giovedì 5 aprile 2012

Tonino Guerra e il Dubbio di Dio

Per me la tempesta non è ancora passata. Per giorni, verso le tre del pomeriggio mi assaliva una febbre che mi sfiancava fin verso le cinque e mezza. Dopo, incapace di fare la minima cosa, pensavo, e i pensieri giravano in tondo.
Ho scritto qualcosa quella mattina che, giunto all’alba a Pennabilli, ho potuto vegliare quel che restava di Tonino, in solitudine, in uno dei salottini della sua casa che ci accoglieva, intarsiato di gatti e con la mole pacioccona del cane Baba che voleva incessantemente carezze.
Non amo i clamori. Questi momenti son raccolti, intimi.
Una domanda mi fa tanta gente: “Ma Tonino credeva?”
E penso all’ultimo libro che stava leggendo:

Eccolo.
In essa è stato trovato un foglietto scritto nelle sue due striminzite facciate:

Penso che si legga. Nel dubbio ecco le sue parole:
“Dio voglio prender con le mani il cielo e metterlo in tasca perché so che tu sei dentro l’aria”.
Un atto di fede? In un certo senso sì.
Secondo me ha più possibilità di fede chi dubita. Tonino era così. Dubitava, ma profondamente, con gioia, rassegnazione e l’aiuto di tutti, mistici, grandi del passato, noi amici.
Penso comunque che il senso della divinità lo pervadesse in certi momenti con una totalità talmente inebriante da lasciarlo stordito. Erano il profumo dell’aria, la neve, i gattini che giocano. Una parola profondamente gentile, una lettura che schiude nuovi perché e propone nuove conferme.
Io ho più certezze di lui, in fondo perché sono più giovane.
…e mi accorgo di avere usato il presente. E come scrivere diversamente se stanotte l’ho sognato…
Una cosina buffa. Un paradiso tipo quello della pubblicità della Lavazza e lui pieno di allegro stupore.
Lo racconterò, forse più avanti. Ieri la febbre non mi ha fatto visita. Oggi un po’. Non è quindi ancora il momento.
Ieri mi aggiravo fra gatti addormentati.

Eccone uno, sereno come gli altri, nel salotto buono.


Ed ecco la sua poltrona in quel salotto buono. Io sedevo di fianco dove ora si vede il cuscino con il disegno della sua farfalla. Oppure stavo per terra, per accarezzare Baba che diversamente si lamentava abbaiando e non ci lasciava parlare. Ci sono dei giornali. Sembra appena uscito. La porta di quella stanza da sul giardino.

Trovo il libro di Ezra Pound, che abbiamo spesso sfogliato insieme. È appoggiato sul bordo di un mobile, sembra appena lasciato. E gli ultimi versi che leggemmo, li trovo, segnati da una foglia.
Era ieri? E’ per sempre.

Torno al gatto che dorme placido sulla sua poltrona. E’ uno dei miei preferiti.
Mi siedo dove sedevo sempre e ti parlo. “Son tante le cose da fare, Tonino. Il tuo ultimo libro non ha note. Mi sono impegnato a provvedere per quel che posso. Non me la sento ancora. Te l’ho promesso. Lo farò. Quell’ultimo racconto pensato insieme, e al quinto giorno di digiuno mi dicesti: –Non ce la faccio più, ora tocca a te-… Amavi quell’idea. Mi dicevi: –Tienila immobile! È troppo facile fare un racconto con una trama! Ad ogni passo scendi a un compromesso con l’idea che hai dentro. Ci siam riusciti per un po’ a tenerla ferma, a girarci intorno. E ora è immobile. Riuscirò a proseguire? Non ora sai. L’ultima idea, la sazietà dei sensi come un gradino per accedere all’oltre, ti era piaciuta. Ci penserò. Ma non ora. “
“Lora mi chiede di leggere alcune delle cosine che ho scritto mentre ti vegliavo. Non ho finito la seconda. Non ci riuscivo. Ha detto che sono belle. Forse è vero. Forse no. Ho un pudore immenso con i versi. Non temo che gli altri li deridano, ma che li offendano cercando solo ritmo e superficie. Chi canta, ha un motivo. A volte basta la gioia di avere un corpo, a volte serve qualcosa di diverso. È un pudore legato a questa epoca che pensa ad altro e fa troppo rumore”.
Esco in giardino. Piove. Tanti piccoli rumori sono assorbiti dal suo sensuale ticchettare. I petali si rinfrescano, il paesaggio beve.
Parto.
Con gli occhi pieni di ricordi e di gatti morbidi e sereni.
Mentre guido un valzer di Strauss mi culla.
Mi vengon in mente le parole scritte sul retro di quel foglietto.
“E giro dentro la casa per vedere se trovo il tamburo che avevo da bambino”
In dialetto. Tornato in grembo a se stesso anche con la lingua.
Quel tamburo non esiste più da anni. È la paura ultima che prende forma nelle parole, come può. E la sento tutta, forse anche perché l’ho minuziosamente vissuta.
È passata Tonino.
So che ora l’hai trovato… il tamburo.

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