pavlov. Semplice. Ma mi basta anche pensarlo il dolce … e accade di
nuovo. Ebbene, quella donna, elementare ma vera, in una simulazione
di processione, alla richiesta ovviamente recitata, del miracolo, va
oltre, torna in sé stessa, ed esprime il mondo del quale faceva e in
fondo fa ancora parte, nel quale, la fede è un miracolo anche solo
per il fatto che la richiesta la puoi fare. La cultura che verrà,
troppo pragmatica, perderà questo effetto pavloviano che tornerà
forse solo con le paure della malattia e della fine ultima.
Spero che ora, quando rivedrete la
scena finale sulla spiaggia, col mostro marino nella rete, vi verrà
in mente che quella era, per Flajano, la spiaggia delle sirene. Alla
nuova organizzazione sociale, apparirà quindi solo un mostro marino,
la deliziosa fascinazione che scatta ovunque, quando si hanno miti e
ricordi ancestrali condivisi, è finita. Si faccia caso che i
pescatori, nella scena, son contenti perché quel pesce vale molti
soldi. Il popolo, nelle sue due forme, di città o del contado, non
sa andare oltre la realtà. Solo le grandi paure, come il tuono, sono
per alcuni di loro, foriere di immagini antiche che sgorgano
incontrollate, ma un mostro marino nella rete non innesca nulla. Sta
all'artista dare un mito, una fantasia, una lettura di sé a
un'epoca. Come il nome vitelloni e la fantasia fljano-felliniana
nell'immaginario di Rimini, hanno scalzato la realtà, divenendo esse
stesse una realtà condivisa e accettata, così sta all'arte, anche
nell'epoca del consumismo ormai imperante, creare una poesia che
riabiliti la mediocrità del quotidiano.
Se è necessario dire che si tratta che
si tratta della spiaggia delle sirene, perché dal film non lo si
capisce, mi viene il sospetto che nel montaggio qualche battuta sia
andata persa o sacrificata. È importante però saperlo, perché così
il luogo del possibile mito risulterà spogliato da ogni possibilità
di sogno e arido. La realtà cruda è l'offerta del boom economico,
ma senza quella grande fantasia che l'epoca passata rispettava, vien
difficile vivere. Noi non siamo solo corpi da nutrire, ma menti … e
cuori ...
Flajano, magistralmente, ha fatto
uscire l'Italia dal tunnel del neorealismo e ha dato a grandi
persone, come Fellini, gli strumenti per mitizzare o almeno tentare
di dare un senso, al tempo che stavano attraversando. E lo fece
insieme a Pavese, l'altro grande padre, provvisto di una lucidità
talmente forte e onnicomprensiva, da diventare una forma di
sofferenza.
E la piccola Paola ... la ragazza
umbra, come un ideale, fiorirà in tutta la sua forza, sempre, in
grazia di quell'età femminile della quale ho sempre pensato:
“guarda,sta per diventare un angelo ... e invece diventerà una
donna” ...
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