lunedì 17 agosto 2015

Amantea: (seconda parte, l'opera di Pietro Bonavita)



La mia conoscenza dell'umanità di Amantea, come ho accennato nello scritto precedente, è stata particolare, poiché il caso mi ha portato ad avere a che fare quasi esclusivamente con artisti. Per non costringere il lettore a cercare la mia definizione di arte, che si cela in più di uno dei precedenti centosessantotto scritti del blog, preferisco ripetermi.
Artista è colui che, causa una crisi, deve esprimere un mondo interiore, renderlo concreto ai sensi. Dipingere, comporre, scolpire eccetera, sono voci che ci parlano direttamente, quasi sempre dall'inconscio dell'artista. Spesso egli sente l'urgenza di creare un'immagine; ne è parzialmente soddisfatto, ma non sa spiegare a fondo il suo operato. Col primo dei due artisti che racconterò, questa situazione di incapacità si è presentata chiarissima e ha favorito il dialogo.
Sto parlando di Pietro Bonavita, sul quale scriverò spero minuziosamente, poiché ho potuto conoscerlo con calma e tempo.
Per offrirvi l'enigma presente nelle sue opere, secondo me migliori, vi metto ora nella situazione nella quale ci trovammo la prima volta che ho visto le sue tele. Eravamo al piano terra della Galleria Amantea dove da poco era terminata la sua esposizione. Dal magazzino hanno preso le tele e le hanno disposte nell'atrio, sufficientemente luminoso. Gli ho detto subito “secondo me ci siamo” e vi spiego cosa intendevo dire.

Secondo me non esiste il critico. È una volgarissima figura finta creata dal mercato dell'arte e dalle università per avere guadagni supplementari e riuscire a vendere certe robacce, facendo sentire l'acquirente in inferiorità culturale. Se togliamo il velo ridicolo a questa recita scopriamo quanto segue: il critico è colui che viene pagato, spesso profumatamente, per parlare bene di chi? Dell'artista che lo paga a volte direttamente, a volte tramite il gallerista. Ci impressioneranno lauree e altri titoli, abiti da jet set e frequentazioni pregiate … ma è appunto tutta un'apparenza. Una falsificazione. Lo paghi e parla bene, non lo paghi e tace. E il bello è che lo sappiamo tutti. È necessario, nel campo dell'arte, ascoltare il pensiero di un artista su un altro artista e non di un intellettuale o di un prezzolato. Fra queste ultime due specie la differenza è minima anzi, forse inesistente. L'intellettuale pensa, a volte liberamente, un prezzolato crea castelli di parole in un linguaggio solitamente criptico per … guadagnare. Spesso finti artisti si cimentano per vendere se stessi e fanno veramente tenerezza. Eccovi un caso celebre. Kandinskij. Il suo scritto, “punto linea e superficie”, nelle prime pagine abusa talmente della parola “scientifico” da darmi la sensazione che voglia convincere se stesso prima del lettore e, diciamocelo chiaro e tondo, nell'arte di scientifico non c'è proprio nulla. È il cuore di un uomo che parla al cuore del mondo e diventa capolavoro quando la sintonia fra i due è completa, caso non rarissimo e ... si sa che accade. Beethoven, Michelangelo, Luigi Boccherini, Arcangelo Corelli, Alberto Savinio, Elsa Morante, Marguerite Yourcenar, Simenon, Maugham, Mandel'stam, Lorenzo Bartolini … e l'elenco, se mi lascio andare, diventa lunghissimo! In tre millenni di cultura occidentale, per limitarci a questa, di opere eccellenti ne sono nate molte. Possiamo ormai vivere a contatto quasi esclusivamente con una qualità sublime che è dialogo con la nostra anima, con l'anima del mondo. Dimenticavo; (volutamente, in quel breve elenco ho messo nomi notissimi di fianco a noti proprio per stimolare la curiosità...).

Quando ho detto a Pietro quel “secondo me ci siamo” nemmeno lui era ancora consapevole del significato profondo che per me questa frase contiene. Per me l'opera deve essere simbolica. Se per qualcuno questa è un eresia, gli dico di lasciar perdere lo scritto poiché, dopo anni di studi, di vita da artista e fra artisti sommata a studio continuo a ritmi moooolto elevati, mi permetto di dire che ne sono certo, e il motivo è il seguente: l'io conscio, usa la razionalità, l'io inconscio, i simboli. Quando accade che un umano passi dalla razionalità al simbolo, vuol dire che in lui è accaduto qualcosa di triste che lo ha colpito talmente a fondo che il “sasso” che ha distrutto l'io razionale, è arrivato col suo agire distruttivo, fino mare profondo dell'io, luogo nel quale le sensazioni, ancora senza forma di parola, schivando il piano di elaborazione razionale e vengono in superficie pure, incontaminate e appunto ancora simboliche.
L'arista si trova quindi fra le mani della mente, un simbolo che chiede insistentemente non di essere compreso, e di essere trasformato in oggetto sensibile (quadro, scultura ecc). Una volta compiuta l'opera, l'artista non è quasi mai appagato completamente poiché la totalità di significato del simbolo, quando ancora giace nella mente, è pressochè totale, diciamo al cento per cento, ma quando lo si trasforma in oggetto sensibile, sempre si perde una frazione anche minima di quella totalità. L'artista si trova davanti ad un novanta per cento di simbologia espressa e quel dieci per cento, nel scendere dall'idea alla materia (diranno ora che sono un neoplatonico e invece ero juventino e ora sono ateo …), lo tedierà portandolo ad una ricerca continua di miglioramento facendo in modo che che si possano produrre serie di opere simili ma mai uguali.
Ebbene, tenendo conto che il mio agire non vuole giudicare … nemmeno un vero dio giudica ma perdona … ma cercare di comprendere, a questo punto sarà evidente al lettore che avevo scovato il simbolo nelle opere di Pietro Bonavita.
Di tutte le opere che mi mostrarono, concentrai l'attenzione di Pietro su due tele, e sono quelle che vedete qui di seguito.







É l'uso di quel rosso che deve, non farci pensare, perché se si pensa con l'arte non si va da nessuna parte, ma concentrare. Il fruitore non ha bisogno di cultura se non per le opere che non appartengono al suo mondo o alla sua epoca. Per “entrare” in un testo anche solo di cinquant'anni fa, probabilmente ci servirà una descrizione di un mondo ormai perduto. Solo in rari casi questo problema non esiste, ma non ne parlo ora. Per la differenza di zone ci basti il problema serio che è per un occidentale affrontare per esempio l'arte giapponese anche del presente poiché, nonostante la globalizzazione, che mai sarà totalizzante, certe caratteristiche sono radici non condivisibili di un popolo e comprensibili solo se vissute ... e non basta certo averle studiate.
(un esempio per tutti. Per l'occidente la purezza verginale della sposa si rappresenta col bianco, in Giappone il bianco è lutto. La radice del simbolo è la medesima, essendo per l'io profondo, sia il bianco che il nero, dei non “non colori” che aprono e chiudono la gamma cromatica identificandosi con un totale di luce e con la sua completa assenza, e lo desumiamo dalla medesima radice delle parole del nostro comune linguaggio occidentale, ovvero le consonanti B e L che nelle parole BLanco e BLack, coesistono apparentemente in contraddizione, essendo, dicevo, per l'io profondo sia bianco che nero, densi di significato che si dirama da un'unica fonte, l'assenza di colore, solo la conoscenza, un poco, ci guida, ma mai come l'esperienza).

Valutiamo prima di tutto se la contestualizzazione culturale e temporale possa essere per noi un ostacolo nella decifrazione di queste due opere. Pietro é calabrese, e le due opere che osserviamo rappresentano luoghi della sua terra, ma mi sembra possano essere considerate come generiche vie nelle quali si muovono non uomini pieni, veri, totali, ma ombre. Il suo essere calabrese secondo me, in queste due tele non crea problemi di interpretazione; non sento la necessità di affrontare un'analisi di una identità culturale, almeno per ora.
Fattore temporale. Le opere appartengono al presente nel quale sia lui che noi siamo immersi, e l'unica distanza effettiva è che il suo io è suo ed è differente dal nostro ma, come ho precedentemente accennato, l'opera riuscita esprime simboli che appartengono sì all'individuo, ma la sua profondità, dalla quale li ha con sofferenza recuperati, è un di io condiviso e, se “sentiamo” questa specie indescrivibile di colpo al cuore dell'anima, questa lieve destabilizzazione che ci fa capire che abbiamo capito, in qualche anfratto dell'io, che non siamo più abituati a sondare, allora l'opera vale, ha senso, è utile e ci fa bene, poiché ci rende consapevoli in modo più completo. A questo punto, nel limite del possibile, elaborare razionalmente è l'unico modo d comprender per chi non sa più abbeverarsi al simbolo nel modo più puro possibile che è quello nel quale l'artista ce lo offre,

Osserviamo le due opere, tenendo conto che dalla visione totale di tutte si ha una sensazione, che per ora definisco strana, perché si hanno vicoli e inquadrature che possono essere esteticamente appaganti ma, per due motivi, lasciano un poco di amaro in bocca: si “sente” che tutti i colori sono “fatti” col nero, che esso corregge rendendo ogni tonalità composta da colore sommato ad una sensazione di grigio. Stadio lievemente depressivo, insoddisfazione, ecco cosa “sento”. Secondo punto. Le vie, gli scorci, sono disabitati oppure appaiono esseri ombra.
Sulla dimensione depressiva nelle opere degli artisti “VERI!!!” porto qualche esempio.
Picasso e il periodo blu. Il blu rappresenta la consapevolezza di essere depressi, quindi il primo grado del recupero di se stessi e l'inizio del lento rivitalizzarsi dell'io. Mi ci è voluto del tempo per comprenderlo. É l'azzurro che può essere positivo. Quasi mai il blu. Per arrivarci il ragionamento è passato per le poesie di guerra di Ungaretti. Il poeta sul Carso soffre e il linguaggio si fa scarno, essenziale. Mi rendo conto che anch'io, in momenti di sofferenza estrema, tendevo a ridurre il linguaggio all'osso. Picasso che non parla ma dipinge, riduce al minimo la tavolozza come faceva Ungaretti con gli aggettivi che sono il colore della frase, e sceglie non a caso quel colore. Mentre era sofferenza pura, soffriva e basta, quando ha iniziato a riprendersi, l'urgenza di esprimersi era tale che la semplificazione era d'obbligo. L'azione pittorica doveva essere compressa al massimo, immediata, non meditata, che la sofferenza della meditazione non sa proprio che farsene. La domanda che i critici non si sono mai posti è la seguente: Picasso quando faceva quelle opere soffriva in modo tremendo. Cosa gli faceva così male? Rispondere equivale a capire quasi tutta la sua opera che quindi … è attualmente incompresa. Per facilitare la visione dei colori veramente “depressi”, porto un altro esempio sul quale ci si può documentare con un click su internet. Munch dipinse in fase depressiva acuta e utilizzava colori che non esito a definire col termine di acidi, quindi prevalentemente marrone giallo e verde. 
Vi sono poi altri metodi per rendere idea di una situazione depressiva. Domenico Gnoli con le sue sale da pranzo vuote e i tavolo così vicino che non possono starci sedie e vanno a perdita d'occhio e i suoi alberi-nervi, nelle incisioni con i corvi macchia, malattia dell'io e la scoraggiante ripetitività di Morandi che, se ne vedi un paio dici che è notevole, ma se vedi una mostra alla fine ti annoi.

Per far comprendere la differenza fra un artista vero e un artista che si atteggia, si pensi ora al diverso utilizzo che, della categoria depressivo, questi potrebbero fare da quanto ho appena spiegato. L'artista prende atto e studia il suo io osservando le opere che ha fatto utilizzando quei ragionamenti; l'artista finto (o intellettuale, quindi che pensa), se va di moda l'arte depressoide, ecco che prenderà le categorie che ho proposto e, consapevolmente (errore spaventoso!) le applicherà. Il problema è che il vero artista percepisce subito la finzione del finto collega e si allontana con dileggio. Meglio la solitudine che certe conoscenze … che si atteggiano.

Torniamo alle due tele di Pietro Bonavita. La nota stridente, lo cogliamo subito anche senza lauree, è quel rosso vivo che non è in armonia con gli altri colori. Stride, e appare stranamente nei lampioni. Si sostituisce quindi alla luce oppure è una luce diversa da quella percepita dai sensi? Poi scopriamo che il corpo ombra che sale le scale ha, più o meno nel punto del cuore, una macchia del medesimo rosso.
Dico a Pietro. “Ecco il simbolo! Mi sai dire perché la lampada e lui, l'uomo ombra, hanno la medesima macchia rossa?” Pietro risponde: “non lo so” e io chiudo dicendo “ne parliamo domani” dandogli così il tempo non per decifrare, perché ne serve molto per chi ha creato e poco per chi osserva, ma per instaurare in lui la consapevolezza di quell'affinità di senso.
Ora devo spiegare una cosa del simbolo. Non è esprimibile in parole. É un po come definire Brahma nella religione indù. È impossibile. Si può dire quel che Brahma non è e non quel che è. Il simbolo, allo stesso modo, rappresenta un'area di significati mentre invece la parola razionale, ha come compito assegnato quello di dare uno e uno solo, significato, di solito preciso. Spiegare quindi il simbolo di Pietro Bonavita è impossibile. Posso solo avvicinarvi ai confini della sua area di senso, e ora ci provo.
Dalla lampada esce la luce rossa. Quel rosso è l'anima che è quindi in un bel connubio con l'energia. Anima=energia. Per questo la macchia rossa è anche nell'uomo-ombra in modo lecito e sensato. L'energia-anima dell'uomo è poca, per questo è ridotto ad un'ombra? Ora: è per me evidente che si sta esprimendo una sofferenza, in questo caso non travolgente ma sottile, e per comprendere di più sento l'esigenza di sondare le dimensioni tempo (il tempo personale dell'artista, poiché il tempo cronologico, essendo condiviso col nostro si neutralizza da solo) e l'influenza del luogo poiché comunque un denominatore comune dell'opera è Amantea con le sue viuzze caratteristiche. Si tratta comunque di una carenza di energia esistenziale, le vecchie lampade, dal loro passato, continuano produrre nel presente, un'energia che è anima, che è atmosfera, senso esistenziale, ma che solo come rimasuglio distante, non più utilizzabile, viene percepito da umani che di conseguenza si riducono ad ombra di sé stessi, non comprendendo che solo nutrendosi da quella antica, direi atemporale fonte, avranno in dono la pienezza dell'esistere.

A questo punto, per avvicinarci ancora di più al simbolo, (di più non posso fare, poi ognuno deve inoltrarsi in esso in solitudine), vi offro il risultato della conoscenza personale che ho avuto occasione di fare con l'artista.

La presentazione iniziale è stata piuttosto formale. Il primo incontro sensato è avvenuto il giorno dopo. Ho ormai l'abitudine di alzarmi presto. Alle sette ero già fuori dall'uscio del Palazzo Carratelli ove sono ospite. Mentre scendevo pensavo che, nonostante in quell'antico edificio avessero dormito almeno un papa e un re, nessun fantasma era venuto nella notte a fare un giretto. Con Gianludovico, il padrone di casa, l'ho detto con vena scherzosa e ha confermato che “presenze” non se ne sono mai percepite, Allora gli ho risposto che, o non ci sono oppure si trovano bene e non hanno lamentele. Scendendo da Amantea alta ad Amantea Bassa, facevo come l'acqua e cercavo la via più breve per arrivare al centro del paese che mi era stato indicato con un dito immerso nel panorama, la sera precedente. Mi ritrovo così in una piazzetta che ha, su un lato breve, un locale che si chiama Amarcord! La presenza fantasmica di un caro amico mi dice che devo sentirmi a mio agio? Che nulla di negativo mi attende? Di Tonino Guerra, carissimo amico, autore di quel film, mi son sempre fidato ciecamente e, con la sua presenza di fianco, che mi tiene a braccetto, poiché desiderava tanto camminare negli ultimi anni ma per lui era ormai assai faticoso! mi avvio, ben guidato e arrivo in una piazzetta che mi offre la vetrina di un negozio di strumenti musicali. Mi incanta un minuscolo violino. Sembra fatto apposta per un bimbo di quattro anni e … sembra vero! Ma suonerà? Funziona? E immaginando, mi ritrovo seduto al un tavolino interno del caffè Caruso, nome così musicale che di più non si può chiedere ad una piazza. Tonino si dissolve al rumore della televisione, non prima di avermi promesso di ricomparire, e mi immergo in un brevissimo telegiornale seguito dalle previsioni del tempo. Avevo nel frattempo ordinato il mio rituale cappuccino e una brioche che dalla vetrinetta mi faceva l'occhiolino, seducente. Mi sentivo osservato poiché a quell'ora, erano le sette e venti, non erano certo abituati a vedere turisti. Per me manducare qualcosa la mattina è un'abitudine irrinunciabile. Soddisfatta la carne, mi sono allungato nell'adiacente edicola, ho preso un quotidiano e mi sono immerso nella lettura. Simulavo un'attenzione che forse sembrava esagerata ma appunto mi sentivo un po', poco comunque, a disagio. Avevo nel frattempo notato un avventore che conoscevo, Pietro Bonavita, ma non avevo agito perché non sapevo quantificare la formalità di quanto accaduto nella presentazione del giorno prima. Verso le sette e mezza mi sento dire “Buon giorno!” in modo squillante, chiede se può sedere e si chiacchiera leggermente. Mi dice che ha da fare e gli dico che la mia abitudine di alzarmi presto sfocerà in una passeggiata curiosa. Mi consiglia il sottopasso in direzione del mare perché “è stato dipinto”. Ci lasciamo e, prima vagando, di nuovo in compagnia del fantasmico Tonino, mi avvio per una strada che non capisco se è la “via dello struscio” e, attirato da un canto di chiesa, mi siedo al caffè Juliano 



girando la sedia in modo da poter vedere la chiesa, in cima ad una salitella, che mi dicono essere dei Cappuccini. Prendo il secondo caffè, scusa minima per poter usufruire della seduta e ascoltiamo questo salmodiare per nulla nervoso. Voci anziane, calme, che mi sembrano rassegnate. Mi alzo e sempre con Tonino, e giungo ad un metro dall'entrata ma senza inoltrarmi fra la gente. La porta centrale è spalancata, osservo i fedeli. Si, anziani e donne. Uno sguardo a freccia mi sfiora, lo evito mettendo gli occhiali da sole. Aveva un visetto delizioso e qualcosa di cattivo nelle labbra questa ennesima reincarnazione di Eris, che mi risulta sia nata sull'altra costa non troppo distante da qui, e mi incammino tornando, al bar Caruso, per vedere imboccare la via indicatami che porta ai dipinti del sottopasso.












Nel frattempo Tonino mi fa notare con un certo disappunto che il proprietario del “suo”, Amarcord, non sa che lui ha disegnato dei piatti e fatto delle etichette per bottiglie di vino e mi chiede di avvisarlo. Sarà fatto. E mentre rincaso con calma, schiacciato dal primo caldo che rende la salita ardua, mi saluta e sparisce con un sorriso che mi fa … sorridere.

Pietro Bonavita, per nulla invadente e composto, aveva accennato ad un pranzo con Gianludovico e Camilla. Non avevo capito per quando e, a mezzogiorno siamo partiti in macchina per un agriturismo dell'interno. Là ci attendevano l'artista con la moglie e il figlio novenne. Il dialogo si è fatto immediatamente fluido e appassionato. Quattro menti artistoidi si misuravano, mentre invece la moglie di Pietro si asteneva dall'intervenire. Gianludovico ha sempre detto che lui in fondo ha il talento di organizzare; io l'ho rincuorato facendogli notare che senza gente come lui gli artisti non li noterebbe nessuno, ma ho anche intuito che scrive, non può riuscire a non scrivere una mente come la sua! e alla fine ha confessato la sua “colpa”. Camilla è una scultrice per me assai interessante, ed infatti ho già scritto su di lei in occasione di una mostra a Castel sat'Angelo ovviamente a Roma, Pietro che dipinge e infine io, che scribacchio lasciandomi andare completamente all'io interiore combinando forse, caos e nozionismo, in una miscela che richiede un buon digestivo e spesso una dolce euchessina per riprendersi .. sono il quarto fra cotanto senno.
Mi rendo conto che, non per la forza di Bacco, si è creata una piacevole euforia e capisco velocemente la causa. Finalmente quattro teste artistoidi, o matte se preferite, possono misurarsi nel dialogo. Si confrontano estetiche con aneddoti ed esperienze varie, si consiglia e sconsiglia a piene mani, consapevoli tutti che non ci sarà il dovere di seguire una delle vie indicate perché la libertà assoluta è fondamento essenziale per creare. Arriva il termine del lungo pranzo, condito da un allegro temporale e, una calorosa stretta di mano di Pietro mi fa comprendere che è appagato. Aggiunge, un secondo prima di partire, che gli piacerebbe mostrarmi il suo studio. Accetto curioso, ma anche perché desidero continuare a quattr'occhi il discorso sul suo rosso-anima.

Ed eccomi, in un pomeriggio caldo, avviati allo studio. Ci siamo incamminati per un vicolo, le foto ve ne mostrano qualche scorcio (foto da me medesimo scattate... quindi abbiate un poco di perdono che di solito sono così imbranato a far fotografie che sempre fa capolino un dito e stavolta, con grande sforzo son riuscito ad evitare almeno questa bruttura!).








La stradina in salita porta alla parte alta di Amantea alta. Una porta dipinta. La apre e un ambiente fuori dai canoni ai quali siamo abituati, si mostra. Le foto ci accompagnano nelle stanze dipinte a colori sereni. 








Mi dice che mediamente ogni anno ridipinge per avere la sensazione di un ambiente rinnovato. Gli oggetti che vedo son dei recuperi. Solo li esistono ancora? È questo il senso? Di un antenato che viveva di mare, ecco una piccola composizione a statuette con pescatori, e nella stanza più in fondo un tavolino che è una bara con dentro lucine e un piano trasparente e un cartello che nella foto si può leggere.



Ecco il messaggio. Non si può più sognare. Ma sognare è un modo di vivere irrinunciabile per i vivi! Questo gli dico. Comprendo che quello studio è un luogo che si colloca fuori dal tempo presente, che recupera qualcosa, e che la vita che vi si svolge è un rituale perduto. Gli spiego cosa penso del rosso dei suoi quadri. Ammette di non averci mai pensato e gli dico che sono d'accordo, che è giusto così. Per lui, in quanto artista, essersi liberato del simbolo e aver condiviso un peso con chi vedrà l'opera, è una forma di alleggerimento interiore. E poi mi dice che li si fanno spesso mangiate è chi la sorte fa passare dalla viuzza viene invitato ad aggregarsi allegramente. Aggiunge poi: “vedi, le mie opere sono disabitate. Non mancano solo le persone, ma anche i pani stesi, gli odori. È una vita, un modo di vivere, di sentire, che era secondo me intenso e pieno, che si sta perdendo”. Gli faccio notare che i panni può rappresentarli come fantasmici esattamente come le poche figure che si avventurano in quelle viuzze ormai deserte di vita. E' d'accordo. “e per gli odori?” chiedo, “che si può fare?” e dalla stanza a fianco mi strizza l'occhio Tonino che ha trovato l fiasco e beve un bicchiere con soddisfazione, lui così “avanti”, così all'avanguardia nella sua opera cinematografica, e così legato alla tradizione, al dialetto, alla terra. Il profumo nelle opere non ci entra a meno che non utilizzi la pasta di acciughe col grigio per esempio, penso, ma col tempo puzza. Non sto scherzando. L'olfatto, veicolo di ricordi santificato da Proust, è escluso dalla pittura e dal cinema e, rincasando, penso che il vicolo dovrebbe essere costellato di studi di artisti con le porte spalancate. Quella antica salitella, scalcinata ma affascinante tornerebbe alla vita. Restaurare un minimo e far sapere ad artisti, anche di fuori, che se vengono gli viene dato per starci un'estate o anche più, in cambio per esempio del quindici per cento sul venduto! Tonino, che nel frattempo è ricomparso, mi consiglia la ceramica, che adora. I numeri civici, mi dice, in ocra e azzurro su fondo bianco sporco. E qua e là una meridiana. Le insegne in ferro passato all'aceto per avere un effetto ruggine omogeneo che dura inalterato e più invecchia più è gradevole, che sul vecchio dei vicoli il nuovo e il nuovissimo ci stanno come cavoli a merenda. “Un anno di galera a chi ha messo questi infissi di alluminio!” Grido, “e un altro anno a chi ha fatto 'sta porta e quella finestra di un blu che è un pugno in un occhio!”, e … la porta blu si apre, esce un signore educatissimo che saluta Pietro e fa un cenno a me, mentre Tonino sghignazza e mi dice “eccotelo servito ed è pure bello grosso!” sono allegro. Non bevo più da un pezzo e comunque mai ho ecceduto, raramente ormai una birra e quasi mai per mia scelta. É la situazione che è bella. La casa-studio di un artista, così fuori dagli schemi, mi fa sentire vivo, e penso a turisti che si inerpicano e mettono il naso in queste stanze che promettono novità in un mondo che non ne sa più dare di decenti.
Il mattino seguente ci troviamo da Caruso e mi porta a visitare il mercato degli ortaggi e della frutta.







Lascio una fetta di cuore a certi barattoli che in nord Italia l'unità sanitaria bloccherebbe senza scampo. Qui, a casa “lavorano” le verdure e poi questi sapori antichi ed eccellenti, messi casalingamente sotto vetro, riescono ancora ad avere un mercato. Al nord dovrebbero re istituire un mercato nero delle delizie, ora che l'unione Europea ha reso lecito produrre per esempio cioccolata senza cacao e latticini senza … latte mi aspetto delle brutture ben presentate che mi vien voglia di campare d'aria! E mi inebrio di quantità e di profumi, fotografando, che diventa un modo assai dietetico di mangiare tutto quel che mi si offre gaiamente alla vista.

Mi sono lasciato andare. Può non piacere come ho scritto, ma mi son lasciato andare con serenità al ricordo recente, rivivendo con una discreta intensità quei momenti. E di Pietro ora so che di individuale, quindi che va detto perché dalle opere per ora non traspare, di individuale dicevo, emerge questa nostalgia di una Amantea compatta, nella quale il pescatore come il nonno, che aveva avuto una pesca abbondante, con un rito di cortesie che non riesce a dimenticare, cercava di donare al vicino un poco di pesce azzurro. Questi in altre occasioni aveva ricevuto una cipolla, qualche aglio da un orto che si era permesso di eccedere un poco dalla stretta necessità .. insomma, tramite il cibo, più che tramite le tante chiese … meditate gente, meditate, ... un senso di comunità che gli manca immensamente. Ed è modernità, girare per i vicoli con l'anima rossa di sangue e di energia, con le vecchie lampade che sanguinano luce che si è fatta sofferente perché nulla è rimasto di tanti gesti gentili. E lui, l'artista, che viene chiamato in paese Monsieur, ma con rispetto, perché spesso è stato e va in Francia, e che è in procinto di tornare a New York, in autunno, questo Pietro detto anche e sempre con rispetto, Pedrito, poiché nacque in Argentina, questo esule, in fondo, è più amanteano di chi da qui non è mai partito e forse per questo, non sente la mancanza della tradizione.


2 commenti:

  1. buon giorno sono Alessio , so che lei oltre a essere un prof è uno scrittore.ce lo ha detto la nostra prof ke parla molto di lett e arte tutta bla classe ha riso quando abbiamo sentito il titolo del suo blog ... ovviamente a tutti ci sta un po sul cavolo leggere visto che i prof danno molti compiti ma kafka mi pace x la legge .... grazie

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  2. la legge ... uno dei pensieri più difficili di Kafka. Per gli ebrei non è semplicemente uno scrittore, ma un geniale interprete del loro testo sacro, la Bibbia. si potrebbe dire che lo considerano, spesso rendendosene conto, l'ultimo profeta. Di Freud (anche lui ebreo), Bloom dice per esempio che è uno scrittore che ha prodotto una minuziosa autobiografia e io aggiungo che un'epoca che vede scienza in ogni ragionamento di un certo livello (ovvero quando può fraintende) dello scrittore Freud, nulla ha trattenuto. Spero di avere occasione, ma non in classe, ci vuole troppo tempo, di parlarvi di Kafka. Lui, Borges, Tarkovskij e Tonino Guerra, sono stati coloro che di più mi hanno guidato nel pensiero e nelle letture. Non si diventa uomini, anzi, umani (che l'italiano è ancora troppo maschilista ...) da soli, bisogna scegliersi dei maestri, delle guide. Mai limitarsi ad accettare quel che il destino ci propone e impone .... ciao

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