KAPO
La fascia andava portata al
braccio sopra la divisa del campo. Il Kapo era un prigioniero come
gli altri, ma per i soldati tedeschi del campo era la figura alla
quale dare ordini ai quali doveva poi obbedire tutta la baracca.
La ricevetti all'età di circa
dodici anni e come accadde merita di essere raccontato e ricordato.
Due anni prima avevo conosciuto
casualmente un ex deportato dei campi. Ero in Tirolo e con mio padre
eravamo andati a salutare una anziana prozia. Casetta tipo baita
delle favole, paesaggio incantevole e giornata di sole. Entrammo nel
classico salottino con la Stube di ceramica e insieme alla prozia
sedeva una coppia. Lui era magro e somigliantissimo ad Hermann Hesse,
la donna di fianco a lui, che scoprii essere la moglie, era piccola sorridente e silenziosa. Ci sedemmo e quell'uomo, che per me era
ancora uno sconosciuto, ci fu presentato. Dissero il nome e mi strinse
la mano. Aveva una camicia bianca e maniche rimboccate. Ricordo che
dal taschino spuntava una penna forse d'argento, che mandò un
bagliore quando si sporse in avanti per i convenevoli. Quando
recuperò la posizione normale e l'improvviso lampo si
spense, vidi al braccio, i numeri tatuati. Non era, come
scoprii poi negli anni da altri ex, riluttante a mostrarla. Sapevo di
cosa si trattava, ma vedere quei numeri lì, davanti a me, mi bloccò.
Non riuscii ad essere controllato. Fui forse maleducato, e li studiai
minuziosamente. Lui se ne rese conto e avvicinò il braccio. Non
sapevo cosa dire e cosa fare. Prese la mia mano e la portò su quei
numeri. Mi disse “chiudi gli occhi … ecco, non c'è niente, non è
successo niente”.
Li riaprii e ritrassi la mano
come se mi fossi scottato. La prozia, il padre e la moglie
dialogavano ma come in un sussurro. Avevano colto la situazione e non
volevano essere d'intralcio. Ero un decenne curioso e leggevo molto.
Sapevo dell'Olocausto e l'avevo presa assai male. Sono nato in
Germania e amavo quella che allora consideravo e sentivo essere la
mia patria. Non ci avevo dormito, non ci volevo credere. Per qualche
settimana avevo pensato che si trattasse di una congiura contro il
popolo più organizzato al mondo e che secondo me tutti invidiavano.
Solo in Germania l'aria era nitida sempre, come dopo un temporale, e
lo era perché tutto era in ordine, tutto era al suo posto. Niente
cartacce, autobus in orario e non come a Roma che quando chiedevi a
che ora passa ti dicevano quando lo vedi c'è!
Io, che mi sentivo tedesco non
potevo accettare quella macchia.
Per questo, non esitai a fare
domande. Dissi “mi racconti qualcosa, la cosa che più l'ha
colpita”, ed usai il tono duro, inquisitore, di chi non vuole, non
può credere, non è disposto a credere. E mi raccontò della fame.
La brodaglia che quando andava bene aveva bucce di patate e quando
andava male nemmeno quelle. Lui era vivo perché aveva un segreto. Mi
chiese se volevo saperlo. Accennai di si col capo. “Andavo dietro
la baracca, con i piedi facevo un minimo di buco, o c'era già quello
che avevo fatto, e ci orinavo dentro; poi aspettavo, spuntava qualche
verme e lo mangiavo. E lo mangiavo in fretta! Non volevo che altri lo
sapessero. Anche i vermi erano pochi. Erano proteine”.
Ci fu un silenzio di ferro. Non
mi ero reso conto ma nella stanza eravamo rimasti noi due. “Devi
fare una prova se vuoi capire la fame. Ti basta un giorno di digiuno.
Fai una cena leggera, leggera, mi raccomando! Poi vai a letto e la
mattina dopo niente, solo un po' d'acqua e niente a pranzo. E poi,
all'ora di cena scegli un cibo a caso, anche semplice come una fetta
di pane e dai un morso. Il sapore dopo il digiuno non è lo stesso
che si sente quando sei sazio. È una piccola esplosione, un
godimento. Pensa ora all'effetto che può fare un cucchiaino di
marmellata dopo una fame durata mesi...”
Mi raccontò che quando
arrivarono i russi era uno scheletro con un po' di pelle, lo misero
su una carriola e lo sistemarono in una baracca diversa, nuova,
pulita, ma in quarantena. Quindi fame per non ricorda quanti giorni.
E poi un ospedale e sua moglie, che era una di quelle infermiere e
che si innamorò di lui … salvandolo, “perché mi mancava
l'essenziale … la voglia di esistere ancora”. Mi raccontò
dell'angoscia del cibo, degli incubi. Della fine quando gli altri,
quelli che riuscivano ancora a muoversi, si abbuffarono e morirono
quasi sul colpo, perché un corpo che non è più abituato a mangiare
scoppia subito. E così, piano piano, cucchiaino dopo cucchiaino, nel
giro di mesi che poi scoprì essere diventati anni, era tornato
decente. Decente … a me sembrava ancora troppo magro, spolpato. Una
figura bronzea di Giacometti. Si vedevano i tendini al polso e quelli
del collo. Il pomo d'Adamo scendeva e saliva sotto la pelle, e il cranio sembrava osso senza pelle poiché aveva quelle
macchie che di solito i vecchi hanno nelle mani. E tutto, dalle
braccia, a … a tutto, sembrava fosse stato macinato, buttato su dei
bastoncini, e poi tolto fino ad ottenere appunto un'opera viva di
Giacometti. Questo comunque lo pensai anni dopo, lo penso ora, perché
allora questo grande svizzero per me non esisteva.
“Secondo lei perché l'hanno
fatto ...” gli chiesi.
“Non lo so. Non so spiegare.
In un'epoca si incrociano tante cose. Penso non ci sia un motivo solo
…. sai, ora sto bene.”
Poi si alzò, mi fece cenno con
la mano e uscimmo. C'era una panca davanti alla casa e la valle era
stupenda nel sole del pomeriggio. Luce quasi radente, ombre lunghe.
Si sedette. Battè con la mano sul legno e mi misi di fianco. “Sei
curioso. Bello essere così. Io non lo sono più.”
Sua moglie, che ora mi sembrava
irreale come una fatina, ci portò dell'infuso ai frutti di bosco e
un dolce fatto in casa. Lo osservai mangiare. Cercavo di cogliere
dell'ingordigia, qualcosa di anomalo, come quando i parenti e i preti
di fronte al morente cercavano di cogliere, nell'attimo supremo,
l'anima che prendeva il volo.
Mangiò normalmente, disse che
il dolce era buono. Il padre uscì, salutò, io baciai
la prozia e strinsi la mano a lui scrutandolo intensamente per
l'ultima volta mentre la moglie-fatina era rimasta in casa.
Il padre durante la camminata di
ritorno, non disse nulla. Immaginava sicuramente in quali sentieri si
dibatteva il mio pensiero e lui ne era parte perché da anni, da
quando ne avevo sette, stava morendo. Sapeva che lo sapevo. Sapeva
che la notte sognavo di giocare a scacchi con la morte e che la
partita non finiva mai e mi svegliavo con il terrore di perdere.
Dipendeva da me, e non potevo sbagliare. l'aveva letto in un racconto che
avevo scritto e nascosto in un mio libro che un giorno decise di
leggere perché mi aveva turbato; era il Moby Dick di quel capitano
Achab che si apprestava a combattere una battaglia che sentivo
assurda perché perduta in partenza. troppo forte la balena bianca, troppo fragile, indifesa, la nave del capitano. Me lo raccontò qualche tempo dopo, che
l'aveva letto il mio racconto dove giocavo a scacchi con la morte, me lo disse una sera che si giocava a scacchi e non riuscì a
terminare perché il male come una carie, lavorava minuziosamente. Me
lo disse così, con una strana leggerezza, come quando si parla della
pioggia di domani.
Passarono due anni. E di nuovo fui in Tirolo, con mio padre che ormai somigliava ad uno dei campi.
La prozia ci riceve e sembra ieri. Il medesimo sole, la valle stupenda. Lui è li nel salotto con la moglie-fata e penso che l'amore funziona solo quando un uomo è completamente indifeso perché è della donna l'istinto di salvare, fa parte dell'istinto materno, fa parte di qualcosa che immagino, temo e non conosco. La osservo e nel frattempo stringo la mano col numero.
La prozia ci riceve e sembra ieri. Il medesimo sole, la valle stupenda. Lui è li nel salotto con la moglie-fata e penso che l'amore funziona solo quando un uomo è completamente indifeso perché è della donna l'istinto di salvare, fa parte dell'istinto materno, fa parte di qualcosa che immagino, temo e non conosco. La osservo e nel frattempo stringo la mano col numero.
“Hai letto qualcosa sui
campi?”
“Si, ma ho sempre
l'impressione che scrivano certe cose perché sanno che vendono.”
“Giusto. Tutto sta diventando
mercato. Tutto ormai ha un prezzo, e anche le sofferenze rendono.
Pensaci. Gli artisti raccontano le loro, gli storici e i cinici,
quelle degli altri.”
“Ma allora per lei uno storico
è un cinico?”
“Penso di no. Probabilmente
sarà anche in buona fede, ma secondo me si possono raccontare solo
le cose che si son vissute.”
Mi chiede se ho provato a
digiunare.
Gli dico che l'ho fatto due
volte. La prima volta, giunto a sera, come mi aveva consigliato lui,
decisi di mangiare un cracker … ed ecco che appena le briciole
entrarono in contatto con la lingua, il sapore, che di
solito era qualcosa di appena accennato, lo colsi più forte, più
rotondo, pieno di sfumature. Già al secondo pezzo l'effetto non era
più così coinvolgente.
Provai poi, poco tempo dopo, un
digiuno di due giorni. Per me non è mai stato difficile non
mangiare. Se leggo qualcosa di avvincente tuttora salto il pasto
perché mi dimentico. Il padre in ospedale, io a casa da solo e
quindi potevo sperimentare liberamente. Alla sera del secondo giorno di digiuno,
la mano prese il cracker con un nervosismo che non era il mio. La
osservai come cosa estranea, avvicinarsi in fretta alla bocca, e il
sapore fu un petardo. Allora piansi, lo ricordo, perché compresi che
era vero, erano veri i campi, i milioni di morti. Quella prova,
quella sensazione verso la quale mi ero incamminato su suo consiglio,
la immaginai protratta per giorni e giorni nei quali una fetta di
pane e una brodaglia insipida era tutto quel che davano, e dovevano
lavorare duro ... resistere al freddo. Ho compreso la sua reazione
davanti ad un cucchiaino di marmellata, davanti al vaso che avrebbe
divorato tutto lasciandoci sicuramente la pelle se non lo avessero
dissuaso con la forza. Quel sapore esplosivo, enorme, possente che la
fame dona anche ad un verme che mastichi vivo!
Sorrideva mentre descrivevo.
Dalla tasca prese una tela chiara con una stella di David e la
scritta Kapo. La appoggiò sul tavolo.
Non osai toccarla.
“Ora ascolta. L'avevano
nominato Kapo. Per noi era un privilegiato, per noi era diventato il
timore. Decideva chi andava al lavoro duro dei sacchi, chi a quelli
leggeri. Un giorno entrò il soldato nero e disse. Tre da qui vengono
con me. Scegli tu. Sapevamo di un tentativo di fuga che era stato
scoperto. Presero gente da ogni baracca e la impiccarono. Lui dovette
sceglierne tre.
Io vivevo con la fame. Per me
esisteva solo lei. Non capivo altro. Il giorno dopo mi mise fra
quelli che dovevano fare il lavoro pesante e gli dissi “non sei più
lo stesso. Non ti riconosco” lui reagì urlando. Si tolse la fascia
e me la gettò. Questa fascia qui. Uscì dalla baracca e non tornò
più.”
Il silenzio era enorme. Vedevo
che stava soffrendo.
“E dove può essere andato”.
“Ma come! Non capisci! Stava
male per i tre impiccati che dovette scegliere e io l'ho fatto
esplodere! Nei campi eravamo tutti contro tutti, tutti coi nervi a
fior di pelle!”
Aveva urlato. Aveva dato un
pugno sul tavolo con quella mano marchiata...
La moglie-fata gli asciugò il
sudore, mi sorrise dolcemente e fece un lieve cenno del capo come per
dire “nooo, non è successo niente”.
Mio Padre prese la scacchiera e
giocarono. Due morti giocavano, e io non resistetti, uscii cercando quel panorama bellissimo ma non c'era, non c'era più niente.
Passò un tempo che non so spiegare e mi accorsi che lui era li,
seduto di fianco a me.
“Come stai” mi chiese.
“Non lo so”.
“Tieni. Tienila tu.”
Lo guardai sbalordito. La fascia
era nelle mie mani e lui tornò dentro. La osservai attentamente. Le
cuciture precise della stoffa chiara e i punti forse fatti a mano
della stoffa azzurra, e una macchia. Forse sangue, forse no.
Uscì il padre con la prozia, la
moglie-fata e lui. Ci salutammo sorridendo come dopo un temporale.
Mi incamminai alla sua destra, e
dopo una decina di minuti di silenzio glielo dissi: “Pa', mi ha
dato la fascia da Kapo”
“lo so. Per questo siamo
venuti oggi, aveva deciso di dartela.”
“Ma … perché a me”
“Perché sta morendo”.
Dopo un altro silenzio
lunghissimo aggiunse; “sei l'unico che gli ha fatto delle domande,
sei l'unico che ha provato a digiunare.”
Ora, dopo tanti anni, di noi
cinque, solo io continuo ad esistere, e la fascia è qui, con me, che
mi ricorda David, che mi ricorda che quella follia è veramente
accaduta. E' qui che mi ricorda che l'essere umano può impazzire,
che domani verrà ma se non si cresce dentro, se non si coltiva la
gentilezza, se la regola fondante della Bibbia non viene rispettata,
ogni uomo può diventare un mostro. Non fare agli altri quel che non
vuoi che sia fatto a te, ecco la Bibbia nel suo concetto
fondamentale, ecco la vita nella sua legge fondante.
I kapò esistono ed esisteranno sempre
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