mercoledì 11 aprile 2012

Pennabilli 10 - 11 aprile

Son tornato da Roma. Sugli Appennini immaginavo i lupi con la borsa dell’acqua calda, rossa come quella che ho a casa.

Arrivo a Pennabilli, dialogo con Lora, liscio i gatti e vediamo, dopo cena, un programma della televisione russa dedicato alla Achmadulina. Morta da un anno.

Mi rendo conto che l’ho conosciuta.

Per me fu l’incontro con una gentile signora russa. Solo ora mi rendo conto di cosa ha fatto. E mi guardo con stupore la mano destra, anche ora che sto scrivendo. Questa mia mano che ha stretto la sua, e la sua che ha stretto quella di Nabokov, Brodskij, di Tonino….

Ma ti rendi conto, vita, che se non ci fosse la fantasia a mettere ordine secondo le regole del cuore, troppi fatti sarebbero ridotti al minimo, alla loro meccanica fatta di tendini che si tirano e si rilassano e di ossa che reggono l’urto?

E forse, in questo periodo un po’ sgangherato la fantasia, come un uccellino che si ritrova chiuso in una stanza, non sa uscire dai muri d’osso del cranio. Sbatte contro le vetrate ancora annebbiate, degli occhi. Forse la sua via è dall’orecchio, quello stretto tunnel che si apre a Bach e Scriabin, o l’olfatto che si fa sedurre da quel che meno mi aspetto, come per esempio ora, il sapore del vento, carico di erba e terra umida.

Lora fa preparare l’appartamento vicino a casa. Vado a vederlo. Bellissimo. E dalla finestra vedo il prato quadrato con al centro un mosaico con la farfalla di Tonino.

Ma è troppo freddo…

Torno, prendo una bottiglia vuota, la riempio di acqua caldissima e la abbraccio con affetto.

Lora fa preparare un altro letto al primo piano.

Era ed è “il loro letto”. Sprofondo come un bambino nel piumino morbido. Un gatto bianco mi augura la buona notte. Dopo poco anche Lora, e accade che, una volta che veramente solo, la stanza si fa barca nel vento.

Laggiù, nel giardino, ci deve essere un sensore che scatta quando l’aria si fa più forte e i rami, vicinissimi alle due finestre, si agitano. Nel loro gioco di ombra e verdi scuri e poi fiammanti, sembra dicano “veniamo a prenderti!” ma non riescono nemmeno a battere nei vetri e i muri grossi della vecchia casa mi danno sicurezza.

Non posso! Non voglio dormire… ma poi crollo e sogno elefanti vestiti Missoni che fan la fila nei negozi di Pennabilli. Sono seri e dialogano a bassa voce fra di loro. Uno ha cappello e sciarpa e sembra Tonino. Osservo bene e mi trovo e, come accadeva quando venivo da lui e non osavo mettere niente di quel caro stilista per non sembrare imitatore mi si nota perché sono l’unico azzurro.

Ieri sera, dalla valigia di Roma ho tolto la cosa più grossa ed era un cardigan del caro stilista con le sfumature del ghiaccio e dell’azzurro. Lora ne usava uno color sottobosco come quelli di Tonino e, nella casa color sottobosco, i pensieri, la fantasia ancora un po’ malata di questi giorni così emotivi, trasformano di nuovo e ancora, con troppa incontrollabile immediatezza, le emozioni in immagini strane.

Nel sogno con gli elefanti vestiti Missoni io, elefante giovane in camicia di jeans, incontro il mio cane, la mia Mafalda, vestita Missoni anche lei, che passeggiando con Baba, il Golden di Tonino e Lora, torna dall’ “orto dei frutti dimenticati”, posto che adorava e non vedo perché non possa amarlo anche ora solo perché il corpo se n’è andato.

….. e mentre sorseggio il caffè, Lora mi racconta che quel letto, nel quale ho navigato nel ventre della casa in questa notte di vento, è quello che il cast del film “Matrimonio all’italiana” regalò a Tonino.

E li, dove il mio corpo si è fatto bambino per un’altra notte, il corpo di Marcello che ho stimato infinitamente e mi stimava, e quello della splendida Sofia, si son fatti anima e poi congiunti creando parte delle visione che, lo so già, avrò negli eterni domani. Il contatto anche dopo anni, avviene. Le molecole, prima che accada a noi, si riconoscono, si salutano e chiedono come va e qualcuna rimane sempre, ovunque passiamo, come polvere che lasciamo. Lo so che è così. Lo sa certa fisica che parla sempre solo di particelle e mai degli insiemi di particelle che noi siamo…..

Ed ecco che la mente parte grazie all’appunto di Lora a proposito del letto.

Eccolo li, leggero come una fiammella, Marcello che mi racconta ancora di Mastrorna. Di quella idea mai divenuta film, di quella valigia che Fellini veramente vide nella sala d’attesa di un aeroporto. E l’aereo irreale che atterra nella piazza davanti al duomo di Colonia. Viaggio nel regno dei morti.

Immagino ora un mondo di eterni che mi accoglie su quella piazza col duomo appuntito….

Eh sì….. ho pochi vivi intorno, da sempre, e ora la Lispector, la Nemirovsky e un timido Flaiano a braccetto con Tonino, mi guidano in quella che al mondo pare la mia inquieta solitudine…

giovedì 5 aprile 2012

Tonino Guerra e il Dubbio di Dio

Per me la tempesta non è ancora passata. Per giorni, verso le tre del pomeriggio mi assaliva una febbre che mi sfiancava fin verso le cinque e mezza. Dopo, incapace di fare la minima cosa, pensavo, e i pensieri giravano in tondo.
Ho scritto qualcosa quella mattina che, giunto all’alba a Pennabilli, ho potuto vegliare quel che restava di Tonino, in solitudine, in uno dei salottini della sua casa che ci accoglieva, intarsiato di gatti e con la mole pacioccona del cane Baba che voleva incessantemente carezze.
Non amo i clamori. Questi momenti son raccolti, intimi.
Una domanda mi fa tanta gente: “Ma Tonino credeva?”
E penso all’ultimo libro che stava leggendo:

Eccolo.
In essa è stato trovato un foglietto scritto nelle sue due striminzite facciate:

Penso che si legga. Nel dubbio ecco le sue parole:
“Dio voglio prender con le mani il cielo e metterlo in tasca perché so che tu sei dentro l’aria”.
Un atto di fede? In un certo senso sì.
Secondo me ha più possibilità di fede chi dubita. Tonino era così. Dubitava, ma profondamente, con gioia, rassegnazione e l’aiuto di tutti, mistici, grandi del passato, noi amici.
Penso comunque che il senso della divinità lo pervadesse in certi momenti con una totalità talmente inebriante da lasciarlo stordito. Erano il profumo dell’aria, la neve, i gattini che giocano. Una parola profondamente gentile, una lettura che schiude nuovi perché e propone nuove conferme.
Io ho più certezze di lui, in fondo perché sono più giovane.
…e mi accorgo di avere usato il presente. E come scrivere diversamente se stanotte l’ho sognato…
Una cosina buffa. Un paradiso tipo quello della pubblicità della Lavazza e lui pieno di allegro stupore.
Lo racconterò, forse più avanti. Ieri la febbre non mi ha fatto visita. Oggi un po’. Non è quindi ancora il momento.
Ieri mi aggiravo fra gatti addormentati.

Eccone uno, sereno come gli altri, nel salotto buono.


Ed ecco la sua poltrona in quel salotto buono. Io sedevo di fianco dove ora si vede il cuscino con il disegno della sua farfalla. Oppure stavo per terra, per accarezzare Baba che diversamente si lamentava abbaiando e non ci lasciava parlare. Ci sono dei giornali. Sembra appena uscito. La porta di quella stanza da sul giardino.

Trovo il libro di Ezra Pound, che abbiamo spesso sfogliato insieme. È appoggiato sul bordo di un mobile, sembra appena lasciato. E gli ultimi versi che leggemmo, li trovo, segnati da una foglia.
Era ieri? E’ per sempre.

Torno al gatto che dorme placido sulla sua poltrona. E’ uno dei miei preferiti.
Mi siedo dove sedevo sempre e ti parlo. “Son tante le cose da fare, Tonino. Il tuo ultimo libro non ha note. Mi sono impegnato a provvedere per quel che posso. Non me la sento ancora. Te l’ho promesso. Lo farò. Quell’ultimo racconto pensato insieme, e al quinto giorno di digiuno mi dicesti: –Non ce la faccio più, ora tocca a te-… Amavi quell’idea. Mi dicevi: –Tienila immobile! È troppo facile fare un racconto con una trama! Ad ogni passo scendi a un compromesso con l’idea che hai dentro. Ci siam riusciti per un po’ a tenerla ferma, a girarci intorno. E ora è immobile. Riuscirò a proseguire? Non ora sai. L’ultima idea, la sazietà dei sensi come un gradino per accedere all’oltre, ti era piaciuta. Ci penserò. Ma non ora. “
“Lora mi chiede di leggere alcune delle cosine che ho scritto mentre ti vegliavo. Non ho finito la seconda. Non ci riuscivo. Ha detto che sono belle. Forse è vero. Forse no. Ho un pudore immenso con i versi. Non temo che gli altri li deridano, ma che li offendano cercando solo ritmo e superficie. Chi canta, ha un motivo. A volte basta la gioia di avere un corpo, a volte serve qualcosa di diverso. È un pudore legato a questa epoca che pensa ad altro e fa troppo rumore”.
Esco in giardino. Piove. Tanti piccoli rumori sono assorbiti dal suo sensuale ticchettare. I petali si rinfrescano, il paesaggio beve.
Parto.
Con gli occhi pieni di ricordi e di gatti morbidi e sereni.
Mentre guido un valzer di Strauss mi culla.
Mi vengon in mente le parole scritte sul retro di quel foglietto.
“E giro dentro la casa per vedere se trovo il tamburo che avevo da bambino”
In dialetto. Tornato in grembo a se stesso anche con la lingua.
Quel tamburo non esiste più da anni. È la paura ultima che prende forma nelle parole, come può. E la sento tutta, forse anche perché l’ho minuziosamente vissuta.
È passata Tonino.
So che ora l’hai trovato… il tamburo.