martedì 17 luglio 2012

Helga Schneider "Lasciami andare, madre"


Esistono libri che covano una potenza immensa. “Lasciami andare, madre” di Helga Schneider rientra in questa categoria.

Tempo fa scrissi parole elogiative per il suo “Il rogo di Berlino”. Questo, che ho letto un anno fa, mi ha marchiato a fuoco e varie volte ho tentato di dire qualcosa, ma mi rendevo conto che ero ancora troppo commosso, travolto, per poter parlare con lucidità.



Devo partire analizzando tutte le variabili in gioco: il Libro e me stesso, in relazione ad esso.



Partiamo da me.



Sono nato a Karlsruhe in Germania, fra Stuttgart e Strasburgo. Mi sento tedesco. Penso di ragionare come loro su tante cose. Forse mi illudo. Esiste una barriera enorme fra ciò che crediamo di essere e quel che effettivamente siamo. Io, di me, posso solo dire quel che appunto credo di essere. Un tedesco. Si. Dentro. E l'Olocausto mi fa un male tremendo. La cultura che adoro, che prediligo, ha commesso un simile omicidio..... non lo tollero. Ho sperato che fosse propaganda, ma non avevo appigli. Ho conosciuto gente dei Campi di concentramento e anche di sterminio, la loro sincerità era vera e non confezionata come quella dei venditori di informazioni (giornalisti e “in-docenti universitari”...). Impossibile sperare che non fosse accaduto. Ho letto lo sgomento dopo quasi mezzo secolo sugli occhi di Mike Buongiorno, e la fragilità dell'esistere che quei momenti creano, in Tonino Guerra, e molti altri nomi si perdono nella vastità della mia curiosità. Boris Pahor per esempio, e gente ormai senza corpo, senza nome, risucchiate da un passato che mi segna prima di tutto perché quella macchia del popolo che sento mio..... pesa un poco come se fosse anche mia.



Mi fa ridere amaramente il modo della nostra epoca di ricordare. “Il giorno della memoria” è ormai standard. È un po’ come andare a messa, ripetere a pappagallo la parte che ci tocca di preghiere, ma nel frattempo pensare ad altro. Non funziona. No, non va.



Penso che la lettura di certi libri invece, valga più di cerimonie smaccatamente esteriori.

Non dico nulla del contenuto del libro della Schneider. Vi parlo della mia reazione. L' ho letto come una febbre crescente. L' ho chiuso e il cervello girava intorno al cuore che si era fermato. Tutto girava a vuoto. Impossibile pensare. Sai che quel che narra è accaduto. È accaduto a lei.



La grande letteratura secondo me non può non essere autobiografica. Possiamo cambiar nomi, situazioni, città, paesaggi.... in fondo possiamo “girare intorno” solo a noi stessi.

Tutta la letteratura è autobiografia. Quel che la rende grande è un percorso verso la lucidità che non si può insegnare. Il suo percorso più noto è quello della sofferenza, ma non è l'unico. Per la Schneider fu comunque quello.



Ci sono eventi, che ci cambiano. Ecco un paio di esempi. Sono imprecisi perché vado a memoria.



Giacomo Leopardi. Gli muore il fratellino piccolo. Anche lui è un bambino, di poco più grande. Lo portano al catafalco sistemato in casa, ecco che vede la morte, la scopre. Prima era solo una parola. Ora è enorme, insondabile. Un vortice che sconvolge, che ti cambia. Ed ecco che da quel momento ogni sollecitazione esistenziale si fa margherita da sfogliare minuziosamente, nella gioia come nel dolore. Ogni accadimento si fa enorme. L' ideale nasce come esigenza di rivalsa verso l'irrimediabilità della morte, la morte resiste, annienta quotidianamente, e quotidianamente Giacomo, ancor bambino, si rialza, si rifugia nella letteratura, annaspa nei corridoi scuri di un'educazione che non spiega, e le pagine son l'unica porta verso un esterno che offre qualche speranza.



Nietsche. Il padre, dopo una breve malattia muore. Qualcosa alla testa. Un liquido scuro che esce dall'orecchio. La fine. Il cervello contorto. Fattosi duro e contratto nella dimensione di una palla da tennis. “e come potevamo noi cantare, col piede straniero sopra il cuore”, cantava Salvatore Quasimodo e con lui la sua generazione. E non era il tedesco, l'invasore, la tragedia, ma la personificazione in esso della morte. Pensiamo al Dada. Nasce con la prima guerra mondiale. Il rifiuto del razionale che ha portato l' uomo a quella follia. Il rifugio disperato nel non senso, in un balbettio infantile automatico, banale, ma libero dal male. Da da da da da... come una nenia autoipnotica.



Ricordo ora, come un lampo, un ricordo non mio. La madre di un' amica. Di Jasi, in Romania. Da bambina le sue bambole erano i cadaveri dei soldati. La campagna, la sua campagna, il paesaggio della sua infanzia ne era costellato e son entrati nei giochi dell'innocenza che ancora non sa.

E Carlo. Un caro amico ormai definitivamente partito che ricorda a Marina di Ravenna un Albero in riva al canale con uomini agganciati per il mento. Infilzati, che dondolavano al vento, e lui bambino che dava una spintarella per farli “ballare” di più al ritmo della sua piccola, innocente, infantile, canzoncina.

E Carlo che si sveglia alla vita con un pugno del destino che non ti cambia ma ti distrugge. Il padre e il fratello sono in mezzo al medesimo canale con la barca. Passano aerei. Mitragliano. Il fratello morto. Il padre quasi tagliato a metà dai colpi. Lui, ragazzino, si butta, prende la corda e a nuoto “tira” la barca a riva. Il padre è accasciato. Alla tempia un po' di cervello. Carlo con tenerezza sconvolta lo pulisce. L'infanzia è finita. La vita è finita. Dopo un simile colpo puoi solo essere un fantasma … in un corpo.



Pensiamo al suicidio del padre di Schopenhauer. La madre che a Weimar e non solo tiene salotti, interessanti, frivoli, intelligenti..... ma basta l'intelligenza per digerire l'indigeribile?

Non basterà mai. È per questo che odio la confusione nata con l' illuminismo, fra intellettuale e artista, che è diventata la norma nel novecento. Il pensiero non basta. Il pensiero è una gabbia e la disperazione-pallina sbatte contro le pareti creando una pressione crescente che si fa disperazione. E poi la gabbia esplode, l'artista, torna a legarsi all'anima del mondo, a qualcosa di più grande, che all'intellettuale non puoi spiegare.



Nietsche pensò, decise, che sarebbe morto come il padre e si imbizzarrì in una fretta di vivere, una fretta di senso da trovare alla vita. E all'epilogo siamo a Torino. La sifilide lo sta corrodendo. Manca poco e la mente si staccherà per sempre dal suo corpo che vivrà come un sacco, un sacco con enormi baffi. Qualcuno in strada picchia selvaggiamente un cavallo. Nietsche scende. Abbraccia il cavallo. Non vuole. Non vuole. Non vuole. Non è giusto. Crolla. Il tunnel della definitiva follia si apre. Il cavallo muore. E vi sembrava pazzo l' uomo che abbracciò il cavallo? O di una sensibilità superiore anche alla soglia della follia? Aveva abbracciato, nella bestia, la vita che aveva disperatamente tentato di rendere sensata. La vita. La vita. La vita..... chi di noi oggi non farebbe come lui....



E ora immaginiamo un padre che si ammala. Il figlio ha sette anni. Il padre diventa creatura da ospedale. Un corpo da contendere quotidianamente alla morte. Il figlio ha sette anni. Il padre trentatré. L'età di Cristo. Come non pensarlo. Dopo tredici anni di lotta, la morte vince. Il padre se ne va. Il figlio resta, ma cosa resta in realtà?

Un' ombra.

Il suo corpo, lo ricordo tuttora con angoscia. era ridotto a poltiglia. Massacrato. Identico a quei cadaveri pelle e ossa che trovarono nei campi di sterminio e nelle fosse in giro per l'Ucraina. Non la medesima guerra. Ma anche senza guerra, il medesimo risultato. E non ero suo figlio. Tentò di donarmi l'essere padre, ma lo soffocò la lotta con la morte. Io crebbi vedendo quella battaglia. Impotente, piccolo piccolo, sempre più piccolo. E l'ho ricreato perfetto nella mia letteratura.



“Ora il tempo è un signore distratto. È un bambino che dorme”.

E Carducci. Il grande e grosso Nobel bolognese..... scrisse poesie come si compilano i cruciverba, ma accadde la realtà, quella vera, che non recita ma vive. Il figlio dante, piccolino, uno scricciolo, muore. E si levò dai suoi precordi quel “Pianto antico” struggente, vero. L'albero a cui tendevi la pargoletta mano....



Mi rifugio spesso in queste parole di De Andrè. Ricordo che quando dissi che meritava il Nobel mi risero in faccia. “è un cantante! Non un poeta!” e invece per me la poesia, quella vera, mi canta dentro, senza rispettare regole, schemi, doni brutali e riduttivi dell'intelletto calcolatore.



Torniamo al libro. Spero di aver creato l'atmosfera pesante, bassa, irrespirabile, che è la realtà di molti, di tanti spesso silenziosi. Chi soffre veramente non riesce più nemmeno a urlare. Si spegne. Cenere. Lo vedi solo se si fa artista. E non sopporto che mi dicano che Nietsche e Schopenhauer siano filosofi. Un filosofo crea un sistema di regole. Loro hanno fatto di più. E Helga anche, e anch'io, umilmente, ci provo.



Conosco persone che hanno vissuto situazioni potenzialmente drammatiche quanto quelle che ho descritto, ma non son state scalfite. Mi rendo conto che si deve avere una superficie più sottile, una corazza imperfetta che da una incrinatura spesso invisibile, mette a nudo la polpa delicatissima, dell'anima. Questi, deglutiscono ogni minimo tagliente frammento, auscultano il dolore col microscopio, non vorrebbero, ma non sanno fare diversamente, perché ben poco, oltre il dolore è stato loro donato.



E Ora Helga, sappi che per me sei sempre la bimba fragile de “Il rogo di Berlino”. Sei la bimba col nastro bianco che, seduta e con la palla in mano osserva, o forse no, dalla copertina dell'edizione Adelphi del 2001 che ho fortunosamente trovato. In quella visita alla madre che hai narrato, nei tuoi pensieri, non sei mai stata sola. Non potevi saperlo. Ho cercato, io semplice lettore, di starti vicino. Ma quel che racconti è oltre ogni immaginazione. Non esiste studio sull'argomento che possa permettersi di “arrivare” dove arrivi tu perché sei un'Anima che parla. Un'anima che non ha maschere. Ad un certo livello cadono da sole. Si fanno insensate. Si fa così urgente l'esigenza di un senso, di un rifugio, che la lucidità delle parole si fa unica.



Mi fanno ridere le scuole di scrittura. Per saper scrivere è sufficiente raggiungere quella lucidità e lasciarsi andare. È l 'anima, non tu, a trovare le parole. Non le devi cercare. Esse nascono, anzi rinascono con una purezza primordiale che alla mente razionale non è concessa. Il linguaggio è ambiguo, imperfetto, impreciso. Incompleto per la razionalità, ma perfetto per il simbolo, per l'arte.



È uno dei libri più veri più grandi, che ho letto e ne ho letti a migliaia ormai. Come Kafka sonda la realtà, la sua, che si eleva a nostra, proprio per questa sincerità senza limiti. “Il processo” per esempio, rappresenta la rottura del fidanzamento con Felice Bauer avvenuto in quella camera d'albergo davanti ad estranei giudicanti e minacciosi. (una con un cognome così.... per Kafka! Ci voleva una Dora Dyamant....non di meno....).Lui ha pulito, scarnificato il fatto personale. Lo ha elevato all'empireo. “il Processo”. Le lettere del titolo, le gusto una per una. La perfezione.



Helga Schneider non ha fatto di meno. Leggi questo libro e non riesci più a muovere la mente. Paralisi. Ti domandi “ma com'è possibile....” e sai che è possibile, che è stato possibile, che è accaduto.



Solo libri come questo sono in grado di creare in noi una vera “giornata” atemporale, indimenticabile, della memoria.



La storia serve a questo, a non dimenticare per non ripetersi, ma la storia la devono raccontare gli artisti.... gli storici zappino la terra.



Quando mi si dice che Stalin riuscì ad avviare l'industrializzazione della Russia, che ci furono quasi quaranta milioni di morti per realizzare il cambiamento e non una corda vibra di sgomento per quella tragedia, e sui libri degli storici accade questo, dico: “storici! Ordinate i dati con la mente, ma raccontateceli col cuore e, se non siete capaci..... a zappare la terra.”










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