La mia conoscenza
dell'umanità di Amantea, come ho accennato nello scritto precedente,
è stata particolare, poiché il caso mi ha portato ad avere a che
fare quasi esclusivamente con artisti. Per non costringere il lettore
a cercare la mia definizione di arte, che si cela in più di uno dei
precedenti centosessantotto scritti del blog, preferisco ripetermi.
Artista è colui che,
causa una crisi, deve esprimere un mondo interiore, renderlo concreto
ai sensi. Dipingere, comporre, scolpire eccetera, sono voci che ci
parlano direttamente, quasi sempre dall'inconscio dell'artista.
Spesso egli sente l'urgenza di creare un'immagine; ne è parzialmente
soddisfatto, ma non sa spiegare a fondo il suo operato. Col primo dei
due artisti che racconterò, questa situazione di incapacità si è
presentata chiarissima e ha favorito il dialogo.
Sto parlando di Pietro
Bonavita, sul quale scriverò spero minuziosamente, poiché ho potuto
conoscerlo con calma e tempo.
Per offrirvi l'enigma
presente nelle sue opere, secondo me migliori, vi metto ora nella
situazione nella quale ci trovammo la prima volta che ho visto le sue
tele. Eravamo al piano terra della Galleria Amantea dove da poco era
terminata la sua esposizione. Dal magazzino hanno preso le tele e le
hanno disposte nell'atrio, sufficientemente luminoso. Gli ho detto
subito “secondo me ci siamo” e vi spiego cosa intendevo dire.
Secondo me non esiste il
critico. È una volgarissima figura finta creata dal mercato
dell'arte e dalle università per avere guadagni supplementari e
riuscire a vendere certe robacce, facendo sentire l'acquirente in
inferiorità culturale. Se togliamo il velo ridicolo a questa recita
scopriamo quanto segue: il critico è colui che viene pagato, spesso
profumatamente, per parlare bene di chi? Dell'artista che lo paga a
volte direttamente, a volte tramite il gallerista. Ci
impressioneranno lauree e altri titoli, abiti da jet set e
frequentazioni pregiate … ma è appunto tutta un'apparenza. Una
falsificazione. Lo paghi e parla bene, non lo paghi e tace. E il
bello è che lo sappiamo tutti. È necessario, nel campo dell'arte,
ascoltare il pensiero di un artista su un altro artista e non di un
intellettuale o di un prezzolato. Fra queste ultime due specie la
differenza è minima anzi, forse inesistente. L'intellettuale pensa,
a volte liberamente, un prezzolato crea castelli di parole in un
linguaggio solitamente criptico per … guadagnare. Spesso finti
artisti si cimentano per vendere se stessi e fanno veramente
tenerezza. Eccovi un caso celebre. Kandinskij. Il suo scritto, “punto
linea e superficie”, nelle prime pagine abusa talmente della parola
“scientifico” da darmi la sensazione che voglia convincere se
stesso prima del lettore e, diciamocelo chiaro e tondo, nell'arte di
scientifico non c'è proprio nulla. È il cuore di un uomo che parla
al cuore del mondo e diventa capolavoro quando la sintonia fra i due
è completa, caso non rarissimo e ... si sa che accade. Beethoven,
Michelangelo, Luigi Boccherini, Arcangelo Corelli, Alberto Savinio,
Elsa Morante, Marguerite Yourcenar, Simenon, Maugham, Mandel'stam,
Lorenzo Bartolini … e l'elenco, se mi lascio andare, diventa
lunghissimo! In tre millenni di cultura occidentale, per limitarci a
questa, di opere eccellenti ne sono nate molte. Possiamo ormai vivere
a contatto quasi esclusivamente con una qualità sublime che è
dialogo con la nostra anima, con l'anima del mondo. Dimenticavo;
(volutamente, in quel breve elenco ho messo nomi notissimi di fianco
a noti proprio per stimolare la curiosità...).
Quando ho detto a Pietro
quel “secondo me ci siamo” nemmeno lui era ancora consapevole del
significato profondo che per me questa frase contiene. Per me l'opera
deve essere simbolica. Se per qualcuno questa è un eresia, gli dico
di lasciar perdere lo scritto poiché, dopo anni di studi, di vita da
artista e fra artisti sommata a studio continuo a ritmi moooolto
elevati, mi permetto di dire che ne sono certo, e il motivo è il
seguente: l'io conscio, usa la razionalità, l'io inconscio, i
simboli. Quando accade che un umano passi dalla razionalità al
simbolo, vuol dire che in lui è accaduto qualcosa di triste che lo
ha colpito talmente a fondo che il “sasso” che ha distrutto l'io
razionale, è arrivato col suo agire distruttivo, fino mare profondo
dell'io, luogo nel quale le sensazioni, ancora senza forma di parola,
schivando il piano di elaborazione razionale e vengono in superficie
pure, incontaminate e appunto ancora simboliche.
L'arista si trova quindi
fra le mani della mente, un simbolo che chiede insistentemente non di
essere compreso, e di essere trasformato in oggetto sensibile
(quadro, scultura ecc). Una volta compiuta l'opera, l'artista non è
quasi mai appagato completamente poiché la totalità di significato
del simbolo, quando ancora giace nella mente, è pressochè totale,
diciamo al cento per cento, ma quando lo si trasforma in oggetto
sensibile, sempre si perde una frazione anche minima di quella
totalità. L'artista si trova davanti ad un novanta per cento di
simbologia espressa e quel dieci per cento, nel scendere dall'idea
alla materia (diranno ora che sono un neoplatonico e invece ero
juventino e ora sono ateo …), lo tedierà portandolo ad una ricerca
continua di miglioramento facendo in modo che che si possano produrre
serie di opere simili ma mai uguali.
Ebbene, tenendo conto che
il mio agire non vuole giudicare … nemmeno un vero dio giudica ma
perdona … ma cercare di comprendere, a questo punto sarà evidente
al lettore che avevo scovato il simbolo nelle opere di Pietro
Bonavita.
Di tutte le opere che mi
mostrarono, concentrai l'attenzione di Pietro su due tele, e sono
quelle che vedete qui di seguito.
É l'uso di quel rosso che
deve, non farci pensare, perché se si pensa con l'arte non si va da
nessuna parte, ma concentrare. Il fruitore non ha bisogno di cultura
se non per le opere che non appartengono al suo mondo o alla sua
epoca. Per “entrare” in un testo anche solo di cinquant'anni fa,
probabilmente ci servirà una descrizione di un mondo ormai perduto.
Solo in rari casi questo problema non esiste, ma non ne parlo ora.
Per la differenza di zone ci basti il problema serio che è per un
occidentale affrontare per esempio l'arte giapponese anche del
presente poiché, nonostante la globalizzazione, che mai sarà
totalizzante, certe caratteristiche sono radici non condivisibili di
un popolo e comprensibili solo se vissute ... e non basta certo
averle studiate.
(un esempio per tutti. Per
l'occidente la purezza verginale della sposa si rappresenta col
bianco, in Giappone il bianco è lutto. La radice del simbolo è la
medesima, essendo per l'io profondo, sia il bianco che il nero, dei
non “non colori” che aprono e chiudono la gamma cromatica
identificandosi con un totale di luce e con la sua completa assenza,
e lo desumiamo dalla medesima radice delle parole del nostro comune
linguaggio occidentale, ovvero le consonanti B e L che nelle parole
BLanco e BLack, coesistono apparentemente in contraddizione, essendo,
dicevo, per l'io profondo sia bianco che nero, densi di significato
che si dirama da un'unica fonte, l'assenza di colore, solo la
conoscenza, un poco, ci guida, ma mai come l'esperienza).
Valutiamo prima di tutto
se la contestualizzazione culturale e temporale possa essere per noi
un ostacolo nella decifrazione di queste due opere. Pietro é
calabrese, e le due opere che osserviamo rappresentano luoghi della
sua terra, ma mi sembra possano essere considerate come generiche vie
nelle quali si muovono non uomini pieni, veri, totali, ma ombre. Il
suo essere calabrese secondo me, in queste due tele non crea problemi
di interpretazione; non sento la necessità di affrontare un'analisi
di una identità culturale, almeno per ora.
Fattore temporale. Le
opere appartengono al presente nel quale sia lui che noi siamo
immersi, e l'unica distanza effettiva è che il suo io è suo ed è
differente dal nostro ma, come ho precedentemente accennato, l'opera
riuscita esprime simboli che appartengono sì all'individuo, ma la
sua profondità, dalla quale li ha con sofferenza recuperati, è un
di io condiviso e, se “sentiamo” questa specie indescrivibile di
colpo al cuore dell'anima, questa lieve destabilizzazione che ci fa
capire che abbiamo capito, in qualche anfratto dell'io, che non siamo
più abituati a sondare, allora l'opera vale, ha senso, è utile e ci
fa bene, poiché ci rende consapevoli in modo più completo. A questo
punto, nel limite del possibile, elaborare razionalmente è l'unico
modo d comprender per chi non sa più abbeverarsi al simbolo nel modo
più puro possibile che è quello nel quale l'artista ce lo offre,
Osserviamo le due opere,
tenendo conto che dalla visione totale di tutte si ha una sensazione,
che per ora definisco strana, perché si hanno vicoli e inquadrature
che possono essere esteticamente appaganti ma, per due motivi,
lasciano un poco di amaro in bocca: si “sente” che tutti i colori
sono “fatti” col nero, che esso corregge rendendo ogni tonalità
composta da colore sommato ad una sensazione di grigio. Stadio
lievemente depressivo, insoddisfazione, ecco cosa “sento”.
Secondo punto. Le vie, gli scorci, sono disabitati oppure appaiono
esseri ombra.
Sulla dimensione
depressiva nelle opere degli artisti “VERI!!!” porto qualche
esempio.
Picasso e il periodo blu.
Il blu rappresenta la consapevolezza di essere depressi, quindi il
primo grado del recupero di se stessi e l'inizio del lento
rivitalizzarsi dell'io. Mi ci è voluto del tempo per comprenderlo. É
l'azzurro che può essere positivo. Quasi mai il blu. Per arrivarci
il ragionamento è passato per le poesie di guerra di Ungaretti. Il
poeta sul Carso soffre e il linguaggio si fa scarno, essenziale. Mi
rendo conto che anch'io, in momenti di sofferenza estrema, tendevo a
ridurre il linguaggio all'osso. Picasso che non parla ma dipinge,
riduce al minimo la tavolozza come faceva Ungaretti con gli aggettivi
che sono il colore della frase, e sceglie non a caso quel colore.
Mentre era sofferenza pura, soffriva e basta, quando ha iniziato a
riprendersi, l'urgenza di esprimersi era tale che la semplificazione
era d'obbligo. L'azione pittorica doveva essere compressa al massimo,
immediata, non meditata, che la sofferenza della meditazione non sa
proprio che farsene. La domanda che i critici non si sono mai posti è
la seguente: Picasso quando faceva quelle opere soffriva in modo
tremendo. Cosa gli faceva così male? Rispondere equivale a capire
quasi tutta la sua opera che quindi … è attualmente incompresa.
Per facilitare la visione dei colori veramente “depressi”, porto
un altro esempio sul quale ci si può documentare con un click su
internet. Munch dipinse in fase depressiva acuta e utilizzava colori
che non esito a definire col termine di acidi, quindi prevalentemente
marrone giallo e verde.
Vi sono poi altri metodi per rendere idea di una situazione depressiva. Domenico Gnoli con le sue sale da pranzo vuote e i tavolo così vicino che non possono starci sedie e vanno a perdita d'occhio e i suoi alberi-nervi, nelle incisioni con i corvi macchia, malattia dell'io e la scoraggiante ripetitività di Morandi che, se ne vedi un paio dici che è notevole, ma se vedi una mostra alla fine ti annoi.
Per far comprendere la differenza fra un artista vero e un artista che si atteggia, si pensi ora al diverso utilizzo che, della categoria depressivo, questi potrebbero fare da quanto ho appena spiegato. L'artista prende atto e studia il suo io osservando le opere che ha fatto utilizzando quei ragionamenti; l'artista finto (o intellettuale, quindi che pensa), se va di moda l'arte depressoide, ecco che prenderà le categorie che ho proposto e, consapevolmente (errore spaventoso!) le applicherà. Il problema è che il vero artista percepisce subito la finzione del finto collega e si allontana con dileggio. Meglio la solitudine che certe conoscenze … che si atteggiano.
Vi sono poi altri metodi per rendere idea di una situazione depressiva. Domenico Gnoli con le sue sale da pranzo vuote e i tavolo così vicino che non possono starci sedie e vanno a perdita d'occhio e i suoi alberi-nervi, nelle incisioni con i corvi macchia, malattia dell'io e la scoraggiante ripetitività di Morandi che, se ne vedi un paio dici che è notevole, ma se vedi una mostra alla fine ti annoi.
Per far comprendere la differenza fra un artista vero e un artista che si atteggia, si pensi ora al diverso utilizzo che, della categoria depressivo, questi potrebbero fare da quanto ho appena spiegato. L'artista prende atto e studia il suo io osservando le opere che ha fatto utilizzando quei ragionamenti; l'artista finto (o intellettuale, quindi che pensa), se va di moda l'arte depressoide, ecco che prenderà le categorie che ho proposto e, consapevolmente (errore spaventoso!) le applicherà. Il problema è che il vero artista percepisce subito la finzione del finto collega e si allontana con dileggio. Meglio la solitudine che certe conoscenze … che si atteggiano.
Torniamo alle due tele di
Pietro Bonavita. La nota stridente, lo cogliamo subito anche senza
lauree, è quel rosso vivo che non è in armonia con gli altri
colori. Stride, e appare stranamente nei lampioni. Si sostituisce
quindi alla luce oppure è una luce diversa da quella percepita dai
sensi? Poi scopriamo che il corpo ombra che sale le scale ha, più o
meno nel punto del cuore, una macchia del medesimo rosso.
Dico a Pietro. “Ecco il
simbolo! Mi sai dire perché la lampada e lui, l'uomo ombra, hanno la
medesima macchia rossa?” Pietro risponde: “non lo so” e io
chiudo dicendo “ne parliamo domani” dandogli così il tempo non
per decifrare, perché ne serve molto per chi ha creato e poco per
chi osserva, ma per instaurare in lui la consapevolezza di
quell'affinità di senso.
Ora devo spiegare una cosa
del simbolo. Non è esprimibile in parole. É un po come definire
Brahma nella religione indù. È impossibile. Si può dire quel che
Brahma non è e non quel che è. Il simbolo, allo stesso modo,
rappresenta un'area di significati mentre invece la parola razionale,
ha come compito assegnato quello di dare uno e uno solo, significato,
di solito preciso. Spiegare quindi il simbolo di Pietro Bonavita è
impossibile. Posso solo avvicinarvi ai confini della sua area di
senso, e ora ci provo.
Dalla lampada esce la luce
rossa. Quel rosso è l'anima che è quindi in un bel connubio con
l'energia. Anima=energia. Per questo la macchia rossa è anche
nell'uomo-ombra in modo lecito e sensato. L'energia-anima dell'uomo è
poca, per questo è ridotto ad un'ombra? Ora: è per me evidente che
si sta esprimendo una sofferenza, in questo caso non travolgente ma
sottile, e per comprendere di più sento l'esigenza di sondare le
dimensioni tempo (il tempo personale dell'artista, poiché il tempo
cronologico, essendo condiviso col nostro si neutralizza da solo) e
l'influenza del luogo poiché comunque un denominatore comune
dell'opera è Amantea con le sue viuzze caratteristiche. Si tratta
comunque di una carenza di energia esistenziale, le vecchie lampade,
dal loro passato, continuano produrre nel presente, un'energia che è
anima, che è atmosfera, senso esistenziale, ma che solo come
rimasuglio distante, non più utilizzabile, viene percepito da umani
che di conseguenza si riducono ad ombra di sé stessi, non
comprendendo che solo nutrendosi da quella antica, direi atemporale
fonte, avranno in dono la pienezza dell'esistere.
A questo punto, per
avvicinarci ancora di più al simbolo, (di più non posso fare, poi
ognuno deve inoltrarsi in esso in solitudine), vi offro il risultato
della conoscenza personale che ho avuto occasione di fare con
l'artista.
La presentazione iniziale
è stata piuttosto formale. Il primo incontro sensato è avvenuto il
giorno dopo. Ho ormai l'abitudine di alzarmi presto. Alle sette ero
già fuori dall'uscio del Palazzo Carratelli ove sono ospite. Mentre
scendevo pensavo che, nonostante in quell'antico edificio avessero
dormito almeno un papa e un re, nessun fantasma era venuto nella
notte a fare un giretto. Con Gianludovico, il padrone di casa, l'ho
detto con vena scherzosa e ha confermato che “presenze” non se ne
sono mai percepite, Allora gli ho risposto che, o non ci sono oppure
si trovano bene e non hanno lamentele. Scendendo da Amantea alta ad
Amantea Bassa, facevo come l'acqua e cercavo la via più breve per
arrivare al centro del paese che mi era stato indicato con un dito
immerso nel panorama, la sera precedente. Mi ritrovo così in una
piazzetta che ha, su un lato breve, un locale che si chiama Amarcord!
La presenza fantasmica di un caro amico mi dice che devo sentirmi a
mio agio? Che nulla di negativo mi attende? Di Tonino Guerra,
carissimo amico, autore di quel film, mi son sempre fidato ciecamente
e, con la sua presenza di fianco, che mi tiene a braccetto, poiché
desiderava tanto camminare negli ultimi anni ma per lui era ormai
assai faticoso! mi avvio, ben guidato e arrivo in una piazzetta che
mi offre la vetrina di un negozio di strumenti musicali. Mi incanta
un minuscolo violino. Sembra fatto apposta per un bimbo di quattro
anni e … sembra vero! Ma suonerà? Funziona? E immaginando, mi
ritrovo seduto al un tavolino interno del caffè Caruso, nome così
musicale che di più non si può chiedere ad una piazza. Tonino si
dissolve al rumore della televisione, non prima di avermi promesso di
ricomparire, e mi immergo in un brevissimo telegiornale seguito dalle
previsioni del tempo. Avevo nel frattempo ordinato il mio rituale
cappuccino e una brioche che dalla vetrinetta mi faceva l'occhiolino,
seducente. Mi sentivo osservato poiché a quell'ora, erano le sette e
venti, non erano certo abituati a vedere turisti. Per me manducare
qualcosa la mattina è un'abitudine irrinunciabile. Soddisfatta la
carne, mi sono allungato nell'adiacente edicola, ho preso un
quotidiano e mi sono immerso nella lettura. Simulavo un'attenzione
che forse sembrava esagerata ma appunto mi sentivo un po', poco
comunque, a disagio. Avevo nel frattempo notato un avventore che
conoscevo, Pietro Bonavita, ma non avevo agito perché non sapevo
quantificare la formalità di quanto accaduto nella presentazione del
giorno prima. Verso le sette e mezza mi sento dire “Buon giorno!”
in modo squillante, chiede se può sedere e si chiacchiera
leggermente. Mi dice che ha da fare e gli dico che la mia abitudine
di alzarmi presto sfocerà in una passeggiata curiosa. Mi consiglia
il sottopasso in direzione del mare perché “è stato dipinto”.
Ci lasciamo e, prima vagando, di nuovo in compagnia del fantasmico
Tonino, mi avvio per una strada che non capisco se è la “via dello
struscio” e, attirato da un canto di chiesa, mi siedo al caffè
Juliano
girando la sedia in modo da poter vedere la chiesa, in cima ad una salitella, che mi dicono essere dei Cappuccini. Prendo il secondo caffè, scusa minima per poter usufruire della seduta e ascoltiamo questo salmodiare per nulla nervoso. Voci anziane, calme, che mi sembrano rassegnate. Mi alzo e sempre con Tonino, e giungo ad un metro dall'entrata ma senza inoltrarmi fra la gente. La porta centrale è spalancata, osservo i fedeli. Si, anziani e donne. Uno sguardo a freccia mi sfiora, lo evito mettendo gli occhiali da sole. Aveva un visetto delizioso e qualcosa di cattivo nelle labbra questa ennesima reincarnazione di Eris, che mi risulta sia nata sull'altra costa non troppo distante da qui, e mi incammino tornando, al bar Caruso, per vedere imboccare la via indicatami che porta ai dipinti del sottopasso.
girando la sedia in modo da poter vedere la chiesa, in cima ad una salitella, che mi dicono essere dei Cappuccini. Prendo il secondo caffè, scusa minima per poter usufruire della seduta e ascoltiamo questo salmodiare per nulla nervoso. Voci anziane, calme, che mi sembrano rassegnate. Mi alzo e sempre con Tonino, e giungo ad un metro dall'entrata ma senza inoltrarmi fra la gente. La porta centrale è spalancata, osservo i fedeli. Si, anziani e donne. Uno sguardo a freccia mi sfiora, lo evito mettendo gli occhiali da sole. Aveva un visetto delizioso e qualcosa di cattivo nelle labbra questa ennesima reincarnazione di Eris, che mi risulta sia nata sull'altra costa non troppo distante da qui, e mi incammino tornando, al bar Caruso, per vedere imboccare la via indicatami che porta ai dipinti del sottopasso.
Nel frattempo Tonino mi fa
notare con un certo disappunto che il proprietario del “suo”,
Amarcord, non sa che lui ha disegnato dei piatti e fatto delle
etichette per bottiglie di vino e mi chiede di avvisarlo. Sarà
fatto. E mentre rincaso con calma, schiacciato dal primo caldo che
rende la salita ardua, mi saluta e sparisce con un sorriso che mi fa
… sorridere.
Pietro Bonavita, per nulla
invadente e composto, aveva accennato ad un pranzo con Gianludovico e
Camilla. Non avevo capito per quando e, a mezzogiorno siamo partiti
in macchina per un agriturismo dell'interno. Là ci attendevano
l'artista con la moglie e il figlio novenne. Il dialogo si è fatto
immediatamente fluido e appassionato. Quattro menti artistoidi si
misuravano, mentre invece la moglie di Pietro si asteneva
dall'intervenire. Gianludovico ha sempre detto che lui in fondo ha il
talento di organizzare; io l'ho rincuorato facendogli notare che
senza gente come lui gli artisti non li noterebbe nessuno, ma ho
anche intuito che scrive, non può riuscire a non scrivere una mente
come la sua! e alla fine ha confessato la sua “colpa”. Camilla è
una scultrice per me assai interessante, ed infatti ho già scritto
su di lei in occasione di una mostra a Castel sat'Angelo ovviamente a
Roma, Pietro che dipinge e infine io, che scribacchio lasciandomi
andare completamente all'io interiore combinando forse, caos e
nozionismo, in una miscela che richiede un buon digestivo e spesso
una dolce euchessina per riprendersi .. sono il quarto fra cotanto
senno.
Mi rendo conto che, non
per la forza di Bacco, si è creata una piacevole euforia e capisco
velocemente la causa. Finalmente quattro teste artistoidi, o matte se
preferite, possono misurarsi nel dialogo. Si confrontano estetiche
con aneddoti ed esperienze varie, si consiglia e sconsiglia a piene
mani, consapevoli tutti che non ci sarà il dovere di seguire una
delle vie indicate perché la libertà assoluta è fondamento
essenziale per creare. Arriva il termine del lungo pranzo, condito da
un allegro temporale e, una calorosa stretta di mano di Pietro mi fa
comprendere che è appagato. Aggiunge, un secondo prima di partire,
che gli piacerebbe mostrarmi il suo studio. Accetto curioso, ma anche
perché desidero continuare a quattr'occhi il discorso sul suo
rosso-anima.
Ed eccomi, in un
pomeriggio caldo, avviati allo studio. Ci siamo incamminati per un
vicolo, le foto ve ne mostrano qualche scorcio (foto da me medesimo
scattate... quindi abbiate un poco di perdono che di solito sono così
imbranato a far fotografie che sempre fa capolino un dito e stavolta,
con grande sforzo son riuscito ad evitare almeno questa bruttura!).
La stradina in salita
porta alla parte alta di Amantea alta. Una porta dipinta. La apre e
un ambiente fuori dai canoni ai quali siamo abituati, si mostra. Le
foto ci accompagnano nelle stanze dipinte a colori sereni.
Mi dice che mediamente ogni anno ridipinge per avere la sensazione di un ambiente rinnovato. Gli oggetti che vedo son dei recuperi. Solo li esistono ancora? È questo il senso? Di un antenato che viveva di mare, ecco una piccola composizione a statuette con pescatori, e nella stanza più in fondo un tavolino che è una bara con dentro lucine e un piano trasparente e un cartello che nella foto si può leggere.
Mi dice che mediamente ogni anno ridipinge per avere la sensazione di un ambiente rinnovato. Gli oggetti che vedo son dei recuperi. Solo li esistono ancora? È questo il senso? Di un antenato che viveva di mare, ecco una piccola composizione a statuette con pescatori, e nella stanza più in fondo un tavolino che è una bara con dentro lucine e un piano trasparente e un cartello che nella foto si può leggere.
Ecco il messaggio. Non si
può più sognare. Ma sognare è un modo di vivere irrinunciabile per
i vivi! Questo gli dico. Comprendo che quello studio è un luogo che
si colloca fuori dal tempo presente, che recupera qualcosa, e che la
vita che vi si svolge è un rituale perduto. Gli spiego cosa penso
del rosso dei suoi quadri. Ammette di non averci mai pensato e gli
dico che sono d'accordo, che è giusto così. Per lui, in quanto
artista, essersi liberato del simbolo e aver condiviso un peso con
chi vedrà l'opera, è una forma di alleggerimento interiore. E poi
mi dice che li si fanno spesso mangiate è chi la sorte fa passare
dalla viuzza viene invitato ad aggregarsi allegramente. Aggiunge poi:
“vedi, le mie opere sono disabitate. Non mancano solo le persone,
ma anche i pani stesi, gli odori. È una vita, un modo di vivere, di
sentire, che era secondo me intenso e pieno, che si sta perdendo”.
Gli faccio notare che i panni può rappresentarli come fantasmici
esattamente come le poche figure che si avventurano in quelle viuzze
ormai deserte di vita. E' d'accordo. “e per gli odori?” chiedo,
“che si può fare?” e dalla stanza a fianco mi strizza l'occhio
Tonino che ha trovato l fiasco e beve un bicchiere con soddisfazione,
lui così “avanti”, così all'avanguardia nella sua opera
cinematografica, e così legato alla tradizione, al dialetto, alla
terra. Il profumo nelle opere non ci entra a meno che non utilizzi la
pasta di acciughe col grigio per esempio, penso, ma col tempo puzza.
Non sto scherzando. L'olfatto, veicolo di ricordi santificato da
Proust, è escluso dalla pittura e dal cinema e, rincasando, penso
che il vicolo dovrebbe essere costellato di studi di artisti con le
porte spalancate. Quella antica salitella, scalcinata ma affascinante
tornerebbe alla vita. Restaurare un minimo e far sapere ad artisti,
anche di fuori, che se vengono gli viene dato per starci un'estate o
anche più, in cambio per esempio del quindici per cento sul venduto!
Tonino, che nel frattempo è ricomparso, mi consiglia la ceramica,
che adora. I numeri civici, mi dice, in ocra e azzurro su fondo
bianco sporco. E qua e là una meridiana. Le insegne in ferro passato
all'aceto per avere un effetto ruggine omogeneo che dura inalterato e
più invecchia più è gradevole, che sul vecchio dei vicoli il nuovo
e il nuovissimo ci stanno come cavoli a merenda. “Un anno di galera
a chi ha messo questi infissi di alluminio!” Grido, “e un altro
anno a chi ha fatto 'sta porta e quella finestra di un blu che è un
pugno in un occhio!”, e … la porta blu si apre, esce un signore
educatissimo che saluta Pietro e fa un cenno a me, mentre Tonino
sghignazza e mi dice “eccotelo servito ed è pure bello grosso!”
sono allegro. Non bevo più da un pezzo e comunque mai ho ecceduto,
raramente ormai una birra e quasi mai per mia scelta. É la
situazione che è bella. La casa-studio di un artista, così fuori
dagli schemi, mi fa sentire vivo, e penso a turisti che si inerpicano
e mettono il naso in queste stanze che promettono novità in un mondo
che non ne sa più dare di decenti.
Il mattino seguente ci
troviamo da Caruso e mi porta a visitare il mercato degli ortaggi e
della frutta.
Lascio una fetta di cuore
a certi barattoli che in nord Italia l'unità sanitaria bloccherebbe
senza scampo. Qui, a casa “lavorano” le verdure e poi questi
sapori antichi ed eccellenti, messi casalingamente sotto vetro,
riescono ancora ad avere un mercato. Al nord dovrebbero re istituire
un mercato nero delle delizie, ora che l'unione Europea ha reso
lecito produrre per esempio cioccolata senza cacao e latticini senza
… latte mi aspetto delle brutture ben presentate che mi vien voglia
di campare d'aria! E mi inebrio di quantità e di profumi,
fotografando, che diventa un modo assai dietetico di mangiare tutto
quel che mi si offre gaiamente alla vista.
Mi sono lasciato andare.
Può non piacere come ho scritto, ma mi son lasciato andare con
serenità al ricordo recente, rivivendo con una discreta intensità
quei momenti. E di Pietro ora so che di individuale, quindi che va
detto perché dalle opere per ora non traspare, di individuale
dicevo, emerge questa nostalgia di una Amantea compatta, nella quale
il pescatore come il nonno, che aveva avuto una pesca abbondante, con
un rito di cortesie che non riesce a dimenticare, cercava di donare
al vicino un poco di pesce azzurro. Questi in altre occasioni aveva
ricevuto una cipolla, qualche aglio da un orto che si era permesso di
eccedere un poco dalla stretta necessità .. insomma, tramite il
cibo, più che tramite le tante chiese … meditate gente, meditate,
... un senso di comunità che gli manca immensamente. Ed è
modernità, girare per i vicoli con l'anima rossa di sangue e di
energia, con le vecchie lampade che sanguinano luce che si è fatta
sofferente perché nulla è rimasto di tanti gesti gentili. E lui,
l'artista, che viene chiamato in paese Monsieur, ma con rispetto,
perché spesso è stato e va in Francia, e che è in procinto di
tornare a New York, in autunno, questo Pietro detto anche e sempre
con rispetto, Pedrito, poiché nacque in Argentina, questo esule, in
fondo, è più amanteano di chi da qui non è mai partito e forse per
questo, non sente la mancanza della tradizione.