Esistono libri che covano una potenza immensa. “Lasciami andare,
madre” di Helga Schneider rientra in questa categoria.
Tempo fa scrissi parole
elogiative per il suo “Il rogo di Berlino”. Questo, che ho letto
un anno fa, mi ha marchiato a fuoco e varie volte ho tentato di dire
qualcosa, ma mi rendevo conto che ero ancora troppo commosso,
travolto, per poter parlare con lucidità.
Devo partire analizzando
tutte le variabili in gioco: il Libro e me stesso, in relazione ad
esso.
Partiamo da me.
Sono nato a Karlsruhe in
Germania, fra Stuttgart e Strasburgo. Mi sento tedesco. Penso di
ragionare come loro su tante cose. Forse mi illudo. Esiste una
barriera enorme fra ciò che crediamo di essere e quel che
effettivamente siamo. Io, di me, posso solo dire quel che appunto
credo di essere. Un tedesco. Si. Dentro. E l'Olocausto mi fa un male
tremendo. La cultura che adoro, che prediligo, ha commesso un simile
omicidio..... non lo tollero. Ho sperato che fosse propaganda, ma non
avevo appigli. Ho conosciuto gente dei Campi di concentramento e
anche di sterminio, la loro sincerità era vera e non confezionata
come quella dei venditori di informazioni (giornalisti e “in-docenti
universitari”...). Impossibile sperare che non fosse accaduto. Ho
letto lo sgomento dopo quasi mezzo secolo sugli occhi di Mike
Buongiorno, e la fragilità dell'esistere che quei momenti creano, in
Tonino Guerra, e molti altri nomi si perdono nella vastità della mia
curiosità. Boris Pahor per esempio, e gente ormai senza corpo, senza
nome, risucchiate da un passato che mi segna prima di tutto perché
quella macchia del popolo che sento mio..... pesa un poco come se
fosse anche mia.
Mi fa ridere amaramente
il modo della nostra epoca di ricordare. “Il giorno della memoria”
è ormai standard. È un po’ come andare a messa, ripetere a
pappagallo la parte che ci tocca di preghiere, ma nel frattempo
pensare ad altro. Non funziona. No, non va.
Penso che la lettura di
certi libri invece, valga più di cerimonie smaccatamente esteriori.
Non dico nulla del
contenuto del libro della Schneider. Vi parlo della mia reazione. L'
ho letto come una febbre crescente. L' ho chiuso e il cervello girava
intorno al cuore che si era fermato. Tutto girava a vuoto.
Impossibile pensare. Sai che quel che narra è accaduto. È accaduto
a lei.
La grande letteratura
secondo me non può non essere autobiografica. Possiamo cambiar nomi,
situazioni, città, paesaggi.... in fondo possiamo “girare intorno”
solo a noi stessi.
Tutta la letteratura è
autobiografia. Quel che la rende grande è un percorso verso la
lucidità che non si può insegnare. Il suo percorso più noto è
quello della sofferenza, ma non è l'unico. Per la Schneider fu
comunque quello.
Ci sono eventi, che ci
cambiano. Ecco un paio di esempi. Sono imprecisi perché vado a
memoria.
Giacomo Leopardi. Gli
muore il fratellino piccolo. Anche lui è un bambino, di poco più
grande. Lo portano al catafalco sistemato in casa, ecco che vede la
morte, la scopre. Prima era solo una parola. Ora è enorme,
insondabile. Un vortice che sconvolge, che ti cambia. Ed ecco che da
quel momento ogni sollecitazione esistenziale si fa margherita da
sfogliare minuziosamente, nella gioia come nel dolore. Ogni
accadimento si fa enorme. L' ideale nasce come esigenza di rivalsa
verso l'irrimediabilità della morte, la morte resiste, annienta
quotidianamente, e quotidianamente Giacomo, ancor bambino, si rialza,
si rifugia nella letteratura, annaspa nei corridoi scuri di
un'educazione che non spiega, e le pagine son l'unica porta verso un
esterno che offre qualche speranza.
Nietsche. Il padre, dopo
una breve malattia muore. Qualcosa alla testa. Un liquido scuro che
esce dall'orecchio. La fine. Il cervello contorto. Fattosi duro e
contratto nella dimensione di una palla da tennis. “e come potevamo
noi cantare, col piede straniero sopra il cuore”, cantava Salvatore
Quasimodo e con lui la sua generazione. E non era il tedesco,
l'invasore, la tragedia, ma la personificazione in esso della morte.
Pensiamo al Dada. Nasce con la prima guerra mondiale. Il rifiuto del
razionale che ha portato l' uomo a quella follia. Il rifugio
disperato nel non senso, in un balbettio infantile automatico,
banale, ma libero dal male. Da da da da da... come una nenia
autoipnotica.
Ricordo ora, come un
lampo, un ricordo non mio. La madre di un' amica. Di Jasi, in
Romania. Da bambina le sue bambole erano i cadaveri dei soldati. La
campagna, la sua campagna, il paesaggio della sua infanzia ne era
costellato e son entrati nei giochi dell'innocenza che ancora non sa.
E Carlo. Un caro amico
ormai definitivamente partito che ricorda a Marina di Ravenna un
Albero in riva al canale con uomini agganciati per il mento.
Infilzati, che dondolavano al vento, e lui bambino che dava una
spintarella per farli “ballare” di più al ritmo della sua
piccola, innocente, infantile, canzoncina.
E Carlo che si sveglia
alla vita con un pugno del destino che non ti cambia ma ti distrugge.
Il padre e il fratello sono in mezzo al medesimo canale con la barca.
Passano aerei. Mitragliano. Il fratello morto. Il padre quasi
tagliato a metà dai colpi. Lui, ragazzino, si butta, prende la corda
e a nuoto “tira” la barca a riva. Il padre è accasciato. Alla
tempia un po' di cervello. Carlo con tenerezza sconvolta lo pulisce.
L'infanzia è finita. La vita è finita. Dopo un simile colpo puoi
solo essere un fantasma … in un corpo.
Pensiamo al suicidio del
padre di Schopenhauer. La madre che a Weimar e non solo tiene
salotti, interessanti, frivoli, intelligenti..... ma basta
l'intelligenza per digerire l'indigeribile?
Non basterà mai. È per
questo che odio la confusione nata con l' illuminismo, fra
intellettuale e artista, che è diventata la norma nel novecento. Il
pensiero non basta. Il pensiero è una gabbia e la
disperazione-pallina sbatte contro le pareti creando una pressione
crescente che si fa disperazione. E poi la gabbia esplode, l'artista,
torna a legarsi all'anima del mondo, a qualcosa di più grande, che
all'intellettuale non puoi spiegare.
Nietsche pensò, decise,
che sarebbe morto come il padre e si imbizzarrì in una fretta di
vivere, una fretta di senso da trovare alla vita. E all'epilogo siamo
a Torino. La sifilide lo sta corrodendo. Manca poco e la mente si
staccherà per sempre dal suo corpo che vivrà come un sacco, un
sacco con enormi baffi. Qualcuno in strada picchia selvaggiamente un
cavallo. Nietsche scende. Abbraccia il cavallo. Non vuole. Non vuole.
Non vuole. Non è giusto. Crolla. Il tunnel della definitiva follia
si apre. Il cavallo muore. E vi sembrava pazzo l' uomo che abbracciò
il cavallo? O di una sensibilità superiore anche alla soglia della
follia? Aveva abbracciato, nella bestia, la vita che aveva
disperatamente tentato di rendere sensata. La vita. La vita. La
vita..... chi di noi oggi non farebbe come lui....
E ora immaginiamo un
padre che si ammala. Il figlio ha sette anni. Il padre diventa
creatura da ospedale. Un corpo da contendere quotidianamente alla
morte. Il figlio ha sette anni. Il padre trentatré. L'età di
Cristo. Come non pensarlo. Dopo tredici anni di lotta, la morte
vince. Il padre se ne va. Il figlio resta, ma cosa resta in realtà?
Un' ombra.
Il suo corpo, lo ricordo
tuttora con angoscia. era ridotto a poltiglia. Massacrato. Identico a
quei cadaveri pelle e ossa che trovarono nei campi di sterminio e
nelle fosse in giro per l'Ucraina. Non la medesima guerra. Ma anche
senza guerra, il medesimo risultato. E non ero suo figlio. Tentò di
donarmi l'essere padre, ma lo soffocò la lotta con la morte. Io
crebbi vedendo quella battaglia. Impotente, piccolo piccolo, sempre
più piccolo. E l'ho ricreato perfetto nella mia letteratura.
“Ora il tempo è un
signore distratto. È un bambino che dorme”.
E Carducci. Il grande e
grosso Nobel bolognese..... scrisse poesie come si compilano i
cruciverba, ma accadde la realtà, quella vera, che non recita ma
vive. Il figlio dante, piccolino, uno scricciolo, muore. E si levò
dai suoi precordi quel “Pianto antico” struggente, vero. L'albero
a cui tendevi la pargoletta mano....
Mi rifugio spesso in
queste parole di De Andrè. Ricordo che quando dissi che meritava il
Nobel mi risero in faccia. “è un cantante! Non un poeta!” e
invece per me la poesia, quella vera, mi canta dentro, senza
rispettare regole, schemi, doni brutali e riduttivi dell'intelletto
calcolatore.
Torniamo al libro. Spero
di aver creato l'atmosfera pesante, bassa, irrespirabile, che è la
realtà di molti, di tanti spesso silenziosi. Chi soffre veramente
non riesce più nemmeno a urlare. Si spegne. Cenere. Lo vedi solo se
si fa artista. E non sopporto che mi dicano che Nietsche e
Schopenhauer siano filosofi. Un filosofo crea un sistema di regole.
Loro hanno fatto di più. E Helga anche, e anch'io, umilmente, ci
provo.
Conosco persone che hanno
vissuto situazioni potenzialmente drammatiche quanto quelle che ho
descritto, ma non son state scalfite. Mi rendo conto che si deve
avere una superficie più sottile, una corazza imperfetta che da una
incrinatura spesso invisibile, mette a nudo la polpa delicatissima,
dell'anima. Questi, deglutiscono ogni minimo tagliente frammento,
auscultano il dolore col microscopio, non vorrebbero, ma non sanno
fare diversamente, perché ben poco, oltre il dolore è stato loro
donato.
E Ora Helga, sappi che per me sei
sempre la bimba fragile de “Il rogo di Berlino”. Sei la bimba col
nastro bianco che, seduta e con la palla in mano osserva, o forse no,
dalla copertina dell'edizione Adelphi del 2001 che ho fortunosamente
trovato. In quella visita alla madre che hai narrato, nei tuoi
pensieri, non sei mai stata sola. Non potevi saperlo. Ho cercato, io
semplice lettore, di starti vicino. Ma quel che racconti è oltre
ogni immaginazione. Non esiste studio sull'argomento che possa
permettersi di “arrivare” dove arrivi tu perché sei un'Anima che
parla. Un'anima che non ha maschere. Ad un certo livello cadono da
sole. Si fanno insensate. Si fa così urgente l'esigenza di un senso,
di un rifugio, che la lucidità delle parole si fa unica.
Mi fanno ridere le scuole di scrittura.
Per saper scrivere è sufficiente raggiungere quella lucidità e
lasciarsi andare. È l 'anima, non tu, a trovare le parole. Non le
devi cercare. Esse nascono, anzi rinascono con una purezza
primordiale che alla mente razionale non è concessa. Il linguaggio è
ambiguo, imperfetto, impreciso. Incompleto per la razionalità, ma
perfetto per il simbolo, per l'arte.
È uno dei libri più veri più grandi,
che ho letto e ne ho letti a migliaia ormai. Come Kafka sonda
la realtà, la sua, che si eleva a nostra, proprio per questa
sincerità senza limiti. “Il processo” per esempio, rappresenta
la rottura del fidanzamento con Felice Bauer avvenuto in quella
camera d'albergo davanti ad estranei giudicanti e minacciosi. (una
con un cognome così.... per Kafka! Ci voleva una Dora Dyamant....non
di meno....).Lui ha pulito, scarnificato il fatto personale. Lo ha
elevato all'empireo. “il Processo”. Le lettere del titolo, le
gusto una per una. La perfezione.
Helga Schneider non ha fatto di meno.
Leggi questo libro e non riesci più a muovere la mente. Paralisi. Ti
domandi “ma com'è possibile....” e sai che è possibile, che è
stato possibile, che è accaduto.
Solo libri come questo sono in grado di
creare in noi una vera “giornata” atemporale, indimenticabile,
della memoria.
La storia serve a questo, a non
dimenticare per non ripetersi, ma la storia la devono raccontare gli
artisti.... gli storici zappino la terra.
Quando mi si dice che Stalin riuscì ad
avviare l'industrializzazione della Russia, che ci furono quasi
quaranta milioni di morti per realizzare il cambiamento e non una
corda vibra di sgomento per quella tragedia, e sui libri degli
storici accade questo, dico: “storici! Ordinate i dati con la
mente, ma raccontateceli col cuore e, se non siete capaci..... a
zappare la terra.”
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